Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

Discorso sul discorso. Qualche riflessione a proposito di Sergio Luzzatto, La crisi dell'antifascismo.

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Il testo di Sergio Luzzatto è un pamphlet polemico con il proposito, messo in chiaro fin dall'inizio, di parlare una lingua diversa da quella "del verbo post-antifascista" e di contrapporvi una serie di prese di posizione più che i risultati di una ricerca sulla medesima materia. Questo verbo post-antifascista viene identificato non tanto con la letteratura storiografica stricto sensu - che figura solo in controluce - quanto invece con il discorso pubblico sull'antifascismo del quale, naturalmente, gli storici di mestiere sono una componente. Ad essi, va poi affiancata tutta una schiera di sedicenti storici o storici autoproclamatisi tali, ai quali l'autore dedica righe molto sferzanti e caustiche. Assidui frequentatori dei talk show, delle pagine dei quotidiani e prolifici scrittori di volumi ad ampia divulgazione, sono tra i principali forgiatori del senso comune storico di massa, conteso da un dedalo di forze che, sulla ribalta della sfera pubblica, esprimono rutilanti valutazioni sul passato.

Il libro si presenta, quindi, come un discorso sul discorso antifascista, imbastito da uno storico che conosce assai bene i cortocircuiti esistenti tra la storia, la memoria collettiva, l'identità di un paese e intende scientemente incidervi a partire dalla propria competenza professionale. In questo senso, Luzzatto dà linfa ad un genere in via di estinzione e dall'intenso profumo francese: l'intervento dell' "intellettuale specifico" che, muovendo dalla sua credibilità scientifica, aggredisce la doxa prevalente in un determinato dominio e cerca di svelarne l'arcano. A mio modo di vedere è un pamphlet coraggioso poiché le tesi di Luzzatto sono in controtendenza rispetto allo Zeitgeist che permea il discorso pubblico da almeno una decina di anni e, forse, anche quello storiografico. Al tempo stesso, è giusto evidenziare anche le condizioni di possibilità e, non meno, del successo editoriale di tale presa di parola, ferma restando l'indiscutibile grana fine dell'autore. Egli si situa in una posizione dominante sia nel campo della comunicazione di massa, in qualità di commentatore del più importante quotidiano nazionale ( Corriere della sera ), sia in quello dell'università, poiché ricopre un incarico di professore di prima fascia ed ha infine accesso, sin dai suoi primi libri sulla rivoluzione francese, ad una delle più prestigiose case editrici italiane (Einaudi).

Forse, però, il tratto più originale consiste nella rivendicazione di un punto di vista generazionale. Luzzatto, che già altre volte si è occupato di giovani e di rapporti generazionali, mette in opera un interessante tentativo di autoriflessività, applicando a se stesso la categoria di generazione e rimarcando le differenze di orizzonte mentale, di esperienze, di identità culturale rispetto alla generazione del '68, oggi trionfante sulla scena pubblica per ragioni anagrafiche. Tutti fattori, questi ultimi, che determinano un atteggiamento autonomo rispetto alla storia poiché ogni generazione si assume il diritto di interpretare il passato a partire dal proprio habitus, che è il risultato di condizioni storicamente determinate. La generazione del '68 ha inaugurato la teoria e la pratica di questo conflitto in modo esplicito poiché, per la prima volta nella storia del paese, si è autopercepita come gruppo omogeneo e ha lucidamente aggredito nel corso degli anni Settanta, e poi ancora successivamente, l'intero mondo del padre sia sul piano politico sia su quello dell'interpretazione del passato. Le pagine delle riviste di storia, cultura e politica di quei decenni sono zeppi di articoli che documentano tale dimensione generazionale. Sarebbe davvero bizzarro se ora rimproverasse ai figli di voler fare lo stesso, di voler prendere le distanze da una rappresentazione del passato in cui non si riconoscono poiché essa reca le stimmate di stagioni trascorse, di contese d'altri tempi e anche di condizionamenti ideologici persistenti, benchè, a volte, di segno rovesciato. In questo senso, mi pare di cogliere robuste continuità nell'atteggiamento di coloro che con il medesimo fondamentalismo ideologico parteggiavano ieri con la Cina o addirittura con l'Albania e oggi per il mercato, l'ideologia della fine delle ideologie, l'Occidentalismo ecc. E poiché, come Luzzatto ripete più volte lucidamente, la storia si nutre del legame tra presente e passato, da questa postazione, ieri come oggi, essi rileggono la storia, proiettando su teatri distanti nel tempo i loro desideri attuali, forzando così oltre ogni limite, l'operazione storica. Una persona di trent'anni, ad esempio, con qualche alfabetizzazione culturale, non può che sorridere di fronte a tesi quali "la morte della patria" per l'alto tasso di manipolazione retorica del discorso: come se lo storico potesse dire qualsiasi cosa, inerpicandosi tra un'interpretazione e l'altra fino a vette di alterazione linguistica ove non si scorge più la realtà. Ciò naturalmente è possibile, disponendosi, però, su di un piano inclinato che conduce all'identificazione tra racconto storico e racconto letterario e, perché no, anche racconto giornalistico ( sub specie fondo o editoriale); tanto, secondo alcuni, sono tutte forme di narrazione sganciate da un rapporto costrittivo e costitutivo con la verità, la prova, la falsificabilità, le procedure scientifiche. Questi sono i cortocircuiti perversi provocati dai cattivi usi pubblici della storia.

