Storicamente. Laboratorio di storia

Fonti e documenti

Roma 1911 e la disfida dei Cinquantenari

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Abstract
Official celebrations of the proclamation of the Italian Unification and Rome as the capital of the Kingdom were held in Rome in March 1911 and took place in a not very heated atmosphere. Nevertheless, in addition to these celebrations we are witnessing a proliferation of unofficial initiatives that reveal the "quarrelsome rivalry" between ideological visions of the nation and its duties incompatible with each other and even of economic disputes and grievances. The papers of the Cabinet of the Mayor, discussed in the essay, show how, as opposed to institutional and "bourgeois" celebrations, socialist and popular, anti-monarchist and anti-clericals ones marched on the stage of the capital and how, behind the scenes, the Mayor drew criticism from the class of employees, economically discontented, even though it supported him politically.

La seduta reale e l'«Italia unita per concordia di animi»

Le celebrazioni ufficiali cittadine, tenutesi nel marzo 1911, del cinquantenario della proclamazione dell'Unità d'Italia e di Roma a capitale del Regno si svolgono in un clima non segnato da una particolare conflittualità sociale[1].

Cionondimeno a latere di queste si assiste a una proliferazione non solo di iniziative non ufficiali che danno conto del «rissoso antagonismo» [Gentile 2011, IX] tra visioni ideologiche della Nazione e dei suoi compiti tra di loro incompatibili ma anche di contestazioni e rimostranze di natura squisitamente materiale.

Dalla Relazione morale e finanziaria del 1910 della Camera del lavoro di Roma e Provincia emergono anche, e ancor più delle ragioni del malcontento sociale, contrasti e dissidi tutti interni all'organismo[2]. Se la Camera, infatti, si era impegnata nell'«alleviare la classe operaja dal continuo incessante rincaro dei viveri e delle pigioni» che «assottigliano le conquiste dagli operai ottenute nel campo del salario» [Camera del Lavoro di Roma e Provincia 1912, 4] e non aveva mai «mancato ai comizi continuamente tenuti nel 1910 dai ferrovieri per agitare la loro questione nel paese e premere sulle intenzioni del radicale ministro dei LL.PP. on. Sacchi» [Camera del Lavoro di Roma e Provincia 1912, 8], la Relazione doveva anche amaramente constatare che «i ferrovieri hanno [...] un grave difetto: ed è quello di tenersi appartati dai movimenti dei loro compagni, disertando le Camere del Lavoro qualunque esse siano» [Camera del Lavoro di Roma e Provincia 1912, 8] e che nel corso dell'anno si erano iscritti alla Camera solo 225 ferrovieri, «una vera miseria!» [Camera del Lavoro di Roma e Provincia 1912, 13]. La Camera aveva, «invano», tentato di organizzare anche gli operai del settore chimico ma, sottolineava la Relazione, «qualche gruppo organizzato si è guardato bene dall'aderire alla Camera del lavoro, malgrado le ripetute sollecitazioni inoltrate alla Federazione» [Camera del Lavoro di Roma e Provincia 1912, 7].

Ad ogni modo, nella capitale il 1910 era stato punteggiato da agitazioni di fornai, postelegrafonici, ferrovieri e vetturini. Tra il febbraio e il marzo dell'anno successivo, poi, vi era stata l'adesione dei carpentieri e dei falegnami che lavoravano a Piazza d'Armi allo sciopero dei lavoratori del legno [Parisella 1980: 61-2] e si erano susseguite proteste contro il caroviveri, le spese militari e il rincaro degli affitti e manifestazioni per il suffragio universale, spesso, in verità, non confortate da un grande successo di pubblico [Talamo 1987, 152-3 e Parisella 1980, 54].

Di queste tensioni e insoddisfazioni che corrono sottotraccia non giungeva certo l'eco in quel Campidoglio dove il 27 marzo, in seduta reale (figura 1), si sarebbe per l'appunto festeggiato il cinquantenario della proclamazione dell'Unità italiana e di Roma a capitale del Paese, alla presenza, come proposto dalla Commissione comunale per i festeggiamenti, nominata dalla giunta capitolina nella seduta del 31 agosto 1910, «della Corte, del Corpo Diplomatico, del Governo, del Senato, della Camera Elettiva, dei Grandi Ufficiali dello Stato, di una rappresentanza degli Ufficiali Generali dell'Esercito e della Marina, delle Autorità locali, dei Sindaci dei Comuni capoluoghi di provincia, del Consiglio Comunale e di quello Provinciale» [SPQR 1911: 131].

