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Visioni e politiche del territorio
Per una nuova alleanza tra urbano e rurale
a cura di Paola Bonora
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La metro-montagna: una città al futuroGiuseppe Dematteis
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Abstract
This essay suggests a regeneration strategy for mountain areas, putting them into a “different” urban dimension in terms of ways of life and development. Mountains have been left on the sidelines of the process of urbanisation and they have lost their cultural, economic and environmental characters, marked out in the millennia before industrialization.
A heritage that, as the essay suggests, should be reconquered through interventions directed towards different vocational aspects, in which institutions, groups of interest and citizens are involved in the redefinition of the natural and anthropological characters of the regions.
A noi che stiamo in città, la montagna ha dato e continua a dare molto. Per esempio ad
essa, quelli come me che abitano a Torino, devono i fiumi e lo sfondo delle Alpi che
tanti ci invidiano. Quando apriamo un rubinetto l’acqua che esce viene da falde
sotterranee alimentate dai torrenti alpini; quando camminiamo per le vie del centro
pestiamo chilometri di marciapiedi fatti con le famose pietre di Luserna; le nostre
chiese barocche sono abbellite dai marmi che vengono dalle Alpi e così via.
Le Alpi hanno anche fatto la nostra storia. Se non ci fossero stati i valichi alpini
Torino non sarebbe mai esistita. Se non ci fosse stata l’energia idroelettrica dei
bacini montani, e i tanti immigrati dalle valli non ci sarebbe stato il rapido decollo
industriale delle nostre città tra il XIX e il XX secolo. E si potrebbe continuare un
bel po’ a parlare delle Alpi mentre parliamo di Torino e delle altre città
pedemontane.
Ma c’è anche dell’altro: negli ultimi centocinquant’anni la frequentazione della
montagna ha alimentato l’immaginario, ricreato lo spirito e sovente forgiato il
temperamento di chi vive nelle città, così che noi, “cittadini” pedemontani, non
possiamo non dirci alpini. Solo che lo dimentichiamo facilmente e poco ci curiamo del
destino di quei vasti territori che hanno contribuito alla nostra identità. Insomma non
siamo riconoscenti, se diamo a questa parola il
significato che Niccolò Tommaseo le attribuisce nel Dizionario
dei sinonimi [par. 2455]: “un trattare l’oggetto stesso in modo da dimostrare col fatto che
da noi si riconosce il pregio ch’è in esso”.
Ora io mi chiedo: come le nostre città hanno trattato e trattano la montagna? Con
quali comportamenti di fatto hanno riconosciuto e
riconoscono il suo pregio?
Ad essere sinceri la risposta è: abbiamo riconosciuto i pregi della montagna quando ci
ha fatto comodo sfruttarli, con la conseguenza che lo sviluppo demografico ed economico
dell’avampaese ha prodotto lo spopolamento, la crisi delle culture locali della montagna
e il suo ridursi a spazio della nostra ricreazione e delle nostre seconde case. Anche se
tutto ciò non è stato per intenzione né per colpa di nessuno in particolare, certo è che
i territori montani, da vivi che erano, stanno oggi morendo sotto i nostri occhi. E con
loro muore un capitale di conoscenze, di tradizioni vive, un patrimonio di culture e di
paesaggi, un presidio umano che nei secoli ha addomesticato, reso produttiva e tenuto a
freno una natura superba e minacciosa. Quali emozioni e quali stimoli culturali potrà
ancora offrirci lo spettacolo triste dell’abbandono e dell’inselvatichimento? Quanto ci
costeranno – in termini di spesa pubblica per proteggerci da frane, valanghe, alluvioni
e incendi – le risorse idriche e forestali ancora ottenibili da questi territori
desertificati?
