Visioni e politiche del territorio
Per una nuova alleanza tra urbano e rurale
a cura di Paola Bonora

 

Verso una riforma della governance territoriale
Area vasta e controllo della rendita fondiaria e immobiliare
Roberto Camagni

Abstract

The paper addresses three main issues which require a crucial reform in Italy: the necessity of a new wave of investment in cities and the priority for an institutional reform concerning metropolitan areas; the uncontrolled and accelerated pace of land consumption through sprawling settlements in peri-urban and rural areas; the control of land rents and a fair distribution of surplus values deriving from urban transformation between the private and the public spheres.

The three issues are strictly interwoven, as an increase in taxation on urban development and transformation rents may help restoring the equilibrium in local public budgets, reducing the ‘fatal attraction’ for un-necessary urbanization and supporting new public investments in cities. On the other hand, reducing urban sprawl through effective wide area planning may increase spatial efficiency and urban quality, relaunching competitiveness, economic growth fiscal resources.

Unfortunately, what could be a virtuous cycle – going from public investments to growth via taxation of rents and consequent financing of social overhead capital – works the other way round in the country: taxation of rents is low, compared to other advanced countries; corruption in the real estate and construction fields is high; neo-liberal attitudes contrast both effective planning and increase in taxation of land rents; and urban sprawl is not contrasted by local administration
as it provides the crucial local public resources for general public services and local working capital.

The only hope resides in the general inefficiency level of the entire territorial system that might hopefully generate a reaction of the civil society, addressing reforms in the sense indicated by recent EU reports and guidelines.

Introduzione

Il nostro paese si confronta oggi con una necessità improrogabile e cruciale: una riforma, tecnica e politica insieme, della governance territoriale, a tutti i livelli istituzionali. Dare nuova efficienza, nuova qualità e nuova identità ai territori è divenuto indispensabile, a fronte delle nuove impegnative sfide che i processi di internazionalizzazione pongono al paese e anche a fronte delle nuove domande sociali in tema di servizi, solidarietà e crescita culturale.

Innanzitutto, guardando agli alti livelli istituzionali delle politiche europee e nazionali, il tema della centralità delle città e conseguentemente della strategicità delle relative politiche è ben visibile nel dibattito e soprattutto nelle pratiche. Nel nostro paese manca invece da almeno quindici anni a livello governativo un ministero, un sottosegretariato o anche solo un dipartimento che si occupi delle politiche urbane. Quello che è peggio, c’è forte ormai la sensazione che per troppi anni si sia sotto-investito sulle nostre città, non solo a causa della generale scarsità delle risorse disponibili, ma soprattutto a causa di una generale sottovalutazione del problema: una sorta di “blocco cognitivo” (nelle parole di Antonio Calafati) [Calafati 2009] che ha impedito di vedere come l’efficienza e la qualità delle nostre città siano andate deteriorandosi a confronto con le principali città europee e di definire come prioritaria la necessità di riforme istituzionali in materia.

Pur in presenza di un decentramento di funzioni e di responsabilità amministrative e decisionali, sembra mancare nelle nostre città la capacità di costruire una visione e un progetto collettivo. Il decentramento di funzioni alla periferia è divenuto un fine in sé e non il mezzo per realizzare obiettivi di competitività e di vivibilità; la pianificazione strategica urbana giunge da noi con quasi venti anni di ritardo sulle prime esperienze internazionali e, dopo un quinquennio o poco più di sperimentazioni importanti, a partire da quella di Torino, sembra quasi esaurirsi in retoriche scontate e in iniziative realizzate solo al fine di ottenere provvidenze pubbliche; il necessario adeguamento istituzionale alle nuove realtà territoriali e ai processi spontanei di metropolizzazione non decolla, nonostante l’ampia flessibilità legislativa e l’indicazione costituzionale per le tre aree metropolitane maggiori. L’intervento governativo per le città sembra essersi limitato alla provvista di mezzi per grandi eventi: olimpiadi, mondiali di calcio, il Giubileo del 2000, l’Expo, il Forum Internazionale delle Culture. In questo senso tuttavia solo Torino sembra avere collegato gli investimenti a una visione strategica di più lungo periodo.

In secondo luogo appare ormai chiara a tutti la necessità di arrestare l’insensata dispersione insediativa che deturpa e banalizza il paesaggio, genera irreversibilmente mobilità solo su mezzo privato, consuma, anche qui irreversibilmente, risorse di suolo. Ma ecco la seconda contraddizione: la pianificazione di area vasta, che sola può prendersi carico di questo problema, viene indebolita dalle legislazioni regionali in materia di governo del territorio (oltre che dal titolo V della Costituzione) e l’ente che naturalmente può e deve farsi carico di un equilibrato sviluppo del territorio, la Provincia, viene fatto oggetto di banali e insensati attacchi nel senso della sua soppressione, nel nome di una non necessariamente conseguente riduzione della spesa pubblica.

In terzo luogo, se scendiamo al livello delle municipalità, a fronte di una crescente crisi fiscale si consente una dimensione e una crescita rilevantissima delle rendite fondiarie e immobiliari a seguito di processi di trasformazione ed espansione delle città senza riuscire, e spesso senza nemmeno tentare, di convogliare una parte di tali rendite verso il finanziamento e la manutenzione straordinaria della città, attraverso una giudiziosa distribuzione delle plusvalenze immobiliari fra pubblico e privato. La conseguenza essendo che contemporaneamente: non si risolve la crisi fiscale degli enti locali, sempre più inclini a utilizzare l’espansione immobiliare come mezzo per far quadrare i bilanci attraverso i (limitati) oneri di urbanizzazione; non si investe in qualità urbana e nuove necessarie infrastrutture; e si consente la persistenza di un anormale potenziale di corruzione all’interno della filiera immobiliare.

E’ dunque necessario ripensare l’intero modello di governance dello sviluppo territoriale, con compiti precisi per la politica ma anche per il milieu culturale: occorre individuare i nuovi grandi obiettivi di qualità ed efficienza territoriale, sottolineare i grandi rischi già ampiamente presenti, proporre nuove vie e nuovi strumenti efficaci di intervento.