Figura 1.
Figura 1.

Eppure indizi di malumore è possibile rinvenire nelle carte del Gabinetto del Sindaco, depositate presso l'Archivio capitolino, che confortano la tesi della contrapposizione, veicolata dalla stampa socialista dell'epoca, tra due cinquantenari, quello borghese e quello, per l'appunto, proletario.

Erano dovuti passare decenni dall'annessione di Roma all'Italia, sosteneva l'«Avanti!», «perché un corpo di magistrati civici veramente italiano, cioè imbevuto profondamente di dinastismo sabaudo ascendesse il Campidoglio»[3]. Se il quotidiano socialista riconosceva che questa era stata «almeno idealmente una vittoria della civiltà contro le ultime forze superstiti della reazione baronale e papalina», aggiungeva però come sarebbe stato «un grave errore storico volere attribuire questa vittoria alle capacità intellettuali e politiche del popolo di Roma», in quanto la vittoria del Blocco era stata «determinata da ceti professionali estranei e sovrapposti all'indole popolana della città, emigrati dal Piemonte e in genere dal Settentrione e quivi sviluppatisi con un temperamento politico e una orientazione economica più avanzata senza dubbio ma profondamente diversi dalla tradizione storica di Roma». La «terza Italia a Roma» era stata «opera della burocrazia dello Stato e irradiazione diretta del Quirinale. La Corte che voleva vivere isolata in un centro di sontuose mondanità non permise mai che Roma diventasse una grande città industriale»[4]. I festeggiamenti ufficiali capitolini si riducevano quindi a «vana proclamazione del risorgimento politico», ma non potevano celebrare alcun «profondo risorgimento economico».

Ma sempre sulle colonne dell'«Avanti!» venivano denunciati tutti i limiti della svolta democratica di inizio Novecento. Se anche, infatti, la borghesia aveva «smesso certi suoi atteggiamenti polizieschi e forcaioli», era pur vero che «la politica dell'ultima parte del cinquantennio» aveva operato una «cristallizzazione delle oligarchie finanziarie industriali terriere, con appena qualche riguardo e qualche spunto di legislazione difensiva a profitto della classe operaia»[5]. Il Cinquantenario non poteva così celebrare per la classe capitalista e quella operaia una storia comune.

Il tema, peraltro, dei «due cinquantenari», oltre che a echeggiare nei titoli dell'organo socialista, ricorreva anche nei momenti di mobilitazione e propaganda; «mentre la borghesia - recitava un ordine del giorno approvato dalla Camera del Lavoro riunitasi il 4 febbraio - si prepara a solennizzare il cinquantenario del regno, il proletariato potrà levare efficacemente la sua voce per fare il bilancio dei cinquant'anni di vita nazionale in rapporto ai bisogni della classe lavoratrice, e per affermare il diritto a migliori condizioni di esistenza e protestare contro tutte le forme di sfruttamento capitalistico» [Talamo 1987, 152].

Questo segno classista era ovviamente negato nelle celebrazioni governative.

Nathan, già nel discorso commemorativo della figura di Giuseppe Mazzini, tenuto il 10 marzo 1911, aveva esaltato i quattro «fattori massimi» dell'unificazione italiana («l'apostolo, il guerriero, il re, lo statista») e sottolineato come in Mazzini l'obiettivo unitario fosse stato prevalente rispetto a quello repubblicano e la religione concepita come possibile strumento di progresso civile. Il sindaco di Roma si era anche rallegrato degli «entusiasmi patriottici scoppiati spontanei» in tutti i ceti sociali in occasione del cinquantenario[6].

Questa «immagine oleografica» [Gentile 1997, 18; De Nicolò 2010, 41] dell'unificazione quale processo, privo di cesure, cui avevano partecipato con spirito cooperativo i suoi quattro artefici veniva riproposto da Nathan nel suo intervento del 27 marzo (figure 2-5): «il sentimento di una Patria, libera ed indipendente dall'Alpi al mare, da Giuseppe Mazzini, con la Giovane Italia, con le cospirazioni, coi moti, trasfuso nell'animo degli Italiani, informò l'opera di ricostituzione assunta da Carlo Alberto nel 1848»[7]. Dei «quattro che sintetizzano la storia del moto ascendente», il metodo e l'azione, «apparentemente difformi ed ostili, prospettati oggi nel tempo, si armonizzano, si completano»[8].

