«Home sweet home»: l’irresistibile fascino della villetta in proprietà
Negli Stati Uniti, durante il periodo della Guerra Fredda, William Jaird Levitt, il
costruttore che per primo applicò il modello fordista alla costruzione seriale di
abitazioni unifamiliari a basso costo, coniò uno slogan pubblicitario in piena sintonia
con i tempi e altamente persuasivo: «No man who owns a house and
a lot can be a Communist».
Veniva così tradotto in un progetto di ingegneria socio-territoriale il sogno
americano della abitazione unifamiliare a contatto con la natura. Il risultato finale
sarebbero stati sterminati e monotoni quartieri di casette, localizzati in aree di
frangia metropolitana sempre più esterne, lontani dalla città densa considerata a torto
o a ragione pericolosa, e socialmente omogenei. Ma il modello era già stato sperimentato
all’uscita dalla Grande Depressione, sia pure non con l’ampiezza, la serialità e la
dispersività che si assoceranno alla formidabile tecnologia costituita dalla automobile;
attraverso le politiche federali di prestiti a basso interesse per l’acquisto della casa.
Nel corso del tempo, questo idillio conservatore e antiurbano è stato più volte
riproposto, sia pure con riferimenti ideologici meno perentori: in anni recenti da
George W. Bush [2004], sostenitore di «an ownership society in
this country, where more Americans than ever will be able to open up their door
where they live and say, ‘welcome to my house, welcome to my piece of
property».
Anche in Europa lo slogan ha avuto un certo successo, sia pure più tardivo,
soprattutto in alcuni paesi; e non è un caso che in questi paesi la quota del patrimonio
abitativo in proprietà sia elevata: ad esempio in Francia e in Italia. In Francia, la
parola d’ordine «tous propriétaires» fu lanciata a
partire dalla metà degli anni ’70 sotto la presidenza di Giscard d’Estaing cui spetta la
responsabilità di aver drasticamente tagliato gli investimenti per abitazioni a fitto
calmierato e orientato la domanda e l’offerta per i ceti medi in direzione della casa
unifamiliare in proprietà. Questa strategia,
mai realmente abbandonata, ha certamente condizionato in maniera rilevante i gusti e gli
stili abitativi della popolazione a reddito medio/basso, incentivando la proliferazione
dei quartieri di villette localizzati nelle frange metropolitane più esterne e
promuovendo un modello abitativo «neo-villageois, patrimonial et
familial» [Bourdieu 2004]. Una preferenza che è ritornata prepotentemente
alla ribalta nel 2007 quando l’ultraliberista Nicholas Sarkozy la rispolverò
(arricchendola dello slogan «mon chez moi»)
proponendo prestiti a tasso zero come risposta alla bassa qualità di molto patrimonio
abitativo delle città francesi.
In Italia, il modello della casa unifamiliare dispersa, oltre che ambiguamente
legittimato dal regime fascista periodicamente oscillante fra modernità e ruralismo, fra
urbanizzazione e ‘disurbanamento’ [Gibelli 2005], affonda le radici in una strategia
anche formalmente simile a quella statunitense, oltre che basata sulla messa in sicurezza del risparmio familiare nel
bene casa; ma, in anni recenti, certamente lo slogan leghista-berlusconiano «padroni in
casa propria» e la radicale deregolamentazione urbanistica che lo ha accompagnato hanno
determinato una decisa accelerazione della tendenza al consumo di suolo. É dunque
possibile rileggere in un’ottica di ‘ingegneria sociale’ anche le vicende della
Villettopoli italiana e individuare nel modello della dispersione abitativa la
realizzazione di strategie che privilegiano il radicamento locale in opposizione alla
mobilità, l’omogeneità sociale alla eterogeneità, l’individualismo alla solidarietà, la
proprietà all’uso.
Non è compito di queste note analizzare i drammatici effetti di doppia velocità
sociale/territoriale che queste strategie relative al mercato abitativo, che hanno
sempre più assottigliato l’offerta di case in affitto, hanno generato; ma piuttosto riflettere sugli effetti in termini di
consumo di suolo e sui rimedi possibili.
Il consumo di suolo e i suoi costi pubblici e
collettivi
Il problema dell’elevato consumo di suolo è diventato cruciale anche nei contesti
metropolitani europei: è l’esito, da alcuni anni indagato con crescente preoccupazione,
di un modello insediativo che ha raggiunto una precisa configurazione già negli anni ’80
dello scorso secolo, grazie alla affermazione di nuovi stili di vita e di mobilità, e a
tendenze localizzative delle attività economiche che hanno privilegiato territori
periurbani sempre più dilatati; ciò grazie anche a una deregolamentazione urbanistica
che ha goduto un po’ ovunque per tutti gli anni ’80/’90 di un discreto successo, sia
pure praticando percorsi assai diversi e a differente livello di perentorietà nella
‘privatizzazione’ delle politiche urbane.
