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Visioni e politiche del territorio
Per una nuova alleanza tra urbano e rurale
a cura di Paola Bonora
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Dualismo urbano. Città dei cittadini o città della rendita
Edoardo Salzano
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Abstract
The struggle upon the use of land and its transformations in Italy can be resumed in the antithesis of the title: the city of the rent or the city of the citizens?
The “city of the rent” is the theme of the first part of this paper. It describes today’s prevailing city’s model, its main features and the crucial changes that have taken place in the last decades. In Italy, until the 1970s the extraordinary increase of urban land rent and its seizure by the private owners was considered a burden for the society and the economy, and harmful for the city and its inhabitants. Instead nowadays it is generally considered “a engine for development” to an extent that the transformations of urban and rural areas have been finalized to increase its value. The local powers helped this process and politics has been subordinated to economic interests instead of being directed to the improvement of inhabitants’ living conditions. The consequences of this process, which saw the triumph of land rent, have been dreadful both for the economy and mostly for the city.
In the second part of the article the author affirms that from the urban movements is coming out an alternative model of city: “the city of the citizens” (including those that have not yet the rights of citizenship, as well as migrants and posterity), which emerges from the numerous struggles induced by the contradictions of the “city of the rent”. These fights are directed to contrast the damage to the environment, the reduction of services and common spaces, the price of housing, the continual proliferation of motorways, and the reduction of public transports, and other threats to common goods. Some of the themes and principles of the envisaged "city of citizens" are clearly coming forward from the disputes and are already define in their essential features. The latter comprise a new relationship between town and countryside, between urban and natural which highlight the safeguard and the widespread presence of elements of naturalness; an enlargement and the updating of the allocation of public spaces and collective services; the satisfaction of the need of every inhabitant of housing at a reasonable price and in a suitable location; and the participation of citizens in decision-making processes related to the government of the city and its transformations. Ultimately, from the disputes emerge a new demand of planning of the city and of the territory, seen as a component of a more comprehensive demand of change, which affects all aspects of social life. Therefore, the issues related to the territory are linked to other major social claims that stir Italy: environment, education, and employment.
In the last paragraphs the paper examines the obstacles and limitations that the affirmation of the new model faces, mainly because of the conditions in which the struggles arose. Three are the main limits identified: a segmented and localistic view of problems and diseases, instead of taking a holistic perspective; support to actions generally limited to contrast and protest, while necessary, without making appropriate proposals; the tendency to operate in defense of an identity circumscribed to the local, instead of a commitment to collaborate in building a habitat of which all citizens can feel equal citizens while respecting the differences.
In the work of the "critical society" already emerge attempts to overcoming those limits, like the constitution of "networks" and "coordination" between the various associations, and the teachings coming from the great experience that gave life to the victorious dispute for public water. But a broader effort must be made; by increasing the cooperation between the urban movements and the intellectuals and addressing some difficult issues, which are articulated in the old environmentalist slogan "think globally and act locally”. These include issues of identity (and the conflict between closing and opening), multiscalarity (the government of the transformations implies that each citizen feels and acts as part of more homelands), and the relationship with the institutions (new or renovated they are still necessary).
Per chi ha un po’ di frequentazione dei luoghi nei quali si è rifugiata la politica (o
dai quali essa riemerge) i caratteri del conflitto del quale il territorio è oggetto
sono molto chiari. Sono riassunti nell’antitesi espressa dal titolo di questo scritto:
città dei cittadini o città della rendita?
Alcune precisazioni lessicali. Quando parlo di città parlo dell’habitat dell’uomo, il quale comprende sia la
tradizionale “città” che la tradizionale “campagna”, sia il territorio urbano che quello
rurale. E quando parlo di cittadini parlo di quelli
attuali e di quelli potenziali, con particolare attenzione a due categorie di soggetti
che oggi non sono dotati dei diritti di cittadinanza: i forestieri e i futuri, i
migranti e i posteri.
La città come macchina per arricchire i ricchi
Conosciamo bene la città della rendita. É quella che denunciamo e soffriamo ogni
giorno. É quella che vediamo svilupparsi come un orribile blob: più o meno caotica, più
o meno disordinata, più o meno inefficiente, ma sempre divoratrice di risorse,
distruttrice di patrimoni, dissipatrice di energia e di terra, guastatrice di acqua e di
aria. Una città che logora i legami sociali e accentua le diseguaglianze.
Per i costruttori di questa città il territorio è considerato e utilizzato come lo
strumento mediante il quale accrescere la ricchezza personale dei proprietari: di quella
classe il cui ruolo sociale e il cui contributo allo sviluppo della civiltà sono
costituiti esclusivamente dal privilegio proprietario; dal fatto di possedere un bene
che può essere utile ad altri.