In questo intervento non intendo certo affrontare l’intero programma di ricerca e di policy che il momento richiederebbe, ma solo alcuni nodi o ambiti maggiori ai quali dare priorità nella riflessione e nella proposta. Tali ambiti sono da individuare a mio avviso nel ruolo cruciale di un territorio ben organizzato e di città competitive e solidali che l’Unione Europea indica e persegue da alcuni anni (par. 2) e nella conseguente strategia di equilibrato sfruttamento del capitale territoriale (par. 3); nella tematica dei consumi di suolo (par. 4) e nel necessario rilancio della pianificazione di scala vasta (par. 5 ); nel nodo della rendita fondiaria (par. 6) e nella necessità di una più equilibrata distribuzione dei plusvalore emergenti dalla trasformazione urbana (par. 7).

Città e territorio nelle politiche europee

Negli ultimi sei-sette anni si è assistito a una rilevante accelerazione dell’interesse dell’Unione Europea per il territorio e le politiche territoriali. Diversamente dai documenti realizzati in precedenza a partire dal 1995, caratterizzati da un esplicito carattere non-vincolante e di pura, anche se solida e convinta, indicazione di linee guida di buon governo del territorio, siamo di fronte a un rilevante salto di qualità: sulla base dell’ampio consenso raggiunto in precedenza, l’Unione Europea procede, cautamente s’intende, verso una assunzione di responsabilità esplicita sui temi dello sviluppo territoriale.

La ragione è semplice: si riconosce che il ruolo del territorio, e in particolare delle città, nel perseguimento degli obiettivi che sono propri dell’Unione – competitività, coesione, equilibrio ambientale e benessere complessivo, oltre che sviluppo della democrazia – è fondamentale, e che pertanto non è possibile abbandonarsi a un principio di sussidiarietà inteso in senso banale, come responsabilità monopolizzate da singoli livelli di governo, nazionale, regionale o locale[1].

Il tutto si basa sul nuovo concetto di “coesione territoriale” proposto nei primi due documenti citati nella nota 1: «The Union .... shall promote economic, social and territorial cohesion…» (art. 3 del Trattato di Lisbona), un obiettivo generale rafforzato dalla successiva indicazione che, in materia di coesione territoriale, l’Unione possiede una competenza concorrente (“shared competence”) con gli Stati Membri (art. 4). Il concetto appare ancora non ben definito in termini sintetici, ma molto chiaro nei suoi contenuti, precisamente elencati in varie occasioni. Esso «traduce in termini territoriali l’obiettivo di sviluppo sostenibile e bilanciato assegnato all’Unione» [European Commission 2005] e viene definito più recentemente come «uno sviluppo armonioso e sostenibile di tutti i territori attraverso l’utilizzazione consapevole delle loro risorse e delle loro caratteristiche» [European Commission 2009, 11][2].

«In termini pratici la coesione territoriale implica: focalizzare le politiche di sviluppo territoriale nazionali e regionali su un migliore sfruttamento del potenziale regionale e del capitale territoriale – la diversità territoriale e culturale dell’Europa ­ ; un migliore posizionamento delle regioni in Europa … facilitando la loro connettività e la loro integrazione territoriale; e la promozione di una maggiore coerenza fra le politiche dell’Unione Europea con un impatto territoriale» [European Commission 2005, corsivi nel testo].

Se intesa come una indicazione strategica di policy per raggiungere non solo l’obiettivo della coesione territoriale, ma il triplice obiettivo integrato della coesione economica, sociale e territoriale, questa indicazione può essere considerata come la migliore risposta alle proposte spatially blind, a-territoriali, proposte autorevolmente in tempi recenti dalla World Bank [2009]. L’obiettivo sembra alfine chiaro e il metodo, o le linee guida, vengono indicate nel migliore sfruttamento del capitale territoriale: un concetto relativamente nuovo sul quale vale la pena di soffermarsi un poco (si veda il paragrafo successivo).

Tre sono gli obiettivi di politica territoriale e urbana che emergono da questi documenti:

- migliorare la forza, la diversità e l’identità dei centri urbani (e delle loro reti) come motori dello sviluppo territoriale;

- migliorarne l’accessibilità e l’integrazione territoriale all’interno dell’Unione;

- preservare e sviluppare la qualità e la sicurezza dei valori naturali e culturali dell’Europa e sviluppare un rapporto sostenibile fra città e campagna.

Nella Carta di Lipsia si colgono poi affermazioni e impegni molto rilevanti per quanto riguarda le politiche urbane. Vi si legge infatti, fra l’altro [European Council 2007, nostra traduzione]:

- «Le nostre città non potranno adempiere alla loro funzione di motore del progresso sociale e della crescita economica come descritto dalla Strategia di Lisbona, se non si riuscirà a salvaguardare l’equilibrio sociale al loro interno e fra di esse, tutelando la loro diversità culturale e producendo alta qualità nel campo del disegno urbano, dell’architettura e dell’ambiente.

- Tutti i livelli di governo – locale, regionale, nazionale, europeo – hanno una specifica responsabilità nei confronti del futuro delle nostre città. Per rendere realmente efficace questo governo multi-livello, dobbiamo migliorare il coordinamento delle politiche di settore e sviluppare un nuovo senso di responsabilità nei confronti di una politica integrata di sviluppo urbano.

- Una politica integrata di sviluppo urbano coinvolge attori esterni all’amministrazione e consente ai cittadini di giocare un ruolo attivo nell’orientare il loro immediato contesto di vita.

- Questi strumenti di pianificazione orientati alla realizzazione … sviluppano una “visione” per la città; dovrebbero essere coordinati a livello locale ma anche a livello della città-regione e coinvolgere i cittadini e gli attori [3].

