Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Il Processo a Gesu' di Diego Fabbri e i commenti della stampa cattolica italiana. Fra deicidio e persecuzioni

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Abstract
This article intends to examine Diego Fabbri's play, 'The Trial of Jesus', and its reception by the Italian Catholic press in the mid Fifties. The play and the comments generated by the press demonstrated how the circulation of Anti-Semitic prejudices is reflected through the mise en scène of Jesus' death provoked, according to theological catholic stereotype, by the Jews. The guilt felt by the Jewish people for having killed the Messiah -the deicide's guilt- had a leading role both in the play and in the Catholic press that have linked this supposed Jewish culpability to the massacres suffered by the Jews over the centuries.

Il contesto e l'opera

L’esame del testo teatrale Processo a Gesù di Diego Fabbri, composto alla metà degli anni Cinquanta, e dei commenti che sul di esso sono stati elaborati da parte di alcune riviste cattoliche italiane, ha permesso di individuare e discutere intorno a taluni orientamenti e raffigurazioni riguardanti l’ebraismo. Attraverso l’analisi di questo case study teatrale, è stato possibile ricostruire in parte la riproposizione, a dieci anni dalla fine della Shoah, di alcuni stereotipi appartenenti a quel vasto bagaglio culturale e religioso dell’antiebraismo cristiano.

Diego Fabbri, Processo a Gesù
Diego Fabbri, Processo a Gesù

Al fine di evitare ingenui anacronismi, è bene specificare che il dramma fu ideato e composto in un preciso contesto storico in cui il mondo cattolico non aveva ancora maturato critiche e rivisitazioni di rilievo rispetto alla propria tradizione antiebraica. Infatti, come è noto, è stato solo a partire dal Concilio Vaticano II (1962-1965) che in Italia, come altrove, è maturata una sensibilità cattolica diversa in merito alla questione dell'antisemitismo moderno.

La mancata esigenza da parte cattolica di guardare criticamente alle radici cristiane dell'antiebraismo all’indomani della Shoah non è stata certamente peculiare della sola Chiesa e del solo mondo cattolico italiano; il fenomeno di “amnesia” sopra il genocidio ebraico e sopra la cultura antisemita europea ha infatti interessato molti altri ambiti della società civile e politica dell’Italia repubblicana. È stato Alberto Cavaglion ad iniziare una discussione sistematica su certe tendenze storiografiche – ma anche politiche – che emettono verdetti di colpevolezza sui vuoti di memoria all’interno di una cornice storica anacronistica. «Uno degli errori di prospettiva più ricorrenti» –ha osservato lo studioso torinese– «consiste nell’attribuire al silenzio anteriore al 1961 una colpa. Se ne discorre talora con ingiustificato moralismo, giudicando dall’alto delle nostre conoscenze odierne. Pensare che la Shoah sia sempre stata, come è oggi, la misura del male assoluto significa cadere nel più banale errore in cui possa incorrere chi s’occupa di storia: giudicare il passato con il metro adottato per giudicare il presente», [Cavaglion 2006, 26; Miccoli 1991, 161-188; Moro20].

Le considerazioni che seguiranno lungo lo scritto sono dunque da leggere non certo con stupore, quanto semmai con la consapevolezza che i processi storici debbano essere costantemente inseriti in un’ottica di lungo periodo, adeguata a mostrare le permanenze e le discontinuità dei fenomeni studiati [ Miccoli 2000, 605-618].

Precisato ciò, il 2 marzo del 1955, nel Teatro Stabile del «Piccolo Teatro» di Milano, venne portato in scena per la prima volta il Processo a Gesù, il cui autore, Diego Fabbri, era un nome noto alla critica teatrale per altre precedenti opere che, in diversa misura, avevano affrontato tematiche riguardanti questioni religiose[Fabbri 1949, 1954, 1955]. Sebbene non sia possibile sviluppare in questa sede un esame sui motivi che spinsero il direttore del teatro milanese, Paolo Grassi , noto per le sue simpatie politiche di sinistra, e il regista che diresse l’opera, Orazio Costa, a rappresentare un testo dai risvolti religiosi più che da istanze politiche, segnalo non di meno che sarebbe interessante ricostruire, attraverso l’accesso agli archivi del teatro stesso, le motivazioni che presiedettero alla scelta di accogliere l’opera di Fabbri in una sede come il «Piccolo» e in un contesto storico, quello della Guerra fredda, in cui gli schieramenti erano condizionati non solo da un punto di vista politico ma anche culturale.

