È Edouard Pommier nel saggio all’interno del catalogo della recente mostra napoletana di Tiziano e il ritratto di Corte da Raffaello ai Carracci[1],ad indicare in sintesi in che modo, nella storia dell’arte moderna, i due termini “ritratto” e “potere” siano stati messi in relazione tra loro e attraverso quali scelte formali si sia sviluppato e diffuso soprattutto a partire dal Cinquecento, il genere della ritrattistica encomiastica, celebrativa ed esemplare. “Quando si parla del ritratto del Potere si pensa istintivamente al Potere la cui missione è di far funzionare per delega divina la società degli uomini, il Potere del Papa e dell’Imperatore”[2], con queste parole Pommier individua il Potere nelle figure di chi deve amministrare la società cioè sovrani, imperatori, re, papi, che hanno responsabilità e doveri imprescindibili, ma anche diritti prioritari, tra cui il diritto all’immagine. L’immagine è privilegio di chi “avanza il diritto alla storia”[3] e di conseguenza anche alla fama. Chi si conquista un posto nella storia, acquista il diritto di essere ricordato attraverso la sua effigie: il ritratto diviene principale veicolo di manifestazione del potere guadagnato.
Il decoro nei ritratti ufficiali tra Cinquecento e Seicento
Dal Cinquecento, “ritratto” e “potere” si intersecano tanto da non permettere l’esistenza dell’uno senza l’altro. Sono legati da doveri che vanno man mano definendosi sempre più chiaramente, fino ad essere codificati in trattati teorici che cercano di sciogliere le difficoltà stilistiche di rappresentare il prestigio del personaggio da raffigurare secondo le novità dell’arte moderna. Il nuovo stile introduce nella pittura e nell’arte in generale, il movimento, l’introspezione psicologica e i moti dell’animo. La fermezza, l’austerità e l’integrità di costumi, consoni allo status sociale e morale dell’uomo di potere, devono essere raffigurati non trascurando l’approfondimento psicologico e l’attenzione ai moti interiori del ritrattato. Coniugare lo state portrait con l’introspezione psicologica è l’obiettivo dei migliori artisti impegnati nella ritrattistica che divenne allora vero e proprio genere. Il decoro, caratteristica indispensabile all’uomo nobile, virtuoso e di potere, rappresentato in arte fino a quel momento attraverso l’immobilità e la fissità dell’immagine secondo il modello scultoreo antico e la numismatica, diviene nel XVI secolo oggetto da definire negli scritti di materia artistica e tema di accese querelle fin oltre il Settecento[4]. Tra i più noti trattati d’arte del XVI secolo che dedicano una buona parte del testo all’argomento della ritrattistica, basti ricordare il Discorso intorno alle immagini sacre e profane che il cardinale Gabriele Paleotti (fig. 0) fece pubblicare a Bologna nel 1582. Secondo il Cardinale, per perseguire l’unico fine affidato all’arte cioè l’insegnamento morale, i soggetti di cui ricordare l’effigie devono essere scelti dalla comunità quali esempi pubblici degni di lode e onore. I personaggi da ritrarre rigorosamente al naturale, senza abbellimenti o superfetazioni, devono essere modelli riconosciuti universalmente ed essere ricordati per le loro azioni virtuose ed esemplari. Il Paleotti si dimostra molto cauto nei confronti del genere del ritratto verso il quale nota un crescente interesse del pubblico. Per questo motivo, si deve permettere la diffusione di immagini corrette, prive della possibilità di essere moralmente devianti. L’attenzione verso una scelta ponderata degli uomini di fama acclamata di cui tramandare memoria diviene l’operazione più complessa proprio per evitare errori nel proporre esempi negativi. Il diritto alla fama di alcuni personaggi, anche per il Paleotti identificabili nelle figure di chi, per volere divino, ha l’obbligo di assolvere il compito di governare la società o di renderla migliore, regnanti, papi, uomini di chiesa e d’intelletto, è imprescindibile dal comportamento morale, dalla dignità e dalla virtù. Solo i giusti meritano l’immortalità ricorrendo ad un ritratto capace di esprimere la gravità e il decoro – di nuovo l’uso del termine accanto al diritto all’immagine degli uomini esemplari – che a loro si