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Dibattiti

Presentazione: il libro di I. Schaber su Gerda Taro

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Il libro
Irme Schaber, Gerta Taro. Fotoreportererin im spanischen Bürgerkrieg. Eine Biografie, Marburg, Jonas Verlag, 1994, pp. 255
Irme Schaber, Gerda Taro. Una fotografa rivoluzionaria nella Guerra civile spagnola,
trad. dal tedesco di Elena Doria, Pref. di Elisabetta Bini, Roma, DeriveApprodi, 2007, pp. 263

Gerta Pohorylle, in arte Gerda Taro, giovane donna, fotografa antifascista, morta in Spagna, sul fronte di Brunete, a 27 anni, il 25 luglio 1937. Ma soprattutto, per i più, la compagna, la moglie, l’amante di Robert Capa. Ovvero di André Friedmann, in arte e per tutta la vita Robert Capa, considerato uno, se non il più importante fotoreporter di guerra della metà del XX secolo. Per quasi sessant’anni l’opera di Gerda è stata oscurata, o forse ancor peggio confusa, con quella di Capa, ingiustamente, per una serie di motivi assai complessi. Finalmente la ricerca di una studiosa tedesca, Irme Schaber, rende giustizia a Gerda, prima con una biografia apparsa in Germania nel 1995 e poi con la cura, insieme a Richard Whelan (il biografo e studioso di Robert Capa, da poco scomparso) di una mostra fotografica: la prima retrospettiva dedicata a Taro, e del relativo catalogo, allestita tra la fine del 2007 e il gennaio 2008 all’International Center of Photography (ICP) di New York. La biografia ha avuto una traduzione francese e più recentemente una bella edizione italiana, voluta con determinatezza e con passione da un gruppo romano di fotografe e di storiche della fotografia, riunitosi in associazione ”Gerdaphoto”. Il libro è stato sempre nel mese di gennaio 2008 presentato a Roma e poi a Bologna. Riproduciamo qui una parte del dibattito scaturito da quelle presentazioni che hanno visto la partecipazione, oltre che dell’autrice, anche di alcuni storici e studiosi della fotografia; tra essi Elisabetta Bini che qui di seguito rivede ed aggiorna, alla luce di quel dibattito, la prefazione posta alla traduzione italiana.
Schaber con il suo lavoro ci restituisce un profilo di donna e di artista; lo sforzo dell’autrice di individuare i soggetti, la messa a fuoco, lo stile, i luoghi delle immagini, l’occhio in definitiva di Gerda[1], è apprezzabile e rende il volume un bel libro di storia e di fotografia, e in definita rende giustizia alla Taro, e ad altre fotogiornaliste di guerra che l’hanno seguita. Irme Schaber vive e lavora a Stoccarda e da almeno due decenni si occupa di “fotografia dell’esilio”, cioè dell’opera di fotografi fuggiti dalla Germania nazista e da paesi fascistizzati dell’Europa centro-orientale (quali la Polonia e l’Ungheria) negli anni ’30 e ’40; tra questi: Hansel Mieth, Joseph Breitenbach, Wolf Suschitzky, Edith Tudor Hart, Ilse Bing. Schaber ha approfondito l’influenza che essi hanno avuto sul fotogiornalismo e sul reportage in particolare nel mondo anglosassone e statunitense (ad esempio, Lisette Model influenzò Diane Arbus all’inizio della sua carriera). Negli ultimi tempi, la ricerca di Schaber si è ampliata ad altri profili di donne fotografe esuli provenienti o ospitate in paesi ad alto conflitto, quali Israele, Argentina, Sud Africa.
Sino al libro di Schaber, e alla mostra newyorkese che ha ricevuto l’attenzione della stampa internazionale, in particolare americana, spagnola e tedesca, sapevano poco di Gerda anche coloro che avevano studiato la storia della fotografia negli anni dei Fronti popolari e della Guerra civile spagnola[2]. Conoscevamo Taro essenzialmente attraverso alcune sue foto pubblicate sui primi grandi rotocalchi degli anni ’30: i francesi «Vu» e «Regards», il nascente americano «Life». Si sapeva di lei, grazie alle cronache del tempo che avevano giudicato le esequie parigine e le successive commemorazioni pubbliche della Taro sino al 1938 come tra le più forti e toccanti cerimonie politiche del Fronte popolare. I più informati la credevano una esule tedesca di origini ebraiche, analogamente a Capa, d’origine ebraico-ungherese. Era sì nata a Stoccarda nell’agosto 1910, ed era vissuta a Lipsia, ma in realtà la sua famiglia proveniva da quell’area della Galizia che era passata dopo la Grande guerra alla Polonia dando alla famiglia Pohorylle una cittadinanza polacca.
La prima grande qualità del libro è quindi quella di ricostruire la vita ma soprattutto la complessa epoca di Gerda in quattro parti di grande respiro, e in meno di tre decenni, estremamente importanti e drammatici per la storia europea. Il primo è composto dalle origini e dalla rete familiare ebraico mitteleuropea dei Pohorylle, la loro cultura cosmopolita e nel contempo piccolo-borghese, e dall’adozione della Germania weimariana come società aperta, moderna, ricca di opportunità per tutti coloro dediti al commercio e agli affari. Secondo affresco, l’inizio di un impegno politico di Gerda a Lipsia tra circoli giovanili filocomunisti negli anni chiave 1932-33. Una parte utilissima non solo in relazione alla vita della Taro, ma anche per la ricostruzione di ambienti giovanili antifascisti alla vigilia della presa del potere da parte di Hitler. Tale ricostruzione mostra come fosse ancora fluida la militanza di molti giovani, essenzialmente connotata dal rifiuto del nazismo, e a volte solo dettata da posizioni anticonformiste, nel difendere culture o musiche “degenerate”, quali il jazz. Gerda si avvicinò a giovani che avevano aderito alla SAP (partito socialista