Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Morfologia e retorica dell'anticristo

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Abstract

If there is one figure which has, in occidental culture, identified the enemy - it is the one of the Antichrist. This figure has been the image of the enemy, which is to be confronted and defeated at any given moment, for centuries, the enemy having many faces. It is interesting to see how this representation has been developed throughout the Old and in particular in the New testament.

Se si dà una figura che, per antonomasia, ha identificato nella cultura occidentale il nemico, questa è certamente quella dell’anticristo: non un qualsiasi avversario, bensì l’antagonista dello scontro decisivo che si consumerà nei tempi finali della vicenda di questo mondo. Da una tale identificazione si è ingenerata una delle retoriche più efficaci e perciò sfruttate nel corso dei secoli per la caratterizzazione ultimativa del nemico che di volta in volta ci si trovava a combattere, fosse l’impero o l’imperatore, il papa o Lutero, lo zar o il dittatore di turno. Non è quindi senza significato, per lo scopo che ci si prefigge qui, cercare di cogliere come e quando abbia preso forma per la prima volta un simile strumento per l’individuazione e la costruzione di una tale figura.

Al proposito, la corrente storiografica prevalente e consolidata considera che in essa confluisca tutta una serie di precedenti tradizioni e idee, riconducibili ad un mito cosmico-escatologico che affermava l’incombenza e l’ineluttabilità dello scontro finale contro un nemico di origine sovrumana (il drago del mito babilonese). In questa luce, l’anticristo dei cristiani non sarebbe altro se non l’ultima e più articolata declinazione di una tale vicenda, variamente espressa nell’Antico e soprattutto nel Nuovo Testamento, nelle sezioni apocalittiche dei vangeli sinottici, nella seconda lettera ai Tessalonicesi e in special modo nell’Apocalisse[1].

Se però si abbandona una tale precomprensione e non si dà per scontata l’esistenza di una generica “idea dell’anticristo” nelle grandi tradizioni religiose e in quella biblica in particolare, bensì si resta saldamente ancorati ai testi degli autori cristiani dei primi secoli in cui il termine “anticristo” effettivamente compare, si potrà osservare come la creazione dell’“anticristo” non si comprenda al di fuori del formidabile conflitto ermeneutico che nel corso del II secolo oppose i giudei ai cristiani e divise gli stessi cristiani – tra cui vanno ricompresi anche gli gnostici e i seguaci di Marcione, che solo dopo l’affermazione della chiesa episcopale potranno essere derubricati a «eretici» – riguardo a fondamentali questioni tanto cristologiche, quanto escatologiche: la natura del Regno annunziato da Cristo, il significato della sua attesa e i tempi della sua venuta, il ritardo della parusia e gli avvenimenti destinati a precederla.

In questo senso, allora, l’ “anticristo” si viene delineando in un preciso tornante storico tra la fine del II e l’inizio del III secolo, al crocevia di conflitti interni ed esterni vissuti dalle comunità cristiane. Il dato qui più interessante è che alla soluzione di tali conflitti abbia contribuito la costruzione della figura di un “nemico”, la cui collocazione è però dislocata in un futuro tutt’altro che prossimo; per i cristiani sottoposti ora alle persecuzioni del potere imperiale ora a conflitti scismatici ed eresiologici, la retorica dell’anticristo rappresentò paradossalmente un sostegno fondamentale: sapere che i mali con cui essi avevano a che fare erano i medesimi che gli eletti avrebbero dovuto affrontare contro l’ultimo nemico, in vista della imminente e definitiva liberazione, non poteva che essere motivo di consolazione e di resistenza di fronte all’infuriare della tribolazione.