conviene. L’arte deve a questo punto essere all’altezza del soggetto da rappresentare e, a sua volta, l’artista maestro nel realizzare un’opera che sia capace di riproporre il più fedelmente possibile il modello scelto. Paleotti indica con esattezza i modi per raffigurare il decoro e la dignità dell’uomo virtuoso, sottolineando che il ritratto deve rispecchiare la realtà, non alterarla con abbellimenti innaturali e/o l’inserimento di elementi inutili ad indicare ruoli che devono essere chiari già attraverso gli abiti, la posa e l’atteggiamento che si confà alla specifica professione o stato sociale. Un’immagine essenziale e severa, concentrata sull’effigie, sullo sguardo sicuro e deciso si addice ad un personaggio di potere, nobile d’animo, d’intelletto o di stirpe: questo rigore nella rappresentazione, richiesto per i ritratti di uomini illustri, viene applicato prevalentemente dagli artisti attivi nel periodo della Controriforma che più fedelmente seguirono i dettami teorici del Discorso, tra questi i Carracci, Guido Reni e la folta schiera dei classicisti. Come Paleotti, anche Giovan Paolo Lomazzo nel Trattato dell’arte della pittura, della scoltura et architettura del 1584 dedica un lungo capitolo al ritratto, specificando che l’unica immagine accettabile è quella tratta dal naturale e indicando in alcuni tra i ritrattisti romani più acclamati dell’epoca, i maestri del genere[5]. Recupero dell’austerità del mondo classico e attenzione all’interiorizzazione psicologica costituiscono le caratteristiche del ritratto ufficiale teorizzato dai letterati alla fine del secolo che apre al Classicismo seicentesco, il quale non si discosta dalla linea compositiva espressa dai grandi artisti del Rinascimento. Due sono le tendenze: concentrare l’attenzione sullo sguardo e la psicologia del personaggio per rendere l’idea di decoro solo attraverso l’effigie dell’uomo di potere, o affidare il compito di sottolineare l’importanza e il ruolo del ritrattato ad una serie di oggetti che celebrino l’iconografia del potere. Il dominio intellettuale e sociale del Baldassarre Castiglione (fig. 1) nell’intenso e concentrato ritratto di Raffaello, segna le basi di partenza della prima tipologia di ritratto citata che tocca la Francia e, travalicando la Manica, giunge nel XVIII secolo al Dottor Charles Burney di Joshua Reynolds, e di nuovo in Italia all’Abate Caetani di Anton Raphael Mengs (fig. 2), o al superbo ritratto del Cavaliere dell’ordine Costantiniano (fig. 3) in cui Frà Galgario denuncia con impareggiabile acutezza di sguardo la vacuità e la dissolutezza morale del personaggio raffigurato. Dell’altro tipo è invece il ritratto ufficiale proposto da Tiziano, il più grande e richiesto ritrattista del XVI secolo, ricco di elementi descrittivi che meglio inquadrano il personaggio e ne determinano la regalità, come il notissimo Carlo V a cavallo (fig. 4)dove è l’idea del ritratto equestre ad essere rivitalizzata, a diventare “carattere ideale”[6] del personaggio o quello di Federico Gonzaga in cui l’idea di potere è affidata oltre che alle vesti e all’atteggiamento regale, anche alla presenza di elementi iconografici rappresentativi del rango sociale del personaggio quali ad esempio il cane, o nel ritratto di Filippo II, l’armatura. Da Tiziano a Lotto a Veronese poi, una volta lasciata Venezia, si arriva a Bologna dove eccelle nel genere Bartolomeo Passerotti, fino a Napoli e Roma, la città che nel Settecento è tappa obbligata del Grand Tour e che ha in Pompeo Batoni uno tra i più alti rappresentanti della ritrattistica europea. Un’opera come il ritratto di Abbondio Rezzonico (fig. 5) si pone infatti, tra i capolavori assoluti di una retorica simbolica, ricca di elementi descrittivi e accessori encomiastici che soddisfano il desiderio di auto-celebrazione del potere non solo della committenza aristocratica italiana, ma del pubblico internazionale.In conclusione, per questi artisti l’ufficialità dell’immagine è affidata in gran parte alla presenza di oggetti che sottolineano il rango sociale del personaggio raffigurato privilegiando la tipologia dello state portrait che vede necessaria la presenza di elementi evocativi ed elogiativi[7].
