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Visioni e politiche del territorio
Per una nuova alleanza tra urbano e rurale
a cura di Paola Bonora
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La cultura della terra
Crisi del sapere e del mestiere
Pier Luigi Cervellati
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Abstract
Landscape, territory and environment represent a “common good”. They are common heritages belonging to all. In this age of dramatic cultural and economic change, planning land regeneration should be the focus of field research. There is a close link between heritage dismantling, which represents a threat to our identity as well, and collective impoverishment; this cognition - concerning theoretical knowledge and planning practice as well as the modern way of living in the city is lost. The loss of the common good marks the beginning of a crisis which, rather than being economic, regards civilization and democracy. It is not easy to imagine sustainable negative growth, especially in this period. Not to be thought in the sense of pauperism, rather as a way of saving, recovery and above all as regeneration of the territory.
La situazione è nota. C’è la crisi. E venti anni di spreco del territorio e di
surplus edilizio. Grande crisi: economica-finanziaria, occupazionale e culturale.
Crisi anche per l’indebitamento pubblico. Oggi come ieri – quando c’erano altre
crisi, forse meno gravi - s’invocano “misure per la crescita”. Programmi di
sviluppo. E in Italia si ripetono, come un mantra, le solite formule per progredire
economicamente: grandi opere e edilizia da costruire ovunque. Sulle montagne e
dentro il mare. Mattone & cemento, quali toccasana. E’ indubbio che l’edilizia
sia un motore che ha inciso e non poco sulla nostra economia. In particolare sul
benessere individuale. In un paese come l’Italia da secoli con penuria di
abitazioni, la produzione edilizia, (principalmente privata) dal dopoguerra a oggi
ha consentito all’80% della popolazione di diventare proprietaria dell’alloggio in
cui vive. Senza risolvere il problema della casa per i giovani, i ceti sociali più
poveri e provocando un’espansione delle periferie che ha distrutto il significato
stesso di città.
Sulle grandi(?) opere l’Italia registra un clamoroso fallimento. Sarebbe opportuno
sfatare il mito d’interventi miracolosi per soddisfare l’imperativo dello sviluppo
economico: la rete autostradale (largamente incompleta, si pensi alla Salerno/Reggio
Calabria) ha fatto ritardare l’ammodernamento (assai parziale) delle ferrovie, le
quali a loro volta sono peggiorate con abbandoni gravi, specie al sud o nelle città
dell’Appennino dove, quando c’è, è ancora quella del primo novecento. Centinaia di
chilometri non sono elettrificati. E le ferrovie regionali, dove funzionano,
sacrificano le esigenze dei pendolari. E’ aumentata la congestione del traffico, non
solo urbano, con conseguenti inquinamenti e mortali incidenti.
Il disfacimento delle città, la distruzione del paesaggio, il disastro del
traffico, il dissolvimento delle risorse e la dispersione dell’urbanizzato, la
desolazione degli alloggi invenduti, la dismissione delle attività produttive per
far spazio a nuove case, a nuove strade (a uso privato e a manutenzione pubblica),
contribuiscono in misura rilevante ad aumentare il disavanzo economico di tutte le
amministrazioni pubbliche. Senza contare gli sprechi, lo scialo di pubblico denaro
per opere la cui validità “strutturale” e ambientale non è stata mai dimostrata.
Opere lesive della stessa democrazia. Non c’è solo il famigerato Ponte sullo
Stretto; la TAV in Val di Susa al pari del MOSE a Venezia, per non citare faraoniche
sedi regionali, nuove stazioni ferroviario/commerciali, trasformazione dei centri
storici in shopping center, false metropolitane e strampalati “passanti”, assi di
penetrazione, rotonde, etc. (opere imposte anche quando la maggioranza delle
popolazioni interessate è contraria) daranno forse lavoro, garantiscono tangenti e
movimenti di denaro. Il risultato è noto: progressiva crescita del debito pubblico;
clamorosi ritardi, abbandoni o sospensione dei lavori: risultati spesso disastrosi
per l’ambiente. (Si dirà: queste grandi opere si fanno in tutti i paesi moderni. Ed
è vero. Con una qualità diversa, con costi minori, con meno scandali e
taglieggiamenti e con obiettivi non clientelari e in particolare, con una
programmazione di lungo periodo che tende a diminuire lo spreco).
