Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

Sono postcoloniali le rivolte delle banlieue? A proposito di Jean Loup Amselle, Il distacco dall'Occidente

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(traduzione a cura di Elena Vezzadini)

La pubblicazione di questo volume in Francia è in parte legata ad una precisa congiuntura storica. La prima pagina ci informa che il libro è stato iniziato nel luglio del 2005, qualche mese prima della crisi delle "banlieux" e poco dopo il voto della legge del 23 febbraio sulla necessità di riconoscere nei programmi scolastici il ‘ruolo positivo’ della presenza coloniale francese, legge [3] che aveva acceso le ben note controversie sulla memoria della colonizzazione. È effettivamente in questo contesto che si abbozza in Francia l’inizio di un interesse pubblico per la corrente di pensiero detta ‘postcoloniale,’ un interesse che a partire dall’anno seguente ha provocato una fioritura di articoli e dossier. La rapidità della scoperta e il clima appassionato che l’ha circondata non erano certamente propizi ad un’analisi paziente e sottile di questo pensiero molteplice, evolutivo e a volte difficile, fiorito nelle scienze sociali anglosassoni negli ultimi vent’anni. Per tale ragione si è assistito troppe volte alla strumentalizzazione sbrigativa e mutilante di questo pensiero, sia fra i suoi sostenitori che fra i suoi critici. Questo significa che tale “inchiesta sui pensieri postcoloniali” risponde in Francia ad un bisogno preciso. Uno specialista delle società africane come Jean Loup Amselle, autore di riflessioni che vanno dall’antropologia culturale alla problematica francese del multiculturalismo, si trova in una posizione particolarmente privilegiata per parlare di queste problematiche. Dopo il lavoro di Jean-Marc Moura sul postcolonialismo nel campo letterario, e il volume collettivo recentemente edito da Marie-Claude Smouts, il libro di Amselle è una delle prime pubblicazioni francesi di una certa rilevanza a trattare della questione del postcolonialismo nel suo insieme [Moura 1999, Smouts 2007].

In Francia, la ricezione del postcolonialismo, un pensiero alternativo che include elementi di postmodernismo, è per la maggior parte negativa e questo libro non è un’eccezione. Ma prima di far conoscere la sua posizione nel dibattito francese sul postcolonialismo, l’autore prende spazio e affronta energicamente nella sua definizione più generale la questione della genesi e delle forme del pensiero postcoloniale nelle varie parti del mondo, per fondare il suo apparato argomentativo su una comprensione circostanziata del soggetto. Il lettore viene quindi imbarcato in un periplo planetario attraverso un grande reportage sulla storia delle idee. Il progetto richiedeva un certo coraggio, poiché comportava che l’autore s’immergesse ripetutamente in domini diversi da quelli ai quali è intellettualmente legato e nei quali si muove da molto tempo. In più, volendo includere così tanti autori e scuole di pensiero e saltando dagli uni agli altri si rischia di produrre un collage di tesi succinte e ridotte all’osso che non rende veramente giustizia a nessuno. Ciò nonostante, a questo stadio della riflessione francese sull’argomento, un vademecum di tale natura arriva incontestabilmente al momento opportuno.

Come prologo a questa peregrinazione intellettuale tricontinentale (Africa sub-sahariana, Asia meridionale, America del Sud e ovviamente le due rive anglofone dell’Oceano Atlantico)[4], l’autore passa in rassegna questa generazione di pensatori così diversi fra loro, cristallizzati nella definizione di Luc Ferry e Alain Renaut come “Il pensiero 68”. Nella sua reinvenzione statunitense (la “French Theory”), afferma Amselle, questo pensiero ha impregnato il postcolonialismo di un “relativismo postmoderno e decostruttore”, e costituisce la causa principale del “deficit teorico” e degli “impasse” nei quali il postcolonialismo si è smarrito [21]. Quello che la critica postcoloniale cerca prima di tutto di decostruire è in effetti il discorso liberale e universalista dell’Illuminismo che ha servito da giustificazione all’espansione coloniale dell’Europa: è arrivato il momento, secondo Dipesh Chakrabarty, celebre postcolonialista indiano, di ‘provincializzare l’Europa,’ la quale non è che un’area culturale fra le altre, e non un modello insormontabile a cui tutti i popoli della terra devono necessariamente cercare di conformarsi. Questa posizione intellettuale, nota a giusto titolo Amselle, “continentalizza” il pensiero, e fa credere che pensare negli altri e attraverso gli altri (in questo caso dall’Occidente) non significhi necessariamente pensare a sé contro se stessi [25, 31].