- Un prerequisito rilevante per un uso sostenibile ed efficiente delle risorse è una struttura insediativa compatta, che può essere realizzata attraverso una buona pianificazione urbanistica e territoriale, prevenendo lo sprawl, e attraverso uno stretto controllo dell’offerta di suolo e dello sviluppo speculativo».

Si sottolineano in questi passi numerosi elementi cruciali per riformare veramente le politiche urbane. Innanzitutto la cruciale necessità che le città siano gestite in modo sostenibile – dal punto di vista ambientale, sociale ed economico – invertendo una tendenza, ormai superata in altri paesi, verso estese pratiche deregolative; la necessità di una nuova responsabilità pubblica in questo senso, e di una nuova governance multilivello; l’importanza di processi negoziali, e cioè partenariali fra pubblico e privato, e partecipativi, per il rilancio di una pianificazione territoriale moderna e innovativa; la necessità di un’ottica non municipale ma di area vasta per la pianificazione, a livello di regione urbana; l’importanza della qualità degli spazi pubblici, spesso sacrificati nel nostro paese alle esigenze di sviluppo, sia nei centri urbani che nelle periferie; e infine la cruciale rilevanza del tema della forma urbana, con il contenimento dei consumi di suolo, la densificazione e la compattezza dell’edificato, la lotta allo sprawl e alla utilizzazione del suolo per uno sviluppo non necessario.

L’Unione Europea mette a disposizione di queste precise strategie il peso dei suoi Fondi Strutturali e l’autorevolezza delle procedure imposte per poterne fruire. Ma da questo possiamo inferire che l’Unione abbia abbracciato irreversibilmente una strategia di sviluppo ‘dal basso’, attraverso l’intervento territoriale? Purtroppo non è possibile affermarlo, in quanto coesistono diverse visioni al suo interno, nonostante l’azione in favore di un approccio territoriale portata avanti dalla DG Regio e dal programma ESPON. Recentemente, un importante Rapporto di orientamento delle politiche europee, Europe 2020 [European Commission 2010] viene nuovamente a gettare acqua sul fuoco delle aspettative territorialiste. Il Rapporto fornisce un’acuta descrizione del contesto internazionale in cui si colloca la strategia europea di uscita dalla crisi e di rilancio, e definisce in modo chiaro i tre pilastri di tale strategia (e alcuni progetti bandiera prioritari): “smart, sustainable and inclusive growth”. Si tratta di tre linee strategiche integrate, ben articolate nei successivi progetti; ma una cosa colpisce: il territorio non è mai citato, né un approccio territoriale è mai proposto. Semmai, le politiche territoriali sono evocate come politiche di lotta alla povertà, con un ritorno indietro (a politiche di pura equità) decisamente preoccupante.

Anche a livello europeo occorre dunque continuare una battaglia ideale, scientifica e culturale [4].

Operare attraverso il capitale territoriale

Il concetto di capitale territoriale è stato elaborato per la prima volta dall’OECD nel Territorial Outlook del 2001 [OECD 2001] e ripreso nel 2005 dalla Commissione Europea, come visto in precedenza. Esso comprende diversi e diversificati elementi quali: la localizzazione geografica dell’area, la sua dimensione; la disponibilità di fattori produttivi, clima, tradizione, risorse naturali; qualità della vita ed economie di agglomerazione prodotte dalle città, distretti industriali e reti di impresa che permettono di ridurre i costi di transazione; convenzioni, costumi e regole informali che permettono agli attori locali di lavorare insieme in condizioni di incertezza, o le reti di solidarietà, di assistenza e di collaborazione (capitale sociale); infine, sulla scorta di Marshall, ‘qualcosa nell’aria’, che possiamo chiamare il contesto o l’ambiente e che è il risultato di una combinazione di istituzioni, di regole, di pratiche, che rendono possibile creatività e innovazione [OECD 2001, 15].

In sintesi, il capitale territoriale può essere definito come un insieme di asset localizzati – naturali, umani, artificiali, organizzativi, relazionali e cognitivi – che costituiscono il potenziale competitivo di un territorio. Sulla base di una doppia dimensione, quella della materialità/immaterialità e quella della rivalità nell’uso (in cui si distinguono beni pubblici, beni privati e beni pubblici ‘impuri’) è possibile costruire una tassonomia dei possibili elementi del capitale territoriale [Camagni 2009a]. Raggruppando fra loro alcune classi, si possono distinguere: capitale infrastrutturale e insediativo, capitale naturale e identitario, capitale produttivo, capitale cognitivo, capitale sociale e relazionale.

Tutte queste componenti costituiscono i fattori su cui ogni territorio costruisce il suo ruolo nella divisione internazionale e inter-regionale del lavoro, la sua competitività e la sua attrattività nei confronti di imprese, professionalità e famiglie esterne all’area locale. Esse dunque devono essere accumulate nel tempo, conservate e protette, integrate e completate, valorizzate in modo responsabile, difese da possibili subitanee distruzioni, eventualmente riutilizzate e riorientate verso nuovi usi [Camagni e Capello 2009b].

Al di là delle componenti più tradizionali, date dalla dotazione di risorse, dalle infrastrutture, dal capitale produttivo e umano, sono le componenti di relazionalità e di governance che appaiono più rilevanti oggi e permettono il miglior utilizzo del capitale territoriale consolidato. Nell’uso del capitale naturale e del patrimonio culturale le componenti di governance possono evitare comportamenti opportunistici e di free-riding e consentire un uso assennato ed evolutivo del capitale identitario; nella costruzione del capitale cognitivo le componenti relazionali sono alla base di processi virtuosi di sinergia, apertura, crescita attraverso una “related variety” [Boschma 2005] o una “prossimità organizzativa e cognitiva” [Torre e Rallet 2005]; nell’attivazione del capitale urbano e insediativo entrambe garantiscono fiducia, partecipazione e cooperazione, capacità di costruzione di visioni condivise del futuro, disegno e realizzazione di progetti complessi.

Se tutto ciò è vero, sono le componenti di relazionalità e di governance che devono meglio e più profondamente essere valorizzate o costruite dalle politiche di sviluppo territoriale.