Per quanto riguarda il profilo biografico dell’autore, Diego Fabbri, nato a Forlì nel 1911, si formò culturalmente a Roma dove dalla fine degli anni Trenta fino ai primi anni Quaranta diresse la casa editrice cattolica AVE. A partire dal 1940 fino al 1950 ricoprì la carica di segretario del Centro Cattolico Cinematografico.

In questo periodo iniziò a collaborare a «La Fiera Letteraria», di cui sarà condirettore con Vincenzo Cardarelli e di cui terrà la direzione fino al ’66, dopo la morte del poeta. In campo teatrale, scrisse i suoi primi drammi sotto l’influenza del modello teatrale pirandelliano ma iniziò a comporre anche opere caratterizzate da una forte tensione morale e religiosa, di cui sono esempio: «Inquisizione» (1950), «Il seduttore» (1951), «Processo a Gesù» (1955), «La bugiarda» (1956), «Il vizio assurdo» (1974), «Al Dio ignoto» (1980).

Dal 1960 al 1962 Fabbri diresse il teatro romano «La Cometa», dando vita ad una Compagnia Stabile, e promuovendo, in ogni modo, la partecipazione del pubblico meno sensibilizzato alla poetica teatrale. Nel ’68 fu nominato presidente dell’ETI (Ente Teatrale Italiano), ove realizzò una politica di espansione e di diffusione della cultura e degli spazi teatrali sul territorio nazionale. Negli anni ’73-’75 presiedette la CISAC (Confédèration Internationale des Sociétés des Auteurs et des Compositeurs) mentre dal 1977 fu direttore della rivista di critica e cultura teatrale «Il Dramma». Nello stesso anno l’Accademia Nazionale dei Lincei gli conferì il premio «Feltrinelli» per il Teatro. La sua intensa attività giornalistica lo ha visto inoltre collaboratore de «Il Resto del Carlino», «Il Messaggero», «Il Tempo». In campo cinematografico è stato sceneggiatore e autore di dialoghi di una cinquantina di film (da De Sica a Germi, da Rossellini ad Antonioni). È morto a Riccione nell’agosto del 1980 [Fabbri 1984].

Il processo a Gesù

Per quel che concerne la genesi del dramma, è stato lo stesso Fabbri ad aver chiarito la ragione che lo spinse a ideare l’opera. Dichiarò al settimanale «Il Tempo»:

Ad offrirmi un’occasione di struttura più concretamente teatrale fu una nota a pie’ di pagina che lessi nel ’47 in una Vita di Cristo. Vi si diceva che dei giuristi anglosassoni s’erano, fin dal 1929, posti il problema, a dire il vero più giuridico che religioso, del processo di Gesù e s’erano, nel 1933, recati a Gerusalemme per ricelebrarlo pubblicamente, quasi dovessero sciogliere al cospetto e con la partecipazione del popolo ebreo un loro nodo di coscienza; e che all’ultimo la sentenza era stata di assoluzione. Seppi poi che esistevano addirittura gli atti di questo processo e che ammontavano a un migliaio di pagine dattiloscritte; ma non ebbi modo di leggerle e del resto non m’interessavano un granché. [Stefani 2005, 391-393; Centro studi e di documentazione La Porta 1999; Costazza 2005].

Prima di entrare nel tema specifico dell’articolo, mi pare opportuno delineare sinteticamente la struttura su cui si articola Processo a Gesù [Tessari 1974, 5-38; Radice 1977, V-X] che prevede due sezioni e un intermezzo.

Nella prima parte dell’opera si dà spazio alla presentazione dei personaggi principali costituiti dai membri di una famiglia di profughi ebrei, scampati al genocidio nazista, ossessionati dal dilemma se le persecuzioni subite nel corso dei secoli dal popolo ebraico non fossero state causate dall’uccisione di Gesù. Volendo pervenire ad una risposta, essi stabiliscono di ricostruire quel processo e di ripeterlo ogni sera nei teatri di tutto il mondo allo scopo di emettere una condanna o un’assoluzione dell’imputato. Le parti assegnate durante il processo vengono sorteggiate di volta in volta: Elia, il vecchio padre di famiglia, professore di critica biblica all’Università di Tubinga, riveste il ruolo di giudice; Rebecca, la madre, assume la difesa di Gesù; Sara, la giovane figlia, dopo aver rifiutato la difesa di Pilato, prenderà quella di Caifa, il Gran Sacerdote del Sinedrio; infine a Davide, un allievo di Elia, viene attribuita la parte dell’accusatore di Gesù. I quattro attori principali sono affiancati dai testimoni che verranno ascoltati dalla Corte; fra questi spiccano Maria, Giuseppe, i tre apostoli Pietro, Giovanni, Tommaso, ed infine Giuda.

