Per fare il punto sul dibattito a proposito dell'insegnamento della storia e sul rapporto tra formazione universitaria e insegnamento secondario, in questa fase di riforme da una parte e di grandi mutamenti culturali dall'altra, Storicamente ha intervistato Antonio Brusa, docente di Didattica della Storia all'Università di Bari e tra i massimi esperti italiani della materia.
Redazione: Qual è lo stato della discussione sulla didattica della storia? C'è qualche elemento di novità che riguarda tale tema oppure i termini del dibattito sono fermi, dopo la riforma?
Brusa: Allo stato attuale, io vedo un'alternanza di crisi e di sviluppo. Per quanto riguarda la crisi, il primo evento che segnalo è quello che io definisco l'esplosione del conflitto tra pedagogia e storia. La chiusura delle SSIS (Scuole di specializzazione all'insegnamento secondario) significa proprio questo: con l'esperienza delle SSIS il governo, con un'operazione calata dall'alto, aveva tentato di fare coabitare due discipline, la pedagogia e la storia. Questa coabitazione difficile è durata sei o sette anni e poi è terminata, con una lotta violentissima degli storici contro la pedagogia e a farne le spese è stata la didattica. Il risultato di tutto ciò, infatti, è stata l' emarginazione della didattica della storia che è stata accusata dai pedagogisti di essere 'storia' e dagli storici di essere 'pedagogia', rimanendo stritolata tra le due discipline.
Altro fenomeno esemplare della fase recente, che stiamo vivendo, è ciò che io definisco il "piranismo didattico". Gli interventi di Mario Pirani su Repubblica sono un esempio chiarissimo di un atteggiamento ampiamente diffuso sia tra gli specialisti, sia nell'opinione pubblica: la chiusura totale e direi violenta nei confronti di qualsiasi tipo di intervento di riforma e innovazione in campo educativo.
Un altro elemento di crisi io lo individuo in ciò che già alcuni pedagogisti avevano notato negli anni Ottanta definendolo "formalismo didattico", un fatto che è andato crescendo e ha inquinato il lavoro didattico e il rapporto tra insegnanti e didattica. Che cos'è il formalismo didattico? Negli ultimi 10-15 anni si sono succeduti una serie di cambiamenti e riforme importanti che avrebbero dovuto coinvolgere anche la pratica della didattica. Cosa che non è accaduta, tuttavia
gli insegnanti si sono ritrovati a dovere riscrivere ogni volta programmi e altro utilizzando sempre termini nuovi senza che questi assumessero una reale sostanza di cambiamento: ad esempio l' "unità didattica di apprendimento" si è trasformata in "modulo" obbligando i docenti a riscrivere la programmazione, e così via. Formalismo didattico significa che noi troviamo mille parole e termini diversi che nella realtà stanno a indicare sempre le stesse cose; ciò che invece ci auguriamo è che si vada incontro a un periodo in cui le parole tornino a indicare contenuti precisi
Redazione: Però il tema della modularità dell'insegnamento, o meglio la prassi di tradurre in schemi modulari i contenuti didattici rimane un fatto positivo o lo valuti negativamente?
Brusa: Rimane assolutamente positivo; il punto è che la riforma ha di fatto abolito i moduli sostituendoli con una cosa stranissima che si chiama "unità didattica di apprendimento". La sperimentazione della modularità didattica è durata tre o quattro anni, non di più, un tempo breve, che comunque ha consentito ad alcuni insegnanti particolarmente attivi sia sul piano didattico che su quello della ricerca di produrre alcune esperienze interessanti, sia sotto il profilo dell'insegnamento sia sotto il profilo della riflessione teorica.. Però di questo si è fatto appena in tempo a parlare che immediatamente si è dovuto ritrascivere tutto, nei nuovi linguaggi della riforma. Gli insegnanti hanno appena fatto in tempo a entrare nell'ottica del modulo didattico che si è passati a unità didattiche di apprendimento: hanno dovuto 'ritradurre' tutto. Liste di obiettivi, portfolio delle competenze: c'è stata una complicazione e ramificazione di tutto. E' un marasma: un docente che scrive un'unità didattica di apprendimento deve premettere una decina di pagine di altre cose.
Ora, come si sa, le pratiche didattiche di un docente non cambiano velocemente. Se noi pensiamo alla gran parte dei docenti, non è che cambiando il linguaggio cambiano pure la metodologia didattica: questo è il formalismo didattico, un linguaggio burocratico che non corrisponde a un reale cambiamento della prassi.
Redazione: Sono cambiamenti, tu dici, formali e non sostanziali. Come all'Università: la riforma per quanto criticabile e perfettibile, non ha comportato alcun cambiamento né nel modo di insegnare né nei contenuti.
Brusa: Sì assolutamente. Questo è ciò che è capitato con il passaggio dalla quadriennale al cosiddetto tre più due. Ci si è per lo più limitati a trasferire i vecchi corsi nella nuova struttura.