Lo sprawl (una urbanizzazione ‘sguaiatamente
sdraiata’ sul territorio) [Gibelli e Salzano 2006] viene comunque da lontano. Come
abbiamo accennato più sopra, ha avuto la sua manifestazione più chiara e di più lunga
durata nel modello suburbano realizzato negli Stati Uniti, sostenuto e legittimato da
una precisa combinazione di fattori: le preferenze abitative individuali (anche indotte
da precise strategie di marketing e comunicazione, su cui concorda quasi tutta la
letteratura di settore), gli incentivi federali all’accesso alla casa in proprietà e il
finanziamento sempre federale del sistema autostradale. Si tratta di un modello che oggi
viene messo in discussione, non solo dal milieu culturale americano, ma anche da molte amministrazioni locali e statali e da numerose metropolitan coalitions (associazioni volontarie
di comuni appartenenti a una regione metropolitana) costituitesi negli ultimi anni, a
causa della crescente dipendenza dal petrolio importato e dei crescenti problemi
ambientali e di congestione trasportistica.
Ma ‘inaspettatamente’ il sogno americano è diventato prodotto di esportazione
culturale, sia pure in fasi successive e con marcate differenze, anche in Europa. Lo
testimonia il geografo francese Pierre Merlin che nel 2009 pubblica un volume dal
significativo titolo “L’esodo urbano”. Il termine
‘esodo’ sottolinea che ciò che è avvenuto in Francia negli ultimi decenni rappresenta
per l’autore una sorta di fuga epocale dalla città, simile, anche se specularmente
opposta, a ciò che avvenne quando l’industrializzazione determinò il grande esodo
rurale. Alcuni dati utilizzati da Merlin – in Francia, a differenza dell’Italia, si
dispone di un registro nazionale dei consumi di suolo aggiornato annualmente –
corroborano la sua tesi: 807.000 ettari urbanizzati fra il 1992 e il 2004 (184 ettari al
giorno). E sono le abitazioni unifamiliari (410.000 ettari contro 11.000 ettari
destinati a edilizia condominiale) e le infrastrutture stradali (148.000 ettari) i
maggiori consumatori di territorio aperto. Il dato ancora più preoccupante è il
seguente: nel periodo analizzato, l’80% del territorio urbanizzato per realizzare la
villettopoli francese era precedentemente dedicato alla produzione agricola.
Il caso della Francia, un paese tradizionalmente ‘ben pianificato’, ci conferma dunque
che la dispersione insediativa ha una grande forza propulsiva e che si tratta di un
fenomeno complesso le cui cause sono molteplici: dipende dalla crisi e dai costi
crescenti delle città dense; è alimentato dalla crisi fiscale dei comuni che tendono a
fare cassa con gli oneri di urbanizzazione; è certamente anche il prodotto di preferenze
individuali di famiglie e di imprese, anche se in Italia (così come in Francia) molti
dei fenomeni indesiderabili di suburbanizzazione residenziale che vediamo all’opera sono
soprattutto push (dettati dalle tensioni del mercato
abitativo nelle aree urbane centrali: un mercato troppo costoso per molti), più che pull (dettati cioè dall’irresistibile attrazione
per l’abitare ‘a contatto con la natura’ che, come nel caso americano, viene
probabilmente e ampiamente indotta dal contesto culturale e consumistico); è ovviamente
assecondata dagli interessi immobiliari. Ma anche la pianificazione urbanistica e
territoriale ha svolto (e può svolgere) un ruolo importantissimo poiché, come ha
sottolineato Pierre Bourdieu [2004], la dispersione insediativa è anche l’esito di una
costruzione sociale a cui lo Stato e le politiche pubbliche di accesso al credito per
l’acquisto dell’abitazione, inaugurate in Francia a partire dalla metà degli anni ’70,
hanno contribuito in maniera determinante.
Il problema del consumo di suolo ha assunto una grande rilevanza problematica anche in
Germania, un paese in cui soltanto il 40% del patrimonio abitativo è in proprietà. A
fronte di un consumo rilevato a livello nazionale di 120 ha al giorno, nel 1996 Angela
Merkel, allora ministro dell’ambiente del governo Kohl, propose al Governo Federale di
approvare una direttiva per ridurre tale consumo a 30 ettari al giorno entro il 2015;
approvata dal Parlamento, la direttiva fu immediatamente trasmessa ai Länder e alle
amministrazioni locali, con l’invito a definire le strategie e le politiche più idonee
per raggiungere l’obiettivo. E dati recenti mostrano che in Germania sono sulla buona
strada.