Il concetto di capitale territoriale può dunque essere utilissimo per costruire appropriate politiche di sviluppo, regionale e urbano, fondate su una valutazione e interpretazione approfondita sulla presenza di diverse tipologie di capitale in ciascun territorio, sulla possibile valorizzazione delle risorse ancora non adeguatamente utilizzate, su un loro riorientamento, completamento, rafforzamento o utilizzo alternativo. Una iniziale valutazione attraverso indicatori territoriali a livello di province italiane è stata proposta recentemente [Camagni e Dotti 2010] al fine di evidenziare le specificità e l’estrema differenziazione delle condizioni territoriali nel Nord Italia. Si tratta di un programma di ricerca che viene oggi approfondito e allargato all’Italia intera al Politecnico di Milano con un finanziamento PRIN del Ministero dell’Università. Si presentano qui alcune tavole concernenti il capitale cognitivo, relazionale, ambientale e complessivo.

I consumi di suolo

La crescita dei consumi di suolo nel nostro paese costituisce un problema ormai ben noto. Negato per molto tempo da parte di molte amministrazioni regionali e pervicacemente negato ancora oggi da parte degli interessi più direttamente coinvolti, è oggi meritoriamente misurato da un progetto congiunto INU – Politecnico di Milano e considerato attentamente anche a livello scientifico. La crescita insediativa a bassa densità, lo sprawl anglosassone, è stata da noi per lungo tempo considerata un non-problema dai teorici della ‘città diffusa’ e banalizzata nelle visioni sulla ‘città infinita’, ma viene sempre più criticata e osservata con preoccupazione dalle migliori analisi e le migliori pratiche di policy.

Queste tipologie di crescita infatti determinano un irreversibile aumento della mobilità, necessariamente su mezzo privato, generando congestione, inquinamento, consumi energetici rilevanti ed evitabili e un dannoso spreco di suolo; inoltre producono una riduzione, frammentazione e banalizzazione degli spazi aperti e del continuum agricolo e una omologazione del paesaggio suburbano; infine, spesso, si risolvono in una crescita della segregazione sociale [Camagni, Gibelli e Rigamonti 2002; Gibelli e Salzano 2006; EEA 2006].

La speranza che il processo di consumo di suolo si fosse ridotto negli anni 2000 rispetto agli anni precedenti ­ per effetto di una crescente coscienza dei problemi, di una oggettiva riduzione dei suoli ulteriormente urbanizzabili attorno alle grandi e medie città, della progressiva evidenza dei costi pubblici, per infrastrutture e servizi, e dei costi collettivi e individuali che esso implica – si è scontrata con evidenze oggettive del tutto diverse. Soprattutto la crisi fiscale dei comuni ha spinto verso un progressivo allentamento del controllo sull’uso dei suoli, anche in presenza della facoltà assegnata ai sindaci di utilizzare per differenti finalità gli oneri di urbanizzazione derivanti dall’espansione edilizia. Inoltre nel nostro paese è mancata decisamente una linea chiara dei governi, come è avvenuto in altri paesi, e anzi molte sono state le decisioni che andavano decisamente in direzioni opposte a quelle desiderabili (dal ‘Piano casa’ alla abolizione dell’ICI sulla prima casa).

Una rappresentazione oggettiva allarmante viene dalla costruzione di indicatori territoriali di ‘potenziale demografico’ (dato dalla popolazione raggiungibile da ogni micro-territorio ponderata per la distanza) [CAIRE 2009]: confrontando la tavola relativa agli incrementi 1991-2001 con quella degli incrementi 2001-2008 si ha una diretta percezione di non ci sia stato un decremento bensì una chiara accelerazione dei processi di urbanizzazione dispersa.

Per una pianificazione rafforzata di area vasta

Risulta chiaro da quanto ora detto che la giusta risposta a questa accelerazione nei consumi di suolo non possa venire, nelle condizioni attuali, dalla pianificazione comunale, la prima ad aver avallato e accettato il disastro cui stiamo assistendo. E’ ormai noto che i sindaci fanno quadrare i loro bilanci con gli oneri di urbanizzazione e i contributi di costruzione: come nel caso dei paesi arretrati, in presenza di una crisi fiscale dello stato delle dimensioni di quella attuale, si è obbligati a vendere il patrimonio di risorse locali (il suolo in questo caso) per generare reddito. Di qui l’attrazione fatale delle amministrazioni locali per lo sviluppo insediativo, al di là delle esigenze della domanda degli utenti potenziali.

Da questo stato di necessità, discendono due processi perversi che occorre al più presto interrompere. Innanzitutto, si capovolge il percorso logico “virtuoso” che procede dalla costruzione di una visione territoriale alla definizione di un piano e alla conseguente concessione di licenze edilizie coerenti con la visione iniziale, in favore di un percorso vizioso: dalla identificazione del budget necessario per equilibrare il bilancio alla matematica definizione dei mq da urbanizzare e al conseguente accordo negoziale col privato, con conseguente casualità e disordine territoriale.

In secondo luogo, ci si avvia alla negoziazione col privato in condizioni di debolezza: ogni comune e ogni sindaco da solo, anziché in accordo coi sindaci dell’area vasta. In presenza di forte asimmetria informativa rispetto al privato per quanto concerne condizioni di costo e di ricavo sul mercato immobiliare, anche per l’assenza di precise professionalità all’interno dei comuni – grandi e piccoli – i comuni ottengono molto meno di quanto potrebbero in termini di entrate da fiscalità immobiliare (si veda al proposito il prossimo paragrafo).

Solo un radicale cambiamento delle condizioni al contorno, soprattutto fiscali, potrebbe ridurre la propensione delle municipalità per lo sviluppo insediativo. Purtroppo la tendenza in questo senso non è delle più promettenti: la riforma della fiscalità locale con il cosiddetto “federalismo municipale” si è solo dovuta preoccupare di colmare, con una serie di nuove tasse locali e compartecipazioni a tributi nazionali, il vuoto che l’abolizione dell’ICI sulla prima casa, in concomitanza delle elezioni nazionali del 2008, ha generato nelle già fragili finanze comunali.

