Jean-Pierre Devroey, “La Nature et le roi. Environnement, pouvoir et société à l’âge de Charlemagne (740-820)”, Parigi, Albin Michel, 2019, 588 pp.
È difficile approvare il sottotitolo che Jean-Pierre Devroey, professore emerito all’Université Libre de Bruxelles, tra i massimi esperti viventi dell’Occidente alto-medievale, ha scelto per La Nature et le roi, presentato come un libro su «ambiente, potere e società nell’età di Carlomagno». Lo studio dei decenni compresi grossomodo tra 740 e 820, e in particolare delle calamità naturali come «punto di osservazione delle relazioni tra il re, il sistema sociale e la Natura in periodo di “crisi” alimentare» (p. 27), è infatti parte di un quadro analitico che si rivela molto più ampio. Oltre che dei consueti rigore critico e acume interpretativo, cui lo storico belga ha da tempo abituato i propri lettori, l’opera dà prova di una straordinaria curiosità intellettuale: Devroey spazia dalla “piccola era glaciale” tra Sei e Settecento fino alla carestia russa del 1891-1892, dalla nascita dell’entomologia moderna nel corso del XVII secolo fino alla catastrofica eruzione del vulcano indonesiano Tambora nel 1815. Lungi dall’essere uno sfoggio di erudizione, simili digressioni aiutano a gettare luce sull’epoca carolingia e, più in generale, sui molti e diversi modi in cui l’umanità ha interpretato — e interagito con — il mondo naturale nel corso della storia. Siamo dunque di fronte a un libro che oltrepassa i tradizionali confini (non solo cronologici e geografici, ma anche euristici, come vedremo meglio tra un momento) della medievistica e che si propone, inoltre, di offrire spunti di riflessione sul presente.
È utile delineare fin da subito il contenuto dei capitoli centrali de La Nature et le roi, che occupano la seconda parte del testo e che sono dedicati a quattro casi di studio: l’inverno particolarmente rigido a cavaliere del 763 e del 764, sotto il regno di Pipino III, effetto di un’alterazione climatica i cui primi segni risalgono al 762 (cap. 6); la crisi di sussistenza del 779, primo banco di prova della rettitudine (droiture) del giovane re dei Franchi Carlo, chiamato a garantire la prosperità del suo popolo (cap. 7); gli eventi del periodo compreso tra 791 e 794, che videro il sovrano subire rovesci politici e militari, accompagnati da una penuria alimentare tale da indurlo a prendere misure drastiche durante l’assemblea generale di Francoforte del 794 – tra cui spicca la fissazione di un prezzo massimo per i cereali (capp. 8-10); e infine l’ “inaudita sterilità” (stérilité inouïe) della terra durante il primo quarto del IX secolo, causata da un’instabilità climatica che segnò l’ultimo quindicennio di vita di Carlo, ormai imperatore, e i primi dieci anni di regno di suo figlio Ludovico (cap. 11).
Il metodo attraverso cui l’a. ha affrontato lo studio di questi casi è illustrato nella prima parte del libro (capp. 1-5). Devroey critica l’approccio determinista che vorrebbe ridurre parte della storia sociale, economica e politica del mondo preindustriale al prodotto di condizionamenti ambientali di cui l’uomo sarebbe stato in balìa – un approccio che certa storiografia, anche recente, ha fatto proprio. Il rapporto tra società e Natura è, oggi come allora, complesso e improntato a un’influenza reciproca. Per rendere conto di tale complessità, l’a. si avvale di fonti numerose e eterogenee. Prima di tutto quelle scritte, prodotte nel regno dei Franchi, ma anche nelle attuali Gran Bretagna e Irlanda, nonché nel mondo bizantino, arabo-musulmano e siriano-cristiano; poi quelle archeologiche e, soprattutto, quelle che le discipline scientifiche appartenenti al vasto campo della paleoclimatologia (come fisica, biologia, chimica fisica e geologia) mettono oggi a disposizione degli storici. Rivestono particolare importanza i dati provenienti dalle ricostruzioni dendrologiche, che attraverso lo studio della densità e dello spessore dei cerchi di crescita degli alberi permettono di analizzare le variazioni climatiche quasi anno per anno, offrendo così un efficace termine di confronto per verificare le informazioni ricavate dalla documentazione scritta.
Gli ultimi due capitoli gettano uno sguardo d’insieme sull’imponente corpus di fonti esaminato nel libro e si interrogano sull’esistenza (e, eventualmente, l’efficacia) di un’economia politica e morale al tempo dei sovrani carolingi (capp. 12-13). Se è certamente eccessivo attribuir loro una “politica economica” – espressione che implica una «capacità di previsione, un’informazione e una comprensione economiche… che costituiscono chiaramente un anacronismo» (p. 360) – si può tuttavia parlare di un progetto politico, morale e religioso che ha indotto Pipino III e i suoi successori (almeno fino alla fine del regno di Carlo il Calvo nell’877) a intervenire, talora efficacemente, nel settore economico. È in questa cornice che si collocano le misure prese per far fronte a calamità naturali e penuria alimentare, misure che sono parte di una «economia morale degli approvvigionamenti» (p. 394) ravvisabile, più in generale, in molte delle società di ancien régime. Al pari delle avversità politiche, degli scacchi militari o del proliferare delle eresie, un ambiente naturale ostile poteva essere considerato un segno della collera divina e, nel caso dei Carolingi, della rottura dell’alleanza tra Dio e i Franchi, nuovo popolo di Israele. Religione e teologia fornivano, da un lato, uno schema di razionalizzazione del mondo: così, l’azione di insetti o agenti patogeni che potevano rovinare i raccolti, ma che erano sconosciuti agli uomini del Medioevo, diventava l’opera di demoni divoratori delle messi dei campi. Ma religione e teologia indicavano anche quali provvedimenti concreti fosse consigliabile adottare: si spiega così l’obbligo, imposto per la prima volta nel 764 o 765 a tutti i membri delle comunità parrocchiali del regno, di pagare la decima – una restituzione del «debito preventivo» (p. 186) contratto da ciascun uomo con Dio, che concede prosperità e abbondanza.
La Nature et le roi cerca, con successo, di dar conto della complessità e delle potenzialità della ricerca storica – nonché dei suoi limiti, che Devroey non tace e che lo portano a confinare alcune delle sue conclusioni nel campo delle ipotesi. Una complessità di analisi e pensiero che sarebbe auspicabile ritrovare non solo nel dibattito storiografico, ma anche nelle riflessioni sui rapporti tra società, potere politico e ambiente naturale su cui l’opinione pubblica è chiamata oggi a ragionare.