In Italia il problema del consumo di suolo è a dir poco drammatico, anche se sinora
sostanzialmente ignorato. Negli ultimi decenni, il Belpaese è tra quelli che hanno
consumato più risorse territoriali per dare agio a una urbanizzazione ‘inefficiente’,
estesissima e sparpagliata; e a insediamenti non pianificati e privi di qualità.
L’equilibrio tra contesto urbano e rurale si era già spezzato da lungo tempo, ma è
soprattutto in anni recenti che il consumo di suolo non solo ha registrato una ulteriore
accelerazione, ma si è guadagnato anche una discreta, e assai criticabile,
legittimazione culturale, grazie al successo di alcune metafore oscure e insondabili,
dalla “campagna urbanizzata” alla “città infinita”. Un ossimoro la prima; un concetto
confuso e scientificamente infondato la seconda, che parte da una fotografia della
banale dispersione insediativa per assegnarle la connotazione di ‘città’, rischiando
oltretutto di legittimare, in maniera neutrale, la attrazione fatale per lo ‘sviluppo’
(prevalentemente di contenitori vuoti e infrastrutture che li collegano) inteso come
primario obiettivo di una politica di ‘governo’ del territorio.
Abbiamo poi uno svantaggio rispetto ad altri paesi avanzati: non disponiamo a
tutt’oggi di un registro nazionale dei consumi di suolo. Un utilissimo studio recente di
Paolo Berdini [2009] relativo all’intervallo temporale 1996/2005, effettuato utilizzando
i dati ISTAT sulle volumetrie realizzate a seguito del rilascio di concessioni edilizie
per costruzioni residenziali e per manufatti produttivi e stimando il consumo di suolo
per grandi opere infrastrutturali, ha messo in
luce una situazione fuori controllo, non solo in termini qualitativi, ma anche
quantitativi. Fra il 1995 e il 2006 si sarebbero consumati per urbanizzazione 187 ettari
al giorno: una quantità complessiva di spazi aperti pari all’estensione dell’Umbria.
E l’Italia risulta aver consumato in termini relativi assai più risorse territoriali
di Francia e Germania. Se infatti dividiamo il consumo totale di suolo per il totale
della popolazione insediata, i risultati sono molto più eloquenti: in Germania nel 1996
si sono consumati 1,4 ettari al giorno procapite; in Francia, fra il 1992 e il 2004, 2,8
ettari al giorno procapite; in Italia, fra il 1995 e il 2006, 3,1 ettari al giorno pro
capite.
Oggi, analizzando gli esiti della dispersione urbana, varie ricerche in corso
evidenziano con crescente accuratezza gli elevatissimi costi pubblici cioè i costi che
le amministrazioni locali degli estesi hinterland metropolitani devono sostenere per
fornire servizi e infrastrutture per insediamenti sempre più sparpagliati; ma anche i
costi sostenuti dalla città centrale per realizzare e gestire servizi di cui beneficiano
in maniera parassitaria i ‘suburbaniti’ i quali, nei loro quartieri segregati di
villette, trovano soltanto servizi banali e ben poche occasioni di interazione e di
svago. E inoltre evidenziano gli elevatissimi costi collettivi: cioè tutti i costi che
non incidono direttamente sul singolo cittadino e sul bilancio privato, e che
l’economista definirebbe costi sociali o esternalità tecnologiche negative: i costi
ambientali ed economici di una mobilità irreversibilmente centrata sul trasporto su
gomma, la perdita altrettanto irreversibile di prezioso suolo agricolo, la crescente
impermeabilizzazione dei suoli, la frammentazione degli habitat naturali e delle reti
ambientali. Molti altri se ne potrebbero aggiungere: ad esempio, la crescente
banalizzazione e omologazione del paesaggio rurale, ma anche di quello urbano perché
l’espulsione di gruppi sociali (per lo più deboli e di giovane età) produce un
impoverimento della città che sempre più tende a ospitare ceti e gruppi sociali ed
etnici molto polarizzati, e prevalentemente funzioni di direzione, di loisir e di ‘effetto vetrina’ [Gibelli 2010]; e ancora i
rischi di risposta ritardata nelle situazioni di emergenza; la perdita complessiva, in
questi ‘territori sfigurati’, di elementi di urbanità e di socievolezza.