La seconda parte mette in scena problematiche di natura religiosa. Qui, ampio spazio viene concesso al tormento interiore del fedele cristiano che si interroga, con angoscia, sulla possibilità di realizzare nel mondo moderno gli insegnamenti di Cristo; o se, al contrario, vi si debba rinunciare una volta constatata la morte di quel messaggio con la crocifissione del Messia stesso. L’opera si chiude con questa domanda che non trova alcuna risposta consolatoria.

Lo scopo che sottende in ultimo al lavoro di Fabbri è stato discusso dallo storico Piero Stefani che in un’occasione ha osservato:

Il suo [ di Fabbri] intendimento è di ‘processare’ prima di tutto chi, nel primo secolo o nel ventesimo non fa differenza, deve dichiararsi pro o contro Gesù. Il voto a favore di quest’ultimo comporta l’ammissione della propria colpa, il prestare ascolto all’inquietudine nuova suscitata in noi da quella presenza e la fiducia nella forza redentrice del perdono. La conclusione del Processo indica che la scelta di dichiarare Gesù non colpevole equivale ad aprirsi a lui e alla sua azione di salvezza. Gli ebrei sono chiamati in causa perché furono i primi a essersi trovati di fronte a quella scelta. [Stefani 2005].

Il suggerimento offerto dallo studioso risulta persuasivo nella misura in cui il «Processo a Gesù» è letto come una testimonianza non tanto diretta in primo luogo a riaffermare l’accusa di deicidio, quanto a sollecitare la ricerca di Gesù in questo mondo e in ogni coscienza cristiana. La priorità per Fabbri non è dunque rappresentata da una volontà atta a provare la colpevolezza del popolo ebraico, ma da un impegno volto a risvegliare, nei cristiani, quel sentire religioso testimoniato dal sacrificio di Gesù.

Precisato questo aspetto, si può nondimeno provare ad avanzare alcune ipotesi di lettura su altri cliché narrativi presenti all’interno del testo che non espletano soltanto funzioni accessorie o subalterne rispetto alla tematica principale, ma che rafforzano in un certo modo la centralità del cristianesimo stesso. Ancora Stefani osserva a proposito di alcune ambiguità testuali sugli ebrei:

L’elemento equivoco del suo procedere sta invece nel non essersi liberato da alcuni stereotipi cristiani sugli ebrei. Ciò risulta particolarmente evidente in due punti. Prima di tutto gli ebrei sono definiti in base al fatto di non avere fede in Gesù, perciò chi ce l’ha diviene, proprio per questo, cristiano. In secondo luogo la travagliatissima vicenda storica ebraica crea un problema di interpretazione legato a un destino singolare e inquietante che deve trovare spiegazioni di ordine non semplicemente mondano. [Stefani 2005, 393].

Durante la lettura del testo sono stati individuati alcuni passaggi che hanno fornito la cifra interpretativa con cui l’autore ha letto il destino del popolo ebraico. Talune considerazioni sono in tal senso compendiate nel monologo che Fabbri fa proferire al vecchio Elia all’inizio del dramma.

Elia si pone i seguenti interrogativi:

Noi Ebrei che ci troviamo qui stasera ci domanderemo: Gesù di Nazareth era innocente o colpevole secondo la legge giudaica? Fu o no condannato ingiustamente? Lo so…è una questione che riguarda gli Ebrei. Per i cristiani non si pone nemmeno…nonostante ciò vi chiediamo lo stesso un po’ di comprensione…si tratta di cercare una verità e vogliamo cercarla al vostro cospetto. Siamo qui per sapere se quello che accade lassù fu soltanto una dolorosa crudeltà umana o invece una colpa ben più grave, smisurata, irreparabile…se fosse stata una colpa irreparabile? Me lo sono chiesto da molti anni insieme con la mia famiglia…con molti dei miei discepoli (ho insegnato alla università di Tubinga critica biblica)…molti miei correligionari se lo sono chiesto. Perché mai da duemila anni siamo stati perseguitati da tutti? Se fosse conseguenza di quella Croce alzata una sera sul monte Calvario? “Che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” dicemmo allora. E se fosse proprio quel sangue innocente che chiama il nostro sangue? [Fabbri 1974].