Redazione: Su questo punto dunque i docenti, delle scuole e universitari, dovrebbero fare anche un po' di autocritica.
Brusa: Sì, anche se ovviamente vanno viste e separate le varie responsabilità, nel quadro comunque del modo in cui funziona l'istituzione.
Redazione: Da questo punto di vista si apre quindi un bel terreno di riflessione, al di là di come si giudichi la riforma Moratti, cioè emerge davvero la necessità sul piano didattico di ridefinire le procedure per non finire - come si dice - con il buttare via il bambino con l'acqua sporca. L'acqua sporca è tutta questa verbosità a cui non corrispondono prassi reali, ma non c'è dubbio però che tra gli anni Ottanta e Novanta si siano prodotti nella scuola cambiamenti nella didattica che vanno riconosciuti e preservati.
Brusa: Sono perfettamente d'accordo. Dal punto di vista dell'analisi la situazione è tra l'altro aggravata dal fatto che quelli che hanno vissuto e sperimentato ciò che abbiamo appena descritto, tra anni Ottanta e Novanta, stanno in gran parte andando in pensione. Siccome la SSIS, che doveva trasmettere questo patrimonio, ha fallito totalmente, che succede? Le nuove generazioni di insegnanti, che entrano ora, si trovano a dover ripartire da zero, come quella di chi era di ruolo negli anni Settanta.
Redazione: C'è un problema quindi di strutturazione della formazione degli insegnanti, ossia ci sarebbe la necessità di strutturare in una sorta di corpus le competenze acquisite in questi ultimi anni.
Brusa: Proprio così, mentre al contrario si vede chiaramente come questo corpus di prassi acquisite sia stato totalmente assente dalle SSIS. Nelle SSIS veniva insegnata separatamente o storia o metodologia della didattica della storia, quando andava bene, o pedagogia.
Redazione: Ed è paradossale, almeno nel caso della storia, perché spesso si tratta di lezioni di storia che i futuri insegnanti hanno già ascoltato nei propri corsi universitari. Ciò che è mancato, salvo qualche rara eccezione, è l'apprendimento di come i contenuti della storia vadano trasmessi in una classe.
Brusa: Sì certo, e la controparte del resto era una pedagogia autoreferenziale che non aveva niente a che fare con il lavoro didattico in classe, ma era per lo più teoria astratta.
Redazione: Alla luce di quanto si è detto finora, una rivista come Storicamente che ruolo potrebbe avere all'interno di una dinamica Università -Scuola - formazione degli insegnanti (intesa sia come 'formazione permanente', sia come parte del percorso formativo effettivo), alla luce di quanto si è detto finora?
Brusa: Le riviste on line sono un'esperienza recente, sulla quale è ancora difficile farsi un'idea precisa, visti anche i non pochi problemi connessi con il medium di per sé. Detto questo, rilevo che in Italia non esiste un organo di didattica della storia, una rivista autorevole, in cui tutte queste cose che abbiamo detto vengano a un dato momento fissate. Si producono per lo più di interventi lasciati in forma provvisoria, che passano di mano in mano in via informale e che quando vengono messi in rete rimangono pubblicati in questo modo e magari passano ad altri siti con qualche piccola variante.
Redazione: Tutto ciò è senz'altro vero, siamo consapevoli dei limiti del mezzo, ma d'altra parte anche delle sue potenzialità. Noi stessi abbiamo scelto la formula rivista, anziché sito, per cercare di rispondere, almeno parzialmente, a questo problema della volatilità dell'informazione via web.
Per non parlare del fatto che una rivista web ha potenzialmente e realisticamente un numero di lettori infinitamente più alto di quello di una rivista cartacea. Se paragoniamo i numeri dei lettori di Storicamente, che è comunque una rivista di nicchia, a quelli di uno dei rari esempi di rivista cartacea dedicata a questi temi, quella che fu «I viaggi di Erodoto», ci rendiamo conto della potenzialità di un mezzo come l'e-journal.
Brusa: Sul piano dell'azione effettivamente c'è molto da inventare. La rivista potrebbe fornire, in questo marasma di cose che cambiano, dei modelli non solo sul piano della strumentazione didattica ma anche sul piano della problematizzazione degli argomenti.
Redazione: Quello che ci sentiamo di dire è che forse per quanto riguarda la rete, la maggior parte degli insegnanti trova che ci siano molte cose interessanti, ma poche cose che li riguardano dal punto di vista professionale. Sotto questo profilo, al di là delle SSIS e della formazione effettiva degli insegnanti, ti domandiamo e ci domandiamo come l'Università possa rimanere a contatto con gli insegnanti, in che forme e modi, dopo appunto il percorso educativo precedente all'entrata di ruolo, al lavoro.