Se infatti ci si muove in una prospettiva scevra da precomprensioni testuali, si vede come l’“anticristo” di cui si parla nelle lettere di Giovanni  (unico luogo del Nuovo Testamento in cui compaia il termine) non sia una generica figura antimessianica, analoga o riassuntiva di quelle presenti nella letteratura precedente o coeva, ma indichi specificamente chi si oppone alla esatta comprensione della persona storica di Gesù Cristo e alla fede a ciò connessa; se davvero, come vorrebbe la linea interpretativa predominante[2], l’autore della prima lettera di Giovanni avesse condiviso l’idea, largamente diffusa, della figura escatologica antimessianica non si vede perché avrebbe dovuto ricorrere al conio di un termine così peculiare. Viceversa, se testi più o meno coevi come la Didaché, oppure di poco posteriori come il Dialogo di Giustino, davvero si riferissero (implicitamente) al medesimo concetto e rimontassero ad un sostrato comune, risulterebbe ben strana l’assenza in essi della benché minima traccia del termine anticristo, che compare solo ad opera di Ireneo, cioè nella seconda metà del II secolo. In realtà, l’unico altro scritto in cui il termine è presente, immediatamente posteriore all’epistolario giovanneo e da questo con ogni probabilità dipendente, la lettera ai Filippesi di Policarpo di Smirne, non ne mostra alcuna implicazione escatologica, e anzi lo lega ancora una volta ad una specifica polemica dottrinale, del tutto in continuità con l’interpretazione che viene qui avanzata dell’epistolario giovanneo.

Al momento della sua comparsa, dunque, il termine “anticristo” non pare avere alcuna connotazione escatologica né essere direttamente riconducibile alla vasta congerie di temi, tradizioni e testi che si agitavano nel mondo ebraico, o più generalmente mediorientale, in relazione alle speculazioni escatologiche o messianiche. Ancora alla coscienza di autori della prima parte del III secolo era ben presente il preciso significato eresiologico del termine “anticristo” dell’epistolario giovanneo, come confermano due passi del trattato di Tertulliano Sulla prescrizione degli eretici[3], datato al 200-202, di cui il secondo costituisce un vero e proprio catalogo delle eresie correnti all’epoca apostolica. Pure Origene, redigendo tra il 240 e il 250 il suo commento al Vangelo di Matteo (nella parte che qui interessa giuntoci grazie ad una traduzione latina, nota come Commentariorum series in Matthaeum), si limita ancora ad associare il significato dell’espressione ad alcune specifiche eresie[4], estendendolo più in generale ad ogni interpretazione deviante ed ereticale della Scrittura.

E’ del tutto evidente, però, come questa originaria linea di utilizzo del termine “anticristo” sia risultata residuale a partire proprio dal terzo secolo, per essere progressivamente marginalizzata da un uso del termine che individuava invece una precisa figura escatologica che si opponeva alla venuta di Cristo alla fine dei tempi, quella appunto dell’“anticristo”. Decisivo diventa dunque individuare quando e perché – e se possibile ad opera di chi – sia stata operata la sovrapposizione della tematica escatologica ad un termine che, invece, nasce e persiste con tutt’altra connotazione.

A parere di chi scrive, è stato Ireneo, vescovo di Lione nelle Gallie negli ultimi decenni del secondo secolo, ad elaborare i tratti della sua figura anticristica in stretta correlazione con la polemica cristologica da lui condotta contro lo gnosticismo e il marcionismo in particolare, e per questa via giunse ad utilizzarla anche per la costruzione di un’escatologia in competizione con quella giudaica.