L’ottica proposta dall’autore attraverso i quesiti che Elia pone a se stesso e al pubblico circa le tragedie occorse al popolo ebraico si avvale di quell’espediente che elimina la figura del persecutore dal quadro della riflessione per porre al centro quella del perseguitato, indotto a chiedersi se non sia lui stesso l’artefice in ultima istanza delle vessazioni subite [Sibony 1999]. Impostazione che risente, in una certa misura, di una mentalità che ha considerato le ostilità antiebraiche come risposta punitiva di Dio dopo la crocifissione e l’uccisione di Gesù. Il deicidio, allusivamente proposto nel brano sopra citato, costituiva, in quel momento storico, una lecita chiave d’accesso per spiegare le persecuzioni contro gli ebrei verificatesi nei secoli passati così come in quelli più recenti.

Il tema del tradimento, duplicemente inteso in termini di infedeltà sia umana che religiosa, è l’altro soggetto principale che attraversa l’intero dramma. In un momento dell’Intermezzo, Sara e Davide, ex amanti, si confrontano sulla morte di Daniele, rispettivamente marito e amico dei due, perito per mano nazista durante il secondo conflitto mondiale. La colpa assunta da Sara per il suo adulterio è al centro della scena insieme alla sua ricerca di una via spirituale espiatoria.

Così Sara ricorda l’ultima volta in cui vide il consorte vivo:

Lui [Daniele] mi sorrise e parlandomi sottovoce mi confidò che ormai s’era persuaso che Gesù fosse davvero il Salvatore di tutti…Di tutti, anzi aggiunse: “anche il nostro Salvatore”- e lo avrebbe proclamato quella stessa sera al momento della sentenza…non è più ricomparso. Sotto quel cortile, dove era sceso a fumare la sua sigaretta, lo aspettavano già i…nemici di Gesù. [Fabbri 1974, 122-123].

Cristiani i linguaggi, cristiane le ammissioni di una nuova fede che si facevano strada in Daniele, cristiana l’ottica con cui si dipinge l’ebreo Daniele prossimo alla conversione, ormai convinto dell’universalità e delle verità contenute nel messaggio di Cristo. Definendo inoltre i nazisti ‘nemici di Gesù’, Fabbri riprendeva la condanna del regime nazionalsocialista come sistema anticristiano già espressa da Pio XI nel 1937 con l’enciclica Mit brennender Sorge e riproposta più volte nel corso del 1945 nei Radiomessaggi e nelle Allocutiones di Pio XII [Giordani 1956; Pio XII 1957]. In questo senso la morte di un ebreo che sta per diventare cristiano è morte di un cristiano e quindi catalogabile nello spazio del martirio cristiano.

Il motivo tematico che caratterizza il dialogo e l’incontro fra Sara e David, viene ripreso nella parte finale del dramma. Qui è David a parlare e a confessare il ruolo di delatore avuto nella cattura e nell’arresto di Daniele. Confessa infatti che:

Mi fu facile denunciarlo alla polizia. Lo indicai, come Giuda, da una finestra del palazzo che ci ospitava. “È lui, quello che passeggia nel cortile fumando…”. Debbo confessare che non lo facevo soltanto per amore come si potrebbe pensare. Denunciavo in Daniele un ebreo che s’era già quasi fatto cristiano. Credevano di prendere un capo ebreo e io gli mettevo fra le mani il primo fra di noi che s’era già fatto, in cuor suo cristiano. Mi vendicavo cattivamente di tutto quello che c’era di buono in quell’uomo che non amavo. Credetti di sottrargli definitivamente la sua donna, credetti di soffocare sul nascere la sua nuova fede. Però…però non sapevo…non credevo che non l’avrebbero più rilasciato…che sarebbe sparito…mai più visto – non lo sapevo. [Fabbri 1974, 162].