operaio) nato dalla fusione di sezioni “frontiste” uscite dalla KPD e dalla SPD. Il terzo capitolo è rappresentato dalla città di Parigi tra il 1933 e il 1936. Gerda vi arriva nell’autunno 1933, fuggendo alla Germania oramai nazificata, non solo per motivi politici e razziali ma anche alla ricerca di nuove opportunità ed esperienze, con un bagaglio povero ma essenziale per chi come giovane e soprattutto come donna si muoveva in quei tempi: conoscenze linguistiche e una rete di contatti che si allarga nei mesi successivi ai circoli dell’emigrazione antifascista soprattutto tedesca nella capitale francese. Gerda non fu mai una militante professionista, al servizio di un partito, la politica era da lei vissuta con passione insieme ad amori, incontri, letture, viaggi, in una situazione di grande precarietà e spesso di fame sofferta con la leggerezza di chi aveva vent’anni. La sua vita cambiò nel settembre 1934 allorché incontrò André, e non solo per motivi affettivi. Irme Schaber mostra con chiarezza che Friedmann-Capa non fu il solo amore e forse neanche il “grande amore” di Gerta, anche se successivamente Capa dichiarò che Gerda era stata il grande amore della sua vita e quindi di riflesso si è fatto di lui l’«assoluto amore» di lei. Nacque però un sodalizio amoroso, amicale e soprattutto professionale. Gerta diventa Gerda, André si trasforma in Robert. Quest’ultimo trasmette a Gerda le sue conoscenze professionali di fotografo e Gerda mette al servizio di Capa le sue capacità imprenditoriali e le sue conoscenze linguistiche e diviene ben presto anch’essa una fotoreporter, trascinando con il suo entusiasmo l’introverso Robert.
Taro e Capa vivono insieme la Parigi del Fronte popolare trionfante alle elezioni del maggio ’36, l’occupazione delle fabbriche, le grandi manifestazioni di massa. Ma soprattutto, insieme ad altri giovani fotografi fuggiti al fascismo, come Chim, Namuth e Reisner, vivono la guerra di Spagna. La Spagna incide profondamente sulla loro esperienza umana e soprattutto modifica la loro professione, perché il mercato delle immagini cambia radicalmente dal luglio 1936. La Guerra civile spagnola proietta l’immagine cine e fotografica in una dimensione nuova, politica, propagandistica, di mercato internazionale dominata oramai da grandi testate giornalistiche e da agenzie di stampa. Basta una foto, l’essere sul luogo e al momento giusto, avere coraggio, per fare la fortuna di un fotografo, come accade a Capa con l’immagine il Miliziano che cade. Taro rimase più a lungo di Capa in Spagna, mostrò disprezzo del pericolo nel coprire retro-fronti e fronti di guerra, sino all’incidente che le costò la vita.
Perché Gerda fu dimenticata nel secondo dopoguerra? Nell’ultima parte del volume l’autrice ha cercato di dare una risposta, non solo sulla base di un’attenta ricerca documentaria, ma anche con la raccolta di testimonianze dirette, con la storia orale. La fine della Repubblica Democratica tedesca, all’inizio degli anni ’90, le ha permesso anche di accedere a nuovi materiali sino a quel momento di difficile reperimento per uno studioso che operava al di qua del Muro. Molte le ragioni. La vita della Taro era stata mitizzata nella DDR, e in particolare nella città di Lipsia, con errori biografici grossolani, grazie ad una operazione che aveva fatto di Gerda un modello eroico di combattente comunista per la gioventù comunista; lei che comunista non era mai stata e che aveva sostenuto la Spagna repubblicana ma senza mai “combattere”, se non con la macchina da presa, in reparti armati nella Guerra civile. Il ricordo familiare era inoltre rapidamente scomparso: la famiglia Pohorylle, rifugiatasi in Serbia, viene sterminata all’inizio della guerra, la tomba di Gerda creata da Alberto Giacometti al cimitero di Père-Lachaise distrutta durante l’occupazione tedesca. Ma soprattutto diviene difficile l’individuazione di molte foto scattate da Taro: «Per scarsa conoscenza e burocratismo, interessi commerciali e ignoranza, le fotografie che inequivocabilmente portavano il timbro Photo Taro divennero foto di Capa» scrive Schaber, a causa di interventi successivi da parte di agenzie di stampa, degli eredi di Robert Capa (scomparso some sappiamo nel 1954 in Indocina) e persino dell’indipendente Agenzia Magnum, fondata nel 1947 anche da alcuni ex-compagni di lavoro di Gerda.
In contemporanea all’uscita e alla discussione italiana del libro, la stampa internazionale è stata scossa da una notizia che potrebbe cambiare alcune importanti pagine della storia della fotografia del Novecento. Il 27 gennaio 2008 «The New York Times» batteva la notizia (raccolta il giorno stesso e nei giorni successivi da quotidiani e settimanali quali «la Repubblica» e lo «Spiegel») che erano stati consegnati all’ICP, dopo lunghe trattative, tre valigie contenenti i negativi, che sino a poco tempo fa si credevano perduti, che Robert Capa nel 1939 aveva lasciato a Parigi prima di passare oltreoceano. La stessa vicenda del ritrovamento costituisce di per sé una lezione di storia contemporanea. Sembra infatti che le valigie siano state portate nel 1940 a Marsiglia da Imre Weisz, un altro fotografo di origine ungherese, nel tentativo di fuggire all’occupante tedesco della Francia e di ottenere un visto per il Messico, uno dei pochi paesi che ancora accoglieva a quel tempo ebrei ed antifascisti in fuga dall’Europa. Una vicenda individuale simile a quella di tanti altri esuli in Francia, antifascisti, ebrei, ex-combattenti repubblicani della Guerra civile spagnola. Questo destino collettivo è stato ripercorso da ricerche storiche e dal magistrale romanzo della scrittrice tedesca Anna Seghers: Transit. Weisz finì in un campo di internamento (per poi salvarsi e raggiungere a sua volta Città del Messico) mentre le valigie da sole ripararono in Messico, grazie a canali consolari messicani, e lì vi rimasero, in mano a colui che le aveva trafugate, il generale Francisco Aguilar Gonzalez, e poi ai suoi discendenti. Interessante notare che Weisz, conosciuto col soprannome di Cziki, era stato intervistato in passato da Richard Whelan[3] quando preparava la sua oramai classica biografia su Capa, ma in tali colloqui non aveva mai fatto menzione delle valigie.