L'approccio di Luzzatto mi pare fecondo. Forse, potrebbe essere esteso anche al lavoro degli storici per affacciare i rudimenti di una storia della storiografia che riconduca le idee e i filoni di pensiero non soltanto ai conflitti generazionali, ma anche alle posizioni occupate dagli storici dentro il campo della storiografia e dell'accademia, senza escludere le relazioni con le case editrici, i mezzi di comunicazione, le riviste, gli istituti culturali, ovvero con tutti i luoghi di produzione e circolazione di un sapere storico. Mi sembra infatti impossibile analizzare quest'ultimo prescindendo dalle istituzioni che lo organizzano e ne governano i meccanismi di funzionamento. Potrebbe essere un modo, questo, per sottrarre il dibattito sulle idee ad un atteggiamento moralista, basato cioè essenzialmente su giudizi di valore, oppure ad un altro disincarnato e irenico, laddove si dipingono gli storici come liberi intellettuali operanti in uno spazio senza tempo e in un tempo senza spazio. Al contrario, si potrebbe avviare un'operazione di Aufklärung : diventerebbero allora intelligibili le condizioni di possibilità, le traiettorie che formano gli habitus degli autori e spiegano l'elaborazione dei saperi in contesti solcati da microfisiche del potere.

Per quanto concerne gli argomenti di Luzzatto, è arduo passare in rassegna tutti i nodi problematici su cui si concentra con grande efficacia la sua attenzione. Tra i più felici, mi sembra la critica della visione "penitenziale" del '900, ridotto, in certe sintesi, ad un'orrifica distesa di cadaveri la cui nauseabonda puzza ammanta tutto, impedendo di discernere e distinguere, separare e classificare, sciogliere comparazioni troppo ardite e dal discutibile valore euristico. Il '900, infatti, è anche e soprattutto il secolo dell'emancipazione durante il quale una molteplicità di soggetti subalterni escono dal cono d'ombra dello sfruttamento o, almeno, ne prendono coscienza a latitudini diverse del pianeta: contadini, classe operaia, popoli coloniali, donne, giovani, studenti, malati mentali, emigrati. Altrimenti, è il secolo dei diritti sociali che segnano un punto di non ritorno nella concezione della democrazia, irriducibile - a meno di non voler basculare di circa centocinquant'anni all'indietro - a semplici procedure.

Efficaci mi sembrano le critiche ad alcune spericolate politiche della memoria del Presidente Ciampi che, nell'enfasi della commemorazione di ogni gesto dell'esercito al fine di restituire credibilità a pezzi importanti delle istituzioni, inciampa su El Alamein, oscurando i disastri commessi dai soldati italiani. Le perplessità di Luzzatto, forse, potrebbero essere estese anche alla "giornata del ricordo delle foibe" con la quale lo Stato italiano commemora nell'ufficialità e nell'indistinzione vittime innocenti di una storia molto complicata del confine orientale e fascisti, sciovinisti, nazionalisti, filonazisti, vale a dire gruppi di individui tutt'altro che incolpevoli o, in altri termini, esempi di italianità di cui vergognarsi. D'altra parte, se è ormai possibile inaugurare nella televisione pubblica un premio Almirante e conferirlo al questore D'Inzeo, vecchio campione della celere!