Due le giustificazioni addotte da David al gesto compiuto: la prima, personale, riguarda l’amore che egli nutre per Sara; la seconda invece è connessa a una ragione di tipo religioso: l’antagonismo di fede istituito dall’ebreo David verso Daniele, in procinto di farsi cristiano, non può risolversi, nel testo di Fabbri, che in una vittoria mondana -David è vivo mentre l’amico è perito nei campi di sterminio nazisti. La primazia spirituale appartiene, in ultimo, a colui che volle diventare cristiano e che, alla luce di tale scelta, ha dovuto subire e scontare, in una sorta di Imitatio Christi, le sofferenze imposte dagli uomini senza fede o con una fede “sbagliata”. Il discorso di David gioca un ruolo adeguato alla messa in evidenza di una gerarchia d’appartenenza confessionale in cui l’ebraismo assume la veste di religione che può e forse deve essere sorpassata in nome dell’amore universale professato dal cristianesimo. Resta tuttavia il fatto che David non si converte: in Fabbri non vi è una visione semplificante della religione ebraica, né la conversione viene presentata come un processo pacifico e lineare, ma piuttosto introdotta come problema irrisolto agli occhi del cristiano.

Ricezioni dell'opera nella stampa cattolica italiana

Quali sono stati i commenti apparsi sulla stampa cattolica italiana relativi al «Processo a Gesù»? Quali aspetti hanno avuto rilievo negli articoli rintracciati e quali invece sono stati trascurati? Le risposte si faranno strada lungo questo paragrafo rimandando alle conclusioni finali un bilancio delle questioni emerse lungo l’articolo.

All’indomani della prima rappresentazione teatrale, l’opera conobbe un’immediata reazione da parte del mondo giornalistico cattolico che si affrettò ad annotare con varie sottolineature la messa in scena di un tema tanto delicato e centrale quale era il processo istituito contro Gesù. La stampa selezionata per questa sede non può certamente essere livellata su un medesimo piano tipologico dato che le fonti proposte si differenziano, da un punto di vista contenutistico, per indirizzi sia politici che culturali, mentre da un punto di vista giornalistico, per periodicità, struttura e diffusione.

Nonostante l’eterogeneità della documentazione – che senz’altro può rischiare di apparire disarticolata nella sua selezione, ma proprio in virtù di questa sua diversificazione può, a mio avviso, conferire alla ricostruzione storica un quadro d’insieme più ampio e mosso di quanto non lo darebbe un corpus documentario più uniforme– sono emersi elementi comuni sintetizzabili in due tipologie di commenti. La prima si caratterizza per l’enfasi posta da alcune testate intorno al messaggio religioso contenuto nel testo teatrale, rilevandone sia la sua attualità che la sua pregnanza spirituale. Non viene dato spazio ad altri tipi di riflessione al di fuori di questo schema interno al mondo cristiano. La secondo tipologia include la prima ma allarga il discorso anche al ruolo ricoperto dal popolo ebraico nel Processo a Gesù individuando negli ebrei, e solo negli ebrei, gli unici responsabili della morte di Cristo: da ciò ne discende la conseguente spiegazione delle persecuzioni inflitte agli ebrei nel corso dei secoli [Isaac 1962, 163-18; Stefani 2004, 314]. Qui di seguito verranno riportati alcuni esempi tratti da entrambe le tipologie sebbene sia la seconda a risultare maggiormente rilevante ai fini del tema indagato in questa sede.

Il primo quotidiano che ha dato notizia sull’imminente rappresentazione del dramma al Piccolo Teatro di Milano, è stato, a quanto ci risulta, «Il popolo di Milano», portavoce della Democrazia Cristiana del capoluogo lombardo. In questa circostanza si annunciava che:

Ai primi di marzo, il Piccolo Teatro della Città di Milano metterà in scena un nuovo lavoro di Diego Fabbri: Processo a Cristo. L’idea di fare questo lavoro è venuta al Fabbri dall’aver letto che nel 1933 cinque giuristi inglesi, di razza ebraica, vollero rifare il processo a Gesù e, basandosi sulle leggi ebraiche del tempo, conclusero con tre voti contro due per l’assoluzione […] È ancora presto per anticipare giudizi sul valore della nuova opera di Diego Fabbri: su questo si pronunceranno critica e pubblico dopo la rappresentazione. Ma fin d’ora i cattolici non possono che compiacersi di opere come questa che portano sulla scena problemi religiosi e figure religiose: che, in una parola, si riprenda un teatro religioso di cui il dopoguerra ha dato ben pochi esempi [Lissoni 1955, 13]

Recepita come opera primariamente cattolica e rivolta essenzialmente ad un pubblico cattolico, il quotidiano milanese coglieva l’occasione per formulare una proposta politico-culturale intesa come rilancio di tematiche religiose in ambito anche teatrale. Evitando di commentare un lavoro ancora non visto, l’articolista non si sottraeva comunque dall’affidare, a priori, giudizi di segno positivo al dramma sulla base di constatazioni riguardanti il tema cristiano lì affrontato. Questo aspetto non poteva dunque che costituire nell’opinione dello scrivente un elemento costruttivo, funzionale all’elevazione spirituale in un momento storico considerato scarsamente sensibile al richiamo religioso del cristianesimo.