Certo quelle parti marginali dello spazio alpino che erano state conquistate
all’agricoltura per fame e per disperazione dovranno tornare alla natura, ma sarà
comunque una natura che andrà governata. La maggior parte del territorio montano può
continuare invece a ospitare insediamenti e attività produttive. Può essere il
laboratorio dove sperimentare modelli di abitare, capaci di rispondere alla crescente
domanda di un vivere diverso, meno individualista, più attratto dall’“economia della
felicità” che non da quella dell’accumulazione e dei consumi. Di fronte a questa bella
sfida, pensare – come molti fanno in nome di una fatalità “economica” – a una pura e
semplice rinaturalizzazione delle terre alte mi pare un modo comodo per sfuggire alle
nostre responsabilità, sottovalutando l’enorme perdita di risorse che ciò comporterebbe.
Significa ignorare per ignavia i vantaggi e le opportunità offerte a tutto il paese da
una possibile rivitalizzazione delle società e dei territori montani.
Chi dalla montagna ha ricevuto e continua a ricevere doni preziosi deve sapere che non
resta più molto tempo per questo ricupero. Dopo che sarà consumato l’abbandono totale,
il dissolvimento delle comunità locali e della loro cultura, la perdita delle tradizioni
e dei saperi contestuali, l’eventuale ricolonizzazione di questo deserto dovrà ripartire
da zero. Non potrà più disporre del patrimonio vivo che le società locali hanno
accumulato nei secoli, necessario per ristabilire quel rapporto con l’ambiente naturale
che ci fa ammirare e amare le montagne. Dunque l’annoso problema degli squilibri tra
società urbane e società montanare non può essere risolto lasciando semplicemente che
queste ultime scompaiano per poi rinaturalizzare o, chissà, ricolonizzare gli spazi così
liberati. Dobbiamo, fin che siamo in tempo, cercare altre soluzioni meno distruttive di
capitale naturale, umano, sociale, culturale e istituzionale.
Dopo questo sfogo un po’ retorico, anche se sincero, passo a parlare di quali possano
essere queste soluzioni per poi individuarne qualcuna realistica, praticabile fin da
oggi.
Diritto alla città (diversa)
In nome di questo realismo dirò subito che nessuna soluzione può ignorare il fatto che
la nostra è una civiltà urbana. A ben vedere lo è da parecchio tempo. Solo che in
passato le componenti urbane erano più diffuse. Mercati, fiere, manifatture e servizi
erano più distribuiti e avevano i loro centri anche nelle vallate montane, dove, almeno
fin all’affermarsi dello stato centrale moderno, erano anche più forti le autonomie
locali e i poteri che esse esprimevano. Come ha giustamente osservato A. Salsa [2007]
tra la seconda metà dell’Ottocento e la prima del Novecento, la modernità, penetrando
nelle sue varie forme nella montagna (a partire da quella alpina occidentale), ha
segnato la fine di un ciclo di colonizzazione e di civilizzazione iniziato nell’alto
medioevo. Ha avviato la distruzione delle culture tradizionali, eliminando le basi
economiche e sociali su cui esse si fondavano da almeno un millennio. Ma non le ha
sostituite con una nuova cultura coerente con i contesti montani. Si è limitata a
colonizzare poche parti di essi con la cultura urbano-industriale delle pianure,
lasciando che tutto il resto si spopolasse.
Di conseguenza un po’ alla volta la città si è ritirata dalla montagna. Questo
riflusso è stato quasi totale in regioni come il Piemonte, il Friuli e molte regioni
appenniniche, in cui le valli sono brevi. Qui le funzioni urbane prima si sono
trasferite nelle città minori poste lungo il margine montano, per poi concentrarsi
sempre più nelle metropoli regionali. Ancora a metà del secolo scorso erano numerosi i
centri interni, sedi di importanti mercati, della pretura e di altri servizi di un certo
livello, mentre oggi larghe zone della montagna più interna sono ormai prive anche dei
servizi più elementari.
Mentre negli anni ’60 e ’70 del secolo scorso le classi urbane subalterne
rivendicavano con qualche successo quello che Henry Lefebvre ha chiamato il “diritto
alla città”, negli stessi anni le popolazioni montane questo diritto fondamentale lo
andavano perdendo nell’indifferenza generale.