Non a caso l’economia liberale ha considerato la rendita come la componente
parassitaria del reddito. Non a caso ha tentato di ridurne gli effetti, con le pratiche
dell’espropriazione a prezzi che non riconoscevano i vantaggi derivanti dalle decisioni
pubbliche e i tentativi di tosarla con lo strumento fiscale. Tentativi che, nel nostro
paese, sono stati proseguiti fin agli anni 70 del secolo scorso.
Dalla «rendita parassitaria» alla «rendita motore dello sviluppo»
Ma gli animal spirits del capitalismo reale hanno
spinto i proprietari e i gestori del capitale a impadronirsi anch’essi di quote
rilevanti della rendita. Il passaggio dall’atteggiamento critico nei confronti della
rendita urbana alla piena partecipazione al banchetto consentito dal suo progressivo
incremento è avvenuto platealmente agli inizi degli anni 70: quando i padroni della Fiat
e capi della Confindustria passarono, da affermazioni di piena condivisione per una
riforma urbanistica che combattesse la rendita urbana e i suoi incrementi, a pratiche di
spostamento di risorse (finanziarie, organizzative, culturali) dagli investimenti
industriali a quelli immobiliari.
«Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo
patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello
che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e
contro il quale dobbiamo assolutamente reagire. Oggi pertanto è necessaria una svolta
netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i
salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più
intollerabili di spreco e di inefficienza»
aveva dichiarato Gianni Agnelli, padrone della Fiat e presidente della Confindustria
[Agnelli 1972, 11]. Ma pochi anni dopo Fiat, e con essa Pirelli, Falck, Zanussi,
Benetton abbandonarono il mondo del profitto e dell’industria per scorrazzare nei lauti
pascoli della rendita finanziaria e di quella immobiliare, impegnandosi attivamente nel
campo della speculazione sul mattone, irrigato e fertilizzato da un ceto politico sempre
più succube dell’economia data.
Ha scritto Walter Tocci [2009], in un saggio che rivela come il peso della rendita
immobiliare sia diventato decisivo nell’attuale fase del capitalismo: «La dismissione
industriale fece scoprire ai capitalisti i vantaggi immeritati delle plusvalenze
immobiliari, un modo più semplice di arricchirsi, senza dover fare i conti con
l’organizzazione del ciclo produttivo. A quel punto terminarono i dibattiti
sull’improbabile patto tra i produttori, venne messa in soffitta qualsiasi ipotesi di
separazione tra rendita e profitto e non se ne parlò più».
Il dominio dell’ideologia e della prassi del neoliberismo
É a partire dagli anni 80 che in Italia le cose cambiarono sostanzialmente. Il dominio
dell’ideologia neoliberista e il primato delle parole d’ordine lanciate dal craxismo ne
sono una componente essenziale. E rimane aperto il problema di chiarire perché in Italia
gli intellettuali, dentro e fuori dai partiti, non lo abbiano compreso.
Sul terreno solido dell’economia la finanziarizzazione aiutò la rendita urbana ad
accrescere il suo peso nell’insieme del sistema economico e della percezione del
territorio. Rifacendoci alle categorie classiche della teoria economica,
l’appropriazione privata di rendite (finanziarie e
immobiliari) divenne la componente preponderante dei guadagni ottenuti dai gestori del
capitale intrecciandosi strettamente al profitto. Del
resto, il peso del salario poteva essere via via
ridotto dall’innovazione tecnologica.
É il caso di aggiungere, a questo sommario quadro, che l’appiattimento della politica sull’economia ha consentito ai gestori del capitale di ottenere
dagli amministratori il consistente aiuto derivante dalla loro possibilità di promuovere
o consentire, con l’insieme delle politiche urbane, la sistematica espansione delle
parti del territorio il cui valore di scambio passava dalle utilizzazioni legate alle
caratteristiche proprie dei suoli a quella urbana ed edilizia. Attraverso le politiche
urbane gli amministratori infedeli hanno insomma servito i poteri forti dell’economia
spalmando su aree sempre più vaste la rendita immobiliare. Decisivo, a questo fine, è
stato l’aiuto fornito alla speculazione fondiaria dalle politiche nazionali, che hanno
ridotto via via le risorse trasferite ai comuni lasciando loro la possibilità di
stornare i cespiti degli oneri di concessione dalla realizzazione delle attrezzature
pubbliche alle spese correnti.
Per servire la crescita e l’appropriazione privata della rendita fondiaria gli
amministratori hanno dovuto introdurre qualche cambiamento nelle loro politiche. Aiutate
e anzi sospinte dalla legislazione nazionale, hanno dovuto procedere allo smantellamento
della pianificazione urbanistica e territoriale quale era stata definita nei decenni
precedenti. Ora, gli strumenti foggiati per
tentare di porre ordine e razionalità nelle trasformazioni urbane e territoriali erano
considerati solo un impaccio al libero esplicarsi della legge del massimo sfruttamento
delle potenzialità economiche (in termine di valore di scambio) del territorio.