Convincente è pure l' "elogio della memoria divisa" su cui vale la pena soffermarsi più estesamente. Al di là del giudizio personale dell'autore, esternato con una certa ruvidità, quelle pagine segnalano un problema di metodo ineludibile. La memoria individuale è un'attività di selezione e non di accumulazione passiva del passato. Procede cioè per erosione: esclude alcuni elementi e ne trattiene altri, intrecciando i fili di una trama che viene costruita senza soluzione di continuità. Una tela di Penelope dove Penelope è agita di notte senza intenzione. Per questa ragione essa è evidentemente parziale, incompleta, a volte persino contraddittoria, in una parola: è il distillato della soggettività di colui che ricorda. Ne discende quindi che essa sia molto più utile per esplorare il profilo culturale e politico di colui che ricorda e assai meno per risalire a "come sono andate esattamente le cose", ovvero al contenuto fattuale del racconto. La verità della memoria, in definitiva, non coincide con la verità della storia. Non solo. La memoria può essere anche collettiva, quando è comune ad un intero gruppo sociale. In questo caso, non è sufficiente sommare insieme tanti ricordi individuali, ma occorre una vera e propria esperienza condivisa; essa è frutto di una rielaborazione, risultante di un processo di interazione sociale in grado di sedimentare una sorta di appartenenza collettiva. Poiché ogni gruppo sociale (una generazione, una classe ecc.) esperisce il mondo a partire da condizioni di vita specifiche, ne consegue che le memorie collettive siano plurali, variegate, ontologicamente "divise", a volte recisamente conflittuali: insomma un materiale in ebollizione. Conosco solo un tipo di realtà politica novecentesca in cui la memoria collettiva, intesa ora come patrimonio dell'intera nazione, si presenta all'osservatore superficiale unica e granitica, in quanto viene scolpita negli uffici addetti alla stampa e alla propaganda, per essere poi calata dall'alto con dispositivi di persuasione di massa: i regimi totalitari. Altra cosa è l'operazione storica, vale a dire la pratica scientifica che mira, attraverso procedure di analisi critica dei documenti e l'uso di categorie concettuali, all'accertamento dei fatti. Questa ha il dovere di comprendere tutte le memorie. Ma su questo non credo serva dilungarsi.

Uno dei temi più spinosi affrontati frontalmente da Luzzatto e, di nuovo, in modo condivisibile nei suoi tratti generali, è la "questione comunista", tra le principali indiziate della "crisi dell'antifascismo". Esiste un celebre "sillogismo" coniato, credo, da Renzo De Felice e poi riproposto in luoghi molteplici, che risolve il problema a tavolino senza bisogno di affaticarsi troppo nella ricerca storica, ovvero nell' "accertamento dei fatti": mentre la democrazia è necessariamente antifascista, non è vero il contrario, poiché l'antifascismo ha una componente interna totalitaria e antidemocratica, il comunismo. Ne derivano due conseguenze che si irradiano contemporaneamente verso il passato e il futuro: sul primo piano occorre espellere, con mossa retrospettiva, i comunisti dall'edificazione della democrazia: riscrivere la storia; sul secondo occorre espellere l'antifascismo dai fondamenti della "Seconda Repubblica": riscrivere la Costituzione. Mi sia consentito di sollevare un interrogativo: vi sembra davvero serio questo ragionamento? Ma se la ricerca storica è accertamento dei fatti e se questi raccontano inequivocabilmente il ruolo enorme e imprescindibile dei comunisti non solo nella liberazione del paese dal nazifascismo, ma anche nella edificazione della democrazia attraverso la costituzione repubblicana, come si può sostenere il contrario? Senza dire poi del contributo comunista dato all'applicazione della costituzione, alla operatività, quindi, di quella ricca impalcatura di diritti confinata per anni nel congelatore dalle classi dirigenti al fine di "proteggere" la democrazia da se stessa. Naturalmente le questioni sono tante e non vanno banalizzate, tuttavia, il nocciolo resta: bastano i legami del Pci con l'Unione Sovietica per sovvertire l'ordine delle cose mediante una manipolazione dell'ordine del discorso? Cosa c'è di residuale o nostalgico nel riconoscere nel corpo del paese la funzione democratica che l'antifascismo comunista ha avuto? Si può forse scambiare questa osservazione con un'adesione al disegno criminale di Pol Pot fuori tempo massimo?