Brusa: Su questo faccio molta fatica a trovare una risposta. Si deve riflettere sulla esperienza negativa delle SSIS e sul passato. La legge di istituzione delle SSIS, sotto questo profilo, era infatti sulla buona strada e dava delle risposte alla domanda che mi state e vi state ponendo. Essa infatti diceva che nel processo di formazione bisognava tenere insieme alcuni aspetti della pedagogia, più aspetti didattici e laboratoriali e il praticantato in classe. Questi aspetti andavano tenuti tutti insieme, mentre l'Università ha interpretato tutto separatamente, come nelle discipline solite, e si è prodotto un disastro. In realtà la legge è stata male interpretata dall'Università: le SSIS chiudono non per colpa della Moratti, ma per colpa dell'Università, in particolare delle Facoltà di Lettere. L'Università ha avuto un ruolo così negativo che a questa domanda non riesco a rispondere.
In futuro, quindi, si avrà un corso di specializzazione il più tradizionale possibile e la separazione totale tra una formazione di tipo teorico, demandata a un percorso di formazione tradizionale, vecchio, e una formazione pratica, un tirocinio, che sarà di fatto l'introduzione ufficiale del precariato anche nella scuola. Al momento attuale questa domanda, cosa può fare l'Università, mi fa rabbrividire: l'Università per ora questo ha fatto. Ha spinto per il cambiamento senza che ci sia stata una riflessione esplicita delle istituzioni sul funzionamento della SSIS.
Si ritorna perciò a una situazione simile a quella degli anni Ottanta, in cui i processi di formazione sul campo avvengono attraverso la cooperazione didattica: chi vuole fa, si mette insieme e prova; effettivamente da questo punto di vista la rivista può sperimentare.
Redazione: Il fallimento della SSIS è sotto gli occhi di tutto e denuncia il fatto che le Università, o meglio le singole discipline universitarie, in realtà non avevano riflettuto a sufficienza su come doveva essere la formazione di un insegnante in rapporto al proprio ambito e statuto disciplinare. Questo ha comportato una dequalificazione progressiva dell'insegnamento fornito dalle SSIS, aggravato dall'assenza totale di dialogo con le persone che sul campo avevano maturato esperienze significative: pensiamo ad esempio all'Irsae, ma anche con singoli insegnanti particolarmente attivi, nel migliore dei casi utilizzati come figure di tutor di secondo ordine. Su questo va fatta una riflessione, perché si rischia di negare l'idea, assolutamente giusta, che l'Università deve provvedere non solo alla formazione di base, la laurea, ma anche alla specializzazione e formazione degli insegnanti
Brusa: Ci sono altri due temi che vorrei richiamare e che mi sembrano importanti. Il primo, indotto da quanto sta accadendo nel mondo e in Italia negli ultimi dieci anni, è la ripresa nell'insegnamento della storia dei temi identitari, mentre al contrario ci si stava orientando tutti verso una storia cognitiva, cioè verso una storia come scienza, che serve in quanto tale alle persone, e che la gente è bene che conosca di per sé. Si riprende ora invece una visione storica Ottocentesca, incoraggiata anche dai programmi che Stati di recente formazione, penso all'Europa dell'Est, hanno adottato e che vanno in questa direzione. C'è una forte propensione anche da parte nostra verso questi temi, verso la necessità di insegnare una storia identitaria legata alle radici ebraico-cristiane. Questa impostazione non ha trovato nessuna opposizione, anzi semmai l'appoggio di gran parte degli storici italiani. Molti addirittura dicono che il programma Moratti non vale niente, ma è meglio, sotto questo profilo, di quello di De Mauro.
Tutto questo va tenuto presente perché va a influire su un altro tema, il secondo che volevo ricordare: il rapporto con la storia del resto del mondo, con quella che ormai è quasi riduttiva chiamare World History. Sono tali e tante le storiografie mondiali con cui dobbiamo misurarci!
Redazione: I processi di cambiamento del mondo attuale sono tali per cui il modello storiografico delle Annales è superato, in senso buono, cioè fa parte del nostro bagaglio culturale, ma non è più sufficiente da solo all'analisi storica. Ma ciò che è più grave è che una storia identitaria è una storia che parla solo a chi si riconosce in quella identità; una storia italiana o europea in questa chiave è una storia che non può interessare il resto del mondo. Il recupero di una dimensione mondiale della storia può essere una via che ci riporta a quella che tu definivi storia cognitiva, che è fortemente anti-identitaria. Senza riprendere la vecchia questione della storia come scienza, va affermata l'idea che la storia è un'insieme di questioni che vanno affrontate e di risposte che via via nel tempo vengono date; l'oggetto dell'insegnamento della storia è proprio questo processo - entro il quale poi sta anche il modo in cui le culture si sono autorappresentate. Riportare laicamente la storia al suo posto, questa è una battaglia intellettuale che va fatta.