I prezzi del trionfo della rendita
Alto è il prezzo che l’Italia ha dovuto pagare sul terreno stesso dello sviluppo
economico per effetto della scelta compiuta dalle aziende di spostare gli investimenti,
gli interessi, l’intelligenza, dalla produzione al mattone, e per di più al “mattone di
carta”. «É stata proprio la rendita la vera responsabile di quella bassa crescita» che
ha contrassegnato il sistema produttivo italiano, afferma Tocci [2009].
Ma ancora più pesante è il prezzo che hanno pagato le città e i territori, le
condizioni di vita degli abitanti, la ricchezza dei beni culturali e del paesaggio. Le
conseguenze del trionfo della rendita sono sotto i nostri occhi. Si è manifestata una
grande euforia immobiliare, che ha stimolato la produzione edilizia e alimentato la
domanda, determinando così un balzo in avanti della valorizzazione della rendita. Il
cambiamento è stato enorme, non solo in termini quantitativi. È cambiato radicalmente il
ruolo della città nei confronti dell’economia. La città è diventata sempre di più una
macchina costruita nei secoli e pagata ancora oggi dalla collettività usata per
accrescere le ricchezze private. Il territorio viene devastato da un consumo di suolo
impressionante, le condizioni di vita nelle aree urbane peggiorano sempre di più, la
sottrazione di risorse ai cicli vitali della biosfera cresce continuamente.
In esplicita antitesi con la città della rendita si è affacciata sulla scena una città
alternativa: quella che definisco “la città dei cittadini”, con la precisazione che ho
fatto all’inizio sul termine di “cittadino”. É quella che emerge dalla miriade di
vertenze che si aprono in ogni regione e città d’Italia, in moltissimi paesi e
quartieri, per rivendicare qualcosa che si è perduto o minaccia di esserlo, o qualcosa
di cui si sente la necessità per vivere in modo soddisfacente. Mi riferisco al fiorire
di comitati, gruppi di cittadinanza attiva, associazioni e altre iniziative locali o
settoriali (spesso l’uno e l’altro insieme) che caratterizzano la vita sociale in questi
anni.
Quando protestano contro l’inquinamento e i rischi alla salute determinati da una
cattiva politica dei rifiuti, contro la chiusura di un presidio sanitario o la
privatizzazione di un altro, contro la trasformazione di uno spazio verde in un nuovo
“sviluppo” a base di asfalto e cemento, contro l’abbattimento di un albero antico
minacciato da una strada inutile, contro il prezzo e le condizioni del trasporto
pubblico, contro la trasformazione delle campagne periurbane in ulteriori espansioni
della “città infinita”. Quando protestano per gli effetti della dilatazione della “città
della rendita”, al tempo stesso i mille comitati esprimono un’idea alternativa di
città.
Non sono chiari i lineamenti della “città dei
cittadini”, ma cominciano forse a precisarsi i principi che dovrebbero alimentarne la costruzione. Proviamo a
definirli, riassumendoli in quattro questioni: il rapporto città-campagna, gli spazi per
la collettività, l’abitazione, la partecipazione.
La città è, al tempo stesso, il luogo che l’uomo ha
inventato e costruito quando ha avuto bisogno di organizzare la sua vita attorno a
spazi, servizi e funzioni comuni e, al tempo stesso, il modo che l’uomo ha utilizzato per costruire il proprio habitat
nell’ambito dello spazio naturale. Per una lunghissima fase della storia dell’umanità
l’urbano (caratterizzato dall’artificialità fisica, dalla ricchezza dei rapporti
interpersonali e della vita sociale) è restato racchiuso nella cerchia delle mura urbane
e delle sue immediate adiacenze, utilizzando il resto del territorio pressoché
unicamente come supporto delle vie di comunicazione – esili dapprima, poi via via più
massicce e intense. Nei secoli a noi più vicini l’organizzazione urbana (l’habitat
dell’uomo) si è esteso via via all’intero territorio: non solo artificializzandone parti
sempre più estese, ma soprattutto inserendo la massima parte delle sue componenti ai
ritmi, ai modi di fruizione e di trasformazione, ai valori propri delle funzioni
urbane.
Oggi il territorio rurale non è considerato, valutato e trattato in relazione alle sue
qualità proprie, ma alla sua capacità di entrare nel ciclo delle utilizzazioni (e dei
valori economici) urbani. É un “suolo in attesa di urbanizzazione”. Se è un terreno
agricolo il suo proprietario aspetta il momento nel quale la vanga che lo aprirà non
sarà più finalizzata alla messa a dimora di una vigna o di un platano, ma alla
realizzazione delle fondazioni di un edificio. Un bosco non avrà nel suo destino quello
di essere governato per il patrimonio di beni naturali che costituisce ma, nel migliore
dei casi, come estensione del parco urbano, nella peggiore come luogo da distruggere per
riempire il sito di ville e villette. Una spiaggia svolgerà il suo ruolo come sede di
una serie di stabilimenti balneare, e magari di piscine, alberghi, casette di
vacanza.