Finalmente anche in Europa disponiamo oggi di buone analisi empiriche sui costi dello sprawl, e anche in Italia si sono fatti progressi
in questa direzione. In particolare, alcuni ricercatori del Politecnico di Milano hanno
effettuato una indagine sui costi dello sprawl nell’area metropolitana milanese [Camagni, Gibelli e Rigamonti 2002] proponendo un metodo che ha dato luogo ad altre
applicazioni su differenti contesti territoriali italiani (in Veneto, Emilia Romagna e
Marche).
E anche l’attenzione dell’Unione Europea è cresciuta nel tempo. Complice un percorso
culturale decisamente orientato alla sostenibilità urbana di lungo periodo, e anche una
riflessione più puntuale sui fattori di competitività delle città e dei loro territori
in epoca di globalizzazione, anche l’UE ha cominciato a preoccuparsi per la dispersione
insediativa. Un recente Rapporto dell’“EEA (Agenzia Europea dell’Ambiente)” [2006] reca
un titolo significativo: «Lo sprawl urbano in Europa:
una sfida ignorata». Nel Rapporto si sottolinea come negli ultimi vent’anni si sia
registrato un consumo di suolo per insediamenti urbani ampiamente superiore al tasso di
crescita demografica (mediamente in un rapporto 3:1) e come la proiezione delle tendenze
prefiguri uno scenario inquietante in termini di effetti globali oltre che locali. Per
quanto riguarda le cause dello sprawl, si sottolinea
ripetutamente il fatto che è ormai provata la stretta relazione tra crescente consumo di
risorse territoriali e deregolamentazione urbanistica, in tutte le varie forme in cui
essa è stata sperimentata nei diversi paesi europei. E, soprattutto, si sottolineano i
rischi connessi alla debolezza della pianificazione di area vasta.
In realtà, alcuni paesi avanzati europei hanno affrontato questa problematica in
maniera più tempestiva del nostro e stanno lavorando, attraverso riforme delle leggi
urbanistiche nazionali, piani di area vasta innovativi, nuovi strumenti di
pianificazione negoziata e progetti locali lungimiranti, per affrontare e governare il
fenomeno. Anche se va da sé che l’alternanza del ciclo politico e l’affermazione di
leadership conservatrici ultraliberiste possono fare segnare il passo alle riforme,
quando non dei veri e propri passi indietro.
Nel nostro paese invece la sfida appare ancora oggi davvero ampiamente
ignorata. In quale direzione ci si sta orientando in altri paesi? Quali politiche, quali piani e
quali progetti per le regioni urbane e per le città si stanno sperimentando?
Contro lo sprawl: politiche,
piani, progetti
Evocherò sinteticamente alcune politiche, strategie e pratiche di pianificazione
spaziale, sia alla scala vasta che alla scala comunale, che si propongono di contenere i
consumi di suolo, e ne evidenzierò i pregi e anche alcuni limiti.
Le prime, di scala vasta, sono riconducibili, a mio avviso, a tre principali modelli:
un modello interdittivo, un modello condizionale e un modello cooperativo e di
corresponsabilizzazione intercomunale.
Le seconde, di scala locale, fanno riferimento a parole d’ordine ormai ampiamente
condivise nel dibattito urbanistico europeo: al modello della ‘città compatta e mista’;
della città ‘inclusiva’, attenta a soddisfare la domanda abitativa di tutti i gruppi
sociali e di reddito; a una pianificazione negoziata sì, ma capace di tutelare i beni
comuni attraverso una regia pubblica che si esplica anche con la definizione di alcuni
principi di base non negoziabili.
3.1. Il modello interdittivo
Una recente esperienza di pianificazione di area vasta di successo ancorata a un
‘modello interdittivo’ si trova oltre oceano, nell’area metropolitana di
Portland/Oregon. Grazie a una legge urbanistica del 1973, molto simile nei contenuti a
una ‘classica’ legge urbanistica europea dell’epoca, fortemente voluta da Tom Mc Call,
allora governatore repubblicano dell’Oregon e ambientalista ante-litteram, le
municipalità, oltre all’obbligo alla predisposizione di un piano generale degli usi del
suolo, sono tenute anche a delimitare il ‘confine urbano’ (Urban
Growth Boundary) entro il quale collocare le previsioni insediative dei
15 anni a venire, per arginare l’anarchica espansione edilizia suburbana, tutelare il
territorio agricolo e le risorse naturali e di paesaggio. Si tratta di una prescrizione
che non interferisce con le autonome decisioni municipali sull’entità della superficie
comunale ancora non urbanizzata da destinare alla trasformazione nel medio periodo, ma
che impegna le amministrazioni locali a comportarsi in maniera più virtuosa,
predisponendo previsioni accurate in materia di incremento demografico e occupazionale e
di conseguente argomentata necessità di consumo di risorse territoriali.
