La nostra conoscenza delle antiche organizzazioni politiche mesoamericane è fortemente limitata dall’esiguità delle fonti preispaniche, dal loro carattere pittografico e dalle tematiche in esse prevalenti. Non disponiamo di nessun trattato politico indigeno e le poche informazioni reperibili nella documentazione della prima età coloniale, oltre che limitate alle epoche immediatamente precedenti il contatto, risultano spesso oscure e contraddittorie. Tradizionalmente, quindi, lo studio delle entità politiche native e delle loro strutture economico-amministrative si è necessariamente fondato sull’uso congiunto di dati storici, epigrafici, archeologici ed etnografici, giungendo in tal modo a tracciare i caratteri fondamentali dei diversi sistemi di organizzazione politico-economica che si sono dati nell’antica Mesoamerica[1].
Lungi dal voler tracciare anche solo un bilancio di tali ricerche, in questa sede vorremmo invece concentrarci sull’analisi delle opere d’arte di carattere propagandistico che le élite delle diverse entità politiche mesoamericane crearono al fine di glorificare sé stesse e i propri governanti. Per millenni, infatti, i sovrani mesoamericani commissionarono sculture e pitture murali che ne narravano le gesta e li ritraevano nel fulgore della loro maestà, sovraccarichi di ornamenti dotati di un valore simbolico tanto ricco quanto strettamente codificato. Intraprendere un’indagine delle forme di potere ascoltando quel che i potenti hanno raccontato di sé è certamente tentativo pericoloso, che ci fa correre il rischio di divenire vittime di quella stessa propaganda che vogliamo osservare. È anche vero, però, che un’analisi delle forme di autorappresentazione del potere può avvicinarci alla comprensione di come quel potere fosse concettualizzato e di quali aspetti della pratica politica fossero ritenuti degni di essere immortalati nell’arte pubblica. Come ha osservato Clifford Geertz, «gli studi sul simbolismo del potere e quelli sulla sua natura sono imprese molto simili. La distinzione comune tra gli orpelli del potere e la sua sostanza diviene meno netta, perfino meno reale»[2]. La limitata estensione del presente articolo impedisce ovviamente un’analisi dettagliata del gran numero di monumenti noti[3] ma, piuttosto che restringere il campo a un determinato periodo del passato mesoamericano, abbiamo invece scelto di mantenere un’ampia impostazione diacronica selezionando alcuni esempi che fungano da sintomatiche “pietre miliari” atte a delineare il percorso di sviluppo del discorso politico nativo nel corso dei quasi tre millenni di vita politica indipendente dei popoli indigeni mesoamericani.
Il sovrano olmeco al centro del cosmo
Le più antiche forme di arte monumentale propagandistica sinora note in Mesoamerica sono le grandi sculture in basalto che punteggiavano i centri monumentali delle capitali olmeche del Golfo del Messico tra il XII e il IX secolo a.C., quando il panorama politico olmeco pare essere stato suddiviso tra diversi chiefdoms complessi. Ognuno di questi chiefdoms, normalmente limitato all’ambito di un singolo bacino fluviale, era incentrato attorno a una capitale che costituiva l’apice e il centro di un sistema insediativo a tre livelli gerarchici che includeva centri secondari e villaggi rurali, oltre alla capitale stessa. Esemplari, in questo senso, sono le antiche capitali di San Lorenzo (Veracruz) e La Venta (Tabasco), dove non a caso sono state rinvenute alcune delle più significative sculture monumentali olmeche, in gran parte riconducibili alle due tipologie dei troni e delle cosiddette “teste colossali”. I troni, impropriamente noti come “altari”, sono grandi parallelepipedi di basalto, pesanti diverse tonnellate e scolpiti in forme che, pur nella loro varietà, rimandano a un tema iconografico comune: il trono rappresenta il “Mostro della Terra” nella cui bocca-grotta siede un ritratto del sovrano, spesso intento a “porgere” verso l’esterno un essere sovrannaturale dalla forma infantile e dai tratti somatici giaguariformi.
L’iconografia dei troni sui quali sedevano i sovrani olmechi rimanda chiaramente a una delle più radicate e diffuse concezioni cosmologiche mesoamericane, secondo la quale all’interno della
terra-montagna si trova una sorta di “deposito universale” delle acque sotterranee e della fertilità, dal quale emerge ogni essere vivente, uomo, pianta o animale[4]. Il ritratto del sovrano in posizione liminale, – mentre porge quella che sulla base di comparazioni con iconografie più tarde pare essere una raffigurazione del dio
del mais nel suo stato infantile, “verde” e “immaturo” – lo caratterizza evidentemente come mediatore tra il mondo infraterrestre e il mondo degli uomini, garante della fertilità e quindi della
prosperità dei suoi sudditi.
Le teste colossali sono invece dei ritratti a tutto tondo di sovrani, raffigurati con grande realismo e con un’attenzione ai dettagli somatici del
tutto inconsueta nella tradizione iconografica mesoamericana. In certi casi è stato possibile determinare che almeno alcune delle teste colossali furono ottenute riscolpendo dei troni; questo,
unitamente al fatto che le teste colossali sono state rinvenute in settori degli insediamenti destinati alle sepolture regali e al culto dei defunti, ha fatto supporre che il ritratto del sovrano
defunto venisse scolpito in quello che era stato il suo trono, così trasformato nel monumento che “testimoniava” la continua presenza del re defunto nella sua nuova qualità di antenato
sacralizzato, fonte di legittimità del potere del suo successore.