Connesso a questa trasformazione (culturale, economica, fisica) vi è un altro
fenomeno, che incide direttamente sulla vita dell’uomo. L’alimentazione non è più il
consumo di merci prodotte a distanza ravvicinata, da un suolo nutrito dalla stessa
storia che ha prodotto quella città e dalla stessa cultura che ne ha foggiato gli
abitanti, dallo stesso sole e dalla stessa aria, dal ciclo delle stesse stagioni, ma è
sempre più prodotta altrove, lontano, là dove le regole dell’economia capitalistica
trovano maggiore convenienza.
Le rivendicazioni che nascono dalla società civile costituiscono una critica al modo
in cui si è trasformato il rapporto tra città e campagna, tra territorio urbano e
territorio rurale, e una pressante richiesta di ricostituire un equilibrio (meglio, di
costituire un nuovo equilibrio) tra i due termini. Il modello di città la cui domanda
nasce da quella critica deve consentire la vicinanza, alle varie scale (di paese e
quartiere, di città, di area vasta, di regione, etc.), tra l’urbanizzato
(=prevalentemente artificializzato) e il rurale (=prevalentemente naturale). Deve
consentire un’alimentazione sana e una filiera corta tra la produzione e il consumo,
aria pulita, luce e sole, libera fruizione di spazi di ricreazione e distensione, di
bellezza, di storia, d’identità.
Ma è la stessa localizzazione delle eventuali nuove aree da urbanizzare, là dove ciò
si dimostri essenziale ed irrinunciabile, che deve tener conto di un corretto rapporto
con la natura. La terra libera, integrata nel ciclo biologico del pianeta, è di per se
un valore. É una perdita per la qualità complessiva della vita dell’umanità sacrificarne
una porzione; quindi ciò va evitato per quanto possibile (ove non lo sia in vista di
altri e superiori valori), e va compensato con equivalenti restituzioni di
naturalità.
Gli spazi e i servizi per la collettività
Gli spazi, i servizi e le funzioni comuni attorno ai quali è nata e si è organizzata
la città nella storia hanno ricevuto, nei decenni dell’affermazione del welfare state, un consistente accrescimento qualitativo e
quantitativo. Ai luoghi classici della città greco-romana, medioevale e rinascimentale
si sono aggiunti quelli destinati alle esigenze della salute, dello sport e della
ricreazione, della cultura, realizzati per una cittadinanza sempre più vasta e sempre
più cosciente dei propri diritti: diritti che avevano la loro condizione decisiva nel
ruolo delle classi lavoratrici nel processo di produzione e di consumo. É cresciuta
insomma la consapevolezza della necessità di una vasta e articolata “città pubblica”,
costituita da quell’insieme di spazi, servizi, attrezzature, reti divenuti standard,
indispensabili integrazioni della vita che si svolge nell’ambito dell’alloggio (e della
fabbrica).
Per la città della rendita tutto ciò è un peso: riduce lo spazio della speculazione
edilizia e, con il sistema fiscale (inevitabile cespite del costo della “città
pubblica”) rischia di pesare sulle rendite. Ecco allora che si pratica la riduzione
degli spazi pubblici, la loro privatizzazione, al soddisfacimento con servizi privati (a
pagamento) di esigenze che nella città del welfare erano soddisfatte con servizi
pubblici: dalla salute alla scuola, dallo sport all’assistenza – fino alla sostituzione
della piazza, archetipo della città, con il centro commerciale.
É probabilmente da questa consapevolezza, dal disagio provocato dalla perdita di una
dotazione urbana sentita come un bene essenziale, che nasce la domanda di una più ricca
presenza di attrezzature e servizi, spazi e reti, agevolmente raggiungibili mediante
modalità amichevoli. E alle esigenze del passato nuove esigenze si aggiungono,
completandole e integrandole: che le dotazioni comuni e pubbliche non solo siano
funzionali alle esigenze che devono soddisfare, ma posseggano almeno tre ulteriori
requisiti: che siano risparmiatrici d’energia e di altre risorse naturali e non
peggiorino la qualità di quelle impiegate; che siano dotate di una riconoscibile
bellezza, ottenuta come risultato dell’insieme e non dal singolo oggetto; che siano
utilizzabili da tutti, senza discriminazioni tra ricchi e poveri, giovani e anziani e
bambini, uomini e donne, cittadini e forestieri. Che siano, insomma, ecologiche, belle,
eque.