Forse non è per caso che nel titolo di questo fascicolo l’urbano venga prima del
rurale, perché quello che oggi manca di più alla montagna è la città.
Ovviamente bisogna intenderci su che cosa sia città. Non certo i grandi agglomerati di
edifici e di infrastrutture, ma piuttosto la civitas , cioè quell’insieme di legami sociali, di funzioni, di servizi e di istituzioni capaci
di offrire ai cittadini – ovunque risiedano – i vantaggi di una vita civile. E’ noto che
tali condizioni si possono avere solo in territori che presentino una soglia minima di
popolamento. Anche se l’accresciuta mobilità delle persone e delle informazioni hanno
oggi abbassato questa soglia, sta di fatto che ad esempio i luoghi d’incontro dei
giovani, i servizi per gli anziani, la necessaria alternanza degli amministratori
pubblici nelle cariche elettive e altre cose ancora, tra cui non ultime le opportunità
di lavoro, non si trovano facilmente nei tanti territori a bassa densità demografica
della nostra montagna interna. Di qui un disagio esistenziale e sociale che deriva
appunto dalla difficoltà di fruire localmente dell’ “effetto città”.
Mentre in queste zone la città (intesa come civitas) si è ritirata, altrove – nelle basse valli, specie in vicinanza
delle metropoli, e nei comprensori sciistici – la città è invece penetrata come urbs, cioè con le sue strutture fisiche: le
periferie dormitori, i condomini di seconde case e le infrastrutture connesse. Ciò ha
permesso di raggiungere in certi comuni buone densità abitative, anche se questi
addensamenti umani – permanenti o stagionali – rispondono per ora più al modello della
“folla solitaria” della metropoli che non a quello della civitas. Tuttavia questa urbanizzazione esogena, se opportunamente
governata, non è stata del tutto negativa. Perché ha consentito di mantenere e attrarre
servizi e occupazione. In prospettiva potrebbe anch’essa essere indirizzata al fine di
sperimentare nuovi modelli di insediamento, capaci di unire i vantaggi dell’ambiente
alpino con quelli della città.
Credo dunque che la montagna, pur mantenendo e rivendicando la sua diversità, debba
anche rivendicare il suo diritto ad essere città, debba cioè aspirare ad offrire ai suoi
abitanti i vantaggi e le opportunità di cui gode chi vive in città. In più, facendo leva
sul differenziale positivo del suo ambiente naturale e culturale può proporsi come un
modo diverso di essere città, aprendo prospettive nuove e vantaggiose non solo per i
suoi abitanti, ma anche per le popolazioni urbane della pianura che desiderano vivere in
una città diversa. Si tratta di sperimentare un modello competitivo non tanto o non solo
sotto l’aspetto economico, ma anche e soprattutto sotto quello ecologico, culturale,
politico-sociale e istituzionale. Aspirare cioè a creare ambienti di vita e di lavoro
con qualità e opportunità pari o superiori a quelle dell’avampaese urbanizzato. In altre
parole lasciarsi alle spalle una modernità distruttiva, ormai in crisi ovunque, prendere
quello di buono che essa ci lascia e sperimentare nuovi modi di vivere meta-moderni (non dico post-moderni perché sarei
sicuramente frainteso).
Mi rendo conto che questo ritorno della città nelle Alpi, anche se si tratta di una città diversa, è un cammino non facile da
percorrere, perché comporta un conflitto permanente tra riproduzione identitaria e
omologazione, tra il radicamento ai luoghi e la mobilità dei flussi, tra la chiusura nel
proprio specifico e l’apertura verso l’altro, tra valori non negoziabili e negoziabili.
In particolare si può obiettare che questa nuova urbanizzazione della montagna, per
diversa che sia, comporta comunque trasformazioni dell’ambiente e del paesaggio. Ma
teniamo presente che – come dice l’etimologia della parola – esiste un “ambiente” solo
se c’è qualcuno che lo abita. Quindi il vero problema non è quello dell’ambiente, ma
della sua vivibilità; non sono le trasformazioni che ci devono allarmare, ma i modi con
cui avvengono.