Una volta stabilita l’orientazione critica del libro, il periplo amselliano comincia con una deviazione inattesa, ma certamente non incongrua, attraverso il pensiero religioso ebraico del XX secolo, un pensiero diasporico dell’esilio e dell’ibridità che intende scuotere l’impresa ‘coloniale’ del pensiero cristiano, e che per questo è fonte di ispirazione di vari autori postcoloniali (come ad esempio Achille Mbembe lettore di Emmanuelle Levinas). Ci si trova qui nell’ambito della critica dei colonialismi interni. Per l’esattezza, tuttavia, il tema della comunità della sofferenza fra gli Ebrei d’Occidente e i popoli colonizzati dovrebbe essere moderata da una valutazione dell’apporto ebraico, e poi sionista, all’espansione coloniale (nello stesso modo in cui lo storico che vuole parlare della storia della schiavitù, deve includere anche il ruolo della tratta trans-sahariana arabo-musulmana, o nella storia delle conquiste coloniali anche le collaborazioni fra indigeni e occupanti).

Segue poi uno studio realmente appassionante del percorso intellettuale ricco e contrastato del CODESRIA di Dakar, un’istituzione nata più di trent’anni fa, che ha fra i suoi vari scopi quello di produrre un discorso sulle scienze sociali autonomo e propriamente africano, per porre un fine all’essenzialismo arrogante e falsificatore delle costruzioni occidentali sull’Africa. Da qui, l’autore ci porta in India per percorrere un’altra galleria di pensatori, quella degli autori postcoloniali indiani più in vista (Ranajit Guha, Partha Chatterjee, Gayatri Spivak, Dipesh Chakrabarty, Ashis Nandy – dimenticandosi inspiegabilmente di Homi Bhabha, che è tuttavia nominato qua e là nel libro). L’andatura qui è un po’ meno sicura, ma l’autore è in parte giustificato, considerando la predilezione di una parte di questi teorici influenzati dal postmodernismo per una scrittura paradossale o labirintica, il cui gergo di difficile accesso non è invariabilmente sinonimo di profondità, e che esige da parte del lettore una vera e propria abnegazione. I brevi commenti che Jean-Loup Amselle consacra loro sono sfortunatamente disseminati di giudizi perentori che connotano il pensiero postcoloniale dei peggiori peccati contro lo spirito (populismo, culturalismo, essenzialismo, indigenismo, primitivismo, irrazionalismo, negazione della storia), accusandolo in blocco d’abolire ogni possibilità di comunicazione fra culture, di favorire l’emergenza dei fondamentalismi, e di odiare la ragione e la scienza.