Nella fig. 1 è rappresentato l’Urban Growth Boundary dell’Area Metropolitana di Portland,
l’unica negli Stati Uniti che, grazie agli esiti di un referendum popolare del 1979, si
è costituita in ente di governo metropolitano e, su delega delle municipalità, è
formalmente competente per l'elaborazione di un piano di area vasta e per la
perimetrazione di tale confine. Una volta definito il bordo urbano, il piano di area
vasta sottopone a tutela non negoziabile la green
belt agricola e naturale, addensando le opportunità di urbanizzazione
lungo i nodi delle arterie ad alta accessibilità e in corrispondenza delle stazioni
della metropolitana leggera.
Si tratta di una best practice di controllo della
dispersione insediativa poiché opera alla scala della ‘città effettiva’ e ciò ha
consentito, in un’area metropolitana dell’Ovest che continua a registrare dinamiche di
crescita demografica e occupazionale rilevanti, di porre sotto controllo le ambizioni
espansionistiche delle singole municipalità e dei loro governi locali, affidando le
competenza a un ente di pianificazione intermedio.
3.2. Il modello condizionale
Per quanto riguarda il ‘modello condizionale’, è d’obbligo citare una legge
urbanistica recente, quella francese (legge no. 2000-1208 del 13 dicembre 2000), che
riconfigura i compiti del piano di area vasta (SCOT/Schéma de la
Cohérence Territoriale) introducendo una regola di cauto consumo delle
risorse territoriali periurbane. Si tratta del principe
de contructibilité limitée ormai noto come la “regola
dei 15 km”: una regola semplice che risponde alla logica ‘se…allora’: se i comuni di una
agglomerazione urbana non raggiungono un accordo e non approvano il piano
d’inquadramento territoriale (SCOT), allora tutti quelli situati a meno di 15 km da
centri urbani di almeno 50.000 abitanti o dai litorali, non potranno realizzare
interventi rilevanti di urbanizzazione di nuovi territori di frangia o realizzare grandi
superfici commerciali.
3.3. Un modello di cooperazione e corresponsabilizzazione
intercomunale
Nella cooperazione intercomunale volontaria è ancora la Francia a fare scuola con la
sua lunga tradizione legislativa e il suo modello a ‘geometria variabile’. Si tratta di
una tradizione che risale agli anni ’60 e che si spiega con la necessità di ridurre la
polverizzazione comunale e realizzare economie di scala nella produzione/erogazione di
servizi locali. A partire dagli anni ’80, quando le leggi sul decentramento hanno
consentito ai comuni di decidere in ampia autonomia del proprio destino urbanistico, si
è investito sulla intercomunalità per contenere la crescente dispersione
insediativa.
Una legge approvata nel 1999 (Legge no. 99-586 del
12/07/1999) ha arricchito gli obiettivi affidati alla cooperazione:
realizzare sostenibilità e coesione territoriale; pianificare alla scala pertinente,
quella della ‘città effettiva’ (bassin de vie);
realizzare una vera gouvernance attraverso l’ampio
trasferimento di competenze in materia di pianificazione urbanistica e di settore dai
comuni all’associazione intercomunale; realizzare progetti integrati e, soprattutto,
solidarietà fiscale. Quest’ultima è probabilmente stata l’innovazione più importante,
poiché senza perequazione territoriale è irrealistico proporsi di arginare il consumo di
suolo; di limitare la dipendenza dei comuni da fonti di finanziamento legate allo
sviluppo immobiliare; di migliorare l’efficienza economica e la qualità territoriale, se
si consente la competizione atomistica fra comuni; di attenuare la doppia velocità e la
segregazione sociale.
Con questa legge si è realizzato, attraverso la Taxe
Professionelle Unique, un modello efficiente di perequazione
territoriale: obbligatoria per le maggiori agglomerazioni urbane, opzionale per i
raggruppamenti di piccoli comuni, la TPU trasferisce alle Communautés mediamente il 40% delle entrate fiscali locali. Lo Stato,
per favorire una perequazione territoriale così rilevante, interviene sussidiando i
comuni attraverso un fondo di compensazione proporzionale all’intensità della
cooperazione realizzata a livello intercomunale (DGF: Dotation
Globale de Fonctionnement).
I risultati sono stati assai positivi. Nella fig. 2 è rappresentata la mappa delle
associazioni volontarie intercomunali al febbraio 2011: si può osservare in primo luogo
che pressoché l’intero territorio è coperto da consorzi volontari; inoltre, che la
perequazione territoriale è stata scelta, anche se era opzionale, da una quota assai
rilevante di associazioni di piccoli comuni (Communautés de
Communes à taxe professionnelle unique).