In breve, dei negativi si ebbe notizia solo a partire dal 1995, quando le biografie più serie su Capa e sulla Taro erano già uscite, e per più di dieci anni, giornalisti e documentaristi nordamericani, da soli o per conto dell’ICP di New York, cercarono di recuperarli, accelerando le trattative prima dell’inaugurazione delle mostre parallele dedicate dal Center a Taro e a Capa [4]. I negativi arrivarono a New York troppo tardi per essere esposti (d’altronde come avrebbero potuto, prima di un restauro e di un attento loro studio) ma, a dire dei conservatori, in ottime condizioni per materiali in nitrato conservati in scatole. Essi permetteranno forse di risolvere alcuni quesiti rimasti aperti negli ultimi settant’anni, e soprattutto l’attribuzione di diverse foto e l’origine di esse, alcune tra le più famose della storia della fotografia. Brian Wallis, direttore dell’ICP, ha addirittura affermato alla stampa che «ci sarebbe anche la remota possibilità che la fotografia del Miliziano che cade possa essere stata scattata da Taro e non da Capa»[5]. Tra i negativi ritrovati anche quelli relativi ad un’altra tra le più famose e simboliche fotografie della Guerra civile spagnola, quella sino ad oggi attribuita al fotografo David Seymour, in arte Chim, che raffigura una donna che con in braccio un bambino guarda spaventata il cielo. Se si giungesse all’attribuzione a Gerda Taro di alcune foto che hanno reso famoso Capa renderemmo finalmente giustizia a questa giovane fotografa. Si potrebbe però anche andare oltre ed approfondire alcuni aspetti della storia del fotogiornalismo, già emersi come problematici negli ultimi anni. Non credo, ad esempio, che l’attribuzione a Taro della foto del Miliziano e neppure la conferma, grazie alla scoperta dell’intera sequenza di fotogrammi scattati sul miliziano, che tale miliziano fosse o non fosse caduto colpito al petto da fuoco nemico, cambierebbe il giudizio nostro sulla Guerra civile spagnola, né sul valore simbolico di tale fotografia. Ci permetterebbe invece di capire meglio l’uso che a partire dalla guerra di Spagna l’informazione ha fatto delle immagini, isolandole, scorporandole, decontestualizzandole, per dare loro un valore universale. Ciò vale per il Miliziano, inciampato o colpito a morte, che è rimasto il simbolo di sacrificio e di eroismo. Ed è coerente anche per la foto della donna con il bambino, attribuita, sino a prova contraria a Chim e ad una scena da egli ritratta di riunione in Estremadura per la distribuzione di terra, ma che poi assunse altri valori e da molti è ricordata come immagine di una civile terrorizzata dagli attacchi aerei fascisti dal cielo di Spagna. Bombardamenti su civili inermi ci furono veramente in Spagna, come ricorda la bella mostra catalana che ha transitato in diverse città italiane questo inverno[6]; come caddero tanti giovani combattenti in difesa della libertà e della democrazia della Spagna.
Ci permetterebbe inoltre di meglio approfondire quello che già Susan Sontag nel suo ultimo coinvolgente e militante scritto: Regarding the Pain of Others, notava sullo star witness. Sontag osservava che «la Fotografia è la sola arte nella quale la formazione professionale e anni di esperienza non conferiscono un insuperabile vantaggio su altri non qualificati ed inesperti» fotografi, «e questo per tante ragioni, tra queste il grande ruolo che caso (o fortuna) gioca nel prendere le foto, e l’inclinazione verso la spontaneità, il grezzo, l’imperfetto»; come furono i casi sia di Gerda Taro che di Robert Capa. Ecco perché la difficoltà di separare le loro foto, se non conosciamo la loro origine, le sequenze dal quale furono tratte, se non localizziamo nel tempo e nello spazio il lavoro di una fotografa rispetto ad un altro, come ha fatto con intelligenza Irme Schaber. Prosegue Sontag: «In un sistema basato su una vastissima riproduzione e diffusione di immagini, testimoniare richiede la creazione di star witnesses (testimoni che assumono il ruolo di star), resi famosi dall’esercizio della loro audacia e zelo nel procurare importanti e sconvolgenti fotografie»[7], come fu appunto reso Capa tanto da oscurare la fama e il ricordo di Taro.
Sontag però aggiunge anche, in successivi articoli apparsi sulla stampa internazionale poco prima della sua scomparsa, che la fotografia è innanzitutto un modo di vedere e non l’atto di farlo. Occorre pertanto scindere l’occhio di chi ha visto e di come ha visto rispetto a quello si è voluto vedere, attraverso frammenti – le foto – , il contesto – cioè l’aspetto discorsivo e persino ideologico dei media che pubblicano o riproducono un’immagine – , e secondo l’epoca nel quale vediamo le immagini. Ricostruire la vita, l’opera, l’epoca di Gerda Taro contribuisce anche a questo importante approfondimento del ruolo della fotografia nella lettura dell’età contemporanea.