Carlo Donolo [2011] in “Italia Sperduta” si chiede se uno o due decenni saranno
sufficienti per
«riportare l’Italia alla decenza o in prossimità di standard europei per quanto
riguarda: ricerca scientifica / formazione universitaria / vivibilità urbana e
risanamento di centri storici / riforme scolastiche / bonifica di aree e fonti di
rischio ambientale, industriale, etc.».
Le misure invocate, la ripresa dell’attività edilizia, favoriscono la finanza, ma
provocano malessere urbano e crescita del debito pubblico.
E’ dimostrato. Più cresce il disavanzo dei bilanci pubblici più si erode il bene
comune.
Per chi fa il mio mestiere, il bene comune, il patrimonio che appartiene a tutti,
è rappresentato dall’insediamento urbano – non solo storico - e dal territorio nella
sua valenza paesaggistica e ambientale. La vivibilità urbana e territoriale dovrebbe
costituire un traguardo prioritario, non solo per chi fa il mio mestiere.
La cultura della terra. Crisi del sapere e del mestiere
La terra ha una matrice naturale che si rapporta, conforma, trasforma ed evolve in
base alla sua stratificazione e mutazione; in particolare al rapporto che si
stabilisce nel corso del tempo fra il luogo e la società che lo vive. Paesaggio,
territorio, ambiente rappresentano un “bene comune”. Sono patrimonio di tutti nel
senso di appartenenza e di convivenza.
Territorio paesaggio e ambiente sono le voci di un disegno unico. Non sono
suddivise in settori che conducono a diverse discipline, ma sono tenute insieme da
un quadro conoscitivo e progettuale con l’ambizione di produrre un’azione di governo
condivisa e consapevole. Le decisioni hanno effetto sui diversi aspetti che
concorrono alla costruzione dell’habitat. Il paesaggio non è un tema specialistico o
una procedura amministrativa, bensì è l’espressione consolidata dell’arte di stare e
governare il territorio di una comunità, di una società. Per questo è importante
conoscere le regole profonde che hanno portato alla sua definizione, conformazione,
per organizzare al meglio la sua manutenzione, il recupero/ripristino, o la
trasformazione consapevole. Per pianificare – in un’epoca di drammatici mutamenti
economici e culturali, la “rigenerazione” del territorio dovrebbe costituire il
perno della ricerca operativa.
Gli urbanisti italiani fin dalla loro origine moderna considerano la terra come
uno “spazio” da suddividere (una volta, secondo regole e norme, funzioni e
prospettive) oggi in due polarità: il pieno e il vuoto, il dentro e il fuori,
l’urbanizzato e l’urbanizzabile. Lo spazio (in questa fase di crescente crisi
cognitiva) è diventato un contenitore di metri cubi, “urbanizzabile” all’infinito.
Il sapere tecnico è soprafatto dall’ansia di urbanizzare. La cultura della terra è
così annullata nella progressiva crisi di conoscenza, di sapere e mestiere. E di
democrazia.
La politica, l’economia delle immobiliari e dei cementieri, in società anonima o
cooperativa, ha contribuito ad aggravare la crisi di conoscenza che s’intreccia con
la crisi economica. L’urbanista è diventato, forse inconsapevole responsabile di
tendenze e soluzioni perniciose. Soluzioni in cui il patrimonio di tutti – il
territorio – tende a essere SpA, privatizzato. Come altri beni comuni.
Gli economisti con lo sguardo rivolto alla società evidenziano come lo stato dei
beni comuni definisce la ricchezza/benessere di una comunità. Lo stato di benessere
o di malessere, dipende da due fattori correlati: gli assetti istituzionali e la
classe dirigente che a loro volta, quando funzionano, sono beni comuni. La
partecipazione democratica alle scelte strutturali e di assetto del
territorio.