Figura 2.
Figura 2.
Figura 3.
Figura 3.
Figura 4.
Figura 4.
Figura 5.
Figura 5.

In questa lettura pacificata del Risorgimento si inseriva il bilancio soddisfacente dello sviluppo economico raggiunto, frutto del «silente lavoro» e dell'«imbrigliare gli smodati desideri».

Interclassismo e pacificazione sociale costituivano il leitmotiv che ricorreva anche negli interventi degli altri oratori. Il Presidente del Senato Giuseppe Manfredi esaltava l'Italia (figure 6-7) come «elemento di ordine e di pace»[9] e la Casa regnante che si era «immedesimata col popolo italiano»; quello della Camera Giuseppe Marcora l'«Italia unita per concordia di animi» (figure 8-9) e «fattrice di incivilimento e di pace»[10]; il Presidente del Comitato esecutivo per le feste commemorative, il conte Enrico di San Martino, «il Paese tranquillo»[11]. A parte, infine, il breve cenno di Marcora all'affrancamento della capitale «da ogni signoria forestiera o teocratica», nelle celebrazioni ufficiali non vi era traccia alcuna del dissidio apertosi tra Stato e Chiesa con la questione romana; anzi, proprio Vittorio Emanuele III si assumeva il compito di ricordare come l'Italia, con Roma capitale, garantisse «la tranquilla convivenza delle Chiese con lo Stato» e la «piena e feconda libertà alla religione»[12].

Figura 6.
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Figura 7.
Figura 7.
Figura 8.
Figura 8.
Figura 9.
Figura 9.

Non può stupire, quindi, se proprio l'amministrazione bloccarda avrebbe poi celebrato l'impresa libica come suggello del processo di consolidamento di un indifferenziato corpo sociale, privo di fratture interne:

l'anno medesimo quando le celebrazioni per il cinquantenario rivelarono con le varie mostre, l'essere della nuova Italia, - chiariva un corposo e dettagliato rendiconto dell'attività della giunta Nathan - la spedizione di Tripoli ne attestò la salda costruzione morale, politica ed economica, la missione di civiltà assunta. Eran maturi i tempi perché l'Italia si collocasse al posto spettantele nel consesso delle grandi Nazioni. L'unione manifestatasi, né mai interrotta fra popolo e Governo, della consolidata unità morale [...]; la elasticità economica atta ad affrontare le spese di una guerra costosa, al di là del mare, con le risorse proprie, senza appello al credito, il credito nazionale mantenendo saldo ed intatto quale era; la organizzazione militare che, con una precisione invidiabile ed invidiata da altre nazioni, seppe compiere le più difficili operazioni di sbarco e di occupazione mercé la perfetta intesa fra esercito e marina, senza una indecisione, senza un errore; la tattica sapiente, lo spirito di corpo, il valore e l'audacia individuale di cui entrambi dettero prova, dai comandanti all'ultimo soldato, furono per molti una rivelazione; una rivelazione di elevatezza morale, di giovane vigore del paese, che avrà dato utile materia di riflessione a coloro i quali, all'interno ed all'estero, avrebbero aspirato ad arrestarne il fatale andare [SPQR 1912, 23].

Contro la cerimonia «senza un'anima» il Cinquantenario proletario

Il cinquantenario invece, non poteva evidentemente da par suo che sentenziare sprezzante l'organo socialista, si era ridotto a una cerimonia «senza un'anima»[13] che aveva ostentato «i simboli di una gloria cui nessuno crede». A questa «L'Avanti!» opponeva, il giorno seguente la seduta reale, Il  «Cinquantenario» del proletariato[14], non solo capitolino ma dell'intera penisola, e dava conto di manifestazioni socialiste e operaie a Livorno, Parma, Oneglia, Castelmaggiore, Carpi, Piombino, Pisa, Firenze e altre località. In quegli stessi giorni il quotidiano del Psi riferiva puntualmente di agitazioni promosse da varie categorie di lavoratori, prima di tutto i particolarmente attivi tranvieri[15]. Ancor più duro sarebbe stato il bilancio di fine anno stilato dal foglio della frazione intransigente del Partito socialista che tacciò l'amministrazione comunale di aver «vissuto una vita a sé, ignorando il popolo che le aveva conferito il mandato»[16]. Aveva buon gioco allora «L'Osservatore Romano» ad ironizzare sulla distanza che separava lo sfarzo e la retorica delle celebrazioni dalle precarie condizioni sociali in cui versava la classe lavoratrice. Agli operai, infatti, non poteva che fare «penosa impressione» assistere «agli sbandieramenti, ai banchetti, alle inaugurazioni, alle luminarie che si riflettono sinistramente nella stanzetta buia e disadorna ove regnano ancora la miseria e forse la fame»[17].