Meno politico e più incline a scorgere l’idea educativa dell’opera, è la caratteristica essenziale che qualifica lo scritto di «Il nuovo cinema», settimanale edito dal centro culturale cattolico di Roma. Qui affioravano considerazioni orientate principalmente a riflettere sul monito contenuto nel lavoro di Fabbri:

Più che un processo a Gesù si tratta di un dibattimento sulla nostra contemporanea condizione di cristiani […] La rievocazione per racconto del dramma un giorno compiutosi sul Calvario, assume il carattere di antefatto; dopo di che, il dibattito che segue si presenta come esemplificazione episodica di un dramma interiore che non ha e non può avere fine mai […] La verità è che questo dramma non ha vicenda che si conclude, ma ha più conclusioni, perché si tratta in realtà non di uno, ma di più drammi compresenti, e molte volte dolorosamente vivi in ognuno di noi. E tutti questi drammi si presentano come conseguenza del dramma del protagonista, assente nel palcoscenico, il Cristo, ma presente nel profondo di milioni di deuteragonisti: i Cristian. [Murra 1956, 19].

Oscillante fra il nudo resoconto dell’opera teatrale e l’elaborazione di commenti di carattere moralistico, l’articolo tendeva a leggere e a recepire il «Processo a Gesù» come un dramma rivolto in prima e ultima istanza alla coscienza dei cristiani e alla mancanza di una fede profonda che li porterebbe altresì a vivere Gesù in una dimensione più ricca di aspetti etici e spirituali. Nessun discorso riguardante altri elementi del testo di Fabbri sono emersi in questo scritto che resta confinato entro limiti intra-cristiani [Camillucci 1956, 209-215; Corradino 1956, 14].

La testata di critica teatrale «Il Palcoscenico» ha offerto alcune riflessioni che denotano talune particolarità soprattutto nella descrizione dell’Intermezzo in cui è la tragedia umana dei due ex-amanti, Sara e David, ad essere rappresentata anche nei suoi risvolti religiosi.

Osservava il giornalista:

Al di là delle ansie religiose di Elia, Sara e Davide hanno le assillanti pressioni dei loro rimorsi. Sara infatti era stata l’amante di Davide fino al giorno in cui suo marito Daniele era stato fucilato dai tedeschi. Da quel terribile giorno ha sempre rifiutato l’amore di Davide, ripresa dal ricordo del marito, pentita di averlo tradito. Prima di morire, Daniele le aveva confidato di essere divenuto cristiano e ora a lei sembra una figura del Cristo tradito e ucciso. E il ritornato amore del marito è come il richiamo dell’amore di Cristo. In realtà Sara crede già in Cristo così come Elia e Rebecca. All’umanità manca solo Davide. [D'Alessandro 1955, 4-6; Melchiorre 1955, 24-26].

Nello scritto si sottolinea il profilo dei personaggi di Sara, Elia e Rebecca che guardano al cristianesimo come unica fonte di speranza e salvezza. È utile ricordare che tale constatazione non è solo di carattere personale, ma riflette piuttosto un’adesione piena alle intenzioni con cui Fabbri stesso ha concepito e strutturato questo dialogo. Sara, pentita del suo adulterio e in preda a violenti rimorsi per la morte del marito, si volge al cristianesimo con occhi di speranza e di salvezza, cerca un riscatto per la sua tormentata anima in Cristo, accolto come l’unica fonte capace di donare la redenzione attesa per se stessa e per l’intera umanità. L’ebraismo di Sara, così come quello degli altri personaggi, è ridotto alla stregua di condizione transeunte, momentanea, pronta ad essere oltrepassata dall’avvento della vera religione: quella cristiana. È pur vero che non tutto l’ebraismo è rappresentato sulla via della conversione: David è la dimostrazione che sussiste in Israele un mistero che il cristiano non scioglie. Tuttavia questo aspetto, messo in evidenza nel Processo a Gesù, non sembra aver interessato l’articolista del sopraccitato scritto che ha preferito riflettere su altri messaggi contenuti nell'opera del drammaturgo romagnolo.