Nell’ambito della “citta pubblica” – nella tradizione più antica delle città europee
come nella città del welfare – un ruolo particolare ha svolto l’abitazione. Questa è
intrinsecamente il luogo del privato, quindi dovrebbe essere “l’altra parte della città”
rispetto a quella pubblica. Eppure per almeno due circostanze essa è entrata nell’orbita
della prima. Innanzitutto perché la forma, e lo stesso funzionamento, degli spazi
pubblici sono definiti dal modo in cui gli edifici destinati alla residenza (le case, i
“mattoni” con i quali è realizzata la forma fisica della città) sono organizzati sul
territorio. Basta osservare la planimetria d’una città medioevale per rendersene conto.
In secondo luogo perché, da quando la polis ha applicato una dose di giustizia sociale
nell’amministrazione urbana, il “pubblico” si è fatto carico di fornire un alloggio a
chi non aveva i mezzi per ricorrere al mercato.
Nei tempi più vicini, soprattutto in Italia, l’abnorme lievitazione della rendita
urbana ha reso i prezzi delle abitazioni incompatibili con i redditi di un numero
crescente di famiglie. Ecco allora che è rinata in questi anni una vertenza che aveva
divampato negli anni 60: quella della “casa come servizio sociale”. Con questo slogan
non si chiedeva allora, e non si chiede oggi, che l’uso degli alloggi sia garantito a
tutti come lo è un servizio pubblico, come ad esempio il servizio sanitario o quello
scolastico, ma che il prezzo per l’uso delle abitazioni sia regolato da attori diversi
dal mercato, incidendo sulla rendita e garantendo un equilibrio tra prezzo dell’alloggio
e redditi delle famiglie.
Oggi la questione della residenza si pone sotto un quadruplice aspetto: quelli del
costo, della localizzazione, della tipologia d’uso, dell’espulsione.
Il costo per l’utente: si tratta in primo luogo di abbattere l’incidenza
della rendita urbana sul costo compessivo dell’alloggio. Si tratta di riprendere gli
strumenti della politica della casa degli anni 70 e di aggiornarli e integrarli in
funzione delle modifiche della domanda. Ma si tratta in primo luogo di applicare il
principio secondo il quale la funzione della casa non è quella di arricchire chi la
produce ma quella di dare abitazione a una famiglia – così come la funzione di un
farmaco è di curare un malato.
La localizzazione: si è costruito dappertutto, dove ciò era
più conveniente per l’investitore (e dove era reso possibile dai sindaci) in qualunque
parte del territorio; ma la residenza deve essere collocata a distanza ragionevole dal
luogo dove i suoi abitanti svolgono gli altri momenti della loro vita: il lavoro, la
scuola e così via. La città della rendita ha accentuato il pendolarismo. L’assenza della pianificazione urbanistica e una politica dei
trasporti finalizzata all’espansione della motorizzazione individuale hanno aumentato, e
reso più costosi, i prezzi degli spostamenti. Nella città dei cittadini non si devono
costruire residenze dappertutto, ma solo dove esiste una domanda reale e dove un
efficiente sistema di servizi pubblici può collegare la residenza alle altre funzioni
della vita quotidiana.
La tipologia d’uso: tutti gli strumenti dell’ideologia e dell’economia
sono stati impiegati per spingere gli italiani a risolvere il problema della propria
abitazione (e di quella dei loro figli) con il godimento in proprietà. Con ciò si è
posta una grave ipoteca sulla mobilità della popolazione sul territorio. Mentre in altri
paesi la larga presenza del patrimonio abitativo in affitto consente a chiunque di
cambiare luogo di lavoro senza eccessivi problemi, in Italia ciò è diventato
particolarmente difficile e oneroso. Sarebbe necessario condizionare fortemente
l’ulteriore espansione della proprietà dell’abitazione e offrire, invece, un ampio stock
di alloggi in affitto. Iniziando dal porre termine all’alienazione dei patrimoni
immobiliari pubblici o parapubblici.
L’espulsione. Un peso crescente sta assumendo in Italia un
processo in atto in tutto il mondo atlantico: l’espulsione di abitanti da parti della
città per effetto di interventi di “riqualificazione”, spesso promossi dagli stessi
amministratori pubblici, che comportano modifiche nelle condizioni economiche d’accesso,
oppure provocano trasferimenti provvisori che poi diventano definitivi. Sono gli effetti
della gentrification, che aumentano parallelamente
alla maggior diffusione di politiche urbane volte al recupero anziché all’ulteriore
espansione.
La partecipazione, ossia la politica
Le nuove vertenze riprendono in gran parte i temi di quello che, sul finire degli anni
60, fu rivendicato come “diritto alla città”. Henry Lefebvre [1968] espresse questo
principio in un duplice obiettivo: possibilità, per tutti, di fruire dei beni costituiti dall’organizzazione urbana del territorio (e
si tratta, sostanzialmente, degli argomenti che abbiamo toccato nei precedenti
paragrafi), e uguale possibilità, per tutti, di partecipare alle decisioni sulle trasformazioni.