I grandi monumenti olmechi erano disposti nei pressi di complessi di piramidi e monticoli in terra che replicavano le montagne sacre, sotto alle quali tonnellate di serpentino verde interrate
ritualmente “mimavano” la presenza delle fertili acque sotterranee. Si trattava di veri e propri “modelli cosmologici” dove troni e teste colossali contribuivano a comporre lo scenario sul quale
dovevano svolgersi le cerimonie pubbliche della politica olmeca. L’assoluta carenza di iscrizioni, di raffigurazioni di eventi o anche solo di indicazioni antroponimiche o genealogiche configura la
propaganda olmeca come un discorso politico di carattere essenzialmente assertivo, dove la legittimità del potere politico si fonda sulla posizione cosmologicamente rilevante del sovrano,
non a caso spesso rappresentato nell’arte minore olmeca in forma di albero o di pianta di mais che si erge al centro dell’Universo. In un universo politico cha da non più di tre secoli aveva
assistito alla nascita delle prime forme di gerarchizzazione sociale, ciò che si glorificava non era il singolo sovrano ma la regalità stessa, intesa come entità mediatrice tra forze sovrannaturali
della fertilità e la comunità umana che fondava la sua esistenza su un’economia agricola incentrata sulla coltivazione di mais, fagioli, zucche e peperoncini.
Il discorso politico olmeco fu espresso in una serie di simbologie che, pur alludendo a concezioni ampiamente diffuse in tutta la tradizione religiosa mesoamericana, vennero progressivamente
formalizzate dagli olmechi in un vero e proprio codice comunicativo, in una “lingua simbolica” del potere che fu rapidamente adottata da gran parte delle emergenti élite delle entità politiche di
altre regioni mesoamericane tra la fine del II e la metà del I millennio.
Sovrani dinastici e imprese eroiche
Il suddetto processo di formalizzazione iconografica, dove iconografie complesse sono costituite dall’assemblaggio di segni minimi ricorrenti e dal significato condiviso, fu evidentemente la via
maestra che condusse progressivamente alla creazione dei primi sistemi di scrittura logografico-fonetica. È significativo però che, sebbene le prime attestazioni di scrittura risalgano agli inizi
del IX secolo a.C., tale innovazione non ebbe ampio uso nell’arte pubblica sino al V-IV secolo a.C., al momento cioè in cui il collasso dei grandi chiefdoms olmechi dette luogo a un
processo di frammentazione politica nella regione dell’Istmo messicano, dove numerose entità politiche indipendenti iniziarono a contendersi il dominio politico regionale. È in questa fase che
nell’Istmo (popolato da genti di lingua mixe-zoque) e nell’area maya (popolata da gruppi di lingua mayance) pare affermarsi un modello di organizzazione politica che rimarrà vigente per almeno
millecinquecento anni nel sud della Mesoamerica: numerose entità politiche indipendenti, ognuna retta da un “divino signore” membro di una dinastia regnante nella quale il potere politico è
ereditato per via parentale, impegnate in una complessa rete di relazioni diplomatiche, matrimoniali e belliche tese non tanto all’espansione territoriale quanto alla creazione di alleanze e
confederazioni politiche. Variamente modellizzato dagli antropologi politici come peer polities system[5],
state-system[6] o sistema galattico[7], tale assetto si
caratterizzava principalmente per il fatto che le diverse entità politiche condividevano un “codice” politico e culturale comune, incentrato sulla glorificazione del “divino signore” (k’uhul
ajaw, nel maya cholano delle iscrizioni classiche) come centro simbolico di emanazione del potere e del benessere comune. Tra i caratteri più distintivi delle entità politiche dinastiche del
sud mesoamericano si possono annoverare l’enfasi sul centro dell’entità politica (il re e la sua capitale) piuttosto che sui suoi confini, la forma altamente ritualizzata e “teatrale” delle
relazioni politico-cerimoniali, un alto grado di competitività evidente nell’endemica pratica della guerra nobiliare finalizzata alla cattura e al sacrificio di prigionieri nobili e soprattutto una
scarsa articolazione funzionale tra i diversi insediamenti appartenenti a una stessa entità politica, dove i centri secondari si differenziano dalla capitale più a livello quantitativo (dimensioni)
che a livello qualitativo (specializzazione economica, ecc.); tale carenza di articolazione funzionale rendeva le entità politiche dinastiche estremamente mutevoli, costantemente soggette a
processi di fusione e fissione che davano luogo a “superstati”[8] tanto vasti quanto effimeri. Un’analoga debolezza dovete
contraddistinguere, soprattutto allo scadere del periodo classico, l’assetto politico interno delle diverse entità politiche maya, dove lignaggi diversi convivevano in un simile stato di “alleanza
instabile” e dove il sacro potere del signore supremo era “replicato” in quello dei nobili di alto rango a capo dei diversi lignaggi cittadini, con i quali il sovrano intratteneva relazioni
diplomatico-matrimoniali. Tale struttura socio-politica si riflette nella forma stessa degli insediamenti, dove attorno al centro monumentale costituito da templi e dal palazzo reale si estendono
in forma dendritica apparentemente disordinata le aree occupate dai diversi lignaggi, al centro di ognuno dei quali si trova la residenza del gruppo familiare dominante. A livello locale, quindi,
ci troviamo di fronte a entità politiche spesso deboli ed effimere; per contro, a livello regionale, tale sistema mostrò la sua straordinaria efficacia perdurando per oltre un millennio.
