Storicamente. Laboratorio di storia

A questo proposito si ricordano ad esempio i due numeri di «Nouvelle École» dedicati in toto alle dottrine economiche: Nouvelle École, Les théories econimoques, 19 (1972); Nouvelle École, Economie: les voies non orthodoxes, 45 (1988-1989).

L’interesse della Nouvelle Droite per lo studio delle varie discipline scientifiche si può riscontrare, ad esempio, esaminando i tanti numeri della rivista dedicati alle diverse materie, dove si possono trovare approfondimenti sulla linguistica, la biologia, l’eugenetica, l’evoluzionismo, la sociologia, l’antropologia, la psichiatria, l’etologia, la fisica, l’archeologia, l’astronomia e naturalmente la scienza politica. Nei riguardi dell’economia, nonostante essa come materia specifica non abbia rivestito di certo un ruolo di primo piano nelle riflessioni neodestre, nel processo di crescita della Nouvelle Droite, e man mano che l’opposizione all’ideologia liberale si fece sempre più approfondita fino a divenire uno dei pilastri teorici della corrente, aumentarono gli interessi, le riletture e le integrazioni di autori o filoni di pensiero dalle più diverse provenienze politiche che avevano condiviso le medesime preoccupazioni. In questa direzione, ad esempio, si può leggere la curiosità manifestata dalla Nouvelle Droite per Alain Caillé ed il suo movimento anti-utilitarista del MAUSS, creato nel 1982 sulle basi di una critica radicale del riduzionismo economico con il fine di creare uno strumento d’analisi, il Bulletin du MAUSS, per reagire alla constatazione che l’utilitarismo non rappresentava «un sistema filosofico particolare o una componente fra le altre dell’immaginario dominante nelle società moderne», ma piuttosto si era trasformato in «quello stesso immaginario; al punto che, per i moderni, è in larga misura incomprensibile e inaccettabile ciò che non può essere tradotto in termini di utilità e di efficacia strumentale». Come sostiene Alain Caillé, «questa riduzione di tutto il pensabile e il possibile ai canoni della ragione utilitaria», lungi dall’aver prodotto solamente effetti negativi, era andata «di pari passo con la rivendicazione democratica di una equalizzazione delle condizioni e col desiderio generale di accedere al benessere materiale» e, nel campo del sapere, si era «identificata con la speranza di una conoscenza finalmente scientifica delle determinanti del soggetto umano, delle società e della storia», ma nondimeno era divenuto sempre più evidente come l’utilitarismo stesse girando a vuoto, degradando «ormai la ragione in razionalismo, la scienza in scientismo e la democrazia in tecnocratismo»: in altri termini «esso non può fare a meno di ridurre, nella teoria e nella pratica, le società e i soggetti umani al solo gioco degli interessi e, seconda riduzione, questi ultimi ai soli interessi economici. Al tempo stesso, non può fare a meno di riassorbire la questione della democrazia in quella dell’efficienza produttiva e di annientare quasi la questione etica» (Alain Caillé, Critica della ragione utilitaria, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 4-5). Si comprende immediatamente come il fondamento di queste riflessioni non potesse lasciare indifferente la Nouvelle Droite pienamente lanciata negli anni Ottanta in una critica sempre più feroce alla «società propriamente totalitaria» dell’Occidente. Come aveva messo in luce Pierre Le Vigan, in un saggio di presentazione del MAUSS proprio sul numero 45 di «Nouvelle École» espressamente dedicato alle discipline economiche, molte delle teorie di questo movimento erano dedotte dalle tesi di Karl Polanyi nel quel si poteva rinvenire l’idea di una spaccatura profonda «fra la modernità e ciò che l’ha preceduta, nella misura in cui, con il liberalismo, si è rappresentata per la prima volta l’economia come separata dalla società», non tenendo conto che, in realtà, non esistono delle scienze economiche che non siano «immerse nella società», perché l’economia stessa è «simultaneamente sistema di relazioni sociali» (Pierre Le Vigan, Une critique de l'utilitarisme; Alain Caillé et le MAUSS, «Nouvelle École», 45, 1988-1989). La tesi centrale de La grande trasformazione di Karl Polanyi, che Louis Dumont aveva indicato «come la critica più radicale» che esistesse del «capitalismo liberale» (Ibidem), negava risolutamente l’asse cardinale dell’idea liberale che la società di mercato rappresenti un punto d’arrivo irrinunciabile nella vicenda delle società umane come punta più avanzata del progresso e ne sottolineava, al contrario, la sua relatività storica. L’idea liberale del «mercato autoregolato», a cui cercò di opporsi come «reazione