Dal ritratto dipinto al ritratto a stampa: sviluppo del collezionismo di ritratti
La molta trattatistica riguardo al ritratto che si diffonde dalla fine del XVI secolo dimostra il crescente interesse di pubblico verso il genere e la necessità di controllare il forte incremento della produzione che non si rivolge più solo ai potenti, governanti e papi, ma anche a uomini comuni, mercanti, sarti e antiquari. Da queste date, anche la piccola e media borghesia, vedendo la grande diffusione di ritratti di volti anonimi accanto a quelli di coloro che, avendo condotto vita esemplare, si meritavano il diritto/dovere all’immortalità, si arroga il diritto alla fama. La nuova classe sociale vuole essere ritratta o, in alternativa, vuole collezionare ritratti. Chi non si riteneva necessariamente in potere di avere fama eterna attraverso la commissione del proprio ritratto ad artisti anche improvvisati, artigiani che proliferavano in ogni borgo, paese o città, si sentiva in dovere di crearsi una piccola collezione casalinga di volti di personaggi esemplari. Nel corso del Cinquecento si moltiplicano le commissioni di gallerie di ritratti di uomini illustri e virtuosi, distintisi nelle lettere, nelle armi o nella vita religiosa. Per cercare di venire incontro alle nuove esigenze della ritrattistica, si regolamenta la produzione attraverso i dictat proposti nei trattati d’arte, e si diffonde un prototipo che poi diviene modello ufficiale di iconoteche di uomini illustri, il museo di Paolo Giovio[8]. Il letterato aveva dato un’organizzazione sistematica alla sua raccolta dividendo i ritratti in due categorie generali: coloro che si erano distinti per virtus bellica e quelli per virtus leteraria. La sistematizzazione della memoria proposta da Giovio, dall’epoca arcaica a quella contemporanea, si pone come modello per un’ampia catalogazione dei personaggi che hanno fatto la storia della civiltà. La possibilità di estendere senza limiti l’iconoteca contribuì alla fortuna del genere nel mondo del collezionismo contemporaneo e successivo. Il modello gioviano divenne esempio imitato per oltre due secoli, si diffusero iconoteche di dipinti, ma ancor di più raccolte di ritratti a stampa: grazie alla vasta produzione editoriale di biografie raccolte in serie, corredate dai ritratti dei personaggi descritti, intere raccolte di icones di uomini esemplari circolarono in tutta Europa confermando definitivamente il diritto alla fama dei personaggi scelti. Gli eletti, dovendo essere riconosciuti da un pubblico internazionale attraverso attributi iconografici convenzionali, divennero stereotipi nelle fisionomie come nelle vesti, negli atteggiamenti e negli elementi identificativi il loro ruolo sociale o professionale. Maggiore è la fama del personaggio, più semplificato e tipizzato è il ritratto che lo consacra alla notorietà secondo un’immagine più facile da riprodurre e quindi diffondere. Un esempio: l’immagine più celebre del noto naturalista del Cinquecento italiano, Ulisse Aldrovandi, è l’incisione realizzata da Agostino Carracci nel 1596 (fig. 6)[9] in cui lo scienziato è effigiato con pochi tratti semplici che definiscono gli occhi e la barba in un’incorniciatura che diviene a sua volta modello fin oltre il Settecento[10].La raccolta di Imagines Illustrium Virorum dell’Istituto delle Scienze di Bologna