Tali giudizi perentori provocano un disagio non tanto perché il pensiero postcoloniale non sia criticabile – è vero piuttosto l’inverso – ma poiché l’autore sembra non accorgersi che tale pensiero è sin dall’inizio in costante dibattito critico con se stesso. Così ad esempio l’idea che il concetto postcoloniale dell’ibridità presupporrebbe, in modo essenzialista e ben poco postmoderno, l’esistenza iniziale di culture ‘pure’ o ‘autentiche’ [20] è disputata dai postcolonialisti stessi, che criticano precisamente i nazionalismi anti-coloniali come inventori di “tradizioni” immaginarie santificate. Tale idea è contraria alle posizioni, molto elaborate su questo tema, di Homi Bhabha, il quale rifiuta ogni nozione di cultura come entità chiusa e statica, e per il quale "l’Ibridazione” non può che designare una combinazione di ibridi anteriori. Stuart Hall rifiuta con altrettanta veemenza l’idea che possa esistere, per un popolo colonizzato, una cultura originale “che aspetta di essere ritrovata, e una volta compiuto tale ritrovamento, consegna all’eternità la nostra identità” [Stuart Hall 1994, 394]. E se certi autori postcoloniali hanno potuto fare uso della nozione d’ibridità sul fondo di un’idea del rapporto delle culture così grossolanamente binario come lo denuncia Amselle, altri autori postcoloniali non hanno mancato di notarlo e di ammonirli. Un altro esempio: l’autore rimprovera agli storici postcoloniali indiani di rinchiudersi in una storia alternativa e concorrente alla narrazione classica della storia dell’Europa, invece di puntare ad “una prospettiva capace di evitare proprio la “trappola del rispecchiamento” che le viene tesa dalla scienza occidentale” [130]. Ora, tale trappola del rispecchiamento è costantemente denunciata dagli stessi autori postcoloniali (fra cui Gayatri Spivak e Ashis Nandi) quando notano che opporsi sistematicamente ed esclusivamente all’Occidente significa rafforzare la sua influenza, poiché significa perdersi nei termini dell’opposizione che l’Occidente stesso ha istituito fra lui e i suoi ”Altri”. È proprio questa una delle idee forti della critica postcoloniale del nazionalismo, il quale è denunciato come un’ideologia di contestazione configurata proprio da ciò che essa stessa contesta (l’imperialismo) [Nandy 1994, 3]. Ultimo esempio di queste sentenze troppo sbrigative: il giudizio postcoloniale a favore dei saperi indigeni è troppo facilmente assimilato alla critica anti-modernista della scienza come quella che professa un autore quale Ashis Nandy, se non addirittura all’apologia dell’irrazionalismo. I pensatori postcoloniali non sono tutti diventati dei militanti delle pseudo-scienze e continuano a praticare le discipline scientifiche nelle quali si sono originariamente formati, anche se in modo originale e innovativo. C’è qui il rischio di cadere negli eccessi della filosofa indiana Meera Nanda, più volte citata da Jean-Loup Amselle [Nanda 2003], la quale sviluppa una critica giustificata della “scienza vedica” difesa dai nazionalisti hindu (da non confondere con i postcolonialisti indiani), ma che collega correnti di pensiero molto diverse (le epistemologie costruttiviste, il femminismo, il postcolonialismo, il discorso del multiculturalismo, ecc.) alla rinfusa, sulla base di omologie parziali e superficiali, con una propensione manichea a situarli in blocco nel campo degli avversari della scienza, del secolarismo o perfino della democrazia, come se non ci fosse nessuna posizione intermedia fra la critica della scienza e l’onnipotenza della ragione e una difesa dell’irrazionalismo che favorisce la nascita di fanatismi più oscurantisti.

Nel capitolo successivo si sussegue un nuovo corteo di teste pensanti. Tale capitolo è consacrato ai teorici o interpreti dei movimenti indiani dell’America del Sud. Si tratta di pensatori molto diversi, se non a volte decisamente opposti: i primi “postmoderni e postcoloniali”, influenzati dalla seconda fase dei ‘cultural studies,’ quella dell’analisi testuale (il cosiddetto ‘linguistic turn’) e dal pensiero dell’ibridità (Walter Mignolo); i secondi “postcolonialisti e subalternisti” di tendenza ‘marxizzante’, che continuano a vedere nella cultura una dimensione di lotta sociale e non solamente un ordine simbolico (Silvia Rivera Cusicanqui, Rossana Barragan). Tuttavia, tutti condividono incontestabilmente la stessa premessa militante, ovvero l’idea che gli Amerindiani, dopo essere stati per due secoli vittime del colonialismo interno delle elite creole, sono ora minacciati nella loro stessa esistenza culturale dalle politiche indigene essenzializzanti e assimilazioniste che tali elite, ereditarie del progressismo illuminista, conducono nel quadro degli stati nazione che esse continuano a dominare. Come per i loro omologhi africani ed indiani, la loro prima esigenza è quella di rompere con la pretesa del “Nord” di governare il mondo nel nome dell’universalità dei suoi valori, di emanciparsi dai discorsi sapienti attraverso i quali l’Occidente fissa e denatura i suoi ‘Altri’, e di dare voce ai subalterni la cui parola “è sommersa nel discorso dell’omogeneità nazionale” [141]. Tuttavia, anche fra questi campioni del “risveglio indiano” si ritrova, secondo Jean-Loup Amselle, una “feticizzazione dell’etnicità”, e l’autore si chiede, non senza qualche ragione, se definire gli attori sociali dei quali essi sposano la causa come “Indiani” piuttosto che come contadini non corrisponda prima di tutto alle preoccupazioni di intellettuali diventati scettici verso le grandi narrazioni di emancipazione, ripiegati invece su un paradigma del frammento; e che tale preoccupazione non corrisponda a quella di gruppi sociali che hanno sempre avuto come prima preoccupazione - o almeno si può supporre - i rapporti obiettivi di produzione e di sfruttamento in cui sono implicati [147]. Populismo e romanticismo indigenista, conclude l’autore, rischiano di fare il gioco di forze reazionarie, e costituiscono di fatto una minaccia per la sinistra democratica laddove essa è al potere [151].