Oltre a queste interpretazioni, fondate sulla centralità del cristianesimo, è emersa pure una lettura per molti versi tipica del pregiudizio cristiano verso gli ebrei. In un mensile cattolico edito a Brescia, si riformulava quella domanda retorica animata apparentemente da fini conoscitivi ma sostanzialmente diretta a scorgere nelle tristi vicissitudini subite dagli ebrei nel corso dei tempi la manifestazione esplicita della loro colpa, consistente nell’uccisione di Gesù.

La questione era posta in questi termini:

Come mai nessun popolo nella storia dell’umanità è stato perseguitato come quello ebreo? Che sia ricaduta su questo popolo la maledizione invocata dalla stessa folla urlante davanti al pretorio di Pilato? […] Lo stesso Davide, il giudice ebreo, che per tutto il primo tempo ha assunto la parte di spietato accusatore del Cristo, qui crolla: anche il suo personaggio fittizio era l’incarnazione del proprio intimo dramma, il dramma di chi vuol negare Cristo perché ha paura di lui e perché non sa affidarsi alla speranza.[Di Rosa 1956, 99-100].

Le affermazioni dell’autore seguono il canone dell’antiebraismo cristiano riproponendo immagini note fra cui spicca, in primis, l’ebreo negatore di Cristo e restio ad abbracciare la speranza che è salvezza portata da Gesù agli uomini. Accusa che costituisce del resto l’esordio di un’altra recensione pubblicata dal settimanale romano del movimento giovanile democristiano, «Impegno giovanile», il quale ricordava che:

Nel 1929 gli ebrei d’America lanciarono la proposta concreta di rifare il processo a Gesù, quel processo che ha costituito per gli eredi di Caifa e della plebe che gridò il ‘crucifige’ e che forzò la mano ai giudici, proclamando “che il suo sangue ricada su di noi e sui nostri figli” motivo di inquietudine o addirittura di angoscia. [Giambuzzi 1956, 12].

All’interno del settimanale cattolico femminile di Milano, l’«Alba», la domanda se il popolo ebraico avesse dovuto subire così tante sciagure per via del deicidio commesso, veniva proposta in forma più allusiva che esplicita. Recensendo il lavoro di Fabbri, la giornalista avanzava queste considerazioni:

Non si tratta di una sacra rappresentazione, piuttosto sintesi drammatica, condotta con estro di poeta e anima di credente. L’idea balenò all’autore, quando nel ’47, lesse una Vita di Cristo. A piè di pagina del volume, si diceva che alcuni studiosi ebrei, del nuovo regno di Gerusalemme (ricordate, amiche, le mie note sul viaggio in Palestina? Facevo rilevare come Gerusalemme è oggi divisa tra la vecchia città e la nuova, e come quest’ultima, chiamata Israele, è completamente in mano agli ebrei), un gruppo di ebrei dunque, aveva rifatto il processo di Gesù, per toccare con mano se Colui che si proclamava Figlio di Dio, doveva più o meno, secondo la legge di allora, essere condannato. Dal processo, Gesù ne era uscito innocente: assolto quindi. Anche gli atti esistevano, anzi esistono ancora, in tutta regola, dello strano processo. Furono le tristi vicende della guerra, che lascia fra l’altro il pauroso ricordo di crudeltà mostruose verso gli ebrei, distruzioni in massa, a maturare l’idea in Diego Fabbri di un’opera simile?[Sorgato 1955, 2; Id. 1952].

Se in questo brano il nesso istituito fra l’uccisione di Gesù e le ‘distruzioni di massa’ subite dagli ebrei era formulato sotto forma di domanda, nella rivista di cinema e teatro pubblicata dall’Azione Cattolica di Roma, quel legame veniva affermato in termini più chiari ed espliciti.

L’autore dell’articolo infatti domandava al lettore:

Qual è infine il tema di «Processo a Gesù»? È un tema semplicissimo che si modula secondo due esigenze diverse: una è quella che dà l’avvio al lavoro, il giudizio che un gruppo di ebrei intenta al Nazareno per sapere soltanto se egli fu colpevole secondo la legge giudaica e se, essendo stato innocente, il reato consumato dai loro antenati non giustifichi per così dire le persecuzioni cui il popolo di Israele fu sottoposto durante i secoli: l’altra è l’esigenza di Fabbri, cioè l’esigenza dei battezzati di oggi, di tutti coloro che vivono sotto il nome di cristiani e non si accorgono di esserlo, o preferiscono non accorgersene [La Corte 1956, 27].