La tipologia del museo gioviano viene riproposta nelle iconoteche di tutta Europa fino al secolo dei Lumi, periodo caratterizzato dall’idea espressa nell’Enyclopedie di schematizzazione e sistematizzazione del sapere moderno, i cui primi fermenti erano già in nuce nel “Tempio della Fama” del museo di Giovio. Nel Settecento le Accademie diventano luoghi di potere, espresso attraverso il controllo formale della produzione intellettuale che doveva essere vincolata alla politica culturale delle istituzioni e al giudizio definitivo degli organi di controllo. A Bologna, l’Istituto delle Scienze visse sotto l’egida di Benedetto XIV, che, esercitando il suo potere in maniera costruttiva e non coercitiva nei confronti dell’Istituzione cittadina, attuò programmi di riforme che prevedevano il potenziamento di tutte le discipline del sapere contemporaneo, dalle scientifiche a quelle artistiche e umanistiche[11]. Per riuscire nell’intento il Papa si servì di molti mezzi e di alcune altissime personalità, esponenti della collettività intellettuale non solo cittadina, che potessero fungere da strumento di realizzazione dei progetti proposti. Tra questi si distinse il cardinale romano Filippo Maria Monti che con il testamento del 1754[12] legò all’istituzione bolognese la propria ricchissima biblioteca di oltre dodicimila volumi e una raccolta di dipinti, 403 ritratti di cardinali, teologi, scienziati e letterati illustri contemporanei e non, che venne a comporre il nucleo originale dell’iconoteca di “imagines Illustrium Virorum” dell’Istituto delle Scienze. L’iconoteca del Monti fu l’impulso per l’avvio di una raccolta di ritratti delle glorie locali che, grazie a ulteriori donazioni e acquisizioni succedutesi nel corso del Settecento, formarono una delle più ricche collezioni di ritratti del XVIII secolo e che oggi costituiscono l’imponente quadreria dell’Università di Bologna (http://www.archiviostorico.unibo.it/quadreria).La collezione creata dal Cardinale, come si è accennato, comprende ritratti di uomini d’armi e di cultura oltre a cardinali, ecclesiastici e re, e richiama la tipologia del museo gioviano in cui i soggetti ritratti erano suddivisi per categorie generali scelti con finalità celebrative, didattiche e morali. Secondo la prassi consolidata, anche il Monti per la sua iconoteca scelse di far raffigurare esempi morali principalmente di epoca moderna e contemporanea, dal Quattrocento in poi con qualche eccezione di fama dichiarata, imprescindibili per dare una visione complessiva della storia, quale ad esempio Dante Alighieri e altri letterati, papi antichi e primi condottieri. I soggetti vennero desunti essenzialmente dai frontespizi incisi delle principali opere a stampa che circolavano in Europa e che proponevano i modelli tipizzati e più diffusi dei protagonisti della storia antica e moderna. Nella collezione compaiono infatti, per necessaria completezza, i ritratti di eroi, principi, letterati e intellettuali quali Niccolò Macchiavelli, Pietro Bembo, Ludovico Ariosto, Giovanni Battista della Porta, Paolo Giovio, Cassiano del Pozzo assieme ai collezionisti Fulvio Orsini (fig. 7) e Giusto Lipsio, presenti nella collezione per essere loro stessi autori di raccolte biografiche di risonanza internazionale, le Imagines et elogia illustrium virorum edito nel 1570 e il De Bibliothecis Sintagma pubblicato ad Anversa nel 1607[13]. Tra gli scienziati rappresentati sono ricordati i grandi dell’epoca precedente, i padri delle discipline moderne, Galileo Galilei, Isaac Newton (fig. 8), Copernico e Cartesio: la loro effigie viene riproposta sulla tela senza allontanarsi dal modello inciso, noto e riconoscibile. Come per le raccolte cinquecentesche, non è previsto che vi siano opere firmate da grandi artisti, ma vengono preferiti anonimi pittori, autori di mestiere, abili soprattutto