La attuazione della legge ha però evidenziato alcuni limiti: un considerevole aumento
della spesa pubblica; “intercommunalités de
rassemblance”, ossia accordi intercomunali spesso territorialmente
angusti rispetto al reale bacino delle relazioni quotidiane, ma socialmente e
politicamente omogenei; territori ad alto rischio di ‘malthusianismo fondiario’ poiché
le Communautés caratterizzate da buon livello sociale
e ambientale tendono a congelare ogni opportunità di nuove urbanizzazioni, soprattutto
se destinate a funzioni e gruppi deboli [Charmes 2007; Gibelli 2008].
Due i principali rimedi introdotti per attenuare tali contraddizioni. In primo luogo,
il crescente ricorso a una “démarche inter-SCOT”
finalizzata a rendere compatibili i piani di inquadramento territoriale di associazioni
intercomunali periurbane contigue, allo scopo di raggiungere accordi dal basso su un
piano di area davvero vasta e condiviso.
In secondo luogo, nel 2010 è stata approvata una riforma complessiva del sistema
amministrativo (Loi de réforme des collectivités
territoriales 2010-1563) destinata a modificare profondamente i rapporti
fra i diversi livelli amministrativi e la finanza locale. Non è possibile qui
analizzarla in dettaglio, data la sua complessità; inoltre si tratta di una legge molto
controversa, votata con uno scarto esiguo, che comunque non avrà immediata applicazione
e potrebbe pertanto essere drasticamente modificata dopo le prossime elezioni
presidenziali del 2012. Per le associazioni intercomunali vi sono comunque aspetti
positivi: dopo anni di tentativi riformatori falliti, essa introduce l’elezione a
suffragio universale dei governi intercomunali, garantendo così maggiore legittimazione
democratica e minore interferenza da parte dei singoli governi municipali nei confronti
delle strategie di settore e dei piani di area vasta formulati dalle Communautés.
Se i modelli sopra evocati riguardano la pianificazione di area vasta, vediamo ora,
sempre con alcuni schematici esempi, alcune buone pratiche alla scala comunale dedicate
a contenere i consumi di suolo e a tutelare gli spazi aperti periurbani, agricoli e
naturali.
3.4 Progettare con cura e compattezza il fronte
urbano
Un esempio di scuola, ormai ‘pionieristico’ è rappresentato dalla politica olandese
delle aree VINEX.
Nel 1993 il parlamento olandese approva il Quarto documento strategico nazionale di
inquadramento delle politiche spaziali (Fourth Report on Spatial
Planning Extra) che individua 25 urban regions: si tratta di aree a tutti gli effetti
metropolitane ma prive di competenze amministrative e di pianificazione, nelle quali
dovrà pertanto essere sperimentato un modello di governance multilivello – attraverso accordi stato/province/municipalità
– per realizzare progetti di ‘compattamento’ del bordo urbano capaci di tutelare gli
spazi aperti di frangia e realizzare espansioni soltanto se in contiguità con il tessuto
consolidato della città.
Tra il 1995 e il 2005 si dispiega il VINEX Period che non verrà comunque abbandonato nelle sue caratteristiche essenziali nei documenti di
inquadramento territoriale successivamente approvati dal governo.
Durante il VINEX Period:
- lo Stato interviene a coprire parte dei costi di acquisizione delle aree;
- lo Stato finanzia la bonifica dei suoli contaminati e i trasporti pubblici su ferro
(nuove stazioni ferroviarie, nuove linee di tram e di metropolitane);
- sei sono i ministeri coinvolti: housing;
pianificazione spaziale e ambiente; trasporti; lavori pubblici e gestione delle acque;
agricoltura, natura e pesca; finanze; interni; affari economici;
- le nuove abitazioni di cui si programma la realizzazione devono essere così
localizzate: 39% nella città consolidata; 61% sul bordo urbano (di cui ¾ definiti con il
sistema di governance multilivello, ¼ affidato alle
decisioni delle urban regions); l’edilizia sociale
deve costituire il 30% del totale del parco alloggi realizzato (con compensazioni
statali per il deficit finanziario eventuale).
Fra il 1995 e il 2004 nelle aree VINEX sono state realizzate 828.145 nuove abitazioni
in quartieri compatti, misti, ben accessibili al trasporto pubblico e immediatamente
adiacenti al tessuto della città consolidata [Boeijenga e Mensink 2008].