Luzzatto sottolinea con enfasi le aporie sottese a queste domande, forse però, avrebbero acquisito ancora maggiore nitidezza se i riferimenti comparativi al contesto europeo fossero stati sviluppati maggiormente in modo da illuminare le cause del radicamento e della permanenza dell'antifascismo nella lunga durata. Da questo punto di vista, non basta menzionare la singolarità dell'antifascismo italiano durante gli anni trenta e quaranta e neppure arrestarsi alla sua presenza dentro la Costituzione quale patto sulle procedure, fondamento identitario della Repubblica e alveo culturale e politico di una nuova concezione della cittadinanza. Occorre piuttosto solcare tutta la vicenda successiva durante la quale, secondo alcune intuizioni di Franco De Felice, l'antifascismo non si limiterà "alla testimonianza offerta o al patrimonio di elaborazione accumulato", ma si incarnerà nelle istituzioni, vivrà nelle culture politiche, si rimodulerà insieme al mutamento sociale e si tradurrà "in attività, realtà organizzata, che compie scelte, sviluppa iniziative, suscita e organizza forze, si fa corposo incontrando problemi, speranze, radicalismi di un paese in movimento" [ Doppia lealtà e doppio Stato , «Studi storici», 3 (1989), 510]. In altri termini, esiste una vicenda polisemica dell'antifascismo dopo il 25 aprile che resta in ombra nelle pagine di Luzzatto. Inoltre, tale vicenda si intreccia indissolubilmente con quella della democrazia, a differenza di quanto avvenga in Francia e Germania. Anzi, si può affermare che essa riveli un nesso complessivamente positivo con l'espansione della democrazia costituzionale poiché rappresenta un potente vettore di avanzamento dei diritti di cittadinanza in tutte le fasi più delicate della storia nazionale. Questo aspetto dell'antifascimo, ancora poco sondato, lo rende un costruttore attivo e dinamico del concetto di cittadinanza, inteso come piena appartenenza ad una comunità nazionale di tutti i suoi soggetti. L'antifascismo ha dimostrato di essere una forza vitale in grado di rideclinarsi nel corso degli ultimi cinquant'anni, incontrando i bisogni e i desideri delle giovani generazioni e caricandosi, senza soluzione di continuità, di significati in "positivo". Per questa ragione, forse, non appare così inservibile oggi anche di fronte al "totalitarismo democratico" paventato da Luzzatto. Totalitarismo che, nelle forme e modalità prefigurate dall'autore stesso (una miscela di rigurgito patriottico, anelito mistico, religione del mercato, ideologia dello scontro di civiltà, teoria della guerra preventiva e permamente, riduzione delle libertà civili ecc.), a ben vedere e sentire, non sembra una visione fantascientifica o un semplice fantoccio servibile solo per tenere in vita artificialmente un simulacro antifascista. Basta leggere di tanto in tanto qualche pagine che il Corriere della sera dedica inopinatamente al pensiero razzista di Oriana Fallaci e ricordare, come indica un intenditore all'altezza dei tempi, che: "così muore la democrazia: sotto scroscianti applausi" [George Lucas in Star Wars: Episodio III ].

In definitiva, il volume di Luzzatto aiuta certamente a tracciare una nuova cornice problematica entro cui bisogna situare lavori di ricerca e di scavo, i quali sappiano procedere in avanti in modo anche spregiudicato, vale a dire senza il timore di infrangere miti, del resto già vacillanti, o di affrontare argomenti scomodi. Alla critica degli usi pubblici della storia - che Luzzatto è riuscito abilmente a collocare ad un altezza tale da scuotere il sistema mediatico - occorre far seguire l' operazione storiografica , evitando di riproporre errori già effettuati nella stagione calda del combat antidefeliciano, quando alle opere dello storico reatino la storiografia antifascista non ha saputo contrapporre una mole adeguata di studi e approfondimenti.