In un simile universo politico la propaganda espressa dall’arte pubblica, fortemente incentivata da signori-mecenati costantemente impegnati in grandi progetti artistici e architettonici che
portavano alla continua rimodellazione dei centri monumentali, subì un radicale mutamento rispetto all’epoca olmeca. Se il potere politico continuò comunque ad essere glorificato come espressione
terrena di ordini cosmologici (il re pilastro del cosmo, il re come manifestazione terrena del Dio del Mais, ecc.), a partire dal V secolo a.C. cominciarono a comparire opere pubbliche destinate
anche alla narrazione di specifici eventi relativi alla vita del sovrano. Questa nuova funzione narrativa dell’arte pubblica si esplicitò chiaramente nella progressiva affermazione del
bassorilievo a scapito della scultura a tutto tondo che era stata il mezzo privilegiato di espressione della propaganda assertiva olmeca. Se nella tarda età olmeca il tema narrativo
prevalente fu quello dell’incontro tra nobili (probabilmente narrazione di incontri diplomatici che testimoniavano le “relazioni prestigiose” intrattenute dai diversi signori) sin dal I secolo a.C.
si assiste a una notevole dilatazione delle tematiche prevalenti, momento iniziale di un processo che ebbe il suo culmine nell’arte maya classica, tra III e IX secolo d.C. Nomi, nascite, matrimoni,
incoronazioni, genealogie, vittorie militari, umiliazioni di prigionieri e diversi tipi di rituali tra i quali spicca l’autodissanguamento del sovrano
o di una delle sue mogli divengono i soggetti ricorrenti del discorso politico-propagandistico. Si tratta evidentemente del frutto dell’accesa competizione politica, in un mondo dove la
glorificazione del potere non può più limitarsi solamente a una generica sacralizzazione del ruolo ma deve spingersi verso l’esaltazione delle capacità individuali di chi quel ruolo ricopre. Due
sono gli strumenti fondamentali che l’arte pubblica mesoamericana utilizza per rispondere a queste nuove esigenze: scrittura logofonetica e notazione calendariale. Le stele a bassorilievo
continuano ad essere caratterizzate dal ritratto del sovrano (anch’esso una sorta di “testo” pittografico composto dall’assemblaggio di segni minimi), ora però affiancato da lunghe iscrizioni
colonnari che narrano in dettaglio le imprese personali del re, precisamente collocate nel tempo mediante l’uso del sistema calendarico detto Conto Lungo.
Vale la pena soffermarsi brevemente su uno specifico glifo, ricorrente nelle iscrizioni maya classiche, che costituisce un elemento chiave per comprendere la natura del potere politico maya: il cosiddetto glifo-emblema. Tale glifo rappresenta il più importante tra i numerosi titoli che nelle iscrizioni seguono sempre i nomi propri dei sovrani. Esso si compone di tre elementi minimi, due dei quali costanti e uno mutevole: i primi due significano k’uhul ajaw, “divino signore”, mentre il terzo contraddistingue la specifica entità politica governata dal sovrano protagonista dell’iscrizione.
Sebbene in molti casi la lettura fonetica del glifo emblema sia evidente, l’esatto valore di questo terzo elemento non è chiaro: secondo alcuni si tratterebbe di un toponimo, cioè del nome della città capitale; secondo altri, indicherebbe invece il nome della dinastia regnante o dell’entità politica nel suo complesso. Il fatto che diverse capitali succedutesi nel tempo in uno stesso regno abbiano condiviso un identico glifo emblema, unitamente al fatto che recenti progressi nella decifrazione hanno permesso di identificare i toponimi di alcune città e di verificare come questi non corrispondano ai rispettivi glifi emblema[9], suggerisce che la seconda ipotesi sia da preferire. Le entità politiche maya classiche, quindi, definivano sé stesse non in termini territoriali, ma piuttosto in termini dinastici: l’essenza dell’entità politica non stava nel territorio occupato ma nel “sangue divino” della dinastia regnante; non a caso le iscrizioni storico-propagandistiche non narrano conquiste di territori ma eventi dinastico-genealogici e catture di prigionieri nobili il cui “sangue prezioso” era versato mediante l’atto sacrificale.