Invece, è soprattutto attraverso un rafforzamento della pianificazione di area vasta (realizzata anche attraverso una pianificazione intercomunale a carattere ‘strutturale’) che si può pensare di ribaltare le tendenze osservate nel passato. Ciò implica il rafforzamento di un ente che nella nostra legislazione è preposto, giustamente e naturalmente per le due dimensioni territoriali, a garantire l’equilibrio territoriale alla scala vasta intercomunale: la Provincia.

Questo possibile progetto ­ che andrebbe in direzione opposta alla tendenza della maggior parte delle legislazioni regionali, che hanno indebolito se non disarmato i poteri delle Province nei confronti dei Comuni – incontra tuttavia forti resistenze oggi, in due sensi principali.

Innanzitutto, da parte di chi nega ruolo e necessità stessa alle Province, per realizzare un risparmio pubblico che a ben vedere non ci sarebbe (perché i dipendenti pubblici difficilmente possono essere licenziati). Si tratta di una posizione assai superficiale a mio avviso, che emerge di tanto in tanto nel dibattito politico e che incontra sostenitori non solo fra i livelli istituzionali che sarebbero favoriti da questa prospettiva, quello comunale e quello regionale, ma fra esponenti stessi del milieu tecnico-culturale. Bene ha fatto recentemente Valerio Onida [2011] a confutare questa tesi stigmatizzandola come «la retorica dell’antipolitica».

Al contrario, occorre con forza affermare che la provincia è l’ente appropriato per la pianificazione territoriale di area vasta (e per “le politiche integrate di sviluppo territoriale”, nell’espressione dell’Unione Europea): una funzione essenziale e riconosciuta a livello europeo, come abbiamo visto. La dimensione comunale è insufficiente a gestire fenomeni che hanno natura e impatti trans-territoriali; quella regionale è adatta alla funzione legislativa territoriale (all’interno di un forte quadro nazionale), ma non alla funzione gestionale.

La seconda resistenza alla pianificazione di scala vasta viene dagli approcci di deregulation urbanistica, o ‘liberalismo attivo’ nella versione della componente colta dei fautori dell’approccio deregolativo [Moroni 2007]. Si afferma al proposito che la pianificazione è strumento vecchio, nocivo in quanto uccide il libero gioco del mercato – il solo custode del ‘bene’ collettivo in quanto costruisce un ordine sulla base delle preferenze individuali e delle conoscenze disperse fra un grande numero di soggetti.

La tesi, così espressa in estrema sintesi, ha una sua solidità teorica rilevante, ma pecca di una fondamentale sottovalutazione proprio sul terreno della teoria economica. Si può infatti facilmente dimostrare, sulla scorta degli scritti dei grandi economisti liberali-liberisti dell’inizio del novecento, che il libero mercato, insostituibile allorché si tratta di decisioni sulla quantità/qualità/prezzo di beni, ‘fallisce’ come allocatore di risorse in campo territoriale; ciò per la presenza di irreversibilità (e il terreno urbanizzato è perduto alla naturalità), di esternalità (i vantaggi e gli svantaggi arrecati agli altri soggetti dalle decisioni individuali non vengono presi in considerazione in un quadro di decisioni decentrate private), di beni pubblici (che non vengono per definizione forniti dal mercato), di pochi operatori o di operatori operanti in collusione implicita o esplicita (come è spesso il caso nel mercato immobiliare) [5]. Naturalmente ciò non significa che il mercato non serva, ma occorre integrarlo con un ‘buon governo’ e soprattutto con buone regole.

La rendita fondiaria in Italia: dalla fase di sviluppo alla crisi

Veniamo al terzo nodo che occorre sciogliere per pensare di poter realizzare un ordine territoriale efficiente e qualificato: quello della rendita fondiaria e immobiliare. Analizziamo l’andamento del settore immobiliare in Italia nell’ultimo quindicennio, che abbraccia, come sappiamo, un lungo periodo di prosperità dal 1996 al 2006 e un periodo di crisi successiva, cercando di individuare le tracce della presenza di rilevanti rendite fondiarie e immobiliari.

Nei due periodi considerati, il tasso di crescita complessivo delle transazioni e dei prezzi immobiliari (deflazionati e quindi da intendere come prezzi a euro costanti) è stato il seguente [fonti: Cresme e Agenzia del Territorio]:

Fase I: il boom

1996-2006:

aumento dei prezzi medi degli immobili nelle grandi città:

+ 55,6%

aumento dei prezzi degli immobili nella media italiana:   

+ 35,0%

1997-2006:

numero di transazioni:

+ 57,0%

E’ bene ricordare che in questo stesso periodo i costi di costruzione non sono aumentati in termini reali, grazie soprattutto al crescente impiego di manodopera immigrata, e che solo negli anni 2005-6 si è avuto qualche rialzo, non rilevante, nel prezzo di alcuni input come ad esempio il cemento. Ciò significa che si è verificato un vero e proprio boom nella profittabilità della filiera immobiliare, che produceva nel settore residenziale a costi variabili fra i 1.000 e i 1.200 euro/mq e vendeva, alla fine del periodo nelle periferie delle due città maggiori, a prezzi ben superiori ai 5.000 euro/mq.

Le transazioni, in questo periodo di forte espansione, sono aumentate considerevolmente, fino a raggiungere il milione all’anno nei primi anni 2000, e le ragioni di tale forte espansione sono da ricercarsi in fenomeni sia finanziari che reali. Da una parte, l’elemento più rilevante va individuato nella forte caduta dei tassi di interesse sui mutui a partire dal 1997, conseguente alla fase di preparazione della moneta unica e alle conseguenti politiche economiche di rigore; esso ha consentito un forte aumento dell’accesso alla casa in proprietà, anche perché ha reso conveniente sostituire l’acquisto a debito all’affitto. In secondo luogo, la crisi delle borse seguita allo scoppio della bolla dei titoli legati alle nuove tecnologie informatiche a partire dal 2000 ha avvicinato molto risparmio al mercato immobiliare, e nello stesso senso ha operato il rientro di molti capitali detenuti da cittadini italiani all’estero, grazie allo “scudo fiscale” predisposto dal Ministro del Tesoro. Va aggiunto poi, per la parte ‘reale’, l’accesso al mercato immobiliare da parte di nuovi ceti produttivi, in particolare di immigrati regolari che sono andati a occupare fasce di mercato di minor valore.