Ma motivi di malcontento serpeggiavano non solo tra le fila operaie e non solo a causa del mancato invito a prendere parte ai festeggiamenti.

Il Consiglio direttivo della Società Ufficiali Pensionati del Regno, in verità, nella deliberazione approvata all'unanimità nella seduta del 30 marzo, pur non volendo portare «una nota dissonante nel giubilo delle presenti feste», non poteva non «dolersi» (figure 10-11) per essere stata esclusa dai festeggiamenti[18]; il Consiglio dei Reduci delle Patrie Battaglie “G. Garibaldi” nella seduta straordinaria del 26 marzo 1911 stigmatizzava (figure 12-13) all'unanimità l'esclusione dalle celebrazioni di «coloro, che volontariamente esposero la loro vita nei campi di battaglia e sacrificarono il loro avvenire per realizzare in Roma l'aspirazione di tutti gl'Italiani»[19], ricevendo il sostegno del «Giornale d'Italia» che lamentava l'assenza «di riconoscenza da coloro che dimenticano come, senza gli sforzi ed i sacrifici e gli ardimenti dei volontari, né Roma sarebbe stata liberata, né i gaudenti occuperebbero gli alti posti, su cui siedono signorilmente senza curarsi dei doveri verso chi ha lottato e versato il sangue per questa Italia»[20]; gli Ufficiali in congedo, esclusi dalla cerimonia del 27 marzo, non mancarono di ironizzare sulle «democratiche origini» dell'amministrazione bloccarda che avevano indotto a dare «l'ostracismo a quelli appunto, senza l'opera dei quali i componenti la medesima non si sarebbero mai sognati di arrivare ai fastigi del potere capitolino»[21]; infine, i ferrovieri in servizio a Roma protestavano perché, a differenza delle altre città, nella capitale le stazioni non erano state chiuse per le celebrazioni; «siamo anche noi Italiani, - osservavano stizziti - e come italiani intendiamo partecipare all'esultanza nazionale»[22].

Figura 10.
Figura 10.
Figura 11.
Figura 11.
Figura 12.
Figura 12.
Figura 13.
Figura 13.

«Il malcontento serpeggia» anche tra gli impiegati

Ma era il Presidente dell'Unione italiana ferrovieri escursionisti a rivelare le ragioni (figura 14), tutte materiali, che potevano indurre il ceto impiegatizio a non aderire entusiasticamente al clima celebrativo; «grave» - scriveva egli al sindaco - era infatti il «malcontento che serpeggia nella classe degli Impiegati, dovuto alle condizioni economiche e morali assai tristi in cui versa e ad un vivo risentimento generale prodotto dalla mancanza di ogni benevolenza da parte del Governo. E senza essere profeta, io prevedo che dalle circolari, dalla S.V. mandate ad associazioni ed organizzazioni economiche e professionali d'Impiegati, Ella riceverà ben poche evesioni [sic] completamente favorevoli ai di Lei nobili e patriottici sentimenti»[23] [testo integrale link a 12].

Figura 14.
Figura 14.

Il tono risentito della missiva è comprensibile solo che si ponga mente alla circostanza che il ceto impiegatizio e burocratico era stato il nucleo centrale, consapevole e quindi esigente, di quel «disegno politico giolittiano di un incontro delle forze liberal-democratiche con quelle dei partititi popolari e del socialismo riformista per realizzare un progetto di buona amministrazione» [Vidotto 2001, 121] che attenuasse le tensioni che si erano andate acuendo a Roma a partire dall'incremento degli affitti registratosi nel 1903.

Anticlericalismo e polemica antisabauda

Se, poi, l'anticlericalismo era il collante culturale delle forze politiche che avevano dato vita al Blocco popolare, «la cultura laica e massonica aveva una forte presa e un largo seguito» [Vidotto 2001, 121] proprio nei settori dell'amministrazione.