Inoltre, continuando lo sfruttamento esogeno e l’abbandono degli ultimi decenni, si
avranno impatti ben più devastanti, non solo sulle popolazioni e sulle culture locali
residue, ma sull’ambiente stesso in termini di squilibri idrogeologici e di riduzione
della varietà biologica e paesaggistica. Infine un’alternativa puramente
conservazionista, oltre che illusoria, comporterebbe l’innaturale arresto di un processo
millenario di trasformazione e artificializzazione dell’ambiente alpino, quello che ha
permesso il formarsi e il riprodursi di un’ identità che oggi forse solo una città
diversa può ancora salvare.
Se il diritto alla città delle popolazioni montane è espressione di realismo, il modo
di ottenerlo con l’idea della città diversa può
sembrare un’utopia. E certamente in parte lo è. Ma credo che questa componente
utopistica sia necessaria per mettere in moto un cambiamento auspicabile e realizzabile.
Come? Che cosa si può ottenere da una possibile azione convergente di montagna e di
città? Questa volta metto prima la montagna, perché è anzitutto la montagna che deve
trasformarsi e ciò può avvenire solo con la volontà e la mediazione consapevole dei suoi
abitanti e delle istituzioni locali che li rappresentano. Provo dunque ad elencare,
senza pretesa di completezza, alcune cose che possono fare Comuni, Comunità montane,
GAL, scuole, parrocchie, musei, ecomusei e le altre istituzioni e associazioni
locali.
Là dove il capitale umano, il tessuto sociale ed
economico va rafforzato, invertendo la tendenza all’abbandono e allo spopolamento, le
istituzioni locali devono anzitutto mettersi insieme tra loro e con altri soggetti
locali (comuni cittadini, proprietari, imprese, associazioni non profit, etc.) per
ragionare sulle risorse, “vocazioni” e potenzialità su cui far leva per la rinascita del
loro territorio. La costruzione di questo quadro delle risorse territoriali e della loro
possibile destinazione deve comprendere i diversi punti di vista, in origine sovente
conflittuali, fin a dar luogo a una visione condivisa, integrata e sinergica, di ciò che
sarà destinato alla qualità della vita locale e di ciò che servirà per lo sviluppo
economico. Integrato e sinergico significa che occorre una visione multisettoriale in
cui ad esempio il turismo si leghi alle manifestazioni culturali, all’agricoltura e
all’artigianato, questi all’uso delle biomasse e dell’acqua, alla filiera del legno e
così via.
La rete locale degli attori locali pubblici e privati deve poi sapersi mettere in
contatto con quei soggetti esterni che possono essere interessati a investire
conoscenze, capacità e risorse finanziarie per la rinascita locale. Non solo Provincia e
Regione, ma anche altri attori come le università, le camere di commercio, le banche e
le fondazioni bancarie, le imprese e, non ultimi, i semplici cittadini in quanto
potenziali nuovi abitanti. Queste strategie possono essere formalizzate o non in
documenti come piani e programmi, l’importante è che vengano messe in atto facendo
squadra a livello locale, dove per locale si devono intendere di regola degli aggregati
intercomunali. In questo le Comunità montane e le Unioni di Comuni sono chiamate a
svolgere un ruolo importante.
Premesso che nelle aree montane il territorio
(inteso come ambiente, patrimonio, insediamenti, spazi produttivi e paesaggio) è la
dotazione principale, fare città in montagna significa anzitutto gestire questo bene
comune in modo più consapevole e più responsabile di quanto fin ad oggi si è fatto nelle
città e nella fascia urbanizzata pedemontana.
