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Ottavia Niccoli, Rinascimento anticlericale. Infamia, propaganda e satira in Italia tra Quattro e Cinquecento

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Il libro documenta come in Italia si sia verificata una precoce diffusione dell’anticlericalismo, inteso come espressione pubblica dell’indignazione suscitata dai comportamenti individuali dei papi, e analizza le ragioni per le quali feroce dileggio e vituperio esplicito riuscirono a trasformarsi in una critica radicale alla Chiesa solo per una breve stagione. Essa coincise con l’acquisizione e la rielaborazione delle forme e dei contenuti della comunicazione dell’irrisione anticlericale italiana nel mondo tedesco, dove l’indignazione si sostituì al dileggio, e da dove si trasmisero in Italia altri veicoli di propaganda: i libelli infamanti e soprattutto le vignette satiriche, come risulta dalla collazione di molteplici testimonianze letterarie della larga circolazione di un materiale figurato ormai completamente scomparso.

Anche i tipici strumenti italiani di propaganda antipapale, soprattutto le pasquinate romane, assunsero a contatto con circoli più o meno apertamente eterodossi caratteristiche diverse (persero l’anonimato, passarono dal tono satirico all’invettiva, assunsero più o meno apertamente idee riformate). È una parabola che si concluse col pontificato di Pio V quando, con la repressione della propaganda ereticale, sembra sostanzialmente smarrirsi anche la traccia di quell’anticlericalismo clericale – prevalentemente interno all’apparato della Chiesa – che si era manifestato come nucleo sostanziale del malcontento espresso a partire dalla fine del XV secolo. Tale tradizione si esaurì con la perdita della libertà che era stata lasciata alla satira, soprattutto negli anni di Alessandro VI e di Leone X. Il pontificato di Paolo IV Carafa si sarebbe segnalato per la totale censura delle pasquinate e proprio la sua durezza spiega, alla morte del pontefice nel 1559, l’infierire sulla sua effigie con un rituale particolarmente infamante: la mutilazione del viso.

A partire da questo episodio nel libro si innesta la vicenda stendhaliana della duchessa di Palliano che viene reinterpretata e messa a confronto con due processi che raccontano altri efferati delitti per motivi d’onore tratti dal fondo del tribunale criminale del governatore di Roma. Questo racconto di reazioni materiali e simboliche all’offesa serve all’A. per mettere in evidenza il radicamento della pratica dell’invettiva anticlericale nelle modalità antropologiche dell’insulto e dell’infamia.

Le pasquinate sugli amori della duchessa di Palliano non mancarono e colpirono l’onore sessuale dei Carafa; ma ormai, nel 1559, l’irrisione si muoveva in prevalenza in una sfera diversa da quella della denigrazione personale e andava assumendo una pericolosa contiguità con l’eterodossia. Se con Pio IV si sarebbe reintegrata una parziale tolleranza, di lì a pochi anni la ferrea adesione di Pio V alle ragioni di un’occhiuta disciplina delle coscienze colpì anche la diffusione degli scritti infamanti. Si crearono così le condizioni perché negli anni ’80 Tomaso Garzoni arrivasse a stigmatizzare apertamente come “demoni infernali” gli autori di pasquinate. “Sono davvero lontani i tempi in cui questo stesso epiteto poteva essere attribuito, dal pulpito di una chiesa, al papa regnante” (p. 172).

Eppure la tradizione delle pasquinate, sebbene fiacca e priva di mordente, sarebbe durata fino all’800, contribuendo a formare quello che può essere considerato uno dei caratteri identificanti dell’Italia. In chiusura l’A. afferma infatti che dell’anticlericalismo rimase al nostro paese e a Roma “una convenzionale assuefazione all’irrisione, una forma di devozione mista di confidenza e irriverenza, di ossequio e di disincanto, in cui anche il clero era coinvolto” (p. 73).

Questa accezione di anticlericalismo sembra adatta a descrivere gli atteggiamenti diffusi in Italia in tempi a noi vicini più di quanto non faccia la pur cauta e generica definizione scelta da Salvatore Battaglia nel 1961 e citata nell’incipit da Ottavia Niccoli – “Atteggiamento di opposizione all’ingerenza del clero nella vita politica, sociale e culturale del paese” –; soprattutto, sembra avere come sfondo le riflessioni di Arturo Carlo Jemolo sugli ultimi esiti dell’anticlericalismo risorgimentale e positivistico nel primo centenario dell’unità d’Italia. “Se c’è cosa difficile, è dare un giudizio sulla religiosità del popolo italiano. La quasi totalità degl’Italiani battezza i figli, sposa in chiesa, fa funerali religiosi [...] ma le statistiche mostrano come il numero dei praticanti sia lungi dal raggiungere la metà della popolazione”; contemporaneamente rilevava un’assoluta ignoranza in materia religiosa e intorno ai dogmi, come se la dottrina appresa al catechismo non avesse lasciato traccia. “Diremmo quindi che il quadro di questa società dall’apparenza confessionale non è colorito da un forte sentimento religioso [...] E poiché c’è nel contempo una completa e forse irrimediabile decadenza del senso dello Stato, del rispetto alla legge civile, si comprende come non ci siano state resistenze... all’instaurarsi di quei lati dello stato confessionale che dovrebbero apparire urtanti al dissidente” (Chiesa e Stato in Italia. Dall’unificazione a Giovanni XXIII, Torino, Einaudi, 19652, pp. 329-31). Insomma, un anticlericalismo che ha fatto seguire, dopo l’abbandono di quelle che Croce definiva le leggende becere denigratorie dei papi coltivate sulle scorie del Risorgimento, un’indifferenza di fondo per le grandi questioni dottrinali che non ha avuto come corrispettivo il rafforzamento dei valori laici di convivenza civile. Non meraviglia che più di trent’anni dopo Adriano Prosperi abbia dato giusto rilievo alla “funzione solenne, di alta sovranità e di rappresentanza statale, che il papato è stato chiamato a svolgere nei momenti – non rari – in cui la crisi del paese ha richiesto ai suoi dirigenti qualcosa di più della gestione ordinaria degli affari interni” (Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino, Einaudi, 1996, p. X).