Tutte queste ragioni hanno determinato insieme una consistente e coerente crescita delle transazioni e dei valori.

Fase II: la crisi

2006-2009:

andamento dei prezzi immobiliari, media italiana:

-9%

andamento delle transazioni, media italiana:

-33,4%

Il periodo di crisi, nel nostro paese, si caratterizza soprattutto per una caduta rilevante delle transazioni: il mercato si ferma ma, e questo appare strano, assistiamo a un disaccoppiamento dell’andamento dei prezzi rispetto alle transazioni. La caduta dei prezzi è stata infatti assai minore.

Questo fenomeno caratterizza il mercato immobiliare italiano anche in un confronto internazionale. Osservando quattro semestri nei due anni in cui la crisi ha colpito più duramente, il 2009-2010, vediamo che nei due paesi in cui essa è stata più grave, manifestandosi con bolle immobiliari abnormi, e cioè in Irlanda e Spagna, si sono manifestate le più rilevanti riduzioni di prezzi che perdurano nei quattro semestri; ma queste riduzioni si sono manifestate anche in paesi con dinamiche precedenti simili alle nostre, come Francia e Olanda, e nella media dei paesi UE (occidentali). E’ anzi possibile affermare che la riduzione dei prezzi nei primi due-tre semestri è stata la precondizione per un successivo, ancorché timido, rilancio.

In questo quadro, l’Italia si comporta in modo del tutto peculiare, con una tendenza alla riduzione dei prezzi continua ma molto limitata. Si tratta di un fenomeno che deve essere interpretato adeguatamente, in quanto rischia di rallentare fortemente la realizzazione dello stock invenduto presente sul mercato e di allungare conseguentemente i tempi di una possibile ripresa del settore.

Come possiamo spiegare questo paradosso di prezzi solo limitatamente decrescenti in un mercato con transazioni in picchiata e allungamento rilevantissimo dei tempi medi di vendita? Le ragioni sono molteplici:

  • i bassi tassi di interesse che, seppure in limitato rialzo negli ultimi mesi, mantengono assai limitato il costo opportunità dell’invenduto per gli operatori;

  • il forte indebitamente bancario del settore immobiliare, specie per i gruppi più grandi, garantito dai cespiti posseduti: un deprezzamento rapido di tali cespiti ridurrebbe il valore delle garanzie bancarie, facendo emergere possibili rilevanti perdite per il settore. Si preferisce dunque rifinanziare i debitori, evitando fallimenti rischiosi, e attendere condizioni migliori consolidando la situazione attuale del mercato;

  • il livello rilevantissimo dei profitti incamerati nel precedente decennio d’oro, in presenza di una ‘disattenzione’ politica generalizzata per una adeguata tassazione delle ‘rendite’ emergenti;

  • una struttura di mercato più vicino a un oligopolio collusivo che a una condizione di concorrenza: quest’ultima naturalmente più orientata alla flessibilità dei prezzi.

La situazione appare per molti versi simile a quella che John Kenneth Galbraith aveva individuato come responsabile della lunga durata delle depressione del 1929: una struttura dei mercati caratterizzata da diffuse condizioni di monopolio e oligopolio, che aveva determinato strategie di difesa dei prezzi a scapito della quantità prodotta, con effetti dirompenti assai più rilevanti sull’occupazione, e conseguentemente sulla domanda e la durata della crisi rispetto a una condizione ipoteticamente concorrenziale [Galbraith 1961]. E’ certo che, nel caso del mercato immobiliare italiano, un rilancio della produzione sarà ritardato da questa condizione di alti prezzi, che non facilita il ripristino di condizioni normali di mercato.

In sintesi: nel periodo dello sviluppo, dei rilevanti margini di profitto per gli operatori e delle abbondanti rendite fondiarie e immobiliari si è perduta una occasione irripetibile per chiamare il privato a una contribuzione più rilevante in materia di fiscalità urbanistica e immobiliare. Oggi invece, in periodo di crisi, il settore si trova in una condizione precaria, con vasto invenduto e attività di nuova costruzione assai limitata. Tuttavia non affrontare il problema strutturale, quello di una fiscalità troppo timida sui plusvalori emergenti dalla trasformazione e dallo sviluppo della città, sarebbe un grave errore, anche in considerazione della limitata caduta dei valori immobiliari.

Occorre rilanciare il messaggio lanciato dall’INU nel 1995 e successivamente caduto in larga misura nell’oblio: finanziare lo sviluppo e la qualificazione della città pubblica attraverso una più equa ripartizione fra pubblico e privato dei plusvalori emergenti dalla trasformazione della città privata.

La tassazione delle trasformazioni immobiliari: oneri di legge e procedure negoziali

Le modalità con cui, a livello internazionale, i privati vengono chiamati a contribuire ai costi della rigenerazione e dello sviluppo della città sono assai varie; tutte intervengono soprattutto sulle trasformazioni immobiliari, laddove originano le domande di infrastrutture e servizi, ma originano pure rilevanti plusvalenze. Troviamo ovunque l’attribuzione al privato dei costi di infrastrutturazione; il conferimento di una parte delle aree trasformate per ospitare infrastrutture, verde e servizi; il pagamento di un contributo per la concessione del diritto a costruire (il development permit inglese), o una tassa per impatti ambientali e pubblici dell’edificazione (i nostri contributi sui costi di costruzione e gli impact fees americani); l’obbligo di realizzare edilizia sociale (nel Regno Unito, nei paesi scandinavi e in Germania); il contributo alla realizzazione di infrastrutture non pertinenti all’ambito di trasformazione (sempre nel Regno Unito) e il recupero da parte pubblica di una parte delle plusvalenze della trasformazione urbanistica privata (è tipicamente il caso spagnolo).