Sulla scia di queste ammonizioni, Jean-Loup Amselle consacra un capitolo illuminante al ‘recupero’ del pensiero di Gramsci da parte dei Cultural Studies (con Stuart Hall) e dei Subaltern Studies (con Ranajit Guha e altri), che lo celebrano come precursore e maestro di pensiero. Gli autori in questione hanno incontestabilmente in comune con Gramsci il rifiuto dell’economismo e la riflessione sull’autonomia della cultura. Ma essi lo travestono e lo deformano nel dipingerlo come un pensatore post-moderno ante litteram che decostruisce la materialità dei rapporti sociali, e nell’omettere l’evidenza che la sua analisi culturale non ha senso se non come strumento per la definizione delle strategie politiche concrete in risposta all’egemonia del blocco storico dominante. Jean-Loup Amselle centra qui un vero problema. Sono vent’anni che i postcolonialisti si chiedono se il loro pensiero critico sbocchi su un programma politico [Byrdon 2006], e si tratta proprio di uno degli argomenti di dibattito più cruciali e ricorrenti, se non più ripetitivi e deprimenti, almeno per coloro che seguono il dibattito, tra quelli che si sono sviluppati nel seno di questa corrente di pensiero.

Bisogna ammettere che tale dibattito, nella sua sostanza, va ampiamente al di là del caso particolare del postcolonialismo: è la questione infinita della compatibilità filosofica fra critica marxista e decostruzionismo, due approcci radicalmente inconciliabili secondo alcuni , allorché la decostruzione, secondo Derrida stesso e i post-colonialisti che si ispirano a lui, sarebbe fedele a un certo spirito del marxismo, il quale non escluderebbe in alcun modo l’autocritica radicale (Marx stesso ammetteva il carattere storico delle sue tesi), e alla sua promessa di emancipazione che è indistruttibile [Derrida 1993, pp. 35-36, 92-94, 125-126, 142-14]. Il capitolo d’altra parte formula questo dibattito in termini classici e minimali: in breve, il postcolonialismo dissolverebbe la lotta di classe e farebbe il gioco dello Stato frammentando il corpo sociale in comunità culturali [184]. Si ritrova là, mutatis mutandis, un argomento che ci ricorda l’antica diffidenza dell’internazionalismo proletario verso la questione nazionale: “Gli operai non hanno patria”. Ma il capitolo non si pone una domanda di base (contrariamente a Derrida), che è quella di rendersi conto se la politica non sia cambiata. Per i postcolonialisti come per i Cultural Studies, la cultura, la comunicazione, la crisi della rappresentazione sono diventati effettivamente oggi una delle poste più alte in gioco delle lotte reali, la classe non è più solamente una categoria sociale e politica ma una formazione culturale che appartiene all’ordine del discorso, e la questione del riconoscimento sociale figura ormai nel cuore della politica, ciò che dona alla “differenza” un potenziale di emancipazione[5]. Uno schizzo di questo dibattito ebbe luogo in Francia trenta o quarant’anni fa, dopo la sconfitta politica del Maggio 1968, quando si rimproveravano a Julia Kristeva o Roland Barthes le loro idee di resistenza “discorsiva” e di rivoluzione “testuale”, Lo stesso dibattito è cominciato vent’anni fa in seno al pensiero postcoloniale, e non è ancora terminato, cosa che mostra che il postcolonialismo è tutto tranne che una scuola di pensiero dogmatica o una teoria univoca. Si tratta invece di una galassia intellettuale evolutiva e in dibattito permanente, riunita solamente da una sensibilità e un atteggiamento critico comuni, in seno ai quali esistono delle specialità scientifiche, delle opinioni filosofiche, e dei gradi di radicalità nella critica molto diverse. Il fatto che i postcolonialisti siano ancora profondamente divisi sul punto essenziale del significato politico della loro riflessione erudita fa capire che chi ne condivide le problematiche non ha davanti a sé una linea di impegno già tracciata, che non è libero dalla necessità di scegliere lui stesso la sua azione, e che la sua decisione sarà subordinata a ben altri fattori che al pensiero postcoloniale[6].