Teotihuacan: identità territoriali e anonimato del potere
Se la centralità delle relazioni parentali e della discendenza dinastica contraddistinsero gran parte delle manifestazioni propagandistiche dei gruppi indigeni del sudest mesoamericano durante il
periodo classico, ben diversa ci appare la situazione se volgiamo lo sguardo al Messico Centrale e in particolare al suo cuore geografico e politico: il Bacino del Messico. Qui, dall’inizio
dell’Era cristiana, sorse e si accrebbe Teotihuacan, la più grande città mesoamericana dell’epoca, che all’apice del suo sviluppo agli inizi del VI secolo d.C. ospitava una popolazione di oltre
150.000 abitanti. Sin dal primo sguardo, la struttura cittadina non potrebbe apparire più diversa da quella del mondo maya del Sudest: l’enorme città messicana è organizzata secondo uno schema
ortogonale, evidentemente pianificato, che si incentra sull’asse nord-sud del cosiddetto Viale dei Morti. Il centro monumentale è costituito da grandi edifici templari dedicati probabilmente alle
divinità delle acque e della fertilità (impropriamente note come Piramide del Sole e della Luna), dal Tempio dei Serpenti Piumati e da ampi complessi dalla probabile funzione civico-amministrativa.
Attorno, si estendono a perdita d’occhio complessi abitativi quadrangolari che erano con ogni probabilità i luoghi di residenza dei diversi gruppi umani riuniti nell’entità politica teotihuacana.
Invano cercheremmo nell’arte pubblica cittadina indicazioni sull’identità dei sovrani o sulle loro imprese: a Teotihuacan non si eressero stele e non si scolpirono bassorilievi di carattere
narrativo; le iscrizioni, di complessa identificazione (cfr. infra), sono così difficilmente interpretabili che molti studiosi hanno negato l’esistenza stessa di una scrittura
teotihuacana: ancora oggi non sappiamo né come si chiamasse la città né che lingua parlassero i suoi abitanti.
Una simile carenza di informazioni fa sì che la nostra conoscenza del sistema politico teotihuacano sia ben lungi dall’essere esaustiva. L’interpretazione prevalente, fondata anche su quel che
sappiamo dei governi centro-messicani di epoche successive, vede nel sistema teotihuacano uno stato arcaico centralizzato, probabilmente dominato da una forma di governo collettivo che trovava la
sua espressione in gruppi di nobili-sacerdoti riuniti in “consigli” di governo e associati a specifici animali “emblematici”[10]; tali
governi collettivi avrebbero dominato su una popolazione multietnica, composta da gruppi umani provenienti da diverse regioni del Messico Centrale e anche da regioni lontane come la valle di Oaxaca
o la Costa del Golfo del Messico. I dubbi più consistenti riguardano l’articolazione economico-amministrativa tra tali gruppi di governo e la popolazione teotihuacana, dal momento che fenomeni come
la totale assenza di magazzini pubblici paiono contraddire l’ipotesi, ispirata al mondo mesopotamico, di un governo centralizzato che controlla l’economia urbana attraverso meccanismi di raccolta
di tributi e redistribuzione dei beni. Personalmente, ritengo che l’analisi dell’arte pubblica teotihuacana (cfr. infra) suggerisca piuttosto che la popolazione teotihuacana fosse
costituita da gruppi inurbati che mantenevano le proprie strutture politico-amministrative interne e la cui articolazione con il potere centrale si esplicitava mediante forme di “interazione
nobiliare” tra le autorità locali dei singoli gruppi e i rappresentanti del governo centrale.
Ma quali sono i messaggi veicolati dall’arte pubblica teotihuacana, cioè dalle poche sculture e soprattutto dalle onnipresenti pitture murali? Il principale monumento “politico” teotihuacano pare
essere il Tempio dei Serpenti Piumati, le cui facciate sono decorate da immagini del Serpente Piumato (tradizionale “patrono” dei governanti
messicani) sul cui corpo poggia, come un vero e proprio “carico”, un copricapo in forma di alligatore, probabile allusione a una specifica “carica” politica[11].
Copricapi di diversa forma sono molto frequenti nell’arte teotihuacana, dove l’attenzione posta nella rappresentazione dei loro dettagli suggerisce che costituissero elementi dal valore codificato,
dotati di specifici significati politici ben noti agli attori sociali. Sul tempio dei Serpenti Piumati, quindi, si esplicita l’associazione tra una carica politica e un “divino protettore”, senza
che vi sia alcuna indicazione su chi detenesse tale carica. Analogamente, e in contrasto con quanto visto nel mondo maya, nulla ci informa sull’identità individuale degli oltre duecento prigionieri
sacrificati e interrati alla base del tempio.
Un simile anonimato contraddistingue le raffigurazioni pittoriche dal probabile contenuto politico che decorano i patii centrali di diversi complessi residenziali cittadini. In questi contesti, infatti, si osservano normalmente raffigurazioni di animali “emblematici” e teorie di figure umane del tutto stereotipate e anonime, contraddistinte solo da specifici copricapi che si ripetono identici all’interno di ogni complesso residenziale. Tali individui, lungi dal compiere qualsiasi atto di dominio, paiono sempre impegnati a “spargere” fiotti di simboli di fertilità dalle loro mani, in quella che sembra essere la fondamentale metafora dell’attività di governo teotihuacana.
Un caso esemplare, in questo senso, è il cosiddetto Palazzo di Zacuala, uno dei molti complessi residenziali teotihuacani: la struttura principale che domina il suo patio centrale, normalmente interpretata come tempio, è decorata da una pittura murale che ripete il motivo già osservato sul Tempio del Serpente Piumato: un serpente piumato che “carica” sul suo corpo un copricapo. Le facciate degli altri edifici dello stesso patio centrale presentano invece teorie di personaggi anonimi e di animali, in questo caso uccelli rapaci.