Dal punto di vista della cronologia, la discontinuità segnata da Ireneo può essere confermata dall’esame della testimonianza di Celso che, all’incirca nei medesimi anni della stesura dell’opera ireneana, compose un articolato e ben informato scritto polemico contro i cristiani (il Discorso vero), da cui si può cogliere come a quell’altezza di tempo l’avversario trascendente cui si riferivano i cristiani fosse del tutto genericamente il Satana della tradizione biblica, non invece una specifica figura antimessianica, né quindi tantomeno l’Anticristo. Curioso indagatore di giudaismo e cristianesimo, buon conoscitore degli scritti e delle diverse articolazioni dei due mondi religiosi, Celso ne coglie il rapporto di derivazione e, sul punto che qui interessa, sostiene la provenienza dell’avversario del Figlio di Dio di cui parlano i cristiani dal concetto giudaico del Satana. Sul fondamento poi del discorso escatologico di Gesù (Ev. Matth. 24 e paralleli), destinato a diventare centrale in tutta la speculazione cristiana sull’Anticristo, Celso lega la genesi dell’idea che sta criticando alle effettive persecuzioni subite dai cristiani: essi, ammoniti e così turlupinati in anticipo da Gesù, attribuiscono a Satana le persecuzioni da cui sono afflitti al momento presente. A sua volta, il satana/diavolo biblico nascerebbe da una maldestra interpretazione dei più antichi, e perciò più autorevoli, miti teogonici della tradizione greca, tra cui spicca quello dei Titani. Il riferimento a questo e ad altri combattimenti celesti della tradizione teogonica mostra come Celso fosse consapevole delle implicazioni apocalittiche che i cristiani assegnavano al conflitto di Gesù e dei cristiani contro Satana; se solo avesse avuto sentore dell’esistenza di un “anticristo” in questo specifico contesto ben difficilmente ne avrebbe taciuto, dato che la sua argomentazione ne sarebbe uscita rafforzata e Gesù ben più ridicolizzato. In ogni caso, in nessun modo si può trarre da questo passo di Celso la conferma dell’esistenza di un mito anticristico, in quanto risulta univoca l’identificazione da parte di Celso dell’avversario di Cristo con Satana. Nella sua risposta di circa settant’anni posteriore, Origene gli obietterà di lasciare da parte la dottrina dell’anticristo; e in effetti Celso non solo non la conosceva, ma neppure poteva conoscerla.

Trascorrendo dal “quando” al “perché” della comparsa della figura dell’Anticristo, è possibile seguirne la progressiva genesi nel corso dei cinque libri della vasta opera di Ireneo, che inizia quale confutazione delle false dottrine gnostiche, come dichiarato dal titolo, per risolversi nella prima esposizione sistematica della teologia cristiana, al cui culmine si colloca l’escatologia delineata negli ultimi capitoli dello scritto.

Pure in Ireneo persistono consistenti tracce della funzione eresiologica del termine anticristo; ancora nel mezzo del terzo libro[5], polemizzando come già Policarpo contro le posizioni docetiste, che ritenevano soltanto apparenti le sofferenze di Cristo sulla croce, Ireneo ricorre alla definizione di anticristo delle lettere di Giovanni per bollarne i sostenitori e mettere in guardia il proprio gregge. Questo terzo libro è consacrato alla confutazione delle dottrine gnostiche e marcionite, e consiste in una sistematica esposizione dei luoghi, tratti dall’Antico e dal Nuovo Testamento, che sostengono le obiezioni mosse da Ireneo, che risulta così il primo autore cristiano a porre in organica connessione le due parti della Scrittura.