In effetti oggi dalle vertenze sul territorio emerge la volontà di partecipare, da
parte di tutti i cittadini, alla costruzione/trasformazione della città. Una
partecipazione che non si riduca alla comunicazione unilaterale, top-down, delle scelte
che chi governa ha già fatto, o sta per compiere. Ma una partecipazione che consenta di
intervenire sulle scelte, di proporre soluzioni alternative – in una parola, di
concorrere al governo. Si tratta quindi, per la città, di conoscere in anticipo i
progetti di trasformazione e anche di poterne proporre, di essere aiutati a comprenderne
le premesse e le conseguenze, in definitiva di essere messi nelle condizioni di superare
le forme della democrazia rappresentativa e delegata, praticando forme di democrazia
diretta.
Grandi sono le difficoltà che si manifestano per ottenere (o strappare) successi in
questa rivendicazione. E tuttavia, l’attuale degrado della democrazia delegata, il vuoto
che si è aperto tra le istituzioni rappresentative e la società civile, la stessa crisi
delle istituzioni, rendono la questione del tutto aperta. Si tratta di comprendere che
cosa sia la politica: se sia solo quella che esprime la sua capacità di governo della
società attraverso le istituzioni che conosciamo, oppure se essa sia qualcosa che è
immanente al rapporto di ciascuna persona con la collettività. Quando rifletto su questo
tema mi viene spesso alla mente una frase del libro che don Lorenzo Milani
[1967]raccoglie da uno degli allievi della sua Scuola di Barbiana: «Ho imparato che il
problema degli altri è uguale al mio. Uscirne da soli è l’avarizia. Uscirne insieme è la
politica». Secondo molti, ciò che emerge dalle mille vertenze sul territorio,
riannodabili attorno al tema della “città dei cittadini” è proprio il germe di una
politica nuova. Ricca di limiti e difficoltà (su cui torneremo), ma anche di
speranze.
La nuova domanda di pianificazione
La mia tesi è che dai movimenti generati dalla protesta per il trionfo della “città
della rendita” stia nascendo una nuova domanda di pianificazione del
territorio urbano e rurale, che ha certo numerosi ostacoli al suo pieno dispiegarsi, ma
che è l’unico elemento positivo cui possono fare affidamento quanti non vogliono ridursi
alla protesta e alla mera lamentazione per le condizioni cui l’habitat dell’uomo, e la
vita della società, sono sempre più immersi.
É una nuova domanda che in parte può essere già soddisfatta mediante strumenti di
pianificazione già utilizzati, spesso adoperati al di sotto delle loro potenzialità
oppure distorcendoli, in parte trova interessanti anticipazioni e sperimentazioni in
nuove forme di azione: limitate, parziali, imperfette, ma non è così che si sperimenta
il nuovo in ogni campo?
S’incorrerebbe nell’errore tipico delle discipline separate dagli altri saperi e
rinchiuse nella proprie technicalities se si
trascurasse il fatto che la nuova domanda di pianificazione dell’habitat dell’uomo non
nasce sola. Essa è componente di una più ricca domanda di cambiamento, che concerne
tutti gli aspetti della vita sociale: dalla politica all’etica, dall’economia
all’antropologia.
In effetti, affrontare in modo risolutivo quei quattro temi che abbiamo sopra indicato
presuppone o postula la costruzione di una società interamente diversa da quella attuale, a partire dalla sua dimensione strutturale, dalla
sua economia. Non possono essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società)
che riesce a sopravvivere, da una crisi all’altra, solo erodendo ancora di più gli
scarsi margini delle risorse naturali del pianeta, accrescendo le diseguaglianze,
cancellando via via le conquiste raggiunte nell’evoluzione di una civiltà. Non possono
essere risolti nell’ambito di un’economia (e di una società) nella quale il lavoro – lo
strumento che l’uomo ha per conoscere e governare il mondo – sia ridotto a componente
marginale della vita economica e sociale. Non possono essere risolte nell’ambito di una
società nella quale la formazione sia diretta all’apprendimento delle tecniche
necessarie per far andare avanti un sistema economico obsoleto, divenuto disumano,
anziché nell’esplorare le vie dell’ancora sconosciuto e del possibile.
Ecco allora perché le questioni relative al territorio si legano strettamente alle
grandi vertenze aperte nel nostro paese: l’ambiente, la scuola, il lavoro.
Ostacoli e limiti nell’azione della «società critica»
Più che soffermarsi ancora sui contenuti della “città dei cittadini”, e
sull’immaginario urbano che nasce dalle mille vertenze aperte sul territorio, è bene
riflettere sugli ostacoli che ne intralciano l’affermazione. Poiché ho detto che i
portatori essenziali di quell’ idea di città sono i “comitati” (riassumo in questo
termine l’intero tessuto di gruppi, più o meno formalizzati, stabili, strutturati che
caratterizza la “società critica” del nostro paese), è in primo luogo ai limiti di
questi che occorre riferirsi.