Chi fa il mio mestiere aveva scelto, ormai mezzo secolo fa, gli standard quale
bandiera di benessere, di qualità urbana. La “tragedia” tutta italiana degli
standard – rimasti sulla carta o monetizzati per finanziare altre attività – è
nettamente percettibile. La loro assenza o clamorosa insufficienza incide sulla
convivenza urbana. La dissolve nello sprawl.
«Non vi sono stati investimenti, né cognitivi né finanziari, a impedire il veloce
degrado del territorio e della vivibilità urbana» [Donolo 2011]. Non c’è stato un
progetto urbanistico (un piano paesaggistico o ambientale o urbano rigeneratore)
attuato senza stravolgimenti e varianti peggiorative. Non c’è stata alcuna proposta
progettuale o giuridica tesa ad arginare il degrado del territorio che si riflette
ovviamente anche nelle istituzioni amministrative e universitarie. Le nuove leggi di
assetto urbano e territoriale approvate da quasi tutte le Regioni, modificando
vecchi acronimi e introducendo fra le righe la bacchetta magica (tuttora
illegittima) della perequazione, hanno sì incrementato l’elaborazione di guide e
piani, strategici o strutturali, territoriali o particolareggiati, attuativi o
operativi, ottenendo solo altra cementificazione del territorio; contribuendo solo a
privatizzare sempre più il patrimonio di tutti e quindi ad allargare il debito
pubblico. L’arricchimento privato determinato dalle nuove leggi regionali e dai
pessimi piani strutturali e/o strategici, dagli strampalati strumenti urbanistici,
hanno prodotto un immiserimento pubblico in una tragicomica rincorsa fra oneri,
strategie di aggiramento, inflazione e rendite da debito pubblico.
Il debito pubblico e la crisi della partecipazione
democratica
Si costruisce meno, non si vende quasi nulla mentre aumenta il debito pubblico.
Causa (si sostiene) della crisi, alla cui soluzione, si ripete, possono contribuire
le grandi opere e soprattutto la produzione di nuove costruzioni.
70 milioni di metri cubi di cemento & mattone, previsti, o in fase di
realizzazione a Roma, 35 milioni a Milano, grattacieli multipli a Torino come nelle
aree dismesse di Sesto San Giovanni; a Catania, ma non solo, trionfa la perequazione
ovvero la previsione di milioni di metri cubi. Tutte le città hanno approvato piani
con ingiustificati aumenti di volumetria. Per ottenere oneri di urbanizzazione, si
giustifica. Oneri da spendere (per il 75%) in altri servizi non inerenti la qualità
urbana. Il governo promuove condoni, “piani casa” “grandi opere” allettando i
privati a investire, a promuovere lo sviluppo. Così l’invenduto aumenta come
diminuisce il valore delle stesse case. Si pagano mutui per valori inferiori a
quelli in essere al momento della stipula del mutuo stesso. Lo spreco edilizio ha un
costo elevatissimo che incide negativamente quanto pesantemente sui bilanci
pubblici. Cose note.
Perché il (mal)governo del territorio non fa più notizia? In una fase di crisi non
solo economica, la svendita della città e del territorio non accende dibattiti. Solo
lo scandalo sembra interessare gli stessi addetti ai lavori. La perdita del bene
comune con tutte le conseguenze – anche economiche – dovrebbe inquietare tutti. Il black out culturale deriva da una
sottovalutazione del disastro in essere e dalle difficoltà di manifestare il proprio
dissenso. Negli anni della cosiddetta prima repubblica, c’erano anche esempi
virtuosi di città in cui si riteneva la pianificazione metodo corretto di governo.
Si riteneva che il partito del mattone e del cemento non fosse così trasversale come
lo è stato nell’ultimo decennio. Sono passati pochi anni da quando uno sciagurato
disegno di legge stava per essere approvato (quasi all’unanimità): le
amministrazioni pubbliche e la proprietà privata dovevano avere le stesse
prerogative nel governare il territorio mediante il sistema della perequazione. Un
disegno condiviso da quasi tutti i partiti e messo in atto in sordina: il
territorio, la città e il paesaggio sono messi in vendita. Diventano patrimonio
individuale.