come copisti in serie, fedeli al modello proposto, perché esso sia subito riconoscibile e sia così possibile conseguire con velocità e semplicità il fine essenzialmente documentario richiesto all’opera. Circa la metà dei 403 dipinti donati dal Monti è composta da ritratti di cardinali: come noto, questa sezione della raccolta venne predisposta dal cardinale quale modello pittorico per le immagini che si sarebbero dovute incidere nel volume di biografie di ecclesiastici che lui stesso fece realizzare e diede alle stampe nel 1751, gli Elogia S.R.E. Cardinalium[14]. Il testo completo delle biografie degli ecclesiastici scelti tra i più illustri rappresentanti della Chiesa dall’epoca del pontificato di Alessandro III fino a Benedetto XIII, come specificato nel frontespizio doveva essere corredato da un apparato illustrativo di ritratti dei personaggi biografati: queste erano le intenzioni del Monti e così è nel frontespizio in cui si sottolinea «apposita eorum imaginibus quae in pinacotheca Philippo Cardinalis Montibus spectantur», individuando nella quadreria dipinta la fonte per i modelli dei ritratti da incidere. Il progetto, per questioni di tempo non fu portato a termine e le incisioni non furono realizzate; fu deciso comunque di editare il volume senza le oltre duecento immagini previste in origine. La vicenda si ricostruisce dalle notizie riferite nella premessa del volume, in cui viene sottolineata la volontà del Cardinale di realizzare opere incise che avessero come modello le immagini della sua quadreria, in modo da poter offrire, quale corredo alle biografie scritte, i ritratti sia in pittura che in incisione, secondo l’uso ormai consueto di completare l’arredo delle biblioteche che già contengono raccolte biografiche a stampa di illustrium virorum, con collezioni tematiche di ritratti dipinti[15].
Ritratti dipinti, ritratti a stampa e collezioni di ritratti si confrontano in un dialogo stretto e intrecciato. La finalità è la medesima: l’immagine documentaria diviene mezzo per il consolidamento del potere di chi già lo detiene e per l’ascesa al potere di chi lo sta conquistando. Farsi ritrarre, ma ancor di più far entrare il proprio ritratto, o quello di un rappresentate della propria famiglia fra quelli assurti a modello nelle iconoteche di uomini illustri diviene necessità per chi, asceso nella scala sociale, vuole rafforzare il proprio potere o dare dignità alle propria stirpe. Queste le motivazioni per la crescente richiesta del collezionismo di iconoteche anche da parte dei rappresentanti delle nuove classi dirigenti che nel Cinquecento erano emergenti, nei secoli successivi ottennero un più sicuro consolidamento, fino a ribaltare la situazione di controllo del potere dalla fine del Settecento in poi. Cambiano i soggetti proposti, cambiano i modelli esemplari da riprodurre in serie, ma il ruolo del “ritratto” rispetto al “potere” rimane nei secoli, come oggi, invariato: i due termini sono vincolati da stretti e sottili legami di diritti e doveri che ne determinano la eguale sorte, comune fortuna o sventura, ricordo eterno o definitiva damnatio memoriae.
Note
[1] E. Pommier, Potere del ritratto e ritratto del Potere in: N. Spinosa (ed.), Tiziano e il ritratto di Corte da Raffaello ai Carracci, Napoli, Electa, 2006, 24-28. Tra la sterminata bibliografia sul ritratto si rimanda in particolare ai testi di E. Castelnuovo, Il significato del ritratto pittorico nella società, «I documenti» , 13 (1973), 1031-2172; E. Pommier, Il ritratto : storia e teorie dal Rinascimento all'età dei lumi, Torino, Einaudi, 2003.