spontanea» la praticità del «protezionismo sociale e nazionale», era una «corrente di mutamento» di portata planetaria «che inghiotte il passato spesso senza neanche incresparsi alla superficie», e che, in realtà, costituì solo «una grossa utopia», un’istituzione «che non poteva esistere per un qualunque periodo di tempo senza annullare la sostanza umana e naturale della società; essa avrebbe distrutto l’uomo fisicamente e avrebbe trasformato il suo ambiente in un deserto» (Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi, Torino 2000, p. 6, 186, 191). Nella critica economica di Polanyi, un autore che era stato ostile tanto all’economia di mercato quanto ad un sistema rigidamente pianificato, la corrente neodestra poteva ritrovare numerose convergenze, a partire dall’interpretazione del liberalismo economico, per gli economisti che vi si riconoscevano,  come una sorta di «credo» il quale si era evoluto «in una vera fede nella salvazione secolare dell’uomo attraverso un mercato autoregolato» che lentamente aveva assunto un vero e proprio «fervore evangelico». Lottando contro l’idea che il mercato costituisse il destino radioso dell’umanità, Polanyi, oltretutto, aveva voluto rifarsi alle civiltà premoderne, il cui progresso era stato soprattutto «politico, intellettuale e spirituale» e non prettamente materialistico, in cui l’economia dell’uomo era, «di regola», «immersa nei suoi rapporti sociali» e dove l’uomo stesso, lungi dall’agire «in modo da salvaguardare il suo interesse individuale nel possesso di beni materiali», agiva per perseguire dei «vantaggi sociali», all’interno di una dimensione per la quale la «conservazione dei legami sociali», aveva «un’importanza cruciale». Per il pensatore ungherese, in definitiva, la peculiarità della civiltà occidentale del Diciannovesimo secolo, era rappresentata dalla perdita di senso della comunità sociale, traumaticamente e repentinamente sostituita dall’individualismo utilitaristico, giacché la «vera critica alla società di mercato non è che essa si basasse sull’economia – in un certo senso qualunque società deve basarsi su di essa – ma che la sua economia era basata sull’interesse individuale. Una tale organizzazione della vita economica è del tutto innaturale nel senso strettamente empirico della parola eccezionale» (Ibidem, p. 60, 61, 173, 311). Non solo, la Novelle Droite, sviluppò, nei confronti del marxismo, un atteggiamento difficilmente riscontrabile nel complesso dei numerosi movimenti emersi dalla sua stessa area di provenienza. Nonostante essa si fosse originata nel seno di una tradizione di estrema destra, per la quale l’anticomunismo era un pilastro ideologico essenziale, ed avesse più volte dichiarato la sua «opposizione (…) totale al comunismo», le sue posizioni in questo senso andarono distanziandosi notevolmente dal resto della destra classica francese, poiché un tale rifiuto era dedotto più che altro dalla lotta contro «l’universalismo egualitario, di cui il comunismo non è nient’altro che un rappresentante fra gli altri», il quale poteva addirittura incarnare «una bella parola – la dottrina del “bene comune”» –, ma che nondimeno si era inoltrato su «una brutta strada» (Alain de Benoist, con lo pseudonimo di Robert de Herte, Pourquoi nous sommes anticommunistes,  «Éléments», 57-58 (1986). De Benoist dichiarò più volte di «non essere ostile al marxismo in ciò che questo ha di più essenziale», e di non essere «meno debitore a Karl Marx di un’analisi critica del capitalismo borghese che, per certi aspetti (ciò che dice sulla reificazione o trasformazione in merce di tutte le sfere dell’esistenza umana, per esempio)» gli sembrava conservare tutta la sua «pertinenza» (Alain de Benoist, Retour au paganisme, Danièle Masson – a cura di, Dieu est-il mort en Occident?, Trédaniel, Paris 1998, p. 75). Il pensiero di Marx divenne, quindi, sempre più attuale nella misura in cui il marxismo era ampiamente «passato di moda», cosa che permetteva di parlarne «senza passione», ma soprattutto per il fatto che Marx aveva compreso, «meglio di chiunque altro la natura profonda del capitalismo, la sua essenza prometeica e la sua forza demiurgica», e la sua «teoria dell’alienazione» aveva perfettamente descritto come l’uomo era divenuto «estraneo a sé stesso», nel momento in cui il «denaro, mediatore di tutte le cose» era divenuto il solo criterio di potere, sia per il lavoratore che per il padrone, entrambi alienati giacché: «Chi non ha denaro è prigioniero di ciò che gli manca, chi possiede denaro è da esso posseduto»

Alain de Benoist, con lo pseudonimo di Robert de Herte, De Marx à Heidegger, «Éléments», 115 (2004-2005).