Ancora una volta, quel che si manifesta nell’arte pubblica è l’autorità politica nella sua forma esemplare, anonima, assoluta. La struttura generale del Palazzo di Zacuala corrisponde peraltro in
modo molto chiaro a quella di un tecpan, il palazzo reale diffuso in età azteca, dove la piattaforma principale del patio non sostiene affatto un tempio ma la sala del trono del
tlatoani, “oratore”, il signore delle entità politiche azteche. Con questo non vogliamo affermare che Zacuala sia la residenza del sovrano teotihuacano, ma piuttosto di
un sovrano teotihuacano, cioè del signore che esercitava la sua autorità su un determinato gruppo e che probabilmente si incaricava anche del mantenimento delle relazioni tra il gruppo umano,
la sua regione di provenienza e il governo cittadino. Una struttura simile è nota per l’età azteca, quando l’intero Messico Centrale era dominato da quello che impropriamente chiamiamo impero
azteco ma che era in realtà una confederazione di tre città, ognuna governata da un huey tlatoani, “grande oratore”; al di sotto di questi tre sovrani, nel solo Bacino del Messico
esistevano nel 1519 oltre sessanta entità politiche, ognuna governata da un proprio tlatoani che risiedeva in un palazzo che era una sorta di “replica” in scala minore dei grandi palazzi
reali delle città capitali di Tenochtitlan, Texcoco e Tlacopan.
Allo stesso modo, i diversi signori dei gruppi umani insediati a Teotihuacan adottarono forme propagandistiche analoghe a quelle utilizzate su scala maggiore nel centro cittadino, come abbiano
visto nel caso del patio centrale di Zacuala, il cui motivo decorativo principale replica quello del Tempio dei Serpenti Piumati fatta salva la tipologia del copricapo, probabile allusione a una
specifica carica politica. Quel che ci interessa sottolineare, però, è la tipologia delle pitture che decorano gli ambienti circostanti, cioè gli spazi dove dovettero risiedere i membri del gruppo
sottoposto all’autorità politica espressa dalle pitture del patio centrale. Purtroppo la decifrazione della pittografia teotihuacana sta compiendo i suoi primi passi, ma ritengo che si possa
ragionevolmente sostenere che per lo meno una buona parte delle pitture degli ambienti laterali dei complessi residenziali corrispondano a toponimi,
in alcuni casi quasi del tutto identici ai toponimi usati in età azteca e a noi noti grazie alle glosse spagnole apposte su documenti pittografici nella prima età coloniale.
Dato che Teotihuacan era popolata da gruppi umani inurbatisi all’inizio dell’Era cristiana e che tali gruppi esprimevano la propria identità collettiva in termini toponimici è quindi probabile che
tali toponimi facessero riferimento a quei luoghi di provenienza che dovettero costituire la base economica e territoriale dello stato teotihuacano.
La comparazione tra le forme della propaganda politica maya classica e quelle teotihuacane rende evidente una radicale differenza: se da un lato abbiamo un sistema composto da molteplici entità
politiche dinastiche, linguisticamente omogenee, che prediligono un discorso politico incentrato sulla narrazione delle imprese personali dei sovrani mediante un sistema di scrittura ad alto grado
di fonetismo, dall’altro abbiamo un grande stato centralizzato e multietnico, composto da una popolazione linguisticamente eterogenea, che predilige invece un discorso politico incentrato più sulle
forme del potere che sull’identità dei suoi rappresentanti, relegati al più totale anonimato in manifestazioni artistiche che si esprimono mediante pittografie altamente logografiche. Nel primo
caso le identità collettive sono espresse mediante nomi dinastici e affermazioni dinastico-parentali, nel secondo mediante indicazioni toponimiche; da un lato il potere deriva dal sangue,
dall’altro dal territorio; da un lato la propaganda narra una storia, dall’altro traccia uno schema spaziale e concettuale dove il tempo e l’accadere paiono del tutto assenti.
Non è comunque chiaro sino a che punto queste due differenti strategie politiche, la cui radicale differenza è stata più volte osservata[12], corrispondano a due modalità di organizzazione politico-sociale altrettanto radicalmente differenti. Se è innegabile il divario tra il “sistema galattico” maya e lo stato
centralizzato teotihuacano, per quel che si riferisce all’espressione delle identità collettive è possibile invece che la differenza radichi più nell’aspetto strategicamente enfatizzato nel
discorso politico che nelle reali modalità organizzative dei gruppi umani. Recentemente, ad esempio, si è cominciato a riconsiderare l’uso del termine “lignaggio” normalmente applicato al mondo
maya[13], sottolineando come tale termine, mutuato dall’africanistica, sottolinei eccessivamente le relazioni parentali a discapito di
considerazioni di ordine residenziale e patrimoniale che certamente fungevano da elementi di coesione all’interno dei gruppi umani maya. Allo stesso modo, il fatto che i gruppi teotihuacani
esplicitassero la propria identità collettiva mediante toponimi non significa che le relazioni parentali o nessi di tipo professionale-corporativo non avessero importanza in merito alla coesione
dei gruppi e alla definizione delle gerarchie interne. Il fatto che gran parte delle popolazioni mesoamericane abbiano sempre usato termini derivanti dalla radice “casa” per definire le
aggregazioni collettive che costituivano le cellule delle società preispaniche, indica che la recente proposta di sostituire il termine “lignaggio” con quello di “casato” non sia solo più aderente
all’uso mesoamericano ma permetta anche di sfumare dicotomie forse troppo nette o, per meglio dire, inerenti più il discorso politico esplicito che le reali modalità organizzative delle
società.