Se la montagna vuole offrire una vita urbana migliore, deve promuovere interventi che
non distruggano, ma potenzino le condizioni ambientali “competitive” che essa può
offrire. Quindi: forte controllo sui consumi di suolo edificabile e indirizzo della
nuova domanda insediativa verso il recupero e la riqualificazione del patrimonio
immobiliare esistente, in particolare nei centri storici; distribuzione degli
insediamenti in modo da poter attivare servizi di trasporto pubblico efficaci; controllo
della crescita demografica nelle basse valli investite dall’espansione
peri-urbana.
Se a queste esigenze si associano quelle di una progettazione degli edifici più
attenta alle nuove tecnologie, al risparmio energetico, all’estetica dei contesti e dei
paesaggi, occorre prendere coscienza del fatto che per “rifare” la città in montagna
occorre inventare modelli insediativi nuovi, cioè una nuova urbanistica e una nuova
architettura degli edifici e delle infrastrutture entrambe appropriate all’ambiente. E’
un programma ambizioso, ma proprio per questo capace di attrarre le energie di
ricercatori, progettisti, imprese impegnate sul fronte dell’innovazione
tecnologica.
La cultura non è solo fatta di patrimoni e memorie da conservare o da esibire al
turista, ma anche e soprattutto di saperi, abitudini, capacità tecniche e linguistiche,
tradizioni vive e istituzioni specifiche che per riprodursi devono rinnovarsi
continuamente in relazione a stimoli e ad apporti esterni, così come è già avvenuto nel
corso della storia. Se in passato queste ibridazioni erano il risultato di processi
lenti e spontanei, con l’odierna accelerazione del cambiamento esse richiedono di essere
governate e gestite.
Mi limito a due esempi tra i tanti. Uno riguarda la difesa dal rischio idraulico e
idrogeologico. Prima di ricorrere a interventi massicci resi oggi possibili da macchine
e tecniche moderne d’impiego universale – o per lo meno a fianco di essi, quando sono
necessari – occorrerebbe valorizzare le conoscenze e le pratiche di difesa e di
manutenzione locali, frutto di esperienze secolari. Quindi anzitutto ricuperare e
diffondere questo prezioso know how, mobilitando ad
esempio le scuole, poi organizzarsi per tradurlo in pratiche quotidiane e stagionali, in
conoscenze trasferibili nei piani regolatori, forestali etc.
Un altro esempio riguarda i molti territori alpini in cui le comunità locali potranno
sopravvivere solo con l’immissione di forze demografiche nuove provenienti dall’esterno,
e quindi di persone estranee alle tradizioni del posto, portatrici di mutamenti che da
un lato possono arricchire la cultura locale e dall’altro ne possono mettere a rischio
la riproduzione. In questi casi ritengo che sia necessario un impegno degli enti e delle
associazioni locali per creare le condizioni (i luoghi, i momenti etc) per una
ibridazione culturale basata sulla conoscenza reciproca e sulla trasmissione ai nuovi
arrivati di quello che i nativi hanno appreso nella loro interazione plurisecolare con
l’ambiente locale.
Che si tratti di
persone o di imprese, la rinascita della montagna richiede programmi selettivi di
attrazione e misure inclusive di accoglienza. Coerentemente con le visioni strategiche
sopra menzionate, occorre che gli enti locali e le associazioni interessate adottino
pratiche di marketing territoriale, mirate all’attrazione di quelle risorse umane,
imprenditoriali e finanziarie che possono contribuire alla valorizzazione delle risorse
territoriali locali. Per valorizzazione non si deve intendere solo quella economica, ma
anche – e prima di tutto – quella che può accrescere il capitale culturale, cognitivo e
sociale e con esso la qualità dell’ambiente e della vita locale, insomma i valori di una
nuova civitas. Inoltre i nuovi insediati, di
qualunque provenienza essi siano, devono poter contare, per il loro inserimento nella
comunità, su programmi di assistenza ed accompagnamento. Ad esempio “sportelli”
dedicati, nel cui funzionamento l’ente pubblico può essere validamente affiancato da
associazioni locali.