Mercificando gli standard in cambio di metri cubi di mattone e del cemento, si
cancella la vivibilità di una città. Si distrugge il senso di appartenenza a un
luogo. Si è persa la cognizione culturale dello stretto legame fra smantellamento
del patrimonio che rappresenta l’identità di ciascuno di noi e impoverimento
collettivo; tra crisi cognitiva – del sapere e del mestiere – e modo di vivere la
città e il territorio. La perdita del bene comune segna l’inizio di una crisi che
prima di essere economica, è di civiltà. Di democrazia. (Ciò che sta succedendo in
Val di Susa è inquietante. Con le forze armate si vogliono seppellire le ragioni di
una protesta popolare).
La decadenza di Palermo – racconta Leonardo Sciascia – iniziò quando i nobili non
riuscirono più a mantenere i loro sontuosi – sempre più ricchi – palazzi. La
manutenzione della vivibilità urbana – intesa quale risorsa comune, irrinunciabile
per restare in possesso della città – è intaccata da due fattori. La democrazia
sempre più limitata. I cittadini non possono e non devono interloquire nei “processi
decisionali” imposti da chi dovrebbe governare il territorio. Il degrado che
favorisce l’aumento del disavanzo economico dell’amministrazione pubblica. La città
che si espande, si disperde nel territorio, distrugge l’agricoltura e l’ambiente, ha
costi di gestione (e quindi di manutenzione) tali da impedirne il suo funzionamento.
La grande opera che spesso distrugge l’ambiente, non è mai inserita in quel processo
di manutenzione o di rigenerazione che rappresenta la vera grande opera mai riuscita
a realizzare.
L’imperativo categorico della crescita – per quanto concerne “Grandi Opere” e
nuova edilizia, “costi quel costi” – dovrebbe rientrare nella prospettiva di una
nuova –“buona” – economia. La “buona” economia non è quella che si è sviluppata
nell’ultimo trentennio e che ha portato alla crisi attuale. Crisi definita dagli
esperti, strutturale e non congiunturale. Crisi che porta ad accelerare i processi,
avviati da molto tempo, causati dall’esaurimento delle fonti energetiche naturali e
dal rallentamento della produzione nel mondo cosiddetto occidentale. Crisi,
difficile da superare se continuano lo spreco, il consumo del territorio, il
disfacimento delle città.
In urbanistica ciò significa convivialità: ricerca di una qualità della vita che
richiede quella sussidiarietà fra le persone presente nell’organizzazione urbana del
passato. Nessun rimpianto “dei tempi che furono”. Bisogna essere consapevoli di una
maggiore austerità. Lo diceva ieri Berlinguer, lo dice oggi Benedetto XVI.
Ritornare ad amare la terra, prendersene cura e manutenerla. Il ritorno
all’agricoltura non significa solo evitare disastri, smottamenti e frane causate
dall’abbandono: il ritorno all’agricoltura è anche lavoro.
L’amore per la terra può far scaturire fonti innovative di investimento e di
occupazione: l’energia solare, le “biomasse” prodotte dal bosco …. La
“terziarizzazione” degli addetti all’agricoltura (brutta parola, come
globalizzazione, ma di opposto significato)… la terziarizzazione dell’agricoltura
può produrre benefici occupazionali e ambientali.
Non è sufficiente affermare il risparmio energetico o il minor consumo di
territorio per ottenere la discontinuità con il passato; con il prima e il dopo le
nuove leggi urbanistiche regionali che hanno mantenuto obiettivi e prassi dello
sviluppo apostrofandolo con una “sostenibilità” tutta da dimostrare. Una
pianificazione del territorio alternativa a quella in essere presuppone una diversa
economia. E qui la questione si fa complicata. Non è facile ipotizzare (specie in
questo momento di crisi) una decrescita economica “felice”. Non in senso
pauperistico, bensì un’economia intesa come risparmio, come recupero, soprattutto
come rigenerazione del territorio.
Donolo C. 2011, Italia sperduta: la sindrome del declino e
le chiavi per uscirne, Roma: Donzelli.
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DOI 10.1473/quadterr02
Storicamente 2012
Published: January 13th 2012
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