Ma il tema della accurata progettazione della linea di confine tra urbano e rurale a
tutela dei territori agricoli e delle aree naturali è diventato centrale anche in molti
altri contesti. Ad esempio, in Francia per contrastare l’étalement urbain sia negli SCOT (piani di area vasta) che nei PLU
(piani urbanistici comunali) viene oggi dedicata una attenzione particolare alle linee
di contatto fra spazi urbani e spazi naturali e agricoli, trattate come limiti
all’urbanizzazione, come spazi di transizione e di valorizzazione reciproca fra città e
natura. Fra i piani più interessanti, tutti approvati nel 2007: il piano per la regione
parigina (SDRIF /Schéma Directeur de l’Ile-de-France)
che ha assunto come decisione non negoziabile la tutela perenne delle aree agricole
esistenti; e gli SCOT di Montpellier e di Strasburgo; in tutt’e tre i casi si sperimenta
una «démarche de front urbain» in cui il progetto
locale assume un ruolo rilevante e rispettoso dell’ambiente naturale.
3.5 Rigenerare i quartieri degradati inserendo funzioni e
servizi di qualità, e migliorando l’inclusione sociale
In questo caso, si tratta di ‘aprire” i quartieri di edilizia economico popolare,
spesso degradati e marginalizzati, a nuove funzioni e nuovi gruppi sociali, contrastando
le tendenze alla dispersione abitativa; e le esperienze sono state molteplici e spesso
di successo. Ma le migliori sono quelle che hanno visto un grande impegno finanziario e
di regia da parte dei governi centrali. A puro titolo di esempio, va citato il francese Plan National de Renovation Urbaine (2004-2013) i
cui obiettivi dichiarati sono stati la diversificazione funzionale per reinserire i
quartieri ghetto nella città consolidata, la demolizione selettiva, la mixité sociale via diversificazione dell’offerta abitativa,
la realizzazione di servizi di qualità sia di quartiere che di rilevanza
urbana/metropolitana, il rilancio del commercio di vicinato, la riqualificazione degli
spazi pubblici.
Con un finanziamento di 14 miliardi di euro, si sono già realizzati 375 progetti in
460 quartieri coinvolgendo 3 milioni di abitanti [ANRU 2010].
3.6 Realizzare un modello equo di pianificazione negoziata a
forte regia pubblica
Vengo ora all’ultimo tema che ritengo cruciale per la nostra riflessione sul controllo
del consumo di suolo: la pianificazione negoziata. La mera deregolazione, l’ossessione
del ‘ritorno al mercato’, dopo la relativa fortuna degli anni ’80 e dei primi anni ’90,
sono state ormai ampiamente criticate e superate in tutte le grandi città dell’Europa; ma in
quale nuova direzione si sta muovendo il partenariato pubblico/privato?
Quali compiti vengono attribuiti al pubblico e quali regole prescrittive vengono
siglate là dove il negoziato è diretto da amministrazioni locali tecnicamente preparate
e legittimate da piani di inquadramento strategico lungimiranti e condivisi?
L’avvio di una nuova stagione di progetti negoziati ad alta regia pubblica si spiega
non soltanto con il fatto che in molti paesi le amministrazioni locali hanno ormai una
tradizione consolidata di partenariato pubblico/privato nella riqualificazione urbana;
ma anche con il fatto che i progetti negoziati sono oggi considerati come l’occasione
per sperimentare procedure decisionali innovative e per realizzare obiettivi
lungimiranti: compattamento insediativo con mixité funzionale ricca; realizzazione di nuovi spazi pubblici, o loro
riqualificazione, non solo nel centro ma anche nelle periferie; lotta alla doppia
velocità urbana; mobilità ecocompatibile; edilizia a emissioni zero, etc.
Un altro aspetto che occorre sottolineare è che, nei casi migliori, il pubblico non
soltanto si garantisce, come è ovvio che dovrebbe essere, la copertura degli interi
costi di urbanizzazione da parte del privato, ma si appropria di un quota elevata
dell’incremento di valore che si realizza attraverso la trasformazione: a tutto
vantaggio della città pubblica.
Siamo dunque nel campo di nuove procedure negoziali costruite sulla base di una
attenta valutazione da parte della amministrazione locale dei ritorni alla collettività
nel processo di trasformazione e valorizzazione delle aree, e sulla base di una capacità
di forte capacità di contrattazione nei confronti dei proprietari delle aree e degli
operatori privati.
Esemplare è il caso di Monaco di Baviera con il suo modello SoBoN (Sozialgerechte Boden Nutzung – Socially equitable land
use): un modello che sta facendo scuola in Germania e che nel 2009 è stato
inserito nella legge urbanistica federale.