Questo spiega presumibilmente la grande effervescenza di iniziative dell'associazionismo anticlericale nei giorni immediatamente precedenti la citata seduta reale. Era la Giordano Bruno, già dai primi giorni di marzo, ad annunciare (figura 15) convinta il suo protagonismo in questa direzione:«la vecchia città Leonina che sacrò alla redenzione di Italia i suoi figli migliori, che seppe le glorie della romana Repubblica, e gli strazi della tirannide papale, non poteva rimanere indifferente al fausto avvenimento che tutta Italia concordemente festeggia. E se il prete, oggi, non dimentico del potere temporale perduto, tenta opporsi all'entusiasmo dell'anima italiana, tanto più è nostro dovere, di fronte al Vaticano, ricordare i nostri martiri ed i nostri eroi che vollero Roma restituita all'Italia e che seppero per la luminosa idealità affrontare galere e patiboli»[24].

Figura 15.
Figura 15.

L'Associazione, così, si rifiutava di partecipare a manifestazioni, fossero anche organizzate da comitati popolari e rionali, che non avessero «assunto carattere prettamente ostile al Vaticano»[25].

La Sezione Macao-Castro Pretorio, sempre della Giordano Bruno, in assemblea generale, censurava «la servile politica del governo»[26] ricordando all'«unione delle forze popolari» come suo obiettivo dovesse essere l'«ideale politico e sociale» della laicità[27] mentre l'Associazione anticlericale Prati riusciva a promuovere conferenze con la partecipazione di consiglieri comunali[28].

All'anticlericalismo si accompagnava poi nelle fila repubblicane la polemica antimonarchica che si giocava sulla critica dell'annessione da parte dei Savoia della tradizione mazziniana, depurata dalla sua componente repubblicana[29]. Le celebrazioni ufficiali erano così mirate «a glorificare uomini ed istituti intorno ai quali non può essere unanime il giudizio e il consenso degli italiani» e a confondere «in una sola apoteosi tutti gli uomini che parteciparono alla grande opera della rivoluzione italiana»[30].

Echi dell'intransigenza repubblicana, che non risparmiava neppure Nathan, giungevano perfino sulle coste atlantiche dell'America. «Il Giornale Italiano» di New York, infatti, dava conto della critica, in realtà infondata, mossa dai repubblicani al sindaco capitolino per essersi questi, a loro dire, nel suo ricordato discorso commemorativo del 10 marzo, rappresentato come «unico continuatore del pensiero e dell'opera di Mazzini»[31]. Nelle celebrazioni ufficiali, e quindi monarchiche, accusavano poi i repubblicani, «non vibra[va] l'anima popolare»[32]; esse erano «pei gaudenti e per gli arruffoni, pel popolo no, perché sente più il bisogno di sfamarsi che di divertirsi»[33].

Anche l'«Avanti!» si sentiva in dovere di segnalare l'impegno repubblicano dando conto ai lettori «delle manifestazioni repubblicane in contrasto coi festeggiamenti dinastici»[34] organizzate dai «giovani repubblicani» di Roma. «Sotto la presidenza del Dott. Mario Poce, - si legge su un altro dettagliato resoconto, questa volta del «"Messaggero", - si adunarono i rappresentanti di tutti i circoli di Roma e i consiglieri comunali e provinciali del gruppo repubblicano»[35]. Vennero così votati all'unanimità ordini del giorno in cui la sezione romana del Pri deliberava di promuovere una pubblica manifestazione «che ricord[asse] agli italiani fatti ed uomini, ideali e programmi che gli storici aulici dimenticano e travisano».

Il Comitato esecutivo per i festeggiamenti popolari

Sulla necessità, richiamata dalla stampa repubblicana, di dare contenuto popolare alle celebrazioni per il cinquantenario dell'Unità d'Italia e di Roma capitale, le Carte del Gabinetto del Sindaco conservano fitti carteggi.

In una lettera, così, non firmata e indirizzata al consigliere Luigi Picarelli, si osservava che:

perché le feste cinquantenarie riescano complete, è necessario che vi concorra l'anima del nostro popolo. Io penso quindi che tra il Municipio e il Comitato per il 1911[36] debba sorgere, vivere ed operare, un altro organismo che al di fuori della solennità grave e pesante delle cerimonie ufficiali porti una nota simpatica di gaiezza, un alito di vivacità. È l'iniziativa privata che noi, sembrami, dovremmo stimolare, incanalare, aiutare, affinché in ogni rione il 27 Marzo prossimo fosse celebrato con cerimonie speciali che abbiano le caratteristiche di vere e proprie feste di popolo. […] I miei amici politici e i socialisti, forse, non ne prenderebbero l'iniziativa; lei, che rappresenta l'elemento medio potrebbe, d'accordo con gli altri liberali più in vista [...], Consiglieri Comunali e Provinciali, e facendo centro al Ricreatorio XX Settembre, dar vita ad un Comitato rionale che dovrebbe, col concorso specialmente dei negozianti e delle Associazioni liberali, organizzare per il 27 Marzo speciali festeggiamenti, come luminarie, festivals, concerti, lotterie, corse, alberi della cuccagna, ecc.»[37].