Quasi incidentalmente, a III 6,5-7,2 Ireneo viene a contestare l’interpretazione che da parte ereticale veniva data di alcuni luoghi paolini, in particolare della seconda lettera ai Tessalonicesi; è in questo contesto che si opera la prima, esplicita identificazione dell’Anticristo con «l’empio» che si oppone a Dio e si innalza sopra ogni altra realtà, figura che a sua volta Paolo riprendeva dalla tradizione apocalittica del libro di Daniele. Grazie alla testimonianza di Tertulliano (Tert., Adv. Marc. V 16,4-7), possiamo arguire che il passo di II Ep. Thess. 2,8 s., veniva utilizzato da Marcione per sostenere che il Demiurgo, cioè il dio cattivo dell’Antico Testamento avverso al Dio buono annunciato da Gesù, ingelositosi del vero Cristo apparso sulla terra, ne avrebbe inviato uno proprio caratterizzato dal potere satanico. Ireneo propone una lettura di questo passo imperniata sulla considerazione del modo di scrivere proprio dell’apostolo, che lo porta a fornire, a suo dire,  la vera interpretazione di questo, come di altri passi. Ireneo è il primo autore cattolico di cui possediamo una citazione della seconda ai Tessalonicesi, in un contesto di esplicita polemica antimarcionita e antignostica; da ciò e dalla ricordata testimonianza di Tertulliano possiamo dedurre che gli gnostici e i marcioniti dovevano far uso di questo testo paolino per sostenere volta a volta l’esistenza di più dèi sopra cui si sarebbe innalzato l’empio (II Ep. Thess. 2,4) o la futura comparsa di un inviato del demiurgo in opposizione allo stesso Cristo. In un simile quadro, mentre rivendica l’interpretazione ortodossa del testo paolino, Ireneo compie di fatto due operazioni gravide di conseguenze: da un lato, riconduce una figura sin lì problematica del pensiero paolino, quella appunto dell’oppositore di II Ep. Thess., ad un’altra, specifica categoria di uso corrente nel dibattito eresiologico, l’anticristo giovanneo, cui avrebbe fatto ricorso ancora pochi paragrafi dopo; dall’altro, distingue la generica azione di Satana contro Cristo e i suoi fedeli dalla specifica opposizione del soggetto satanico di II Ep. Thess. così ridefinito, la cui azione si colloca ancora, come in Paolo, in un contesto non ben precisato tra presente e futuro. Come Ireneo sia giunto a questa sovrapposizione, che costituisce una soluzione ad uno specifico problema esegetico posto da un’istanza esterna, l’interpretazione gnostico-marcionita di Paolo, rappresenta un interrogativo che è possibile sciogliere alla luce del contesto storico in cui il vescovo di Lione si trovò ad operare e di cui troviamo una traccia decisiva nel primo libro della sua opera, laddove si viene a parlare di Marco Mago, allievo dello gnostico Valentino, la cui setta era attiva proprio nelle Gallie in quel periodo. Il passo di I 13,1,  ci è conservato anche nell’originale greco, oltreché nella versione latina che ci ha trasmesso l’intera opera ireneana; vi si definisce Marco «quasi un vero precursore dell’anticristo»; ma una tale definizione non ha origine da Ireneo, che la trae da uno scritto polemico in versi contro il medesimo Marco Mago, opera di un non meglio precisato «divino vecchio e araldo della verità», esponente di quella tradizione profetico-presbiterale cui si rifà Ireneo per legittimare le proprie posizioni teologiche. Poco più avanti[6], infatti, Ireneo riporta il passo in questione, che suona: «O Marco, fabbricatore di idoli e esaminatore di prodigi, esperto di astrologia e di arte magica, con cui sostieni gli insegnamenti del tuo inganno, mostrando prodigi a quelli che sono ingannati da te, opere di una forza che conduce all’apostasia, che sempre ti consente di compiere il padre tuo satana, grazie alla potenza angelica di Azazel, trovando in te un precursore della nequizia avversa a Dio». E’ evidente nelle parole del «divino vecchio» la presenza simultanea di elementi della tradizione apocalittica giudaica, sino alla potenza angelica di Azazel, e di tratti più squisitamente cristiani; ma decisivo è osservare come, in un contesto connotato da elementi che saranno poi costantemente declinati in chiave escatologica (le azioni magiche, i prodigi e gli inganni, l’apostasia provocata da Satana, il ruolo precorritore), il composto che indica opposizione sia il generico antitheos (lett. «antidio»), laddove tutto parrebbe indicare che ci sia ogni condizione perché vi compaia il termine Anticristo; se ciò non accade, se ne deve dedurre che al tempo del «divino vecchio» (il cui attacco a Marco è posteriore alla metà del II secolo e quindi non molto lontano dall’epoca di composizione degli scritti di Celso e di Ireneo), l’anticristo escatologico non esisteva ancora, e la stessa teoria dell’opposizione satanica a Dio, legata a prodigi magici e produttrice d’apostasia, presentava caratteri escatologici alquanto confusi, se pure li presentava, nel caso specifico fortemente giudaizzanti per la menzione di Azazel. E’ dunque Ireneo che modifica l’espressione utilizzata dal «divino vecchio», riconducendola da una generica opposizione a Dio ad una specifica a Cristo, in linea con la tradizione giovannea e con gli intenti specifici della propria opera (un trattato antiereticale), senza caricarne il significato in senso escatologico. Se dunque dovesse ad altri la propria dottrina dell’Anticristo escatologico, Ireneo non l’avrebbe comunque tratta da quella tradizione dei presbiteri profeti cui appartiene anche il «divino vecchio» e a cui il vescovo di Lione sistematicamente riconduce i tratti più impegnativi delle proprie dottrine; ma allora, piuttosto che postulare una derivazione di cui non si riescono ad individuare le tracce, è decisamente più logico affermarne una genesi interna alla stessa riflessione ireneana[7].