Il modello SoBoN, dopo una lunga e in alcune fasi molto tesa contrattazione tra
l’amministrazione locale e le rappresentanze degli interessi privati, è stato approvato
nel 1994. Esso si applica, con modesti margini di flessibilità, a tutti i progetti di
riqualificazione di aree dismesse non di proprietà della municipalità. Se infatti per i
grandi progetti urbani l’amministrazione locale si è orientata all’acquisto delle aree, per la riqualificazione diffusa si
affida invece a un insieme di regole negoziali condivise molto precise e cogenti.
In sintesi: almeno il 40% delle abitazioni realizzate dal privato deve essere di
edilizia sociale o di edilizia ‘modello Monaco’, dedicata cioè a locatari o acquirenti a
reddito medio o medio basso: priorità alle giovani coppie con figli. Ulteriori elementi
prescrittivi riguardano le funzioni insediabili e le quote rispettive, le cessioni
gratuite al comune, i criteri di fattibilità economico-finanziaria, le garanzie di
trasparenza per bandi e procedure di assegnazione.
Si tratta in estrema sintesi di un modello molto virtuoso, poiché premia gli operatori
privati portatori di interessi produttivi (le imprese di costruzione) anziché gli
interessi patrimoniali dei grandi gruppi immobiliari; e perché garantisce alla ‘città
pubblica’ mediamente il 30-33% del valore realizzato attraverso il processo di
trasformazione. Questo dato va confrontato con il caso di Milano in cui, da studi sui
Programmi Integrati di Intervento, è emerso che il ‘vantaggio’ pubblico si aggira al
massimo attorno all’8% del valore ottenuto attraverso la trasformazione [Camagni 2008]
(fig. 3 e fig. 4).
Non mancano successi anche sul fronte del controllo del consumo di suolo. Monaco di
Baviera, nel preoccupato Rapporto sopra citato dell’“EEA (Agenzia Europea
dell’Ambiente)”, viene segnalata come l’unica fra le 24 grandi città analizzate che è
rimasta «eccezionalmente compatta», l’unica in cui «il consumo di suolo per nuove
urbanizzazioni è cresciuto a un ritmo chiaramente inferiore alla crescita demografica».
Che fare, in estrema sintesi, sul fronte della pianificazione territoriale e
urbanistica per contenere i consumi di suolo periurbano e per realizzare una autentica
nuova alleanza tra urbano e rurale? Quali suggerimenti ci possono venire dalle migliori
esperienze internazionali che, pur nelle loro oggettive e inevitabili difficoltà e
contraddizioni, evidenziano consapevolezze e sperimentano riforme e progettualità ben
più robuste di quanto non avvenga nel nostro paese?
In primo luogo, vi è un elemento apparentemente banale, ma in realtà complesso poiché
richiede lungimiranza e coerenza da parte del legislatore nazionale: il controllo del
consumo di suolo può essere realizzato soltanto attraverso leggi integrate e coerenti
sui diversi temi e settori che influiscono sulle dinamiche insediative; i provvedimenti
settoriali hanno spesso scarsa lungimiranza e ancora minore efficacia.
Occorrerebbe poi sperimentare davvero un modello di decisioni, che gli olandesi
definiscono ‘diagonale’, capace di creare dialogo, interazione, integrazione sia
verticale, tra i diversi livelli amministrativi, che orizzontale, tra i diversi
ministeri e assessorati, al di là delle specifiche competenze istituzionali e in una
dimensione di autentica e determinata governance multilivello.
Le amministrazioni locali dovrebbero saper operare in primis in difesa del bene
comune; ma per raggiungere questo obiettivo occorre altresì che si attrezzino per
divenire negoziatori competenti, che acquisiscano professionalità aggiornate in tema di
fattibilità finanziaria dei progetti, che rispondano con efficacia alle tattiche e alle
strategie del privato che opera in una condizione di vantaggio informativo.
Certamente cruciale è anche il tema della trasparenza e del controllo democratico:
occorrerebbe anche nelle città italiane, come avviene nelle città avanzate europee,
predisporre per ogni progetto approvato un certificato pubblico delle rendite e dei
costi [Tocci 2009] e creare le condizioni perché il coinvolgimento dei cittadini sia
reale e non meramente retorico.
Occorrerebbe inoltre garantire che i progetti di riqualificazione e compattamento
urbano una volta approvati non siano più modificabili, e predisporre procedure e
strumenti sanzionatori nel caso che il privato non rispetti gli accordi.
E infine, appare importante il tema della visione condivisa: occorre saper costruire
strategie e progetti di territorio alla scala pertinente, proiettati nel lungo periodo,
che evitino i rischi di insostenibilità associati a una pianificazione incrementale che
inesorabilmente è destinata a consumare preziose e irriproducibili risorse
territoriali.
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