Una lettera del 14 marzo dà conto della nascita del Comitato esecutivo per i festeggiamenti popolari nei Rioni di Borgo e di Prati per il Cinquantenario, comitato che avrebbe dovuto provvedere alla raccolta dei fondi e all'attuazione del programma (figure 16-19) dei festeggiamenti[38]. Questo, però, aveva bisogno di conoscere l'entità dei finanziamenti che il Comune e il Comitato esecutivo per le feste commemorative del 1911 erano disposti a concedere. I festeggiamenti popolari avrebbero dovuto consistere in luminarie, festoni, padiglioni, premi per i balconi e le finestre meglio illuminate, festival all'aperto, conferenze, lotterie, premi per gli alunni di Borgo e Prati, riscossione dei pegni di una lira per i poveri del rione ed eventuali assegni ai bambini nati il 27 marzo. Per tutte queste iniziative era assolutamente necessario «che il Comitato del 1911 trov[asse] modo di contribuire, in misura conveniente a queste feste popolari, quando la totalità delle sue risorse è stata impegnata in opere di cui il POPOLO VERO [sic] non potrà, con nessuna probabilità, godere e che dovrà contemplare a rispettosa distanza. Occorre che la misurata cerimonia ufficiale sia riscaldata dal palpito e dall'entusiasmo del popolo, e quindi è necessario che i discorsi che si pronunceranno nei saloni dorati e le feste che allieteranno la borghesia nei teatri e nei padiglioni, ripercuotano la loro eco nelle vie e nelle piazze, ove soltanto purtroppo, il Comitato del 1911, confinerà al buio la maggior parte dei cittadini di Roma».

Figura 16.
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Figura 17.
Figura 17.
Figura 18.
Figura 18.
Figura 19.
Figura 19.

Il Comitato esecutivo per le feste commemorative del 1911, si leggeva in un'altra lettera (figure 20-21) indirizzata a Nathan dal Presidente del Comitato per i festeggiamenti popolari nei rioni di Borgo e di Prati, «ha il dovere categorico di provvedere a festeggiamenti di carattere popolare, attualmente affatto trascurati nel suo programma». Esso deve iniziare «finalmente un'opera in armonia colle ragioni che giustificano la esistenza di una Amministrazione Popolare», in quanto

all'ambizione degli interessati dei Rioni ad avere le feste e non a subirle io Le dirò che a ragione, secondo me, eglino non possono ora contribuire in larga misura avendo già partecipato alle sottoscrizioni generali. Inoltre non v'ha dimenticato che essi sono i contributori delle finanze municipali e di Stato alle quali il Comitato del 1911 ha attinto in modo abbastanza largo, e ritengono quindi in buona fede che questo benedetto Comitato debba pur non dimenticare che a Roma esiste una grande quantità di gente per la quale i festeggiamenti del genere di quelli fino ad oggi proposti non rispondono allo scopo[39].

Figura 20.
Figura 20.
Figura 21.
Figura 21.

Nonostante, però, difficoltà economiche e incomprensioni tra gli attori in campo, la stampa dell'epoca riferisce dei successi di diverse iniziative non ufficiali. Le luminarie nei rioni Ponte e Sant'Angelo, citiamo solo a titolo esemplificativo, «riuscirono superiori ad ogni aspettativa dei comitati organizzatori e gli abitanti vi parteciparono con grande entusiasmo. In tutta la serata i concerti dei ricreatori attraversarono al suono di allegre marce ed inni patriottici le vie dei quartieri. Anche nei quartieri di Porta Pia, Macao ed Esquilino i festeggiamenti furono riuscitissimi», soprattutto «per opera di due benemerite istituzioni: i ricreatori Pestalozzi e XX Settembre»[40].

Figura 22.
Figura 22.
Figura 23.
Figura 23.

Bibliografia

Bertelli S. 1955, Socialismo e movimento e movimento operaio a Roma dal 1911 al 1918, «Movimento operaio», 1: 65-89.

Camera del lavoro di Roma e Provincia 1912, Relazione morale e finanziaria. Gennaio-dicembre 1910, Roma: Tipografia Popolare.