Ci sono molte cose che Regioni, Province e città dell’avampaese possono fare, di loro
iniziativa, per la montagna. Quando questi enti presentano territori totalmente montani
(specie nel caso delle Regioni a statuto speciale) gli effetti positivi di queste
politiche sono evidenti. Più problematico è il caso di regioni e Province solo in parte
montane. Esse dovrebbero anzitutto partire dal riconoscimento del valore della montagna
come ambiente umano e naturale diverso, nel senso che
possiede qualcosa di prezioso che altri ambienti non hanno. Nel normale esercizio dei
loro compiti istituzionali questi enti territoriali dovrebbero tener conto di questa
diversità e non trattare le terre alte come il resto del territorio. Lo stesso discorso
ovviamente andrebbe fatto per lo Stato italiano e per l’Unione europea.
Qui mi limiterò a ricordare, a titolo d’esempio, alcuni provvedimenti di carattere
generale o specifico che potrebbero aiutare molto la rinascita della montagna. Uno, già
adottato in alcune regioni, è la promozione e il sostegno dell’intercomunalità, specie
per quanto riguarda il coordinamento dei piani urbanistici comunali. Come ho detto
prima, è una condizione essenziale per un governo efficace dei territori e quindi
dovrebbe essere resa obbligatoria, almeno per quanto riguarda le decisioni di tipo
strategico-strutturale che non possono dipendere solo dalle scelte del singolo comune,
quando queste sono contrarie agli interessi generali di un territorio più vasto.
Un'altra consiste nel fornire alle Comunità montane e alle aggregazioni volontarie di
comuni i mezzi tecnici e finanziari necessari per operare come agenzie di sviluppo.
Questa ad esempio in Piemonte è stata una buona idea, avanzata per giustificare la
recente riorganizzazione delle Comunità montane, ma che poi è rimasta lettera morta.
Altre azioni riguardano l’infrastrutturazione dei territori montani, per accrescere
l’accessibilità al loro interno e alle città dell’avampaese, fornitrici di servizi. In
particolare gli ostacoli morfologici e climatici all’accessibilità e alla mobilità
interna richiedono un uso particolarmente diffuso, intenso e affidabile delle tecniche
tele-informatiche (ICT) nel campo dei teleservizi, del telelavoro e dell’e-government.
Perciò la banda larga si presenta come uno dei fattori più importanti per il
re-insediamento di famiglie e imprese.
Un problema di difficile soluzione, che qui mi limito a segnalare, è quello della
scarsa rappresentanza politica della montagna negli organi elettivi provinciali e
soprattutto regionali. Questa, si dice, è la “naturale” conseguenza del fatto che gli
elettori sono pochi. Quello che tuttavia mi pare poco naturale è che abbia così scarsa
voce in capitolo chi – direttamente o indirettamente attraverso i propri enti locali –
presidia e amministra il 35% del territorio nazionale. E si potrebbe dire circa il 50%,
se aggiungiamo le aree collinari più marginali, che presentano problemi analoghi. Questa
contraddizione spiega un certo “naturale” disinteresse per i reali problemi della
montagna da parte degli enti territoriali di livello intermedio.
C’è poi una responsabilità specifica delle città che si distribuiscono lungo il
margine delle aree alpine e appenniniche al cui interno non ci sono città dotate di
sufficiente autonomia funzionale. In questi casi, molto diffusi, le “città della
montagna” sono quelle sui bordi. Le Amministrazioni pubbliche, le istituzioni e
associazioni, gli operatori privati e in generale i cittadini di queste città – alcune
anche grandi, come Torino e Bologna – dovrebbero essere consapevoli del fatto che la
sopravvivenza e l’auspicata rinascita dell’entroterra montano di ognuna di esse dipende
in buona parte da loro. Si tratta oltretutto, come ho già ricordato, di un debito di
riconoscenza, perché sono queste città ad aver beneficiato e a beneficiare tuttora
maggiormente delle risorse naturali e umane delle montagne.