[[figure caption="Gerda Taro, [Republican militiawoman training on the beach, outside Barcelona], August 1936, Gelatin silver print © International Center of Photography."]]figures/2008/dogliani/dogliani_2008_01.jpg[[/figure]]

Note

[1] Notare che il titolo tedesco mantiene il nome GerTa mentre la traduzione italiana propende per quello assunto a Parigi di GerDa.

[2] Si vedano, ad es. i miei lavori, P. Dogliani, Fotografia ed antifascismo negli anni trenta. Professionalità ed impegno politico alle origini del moderno fotogiornalismo, «Passato e Presente» 19 (1989), 127-154, e Informazione di massa e fotogiornalismo del Fronte popolare francese: una lettura delle riviste «Vu» e «Regards», in: A. Agosti (ed.), La stagione dei Fronti popolari, Bologna, Nuova Universale Cappelli, 1989, 184-213.

[3] R. Whelan, Robert Capa. A biography, New York, Alfred A. Knopf, 1985.

[4] This is War! Robert Capa at Work, anch’essa allestita all’ICP sino al 6 gennaio 2008.

[5] R. Kennedy, The Capa Cache, «The New York Times», January 27, 2008.

[6] Quando piovevano bombe. I bombardamenti e la città di Barcellona durante la Guerra civile, a cura della Generalitata de Catalunya.

[7] S. Sontag, Regarding the Pain of Others, Penguin Books, 2003, 25 e 30 [mia traduzione].