De Nicolò M. 2010, L'occasione laica: Ernesto Nathan sindaco di Roma, in D.M. Bruni (ed.) 2010, Municipalismo democratico in età giolittiana. L'esperienza della giunta Nathan, Soveria Mannelli: Rubbettino, 2010.

Gentile E. 1997, La Grande Italia. Ascesa e declino del mito della nazione nel ventesimo secolo, Milano: Mondadori.

Gentile E. 2011, La Grande Italia. Il mito della nazione nel XX secolo, Roma-Bari: Laterza, 2011 (I ed. 2006).

Parisella A. 1980, Fuori dalla scena: le classi popolari e l'esposizione del 1911, in Piantoni G. (ed.) 1980, Roma 1911. Catalogo, Roma: De Luca Editore.

SPQR 1912, Cinque anni di amministrazione popolare. 1907 – 1912, Roma: Tipografia F. Centenari

SPQR 1911, 27 marzo 1861 - 27 marzo 1911, Roma: Tipografia Editrice Nazionale.

Talamo G. 1987, Dagli inizi del secolo all'avvento del fascismo, in Talamo e Bonetta G. 1987, Roma nel Novecento. Da Giolitti alla Repubblica, Bologna: Cappelli.

Vidotto V. 2011, Roma contemporanea, Roma-Bari: Laterza.

Documenti riprodotti

Associazione Giordano Bruno:

Lettera del Consiglio Generale della Associazione Giordano Bruno - Federazione Internazionale del Libero Pensiero, 7 marzo 1911, in Archivio Storico Capitolino, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

Consiglio Municipale

Solenne seduta reale del 27 marzo 1911, in ASC, Gabinetto del sindaco, busta 313, fasc. 1:

Mappa

Discorso di Ernesto Nathan

Discorso di S.E. Il Cav. Giuseppe Manfredi

Discorso di S.E. Il Cav. Giuseppe Marcora

Comitato esecutivo per i festeggiamenti popolari nei Rioni di Borgo e di Prati per il Cinquantenario:

Ercole Micozzi, Lettera a Nathan, 14 marzo 1911, in ASC, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

Ercole Micozzi, Lettera a Nathan, s.d., in ASC, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

Società fra gli ufficiali pensionati di terra e di mare:

Lettera indirizzata a Ernesto Nathan del 26 marzo 1911, in ASC, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

Deliberazione del Consiglio Direttivo, 30 marzo 1911, in ASC, Gabinetto del sindaco, busta 313, fasc. 1, Seduta reale.

Unione italiana ferrovieri escursionisti:

Lettera indirizzata a Ernesto Nathan del 16 marzo 1911, in ASC, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

Note

[1] Parisella 1980, 61 dove vengono citate le segnalazioni del Bollettino dell'Ufficio del Lavoro e i prospetti dell'annuale Relazione morale e finanziaria pubblicata dalla Camera del lavoro di Roma e provincia. Cfr. in proposito anche Talamo 1987, 152.

[2] Forti erano i dissapori nella Camera del lavoro tra sindacalisti rivoluzionari, anarchici, repubblicani e socialisti riformisti che ripresero il controllo dell'organismo solo nell'aprile 1912 dopo che questo, all'indomani del fallimento dello sciopero generale di protesta contro l'impresa libica nel settembre 1911, aveva abbandonato la Confederazione generale del lavoro. Anche a queste incertezze di conduzione è forse addebitabile il calo degli iscritti alla Cdl e della loro partecipazione agli scioperi tra il 1911 e il 1912. Cfr. in proposito Bertelli 1955.

[3]  Roma in festa!, «Avanti!», 28 marzo 1911, p. 2.

[4]  Ibidem.

[5]  I due cinquantenari, «Avanti!», 27 marzo 1911, p. 2. Cfr. anche del repubblicano «La Ragione» Il cinquantenario e il caro viveri, 14 marzo 1911.

[6]  Il testo del discorso è in, tra gli altri, «Il Messaggero», 11 marzo 1911.

[7]  Discorso di Ernesto Nathan, in Solenne seduta reale in Campidoglio (opuscolo celebrativo), in Archivio Storico Capitolino (da qui in poi ASC), Gabinetto del sindaco, busta 313, fasc. 1, Seduta reale (mi è stato possibile consultare fruttuosamente il fondo, in corso di riordino, grazie al paziente ausilio dell'archivista Carla Ferrantini che, assieme al personale tutto dell'Archivio, mi corre qui l'obbligo di ringraziare).