Ad esempio a Torino questo problema era stato affrontato in preparazione dei Giochi
olimpici invernali del 2006 con il progetto “Torino città delle Alpi”. Esso si proponeva
di elaborare uno scenario “dell’integrazione tra l’economia e la cultura “montana” e
quella “urbana”, basata sulla complementarietà dei rispettivi vantaggi competitivi,
sulla reciprocità dei flussi di scambio, sulla valorizzazione delle economie di
diversità” [Bontempi 2006, 8].Purtroppo, superata la fase di negoziazione tra Torino e
alcuni territori montani per ripartire gli investimenti e i vantaggi attesi dai Giochi,
le parole d’ordine del progetto (complementarietà, reciprocità, diversità etc) sono
state dimenticate.
Credo che un primo motivo di questo fallimento derivi da un errore d’impostazione,
quello di separare troppo – e quasi contrapporre – la montagna alla città. Diverso
sarebbe stato immaginare una loro possibile convergenza in un'unica realtà urbana,
pensando che la montagna possa e debba farsi anche lei città, nel senso che ho sopra
ricordato. A ben vedere questo è ciò che in fondo desiderano i suoi abitanti, per cui
un’urbanizzazione, rispettosa delle identità ambientali e culturali locali, potrebbe
essere il laboratorio di modi di vita capaci di anticipare il futuro, di rispondere a
bisogni emergenti sempre più diffusi. In breve: fare in modo che montagna e città
possano diventare la stessa cosa per quanto riguarda la civitas, ma con una netta differenza (a vantaggio della montagna) per
quanto riguarda l’urbs.
Un secondo motivo del fallimento è stato, a mio avviso, che non si è messo in atto
nessuno strumento organizzativo per portare avanti un programma che ha tempi lunghi di
attuazione. Per rendere credibile l’ipotesi che la montagna possa essere la nuova città
non basta affermare che risponde a un desiderio – e persino a un bisogno – di chi già ci
vive e lavora e di chi vorrebbe andarci a stare. Come ho cercato di mostrare con i pochi
esempi che ho fatto, si tratta di un problema anzitutto politico, nel senso che non lo
si risolve senza una volontà, un impegno di energie e risorse e un sostegno da parte dei
governi locali e regionali.
Ma come convincere i nostri politici e i nostri amministratori pubblici? Dire che
basta convincere i nostri concittadini in quanto loro elettori è solo un modo
politicamente corretto di spostare a valle il problema. Ma qui la retorica non serve.
Per portare avanti questa nuova alleanza occorre individuare i soggetti pubblici e
privati, individuali e collettivi che hanno interessi, conoscenze, capacità e la voglia
di cooperare a progetti di rinascita urbana dei sistemi locali montani e di metterli
attorno a un tavolo permanente (reale o virtuale), dove ciascuno di essi possa dare il
proprio contributo alla formulazione e alla realizzazione di un progetto collettivo.
Dev’essere questa una rete piè-montana nel senso di
comprendere chi vive e opera nei territori montani e chi abita e opera normalmente fuori
di essi – in particolare nelle città – ed abbia competenze e interesse a cooperare su un
piano di reciprocità con i primi. Va detto infine che, se è vero che la spinta verso la
costruzione di questo attore collettivo deve venire dal basso, essa richiede non solo un
vago riconoscimento istituzionale, ma un coordinamento autorevole, di cui si faccia
carico un ente pubblico territoriale.
Bontempi 2006, Introduzione, in Comitato per l’organizzazione dei XX Giochi olimpici invernali
2006.
Comitato per l’organizzazione dei XX Giochi olimpici invernali 2006, Torino, Città delle Alpi.
Salsa A. 2007, Il tramonto delle identità tradizionali.
Spaesamento e disagio esistenziale nelle Alpi, Scaramagno (TO): Priuli
& Verlucca.
Tommaseo N., Dizionario dei sinonimi.
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DOI 10.1473/quadterr02
Storicamente 2012
Published: January 13th 2012
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