Mi sembra che si manifestino soprattutto tre limiti, riassumibili nella difficoltà di
superare: (1) una visione settoriale e localistica dei
problemi e dei disagi, assumendo invece una prospettiva olistica (dalla vertenza per la difesa dell’albero alla vertenza contro
un cattivo piano urbanistico); (2) il limitarsi ad azioni di contrasto e protesta, pur necessarie, per approdare invece alla formulazione di proposte; (3) il rinchiudersi nell’impegno a
difendere/costruire/affermare un’identità circoscritta (e quindi
una città delimitata, una “città villaggio”), per assumere invece l’impegno a
collaborare alla costruzione di un “mondo di città”: un habitat del
quale tutti possano sentirsi ed essere cittadini uguali nel rispetto delle
differenze.
Quei tre limiti sono in qualche modo inevitabili in conseguenza del modo in cui
storicamente il mondo dei “comitati” è nato: vertenze locali, riferite a uno specifico
oggetto o problema; reazioni di difesa e di resistenza, di fronte ad azioni che altri
promuovevano nel loro quadro di riferimenti, di interessi, di poteri e di strumenti;
individuazione di propri “compagni di lotta” nei vicini più immediati, ugualmente
minacciati e componenti dalla “comunità” la cui identità si rivelava essenziale per
ottenerne la solidarietà. Questa origine storica di molte vertenze locali fa sì che esse
siano spesso caratterizzate da una logica Nimby, cioè
ripiegate nella separatezza del proprio cortile, di ciò che immediatamente utilizzano; e
quindi ostili a chi è “fuori”, “diverso”, “straniero”.
Remo Bodei ha svolto recentemente una interessante riflessione, proprio a partire dal
termine “identità”. Dopo aver esposto e criticato i modelli correnti di identità Bodei
[2011] propone la sua concezione: il tipo di identità
«che preferisco e propongo, è rappresentato da un´identità simile ad una corda da
intrecciare: più fili ci sono, più l´identità individuale e collettiva si esalta. (…)
Dobbiamo ridurre lo strabismo, che diventa sempre più forte, tra l´idea che la
globalizzazione sia un processo che cancella le differenze e l´esaltazione delle
differenze stesse. Il grande paradosso odierno è, appunto, che quanto più il mondo tende
ad allargarsi e ad integrarsi, tanto più sembra che a queste aperture si reagisca con
chiusure dettate dalla paura e dall´egoismo, con la rinascita di piccole patrie»
Localismo, protesta, chiusura: come andare oltre
Localismo, protesta, chiusura: come superare questi limiti? Si è lavorato e si lavora
in più di una direzione. Sebbene manchi ancora un quadro di conoscenza sistematica della
ricca realtà associativa, sono da segnalare innanzitutto alcuni tentativi tendenti a
superare il localismo coordinando (“mettendo in rete”) gruppi sorti in relazione a
tematiche analoghe, aventi quindi analoghe o identiche controparti, e appartenenti a una
medesima area; è il caso della rete toscana, pienamente affermata da qualche anno, e
degli analoghi tentativi nel Veneto e in Lombardia. Più numerosi sono i cordinamenti e
le reti a carattere intercomunale e subregionale (come l’efficacissimo Cat –
Coordinamento Ambiente e Territorio, dell’area tra Venezia a Padova) o metropolitano,
soprattutto in Piemonte, Veneto, Lombardia, Toscana, Lazio. Il ragionare insieme su un
contesto territoriale e tematico più ampio di quello locale aumenta la consapevolezza
dello spessore del problema, e rende più facile l’apporto dei “saperi esperti”; facilita
perciò alle “reti” e ai “coordinamenti” di superare quei limiti storici.
Altre direzioni di lavoro di grande interesse sono costituite dalle vertenze tematiche
nazionali, generate dall’aggressione – da parte dei poteri forti – ad alcune risorse
sentite come beni comuni. Per citare solo le principali, l’Onda sorta impetuosa per
reagire ai tentativi di mortificare la scuola pubblica e di provocare la privatizzazione
dei processi formativi e il loro asservimento alle esigenze del mercato, e la grande
esperienza della vertenza dell’“Acqua bene comune”, significativa per più di un
elemento: per la grande capacità di mobilitazione determinata da un lavoro volontario di
base tenace, ramificato, fornito da comitati e gruppi già esistenti e da numerosi “nuovi
militanti”; per la capacità di gestire l’organizzane in forme originali (come il “forum
permanente”); per la collaborazione espressa a ogni livello da gruppi di intellettuali e
cittadini; infine, per il grande successo conseguito nonostante gli ostacoli frapposti
da un fronte ampio di poteri istituzionali (il governo e le sue emanazioni
paragovernative, i partiti nella quasi totalità, i mass media).