Il legame fra il deicidio e le persecuzioni antiebraiche si definiva secondo coordinate di causa-effetto: il deicidio (la causa) aveva ingenerato le tragedie e le persecuzioni (l’effetto) che il popolo ebraico aveva subito nel corso della storia. La volontà da parte ebraica di ricelebrare quel processo in base a quesiti ritenuti opzionali, evidenzia altresì un’incapacità di comprendere da parte dell’articolista altri orizzonti religiosi e culturali se non quelli cristiani.

Sei mesi dopo la pubblicazione di tale recensione, la stessa rivista pubblicava un articolo affatto critico dedicato al lavoro successivo di Fabbri, Il seduttore, dichiarando che:

Fabbri si è presentato al pubblico romano scandalizzandolo, se il termine ci è consentito, in due maniere: con Processo a Gesù prima e, poi, con «Il seduttore»: due ‘scandali’ ben diversi, se si considera che il Processo dichiarava apertamente le intenzioni dell’autore di richiamare con energia –e con coraggio- il popolo cristiano e ogni battezzato di oggi alla consapevolezza dei doveri di ciascuno di fronte a Gesù, il ‘grande tradito’ dalla storia umana [La Corte 1956, 31].

Medesime considerazioni sono state rintracciate nel brano apparso sul «Il Regno del Sacro Cuore», la rivista dei padri dehoniani di Bologna. Nello scritto dedicato alla recensione del dramma di Fabbri si legge:

Tutti, anche il vecchio professore ebreo di scritture, proclamano che il Cristo non era colpevole, e non doveva essere messo alla croce. Egli aveva violato l’antica legge, si disse, egli aveva sedotto il popolo e minacciava secessioni, ma si dimentica che egli veniva proprio a suggellare l’antica legge e a portarne una nuova: ecco la chiave per giudicare gli avvenimenti che agli ebrei era sfuggita, e l’evidenza dei fatti e delle testimonianze del genere strappa ad Elia questo grido: “Io non so ancora se Gesù fosse il vero Messia, ma Egli, dal giorno della sua crocifissione sostiene le speranze del mondo. Lo proclamano innocente, martire e guida” [Boni 1956, 51].

L’esortazione a riconoscere Gesù come l’unico vero Messia ricorre anche in altre sedi come nella rivista dei padri gesuiti milanesi [Casella 1955, 127-128] e nella «La Civiltà Cattolica» [Guidobaldi1955, 397-408], le quali riproponevano, da un lato, il deicidio come interpretazione adeguata a spiegare la tormentata parabola storica del popolo ebraico, dall’altro, indicavano nella venuta in terra di Gesù il segno di salvezza e redenzione per l'intera umanità.

Conclusioni

L’opera di Fabbri e le recensioni apparse sulle riviste della stampa cattolica italiana hanno testimoniato il tipo di interpretazioni date agli eventi luttuosi della storia ebraica, Shoah inclusa, configuratesi in termini sostanzialmente provvidenzialistici e fedeli allo schema ‘colpa-espiazione’ richiamato più volte lungo il testo.

Se appare operazione tautologica evidenziare tali stereotipi in un momento storico in cui erano scarsamente presenti o quanto meno poco incisive culture e progetti diretti a riconsiderare criticamente il corredo antiebraico del cristianesimo, credo che sia risultato utile indagare il dramma teatrale di Fabbri e i commenti apparsi su di esso perché l’emersione di segni e simboli antiebraici meritano di essere evidenziati allo scopo di chiarire in quali forme, in quali tempi e di quali contenuti si sia dotata la narrazione antiebraica in un contesto storico virtualmente epurato da elementi di manifesto antisemitismo. In questo specifico caso, analizzare i linguaggi attraverso cui i cliché antiebraici si sono riflessi e formulati in un’opera letteraria, tendente a figurare un soggetto tematico diverso da quello antiebraico, ha permesso di intravedere come certi prodotti letterari siano stati veicoli attraverso cui venivano riaffermate sia la primazia del cristianesimo che la subalternità dell’ebraismo.

La binarietà di questo modello è riscontrabile sia nel Processo a Gesù sia nelle recensioni ad esso dedicate. Una vicenda paradigmatica, quella offerta dal testo dell’autore romagnolo, che ha messo in luce come gli elementi antiebraici non siano solo ideologici ma anche figurativi: essi non vengono sempre costruiti o esibiti volontariamente, ma, forse, nella maggioranza dei casi, sono dati, passivamente, per acquisiti.

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