Ma a quanto ammontano, sul valore del costruito, questi prelievi pubblici? Una comparazione internazionale precisa è difficilmente realizzabile, ma vi sono alcune, rare valutazioni per quanto concerne l’Italia. Una indagine non recentissima di Rigamonti [2009] sulla Liguria e una indagine effettuata dalla Regione Emilia-Romagna, citata da Rigamonti, indicano che i valori massimi praticati in Italia per oneri di concessione edilizia sono forse adeguati a coprire i puri costi diretti della predisposizione di infrastrutture urbane minimali; non lo sono invece i valori mediamente imposti o i valori quasi irrilevanti che ancora è dato scoprire in talune realtà comunali.

Ma soprattutto l’imposizione urbanistica appare inadeguata a coprire nuovi (ma anche vecchi) oneri e impegni dei comuni: non solo per la costruzione ma anche la manutenzione delle infrastrutture urbane; per ridurre gli impatti ambientali dei nuovi insediamenti; per le nuove esigenze di tutela delle fasce deboli della popolazione, e segnatamente per l’edilizia sociale.

Se negli anni 2003-05 nelle principali città liguri gli oneri per l’edilizia residenziale si posizionano attorno ai 120 euro/mq, siamo sotto i 100 euro/mq a Milano, nelle Marche, Trentino e Toscana, e sotto gli 80 euro in regioni di medie città come l’Umbria, il Veneto. Questi valori medi incidono dal 5% all’8% sui prezzi di vendita di appartamenti di qualità medio-bassa, in zona subcentrale e in città di dimensione medio piccola senza particolari attrattive turistiche (prezzi compresi fra i 1.600 e i 2.400 euro al mq), ma le percentuali si abbassano al crescere e al moltiplicarsi dei valori immobiliari, come accade in città di maggiori dimensioni.

Oggi è in corso un aggiornamento dell’indagine comparativa citata da parte della Regione Emilia-Romagna. Emergono alcune (iniziali, non verificate) variazioni rispetto a quanto indicato in Fig. 4: per Milano i valori massimi per residenza, terziario e industria sono rispettivamente euro 244, 346 e 140; per Genova 140 per residenza e 83 per industria. Per il residenziale a Milano, gli oneri complessivi si collocano su una percentuale attorno al 5-7% del valore di mercato medio delle nuove costruzioni.

Il caso spagnolo appare assai rilevante e interessante a proposito della forma e della dimensione degli oneri urbanistici sulle trasformazioni urbane, in quanto in quel paese, oltre al fatto che i privati coprono l’intero costo delle infrastrutture di base, esiste un dettato costituzionale che obbliga l’amministrazione locale a recuperare parte del plusvalore creato nelle trasformazioni stesse [Romani 2002], attraverso cesiones de aprovechamiento urbanistico (cessioni di parte del suolo a fronte di sfruttamento di diritti edificatori). «La comunidad parteciparà en las plusvalias que genere la acciòn urbanistica de los entes publicos» [art. 47 della Constituciòn del 1978].

Se in Italia il livello degli oneri tradizionalmente richiesto appare assai limitato, altrettanto è possibile in prima approssimazione affermare anche a proposito delle nuove procedure negoziali introdotte attraverso i cosiddetti “programmi complessi” o i “programmi integrati di intervento”. Tali procedure infatti non garantiscono certo automaticamente il raggiungimento dell’obiettivo di una più equa compartecipazione del pubblico ai plusvalori realizzati con la trasformazione urbana. Sembra infatti che le resistenze verificatesi nel corso del precedente regime urbanistico permangano all’incirca immutate nel nuovo regime a carattere negoziale.

Un confronto diretto realizzato da chi scrive tre anni or sono fra gli esiti di procedure negoziate realizzate a Milano e a Monaco di Baviera non lascia dubbi al riguardo. Era emerso infatti un sostanziale sottodimensionamento comparativo degli oneri nel caso milanese che, in termini di incidenza sul valore del costruito, rappresentavano, nel caso di edilizia residenziale, da un terzo a un quarto di quanto ottenuto dall’amministrazione pubblica a Monaco di Baviera (tab. 1 e 2) [Camagni 2008b].

Attraverso un nuovo schema di strutturazione delle negoziazioni fra pubblico e privato detto SoBoN (Sozialgerechte Boden Nutzung – “un uso del suolo socialmente equo”), proposto dalla Municipalità, discusso con gli operatori non senza forti contrasti e alla fine approvato dagli stakeholder urbani e dal Consiglio Comunale nel 1995/4, nello spirito di un partenariato pubblico-privato con attenta regia da parte del pubblico e regole ben chiare, è stato possibile in quella città raggiungere una distribuzione dei plusvalori della trasformazione che raggiunge, per la parte pubblica, il 30% circa del valore del costruito.

A Milano, pochi anni or sono, nel caso di un Programma Integrato di Intervento di ampie dimensioni, si raggiunge una percentuale assai più bassa: un 10% apparente, calcolato sui valori di mercato dichiarati dall’operatore e sovrastimato in quanto comprende la monetizzazione di standard per mancate cessioni di suoli, non comprese nel caso tedesco. Piccole rielaborazioni per correggere alcune sottovalutazioni evidenti di prezzi di mercato portano la percentuale indicata, sempre sopravvalutata, all’8%; tenendo conto di tale sopravvalutazione ma anche del fatto che gli oneri a Milano sono stati successivamente elevati, si giunge a una stima del 5-7%. Dunque a un livello pari a un quarto delle prestazioni pubbliche ottenute a Monaco.

In Italia, siamo dunque apparentemente ben lontani da una ‘equa’ ripartizione fra pubblico e privato dei plusvalori emergenti dalle trasformazioni urbane; una ripartizione che premia il privato, la rendita fondiaria, i consumi o una finanza di origine immobiliare a scapito dell’investimento pubblico sulla città.