In questo senso, l’enfasi teotihuacana sul territorio, sull’anonimato del potere e su un discorso pubblico che fa scarsissimo uso del fonetismo appare più una scelta che una caratteristica
essenziale. Tale scelta, oltre a contraddire radicate idee etnocentriche sull’evoluzione dei sistemi di scrittura (i teotihuacani conoscevano certamente le scritture fonetiche dei loro
contemporanei, ma scelsero di non utilizzarle o di farlo in misura molto limitata), pare legata alla struttura stessa dello stato teotihuacano: un’entità politica multietnica, nata
dall’aggregazione di popoli diversi, non può fondare il proprio discorso politico su un’ideologia esclusiva come quella maya classica, che usa una specifica lingua per parlare di temi tanto
“locali” come le relazioni parentali; a Teotihuacan si scelse piuttosto un discorso politico inclusivo, universalizzante, adeguato a qualsiasi gruppo che si inurbasse entrando sotto il “flusso di
fertilità” garantito dai signori-sacerdoti delle divinità acquatiche posti sotto la protezione del Serpente Piumato, forma paradigmatica dell’identità collettiva del potere teotihuacano.
Fu forse proprio questa sua caratteristica universalizzante a conferire al modello politico teotihuacano una sorta di “dignità superiore” rispetto alla regalità dinastica: già nel periodo classico
molti sovrani maya vantavano nelle loro iscrizioni monumentali relazioni, vere o presunte, con Teotihuacan, detta puh o “Luogo delle Canne”,
un nome che faceva riferimento al carattere “acquatico” e “fertile” della grande città-santuario delle divinità delle acque. Non a caso, su queste relazioni con Teotihuacan i sovrani maya fondarono
proprio pretese di dominio supra-locale nei momenti di formazione di “superstati” o basarono la legittimità politica dei fondatori di nuove dinastie. Il Luogo delle Canne era insomma il luogo dal
quale i sovrano dinastici derivavano una legittimità assoluta e universale.
La Mesoamerica postclassica: le repliche di Tollan e Quetzalcóatl
La concezione teotihuacana del potere rimase non solo vigente ma accrebbe la sua rilevanza proprio nel momento in cui Teotihuacan fu distrutta e incendiata nel VI secolo d.C., innescando un processo di crisi politiche a catena che condusse allo sfaldamento dell’intero sistema classico mesoamericano alla fine del IX secolo d.C.. Il vasto processo di migrazioni interne che sconvolse il panorama etnico-linguistico della Mesoamerica dette infatti vita a numerose entità politiche multietniche e plurilinguistiche che proprio nell’antico modello teotihuacano, o meglio nell’elaborazione della sua memoria, trovarono un’adeguata fonte di legittimazione. Tra il VI e il XIII secolo d.C. in tutta la mesoamerica proliferarono allora città-capitali chiamate Tollan (“Il Luogo delle Canne” in lingua náhuatl), i cui sovrani ostentavano nomi e titoli che spesso contenevano il nome del Serpente Piumato di origine teotihuacana: Quetzalcóatl in náhuatl, Kukulkán in maya yucateco, Gucumatz in maya quiché, ecc. Sebbene le forme di governo affermatesi in questo lungo periodo dovettero essere anche molto diverse tra loro, è evidente l’incremento di governi di tipo collettivo (ad es. il multepal descritto nelle fonti maya coloniali) che fecero uso di forme propagandistiche anonime e scarsamente narrative, nelle quali l’uso della scrittura si ridusse notevolmente anche in quelle regioni dove essa aveva avuto grande diffusione nel corso del precedente periodo classico. L’arte pubblica postclassica fu allora contraddistinta da una pletora di bassorilievi raffiguranti gruppi di signori e guerrieri, spesso anonimi e talvolta descritti come “fratelli”, posti sotto la protezione del Serpente Piumato, sovrano sovrannaturale e prototipico del quale i singoli signori erano ixiptla, “pelli”, “contenitori”.
Anche dove i locali regimi dinastici continuarono ad esprimersi mediante discorsi politici incentrati sulla narrazione delle imprese personali del sovrano, il riferimento a una qualche Tollan fu costante. Basti l’esempio del sovrano mixteco 8 Cervo sotto, secondo quanto ci narrano diversi codici pittografici preispanici di carattere storico-geneaolgico: all’apice del suo potere, ottenuto mediante una lunga e complessa strategia bellica e matrimoniale tutta interna al mondo mixteco, il sovrano viaggiò a Tollan per farsi perforare il naso e ricevere l’ornamento nasale di turchese che era simbolo di regalità suprema. In un mondo mesoamericano sempre più multietnico e linguisticamente eterogeneo, anche il discorso politico si fece “ibrido” per divenire universale, trovando nell’antico sistema teotihuacano non tanto un esempio quanto un modello da elaborare e adattare alle diverse situazioni contingenti.
