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Maria Pia Donato, “L’archivio del mondo”

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Maria Pia Donato, “L’archivio del mondo. Quando Napoleone confiscò la storia”, Bari-Roma, Laterza, 2019, XIII, 170 pp.

Gli archivi entrano, da sempre, in guerra. I documenti, al pari di opere d’arte e tesori da saccheggiare, sono spesso terreno di conquista per i vincitori; di più, diventano nelle loro mani strumenti potenti di controllo della memoria degli sconfitti, con un messaggio di forte valenza politica e simbolica. Non sono certo eccezionali nella storia europea le confische di carte. Ma quanto orchestrato da Napoleone all’apice del suo potere è senza uguali per la portata e il significato di sogno universale, di cui il bel libro di Maria Pia Donato, modernista specializzata in storia della cultura e della medicina, ripercorre origini, tappe e destino: la costituzione di un «archivio del mondo» nel cuore dell’impero.

Le requisizioni di opere d’arte e archivi seguono l’avanzata delle truppe nell’Europa napoleonica come un riflesso delle conquiste: all’indomani della sconfitta di Vienna nel 1809, i saccheggi partono nel caos, tra prove di forza e improvvisazione, e le casse coi materiali selezionati prendono in tutta fretta la via per la Francia. Solo con decreto imperiale del febbraio 1810, Napoleone tenta di mettere ordine nelle operazioni, rilanciando, con un grande progetto, un Palazzo degli archivi dove riunire le spoglie documentarie dei territori assoggettati. In particolare l’arrivo a Parigi degli archivi di Sacro Romano Impero e Papato, i due grandi poteri del medioevo, dà corpo e forza al programma dell’imperatore di consolidare quanto conquistato con le armi, alimentando la propria leggenda di nuovo Carlomagno e affondando «nella storia millenaria le radici di un impero appena nato dalla Rivoluzione» (p. 11).

L’artefice del grandioso programma di Napoleone è il “suo” archivista, Pierre-Claude-François Daunou, con una formazione di bibliotecario e ponte di collegamento con il passato repubblicano. A lui si devono coordinamento e pianificazione delle operazioni di selezione, raccolta e spedizione del materiale confiscato. Nel tentativo di superare le mille difficoltà e resistenze che un tale progetto scatena tra le comunità conquistate, Daunou compie nel 1811 un viaggio in Italia, che gli permette di conoscere la rete degli archivi cittadini, così diversa dal modello diffuso francese. La storia d’Italia coincideva con la storia delle sue città e tanto più necessaria appare a Daunou la requisizione degli archivi, per stroncare ogni futuro germe di autonomia e insubordinazione.

Il suo programma si materializza nei Grandi Archivi raccolti all’Hôtel de Soubise: ordinamento per materie o per paesi di provenienza si intrecciano nell’impianto classificatorio di una raccolta dalla vocazione universale, modellata sulla cultura documentaria settecentesca e sul culto per i diplomi e le fonti normative. Il carattere di raccolta storica, ordinata per classi, età e paesi, con la finalità di scrivere la storia dei territori riuniti nell’impero, prevale e schiaccia la finalità amministrativa del deposito.

Le disposizioni napoleoniche e la pianificazione dell’archivista-capo tendevano ad un progetto organico e coerente, la cui piena realizzazione si scontra però con un muro di difficoltà, ritardi e contrasti, che hanno reso l’archivio del mondo un sogno mai compiuto. I dispacci e le cronache del tempo sono testimoni di operazioni condotte «con un tal disordine, fretta e negligenza … che forze umane potranno a stento rimetterle in ordine» (p. 5); scontri con le autorità locali, battaglie legali, silenzi e rallentamenti ad arte punteggiano di ostacoli la strada delle casse di documenti verso Parigi. Così, l’archivio universale che doveva percorrere l’intera storia della civiltà rimane, anche nel punto massimo della sua realizzazione, una scacchiera di pieni e vuoti. Le alterne fortune di un impero destinato alla disfatta minano, infine, il compimento dell’utopia archivistica di Napoleone.

Il principio del respect de fonds, impostosi nell’Ottocento, avrebbe giudicato aberrante la raccolta napoleonica dei Grandi Archivi, ma Donato sottolinea come archivi, biblioteche e musei di età moderna fossero in realtà istituti porosi. Concentrazione di fondi e rimaneggiamento delle carte erano la cifra della tenuta di questi patrimoni: gli istituti culturali della Parigi rivoluzionaria erano diventati grandi con i beni requisiti e l’archivio universale immaginato da Daunou portava solo alle estreme conseguenze una metodologia consueta per quel tempo.

Dopo Napoleone, prendono avvio le restituzioni. Ma quanto complesso era stato costituire l’archivio del mondo, tanto difficile si rivela disfarlo: emblematica la vicenda delle carte del processo a Galilei, che tornano a Roma solo dopo trent’anni. Archivi e documenti si riposizionano nella nuova mappa dell’Europa uscita dal congresso di Vienna, ma la restaurazione delle carte non poteva che essere imperfetta: per le resistenze francesi, gli alti costi delle spedizioni e l’impossibilità di individuare, talvolta, i nuclei confiscati. Da tali difficoltà hanno origine le tante controversie documentarie che attraversano l’Ottocento, alla ricerca di carte smarrite o non restituite, e suggellando le requisizioni francesi come “crimini contro l’umanità”.

Secondo la dottrina archivistica, la cesura di età napoleonica è quasi un dogma, per l’introduzione del sistema del protocollo-titolario, che combina registrazione dei documenti in entrata e in uscita con un quadro di classificazione per assegnare un ordine originario all’archivio in formazione. Ma oltre a queste innovazioni più squisitamente archivistiche, Donato mette in luce altri aspetti di cui si impregnò l’eredità francese per la storia, i documenti e gli archivi. Il programma di un deposito universale contribuì infatti a consolidare «il mito dell’archivio come principale sito della conoscenza storica» (p. 111). E ancora, la geografia documentaria uscita dalle dinamiche di concentrazione e dalla sua massima espressione nell’archivio napoleonico fu per certi versi irreversibile: è noto come ogni vicenda che tocchi un archivio lasci segni sulle sue carte; del resto, molte istituzioni non ripresero vita dopo la parentesi francese e la tendenza ad accorpare fondi continuò a determinare la prassi della loro tenuta.

Il sogno di Napoleone fu espressione di un’ambizione che attraversa da sempre la civiltà occidentale e ne informa la vocazione colonialista con cui ancora facciamo i conti: dominare tutto il sapere e, aspetto non secondario, concentrare le fonti in Occidente. Se le guerre per gli archivi possono sembrare fatti del passato, oggi più che mai il controllo dell’informazione è questione aperta nell’era digitale. Pensare che in rete si concentri tutto e che sia liberamente a disposizione di tutti è solo un’illusione. I grandiosi progetti di digitalizzazione dei beni culturali, su cui solo sembrano concentrarsi oggi l’attenzione e le risorse, sono per molti aspetti specchietti per le allodole che, puntando la luce su una porzione minima del patrimonio, lasciano in ombra tutto il resto, minando la già pur fragile architettura della conservazione e della tutela.

Gli archivi sono baluardi di democrazia: solo assicurandoli «nella disponibilità di tutti, e in tutte le loro parti» (p. XIII), mette in guardia Donato, si potranno garantire le condizioni necessarie alla ricerca storica e alla salvaguardia della memoria per costruire il futuro.