Si tratta non solo di una condizione di iniquità, ma anche di larga inefficienza di lungo periodo. Si rinuncia nei fatti alla competitività, all’attrattività, alla sostenibilità e alla qualità della vita nelle nostre città, in una fase di globalizzazione in cui le decisioni di investimento delle imprese vengono effettuate su uno scacchiere internazionale e dunque in cui la ‘lealtà territoriale’ delle imprese italiane appare largamente ridotta o comunque ‘condizionata’ [Calafati 2009]: condizionata dall’efficienza dei contesti territoriali, dalla efficacia delle regole che governano le relazioni economiche e sociali, dalla lungimiranza delle amministrazioni pubbliche, locali e nazionali.

Quello della rendita fondiaria è un tema che sembra scomparso da tempo dall’agenda politica del nostro paese; si sono tassate, nel recente passato, le rendite finanziarie, ivi compresi i già ridottissimi interessi sui conti correnti, e non si sono né perseguite né finanche nominate le rendite fondiarie e i capital gain realizzati in misura amplissima all’interno della filiera immobiliare. Ripensare a un’equa distribuzione di tali plusvalori (non dei profitti imprenditoriali dei developer ma delle rendite) fra pubblico e privato deve divenire oggi una priorità “politica”, se si vuole riavviare il circuito virtuoso della crescita, urbana e complessiva, del paese [6].

Conclusioni

La riflessione che qui si è presentata concerne tre nodi fondamentali che il sistema-paese deve affrontare e sciogliere in modo positivo, tre nodi variamente intrecciati e interconnessi:

  • il nodo del rilancio di una politica di investimento sulla qualità e l’efficienza delle nostre città, che rappresentano le precondizioni non solo per la competitività del paese ma per il benessere complessivo dei cittadini;

  • il nodo del rilancio della pianificazione di scala vasta, appoggiata su istituzioni intermedie (come, perché no?, le attuali province e le possibili città metropolitane), al fine di pervenire a una crescita territoriale più equilibrata ed evitare la piaga della dispersione insediativa e degli inutili consumi di suolo;

  • il nodo di un’equa distribuzione fra pubblico e privato dei plusvalori emergenti dalle trasformazioni urbane, al fine di poter finanziare gli interventi di ricapitalizzazione delle città e della manutenzione straordinaria del territorio.

Come si vede, si tratta di tre nodi interconnessi, che richiedono per essere efficacemente affrontati una riforma profonda della governance territoriale da realizzarsi attraverso una sorta di patto fra policy maker onesti e lungimiranti, pianificatori coraggiosi, operatori moderni, cittadini esigenti, intellettuali e professionisti rigorosi: per rilanciare il circuito virtuoso della qualità della città e del territorio.

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DOI 10.1473/quadterr02
Storicamente 2012

Published: January 13th 2012

 

 

Notes

[1] I documenti cui faccio riferimento sono:
- il Terzo Rapporto sulla Coesione della Commissione A New Partnership for Cohesion (febbraio 2004),
- il nuovo Trattato di Lisbona (2009),
- lo Scoping document sullo Stato e le Prospettive del Territorio, approvato dai Ministri territoriali nel maggio 2005,
- la Strategia tematica sull’ambiente urbano, sempre della Commissione (gennaio 2006),
- soprattutto: la Leipzig Charter on Sustainable Urban Systems che i Ministri del territorio hanno sottoscritto sotto Presidenza tedesca nel maggio 2007,
- il Libro Verde sulla Coesione Territoriale Turning territorial diversity into strength della Commissione, ottobre 2008,
- le linee guida per una sapiente utilizzazione dei Fondi Strutturali in ambito urbano: The urban dimension in Community policies (2007-08) e Promoting sustainable urban development in Europe. Achievents and Opportunities (2009),
- il Sixth Progress Report on economic and social cohesion del 2009;
- il Quinto Rapporto sulla Coesione della Commissione (novembre 2010).

[2] Ho definito da qualche tempo la coesione territoriale come “la dimensione territoriale della sostenibilità” (in aggiunta alle dimensioni tecnologica, comportamentale e diplomatica). Essa si articola nelle tre sottodimensioni dell’efficienza territoriale, qualità territoriale e identità territoriale (a loro volta scomponibili in ambiti più ristretti), che possono divenire i “criteri” per una analisi di impatto territoriale delle politiche europee (Camagni, 2004).

[3] Queste caratteristiche – integrazione intersettoriale, partecipazione e partenariato, visione condivisa del futuro – avvicinano il concetto di integrated urban development policies a quello di pianificazione strategica urbana.

[4] Si veda in questo senso anche: Barca 2009.

[5] Il mercato – sia quello della mano invisibile di A. Smith e dell’economia classica; sia il dispositivo di allocazione delle risorse per tentativi e aggiustamenti di V. Pareto e di L. Walras, dell’economia neoclassica; sia infine quello di F. von Hayek del neoliberismo della scuola austriaca, che si fonda su un approccio cognitivo di massima utilizzazione della conoscenza diffusa – non conduce al miglior benessere collettivo; anzi, nel caso dell’economia territoriale, è fuorviante (Camagni 2008a). Lo stesso Hayek, diversamente da quanto fa Moroni, non sottovaluta certo questi aspetti allorché passa dalla critica alla pianificazione socialista dell’economia alla critica della pianificazione territoriale (Hayek 1960, p. 341, 349, 375).

[6] Al proposito occorre contestare una obiezione che viene talvolta proposta: che un aumento dell’imposizione fiscale possa scaricarsi su un aumento dei prezzi degli alloggi, con conseguente danno per i cittadini e in particolare di quelli meno abbienti. Qui la teoria economica urbana è chiara: una traslazione sui prezzi avviene solo nel caso delle localizzazioni marginali del comune marginale; in tutti gli altri casi è la maggiore domanda che determina il prezzo, in presenza di una curva di offerta relativamente rigida.

 


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