Per lungo tempo gli studiosi si sono affannati nel tentativo di identificare quale fosse la Tollan storica, menzionata in tante fonti coloniali; oggi è chiaro che tale tentativo è vano: se Teotihuacan fu con ogni probabilità la Tollan originaria, nel periodo Postclassico (900-1521 d.C.) molte città mesoamericane come Tula (Hidalgo), Cholula (Puebla), San Miguel Tulancingo (Oaxaca) e Chichén Itzá (Yucatán) presentarono sé stesse come altrettante Tollan, repliche terrene di un modello mitico (detto “zuyuano”) incentrato su Tollan e Quetzalcóatl, forme prototipiche della regalità[14]. Mutuando una felice definizione di Marshall Sahlins, potremmo dire che le Tollan postclassiche e i loro signori non erano altro che “metafore storiche di realtà mitiche”[15].
I Mexica: il popolo eletto di Huitzilopochtli
Al cosiddetto modello zuyuano si adeguarono, almeno in principio, anche gli ultimi protagonisti della politica mesoamericana, i Mexica[16], entrati nel Bacino del Messico attorno agli inizi del XIV secolo. Al termine di una migrazione che, secondo quanto narrano i codici pittografici indigeni, li aveva condotti da
Aztlan al Bacino del Messico passando per località significative tra le quali spicca la stessa Tollan, anche i Mexica cercarono infatti di legare la propria dinastia regnante a quella di Tollan
mediante un’apposita politica matrimoniale con donne culhuacane di presunta “stirpe tolteca”, discendenti cioè degli abitanti del Luogo delle Canne. I riferimenti al ciclo mitico di Tollan e di
Quetzalcóatl abbondano nella mitologia e nella storiografia mexica, così come nei rituali della regalità come intronizzazioni ed esequie reali[17]. Anche la nuova capitale di México-Tenochtitlan divenne allora un nuovo “Luogo delle Canne” e non a caso proprio con il toponimo
pittografico di Tollan la città è designata anche in un codice coloniale come il Codice Sierra.
In realtà, però, innovazioni fondamentali si possono scorgere nel discorso politico mexica: pur mantenendo il costante riferimento al modello zuyuano, i Mexica operarono una sorta di “rivoluzione
copernicana” legando in modo molto stretto la regalità alla figura del loro dio patrono Huitzilopochtli, il “Colibrí del Sud”. Per lo meno dal momento in cui i Mexica divennero la principale entità
politica mesoamericana, a capo di una confederazione imperiale di carattere espansionista, Huitzilopochtli, patrono esclusivo dei Mexica, andò ad occupare una posizione che sino ad allora era stata
prerogativa di Quetzalcóatl, divinità che, in quanto creatore dei cicli cosmici e degli uomini, era invece una divinità universale, pan-mesoamericana. Il sovrano mexica fu concepito come
ixiptla (“pelle”) di diverse divinità tra le quali Quetzalcóatl compare ancora, senza però avere più il ruolo principale, ora affidato a Huitzilopochtli. La preminenza di quest’ultimo,
concepito come “padre adottivo” dei popoli sottomessi, conferiva ai Mexica uno statuto eccezionale, quello di popolo eletto di Huitzilopochtli: il loro compito, secondo quanto comandato dal dio
patrono durante la migrazione originaria, era ora quello di condurre guerre che facessero affluire prigionieri da destinare al sacrificio, permettendo così il mantenimento dell’ordine cosmico.
Il discorso politico mexica ci appare così, anch’esso, fondamentalmente duplice: se da un lato mantiene una vocazione universalistica utile a sostentare una politica espansionista, dall’altro torna a parlare un linguaggio “locale”, incentrato sulle imprese del sovrano collocate però in un ambito cosmologico. Tale carattere dell’arte mexica si riflette anche nella produzione monumentale: se gran parte delle sculture mexica sono grandi opere a tutto tondo e di tema mitico-religioso, alcune pietre sacrificali sono invece destinate a portare le “narrazioni” a bassorilievo delle conquiste militari, nelle quali il sovrano è presentato come “pelle” di diverse divinità, impegnato a sottomettere le divinità patrone delle città sconfitte, indicate da specifici toponimi.
Nella retorica politica mexica, quindi, ciò che era locale, “etnico”, divenne universale ed assoluto, stabilendo però una relazione di tipo gerarchico che collocava tutti i popoli che entravano
nell’orbita politica mexica in una posizione di subalternità “essenziale”.
Grazie a questa innovazione ideologica, frutto ultimo di millenni di interazione tra diverse entità politiche e diverse strategie di legittimazione politica messe in atto dalle élite mesoamericane,
i mexica poterono legittimare quel dominio che si conquistarono con la forza delle armi. Non potremo mai sapere quali nuove strade avrebbe imboccato il discorso politico mesoamericano se allo
scadere del secondo decennio del XVI secolo non fossero sbarcati sulle coste messicane i portatori di una nuova ideologia politico-religiosa, anch’essa di carattere universalistico, che in queste
terre si esplicitò mediante due dei suoi simboli più potenti: la spada e la croce.