[2] Pommier, Potere del ritratto e ritratto del Potere,cit., 25
[3] Pommier, Potere del ritratto e ritratto del Potere,cit., 25
[4] Si ricorda che il termine “decoro” è argomento ancora dibattuto nelle accademie letterarie sei-settecentesche come si nota in L. A. Muratori, Riflessioni sopra il buon gusto nelle scienze e nelle arti di Laminio Pritaneo, Venezia, per Luigi Pavino 1708, 21-215. Vi è da parte dell’autore una dettagliata precisazione delle caratteristiche necessarie al “decoro”, elemento indispensabile per il buon gusto universale: «La verità le notizie e le argomentazioni e le ragioni delle cose si lascino vedere in abito non sordido, non deforme, non troppo rusticano, e spiacevole, ma con gli ornamenti che si convengono alla lor dignità e quel decoro che in tutte le cose dee cercarsi, che s’ama e si cerca da gli animi veramente nobili di gusto perfetto».
[5] E. Castelnuovo, Fortuna e vicissitudini del ritratto cinquecentesco, in: N. Spinosa (ed.), Tiziano e il ritratto di Corte da Raffaello ai Carracci, Napoli, Electa, 2006, 33.
[6] A. Paolucci, Tiziano ritrattista in: Tiziano, Venezia – Washington, Marsilio, Venezia, 1990, 101.
[7] Castelnuovo, Fortuna e vicissitudini del ritratto cinquecentesco, cit., 33.
[8] Riguardo il proliferare delle collezioni di ritratti nel XVI secolo e il modello gioviano si rimanda all’esaustivo testo di T. Casini, Ritratti Parlanti. Collezionismo e biografie illustrate nei secoli XVI e XVII, Firenze, Edifir, 2004 e alla molta bibliografia citata.
[9] Incisione è riprodotta in D. De Grazia, Le stampe dei Carracci, Bologna, Alfa, 1984, 207.
[10] Sull’iconografia di Aldrovandi vedi il recente testo di A. Tosi, Portraits of men and ideas: images of science in Italy from the Rinaissance to the Nineteenth Century, Pisa, Edizioni Plus- University Press, 2007, 45-93 con approfondita bibliografia di riferimento.
[11] Sull’argomento vedi il recente saggio di D. Biagi Maino, La rifondazione dell’Accademia in età benedettina, in: D. Biagi Maino (ed.), L’immagine del Settecento da Luigi Ferdinando Marsili a Benedetto XIV, Torino, Allemandi Ed., 2005, 81-98 con bibliografia relativa.
[12] Legato di Libri e Pitture fatto dal Cav. Monti all’Istituto, 24 gennaio 1754, in Archivio di Stato di Bologna, Assunteria d’Istituto, Diversorum, busta 21, n.4. E’ inoltre contenuta copia della Dichiarazione delle condizioni e vincoli colli quali abbiamo lasciata per legato la nostra Biblioteca all’Istituto delle Arti e delle Scienze eretto in Bologna, del Cardinale Filippo Maria Monti firmata a Roma il 2 Gennaio 1749. Cfr: E. Gualandi, Il Cardinale Filippo Maria Monti, papa Benedetto XIV e la Biblioteca dell’Istituto delle Scienze, Parma, Officina grafica Fresching, 1921, ma più recentemente G. Gandolfi, La storia per immagini. La raccolta dei ritratti dell’Università di Bologna, in: Biagi Maino (ed.), L’immagine del Settecento, cit., 102-116.
[13] Casini, Ritratti parlanti, cit., 331-332.
[14]Elogia S.R.E. Cardinalium pietate Doctrina Legationibus ac rebus pro ecclesia gestis illustrium a Pontificatu Alexandri III a Benedictum XIII apposita eorum imaginibus quae in Pinacotheca Philippi Cardinalis de Montibus spectantus, Romae, Typis Antonij de Rubeis apud Pantheon 1751. Vedi D. Biagi Maino, Il ritratto dello scienziato attraverso tre secoli di libri, in: D. Lenzi (ed.), Arti a confronto. Studi in onore di Anna Maria Matteucci, Bologna, Editrice Compositori, 2004, 257-266.
[15] Gandolfi, La storia per immagini, cit., 104-105.