Superare quei limiti richiede comunque un più ampio sforzo di approfondimento, nel
quale è essenziale ricostruire un legame tra due realtà sociali: gli “intellettuali” e
il “popolo”. Gli “intellettuali” sono quelle persone che, a causa della loro stessa
formazione, sono in possesso delle chiavi che aprono alcuni essenziali passaggi: la
comprensione dei meccanismi, delle procedure, degli attori mediante i quali le proposte,
le idee gli slogan diventano fatti concreti; la possibilità di delineare proposte
alternative che siano concretamente realizzabili; le connessioni tra le specifiche
situazioni alle quali ci si oppone e (delle controproposte) e il mondo più ampio dal
quale quelle situazioni sono condizionate determinate e sul quale le stesse decisioni
“locali” influiscono. E il “popolo” non è solo quello che dà le gambe alle azioni
proposte, ma è anche l’interprete diretto della realtà che i disegni degli intellettuali
interpretano, delle sue esigenze e speranze, dei suoi interessi e timori, e possessore
di quei saperi che non derivano tanto dagli studi, quanto dai processi formativi
spontanei basati sulla conoscenza del territorio e dalle tradizioni locali.
Mi sembra che su alcuni temi l’apporto degli intellettuali sia in questa fase
essenziale. Quello che probabilmente ne riassume molti è il seguente: come utilizzare
ancora lo slogan “pensare globalmente, agire localmente”? Come trovare un equilibrio tra
il paese e l’universo? Le lotte dei comitati hanno insegnato che non basta “agire
localmente”: le decisioni sul tunnel della TAV non si prende in Val di Susa, ma a
Torino, Roma, Bruxelles. Occorre poter intervenire ai vari livelli in cui il processo
delle decisioni si pone. La questione si pone allo stesso modo per quanto riguarda il
rapporto tra “identità” e umanità: come superare l’elemento di chiusura, di esclusione
dell’altro, che è sotteso al concetto di “vicino perché simile a me”?
La soluzione sta forse nel concetto di multiscalarità. Per governare il mondo
e le sue trasformazioni, per “restituire lo scettro al popolo” nell’attuale
configurazione della vita sociale, occorre che ciascun abitante del pianeta si senta cittadino di più patrie: del suo paese o quartiere,
della città, la provincia, la regione, la nazione e cosi via fino all’intera umanità. E
occorre che si sia in grado non solo di conoscere come agisce sulle trasformazioni
ciascun livello di governo, ma essere in grado di parteciparvi.
Superare quello slogan dell’ambientalismo primigenio, affrontare i problemi (per
comprenderli e, soprattutto, per agire su di essi) richiede di affrontare un’altra
questione complessa: il rapporto tra movimento e istituzioni. Le azioni, soprattutto quelle che riguardano il territorio,
hanno una lunga gittata. Richiedono costanza dei principi e degli obiettivi, coerenza e
continuità nelle azioni; e richiedono équipe di operatori dotati delle competenze
necessarie e capaci di lavorare nel lungo periodo. Le istituzioni, comunque denominate,
sono indispensabili per un movimento che voglia raggiungere gli obiettivi per i quali è
nato. Si possono utilizzare le istituzioni esistenti, rinnovandole dall’intimo (credo
che sia molto opportuno l’obiettivo che molti comitati si sono dati, di “conquistare i
comuni”), oppure si possono formare istituzioni nuove. Ma il problema non può essere
eluso.
Esso ci rinvia a una questione ulteriore: la politica, come ricostruirla, partendo dai germi di nuova politica che
oggi si manifestano ma dando all’azione del “sovrano” (il popolo) continuità, coerenza,
durata, capacità di egemonia e di efficacia? Su questo tema sarebbe necessario aprire
una riflessione che porterebbe – chi ne abbia la capacità molto al di là
dell’argomento di questo lavoro.
Agnelli G. 1972, Intervista rilasciata all’«Espresso», cit. in Della Seta P. e Salzano
E. 1992 (cfr.).
Bodei, R. 2011, Manifesto per vivere in una società aperta, «La Repubblica», 22 giugno
2011.
Della Seta P. e Salzano E. 1992, L‘Italia a sacco, Roma: Editori
Riuniti.
Gibelli M.C. e Salzano E. 2006, No sprawl. Perché è necessario controllare la dispersione urbana e il consumo di suolo, Firenze:
Alinea.
Lefebvre H. 1970, Il diritto alla città, Padova: Marsilio (ed. orig.
1968, Paris: Éditions Anthropos).
Milani L. 1967, Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, Firenze: Libreria
Editrice Fiorentina.
Tocci W. 2009, L’insostenibile ascesa della rendita urbana, «Democrazia e Diritto»,
1.
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DOI 10.1473/quadterr02
Storicamente 2012
Published: January 13th 2012
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