Note
[1] A titolo di esempio, citiamo alcuni dei principali lavori dedicati allo studio delle antiche forme di organizzazione politica in Mesoamerica: P. Culbert, Classic Maya Political History. Hieroglyphic and Archaeological Evidence, Cambridge, School of American Research, Cambridge University Press, 1991; P. Carrasco, Estructura político-territorial del Imperio Tenochca. La Triple Alianza de Tenochtitlan, Tetzcoco y Tlacopan, México, El Colegio de México, Fideicomiso Historia de las Américas-Fondo de Cultura Económica, 1996; V. E. Scarborough, J. E. Clark (eds.), The Political Economy of Ancient Mesoamerica, Albuquerque, University of New Mexico Press, 2007.
[2] C. Geertz, Centri, re e carisma: riflessioni sul simbolismo del potere, in C. Geertz, Antropologia interpretativa, Bologna, Il Mulino, 2001, 156-157.
[3] Per un’analisi più dettagliata si veda D. Domenici, I linguaggi del potere. Arti e propaganda nell’antica Mesoamerica, Bologna, Clueb, 2005.
[4] Per un’efficace sintesi di tale modello cosmologico si veda A. López Austin, Tamoanchan y Tlalocan, México, Fondo de Cultura Económica, 1993.
[5] C. Renfrew, J. Cherry (eds.), Peer Polity Interaction and Socio-Political Change, Cambridge, Cambridge University Press, 1986.
[6] N. Hammond, Inside the black box: defining Maya polity, in: P. Culbert (ed.), Classic Maya Political History. Hieroglyphic and Archaeological Evidence, Cambridge, School of American Research, Cambridge University Press, 1991, 253-284.
[7] Si tratta probabilmente del miglior tentativo di modellizzazione sinora avanzato. Definito S. J. Tambiah in relazione al Sud-est asiatico, il modello è stato poi applicato al mondo maya da A. Demarest. Si vedano: S. J. Tambiah, Il sistema politico galattico nel Sud-est asiatico, in: S. J. Tambiah, Rituali e cultura, Bologna, Il Mulino, 1995, 251-293; A. A. Demarest, Ideology and the Ancient Maya Cultural Evolution; The Dynamics of Galactic Polities, in: A. A. Demarest, G. W. Conrad (eds.), Ideology amd Pre-Columbian Civilizations, Santa Fe, School of American Research Press, 1992, 135-158.
[8] S. Martin, N. Grube, Maya Superstates,« Archaeology», 48/6 (1995), 41-46.
[9] D. Stuart, S. Houston, Classic Maya Place Names, Washington D.C., Dumbarton Oaks Research Library and Collection, 1994.
[10] L. Manzanilla, The Economic Organization of the Teotihuacan Priesthood: Hypotheses and Consideration, in: J. C. Berlo (ed.), Art, Ideology, and the City of Teotihuacan, Washington D.C., Dumbarton Oaks Research Library and Collection, 1992, 321-338; L. Manzanilla, Organización sociopolítica de Teotihuacan: los que los materiales nos dicen o nos callan, in M. E. Ruiz Gallut (ed.), Ideología y política a través de materiales, imágenes y símbolos, México, Conaculta-Instituto Nacional de Antropología e Historia, 2002, 3-21.
[11] L’associazione metaforica tra “carica” politica e “carico” pesante da sopportare è ampiamente diffusa tra i popoli mesoamericani, sia nell’antichità che in età contemporanea, come attestano numerose ricerche etnografiche.
[12] Si veda, ad esempio, R. E. Blanton, G. M. Feinman, S. A. Kowalewski, P. Peregrine, A Dual-Processual Theory for the Evolution of Mesoamerican Civilization, «Current Anthropology», 37/1 (1996), 1-31.
[13] S. D. Gillespie, Rethinking Ancient Maya Social Organization: Replacing ‘Lineage’ with ‘House’, «American Anthropologist», 102/3 (2000), 19-36.
[14] A. López Austin, L. López Luján, Mito y realidad de Zuyuá, México, Fondo de Cultura Económica, 1999.
[15] M. Sahlins, Metafore storiche di realtà mitiche, in: M. Sahlins, Storie d’altri, Napoli, Guida, 1992, 5-108.
[16] Si tratta della popolazione impropriamente nota con il nome di Aztechi. Quest’ultimo nome è oggi convenzionalmente utilizzato per indicare tutti i gruppi di lingua nahua che narravano la propria storia in forma di migrazione da un luogo originario variamente noto come Aztlan, Chicomoztoc o Culhuacan. Con il nome di Mexica, invece, si indica propriamente il gruppo umano che al termine della propria migrazione fondo la città di México-Tenochtitlan, oggi trasformatasi in città del Messico.
[17] La letteratura su Tollan e Quetzalcóatl nel mondo mexica è imponente. Segnaliamo qui le opere di maggior rilievo: A. López Austin, Hombre-dios. Religión y política en el mundo náhuatl, México, Universidad Nacional Autónoma de México, 1973; D. Carrasco, Quetzalcoatl and the Irony of Empire. Myth and Prophecies in the Aztec Tradition, Chicago, University of Chicago Press, 1982; M. Graulich, Quetzalcóatl y el espejismo de Tollan, Antwerp, Instituut voor Amerikanistiek, 1988; H. B. Nicholson, Topiltzin Quetzalcoatl, the Once and Future Lord of the Aztecs, Boulder, University Press of Colorado, 2001.