[8]  Ivi.

[9]  Discorso di S.E. Il Cav. Giuseppe Manfredi, ivi.

[10]  Discorso di S.E. Il Cav. Giuseppe Marcora, ivi.

[11]  Il discorso del Conte di San Martino, «La Vita», 28-29 marzo 1911, p. 2.

[12]  Il discorso del Re, ivi.

[13]  Una “cerimonia”, «Avanti!», 28 marzo 1911, p. 1.

[14]  «Avanti!», 28 marzo 1911, p. 1.

[15]  Cfr i numeri dell'«Avanti!» del 25 (p. 2) e del 26 marzo (p. 4).

[16]  Note cittadine; una dittatura, «la Soffitta», 19 novembre 1911.

[17]  Sciopero e patriottismo, «L'Osservatore Romano», 27 marzo 1911.

[18]  Deliberazione del Consiglio Direttivo della Società fra gli ufficiali pensionati di terra e di mare, 30 marzo 1911, in ASC, Gabinetto del sindaco, busta 313, fasc. 1, Seduta reale.

[19]  Lettera indirizzata a Ernesto Nathan del 26 marzo 1911, in ASC, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

[20]  Ingiusto obblìo di patrioti nelle feste del Cinquantenario, «Giornale d'Italia», 28 marzo 1911.

[21]  Una dimenticanza per la cerimonia ufficiale in Campidoglio, «L'esercito italiano», 29 marzo 1911, p. 1.

[22]  Dal telegramma inviato il 27 marzo dagli Impiegati scali piccola velocità Roma al Ministro dei Lavori Pubblici, «Giornale d'Italia», 28 marzo 1911.

[23]  Lettera indirizzata a Ernesto Nathan del 16 marzo 1911, in ASC, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

[24]  Lettera del Consiglio Generale della Associazione Giordano Bruno -Federazione Internazionale del Libero Pensiero del 7 marzo 1911, in ASC, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

[25]  L'Associazione Giordano Bruno per la caduta del potere temporale, «La Vita», 28-29 marzo 1911, p. 6.

[26]  La politica giolittiana volta a stabilire intese politico-elettorali con i candidati cattolici, rese possibili grazie alla sospensione del non expedit già nelle elezioni del novembre 1904 e, in modo ancor più consistente, in quelle del marzo 1909, trovò poi la definitiva consacrazione con il Patto Gentiloni e le successive elezioni del novembre 1913, quando il Presidente dell'Unione elettorale cattolica invitò i cattolici a votare quei candidati liberali che si fossero impegnati a sostenere misure care alla Chiesa come la tutela dell'insegnamento privato e delle organizzazioni sindacale cattoliche e ad opporsi all'introduzione del divorzio.

[27] Cfr. «Il Messaggero» dell'11 marzo 1911.

[28] Ne dà notizia l'«Avanti!» del 26 marzo 1911, p. 3.

[29] Cfr. «La Ragione», 12 marzo 1911.

[30] Le feste giubilari, ivi, 19 marzo 1911, citato in E. Gentile 1997, 64.

[31] I repubblicani contro Nathan, «Il Giornale Italiano», 11 marzo 1911, p. 1.

[32] L'usurpazione monarchica delle feste della Patria, «La Ragione», 18 marzo 1911.

[33] Il cinquantenario e il caro viveri, ivi, 14 marzo 1911.

[34]  Il Cinquantenario ed i giovani repubblicani, «Avanti!», 25 marzo 1911, p. 2. Il quotidiano del Psi accennava anche alle iniziative anarchiche nel numero del 28 marzo a p. 2 (Gli anarchici e il Cinquantenario).

[35]  I repubblicani e le feste cinquantenarie, «Il Messaggero», 31 marzo 1911, p. 6.

[36]  Si tratta del Comitato esecutivo per le feste commemorative del 1911, istituito con decreto reale nel 1908.

[37]  Lettera senza data e non firmata, su carta intestata del Gabinetto del sindaco, e indirizzata al consigliere Luigi Picarelli, in ASC, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

[38]  Lettera a Nathan di Ercole Micozzi, 14 marzo 1911, in ASC, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

[39]  Lettera a Nathan di Ercole Micozzi, s. d., in ASC, Gabinetto del Sindaco, busta 313, fasc. 2.

[40]  Echi della luminaria, «Il Messaggero», 29 marzo 1911, p. 2.