E tuttavia, se accompagniamo Jean-Loup Amselle fin al suo ultimo capitolo, apprendiamo che esiste una risposta a questo dibattito lancinante e incompiuto su quello che potrebbe essere una politica postcoloniale, e che tale risposta è fornita dalla Francia: è la militanza comunitarista e memoriale che si è scatenata in Francia dopo la crisi delle banlieue del 2005, prefigurazione locale dello scontro delle civilizzazioni che si sta delineando su scala mondiale. Questo ultimo capitolo del libro è stato intitolato, significativamente, “La Fattura postcoloniale”, e l’autore gli pone in epigrafe il celebre appello di Bertold Brecht ispirato all’Apocalisse: “Il ventre che ha generato il mostro è ancora fecondo”. In queste pagine, il libro si muove dalla critica intellettuale all’accusa. Tutto sarebbe cominciato con il “fulmine a ciel sereno” della pubblicazione nel gennaio 2005 del manifesto degli “Indigeni della Repubblica”, un testo che denuncia l’esistenza in Francia di cittadini di seconda classe la cui marginalizzazione sarebbe l’eredità diretta del passato coloniale francese: si tratta, secondo l’autore, della prima applicazione al caso francese di “una problematica veramente postcoloniale” [194-95]. Nello stesso anno appaiono sulla scena pubblica il collettivo “Devoirs de Mémoires”, poi il Conseil Représentatif des Associations Noires de France (CRAN) per l’espressione dell’identità nera. La stessa scivolata comunitaria e memoriale si osserva anche sul terreno legislativo, già lavorato dalla legge anti-negazionista detta Legge Gayssot (1990), dalla legge Taubira (2001) che qualifica la tratta negriera e la schiavitù come crimini contro l’umanità, il progetto di legge di ispirazione opposta votato il 23 febbraio 2005 in favore dei francesi rimpatriati d’Algeria (il cui comma relativo agli ‘effetti positivi’ della colonizzazione fu abrogato per decreto un anno più tardi), poi la legge che condanna il genocidio armeno (2006). Si edifica in questo modo un dispositivo grazie al quale le minoranze - continua Amselle – iniziano a esistere in quanto tali, e di conseguenza “il mito del consenso nazionale si sfalda”, “lo spettro identitario emerge nell’Esagono”, “la scatola di Pandora è aperta”. Dall’esaltazione del primitivismo al museo di Quay Branly (che farebbe di Jaques Chirac un “presidente postcoloniale”) alle “grandi messe” multiculturali organizzate dal Comune di Parigi, monopolizzate ora dalla destra ora dalla sinistra per compiacere le “minoranze visibili” e domare le culture urbane dissidenti, mentre le voci più estreme proferiscono anatemi, le une mobilizzandosi per i valori dell’ “essere bianco” di fronte al “razzismo” arabo-nero, gli altri lanciandosi in una difesa “metafisica” del velo islamico, un faccia a faccia che “ci trascina in un ingranaggio, quello ‘scontro delle civilizzazioni’” [202].

La questione non è certo di dare un giudizio sulle posizioni di sinistra repubblicana, perfettamente rispettabili, dell’autore, il cui libro non esclude toni autobiografici. Sebbene egli deplori senza giri di parole il fatto che “i crimini più atroci” sono stati perpetuati sotto la maschera dell’ideale repubblicano durante la colonizzazione, l’autore sostiene questo modello poiché sotto la sua egida è sempre possibile colmare il divario fra principio e pratica. Quello che invece disturba è che egli imputa al pensiero postcoloniale tutta la responsabilità di ciò che descrive come la deriva disastrosa verso un multiculturalismo alla francese. Vengono dimenticate le diversità di questo pensiero venuto da lontano, i dibattiti interni che esso ha avuto sin dalla sua origine, i livelli molto diversi della sua radicalità, l’inesistenza di un’ortodossia che si basa su lavori canonici incontestati. Ed eccolo ridotto, per i bisogni della causa, a uno ‘schema di analisi’ univoco. L’elemento chiave di questo “schema” postcoloniale è, a quanto pare, lo slogan secondo il quale la situazione delle minoranze francesi legate alla ‘diversità’ sarebbe una diretta eredità della colonizzazione. Ora, identificare il pensiero postcoloniale con questa tesi significa spazzare via d’un colpo le discussioni iniziali che esso ha generato sul significato di “post”, il quale non rinvia che secondariamente a un dopo cronologico, e che designa soprattutto un andare al di là epistemologico e logico. Si ha prima di tutto qui a che fare con delle minoranze francesi (e non con dei subalterni dei paesi del Sud del mondo), i quali nel contesto politico della competizione democratica mobilitano per la difesa dei loro interessi un capitale simbolico vittimista ottenuto dalla storia del passato coloniale repubblicano, e il cui apparato argomentativo è senza dubbio più imparentato col discorso speculare del nazionalismo anticoloniale del passato, che con la critica postcoloniale epistemologica e decostruzionista di oggi. E si è forse più vicini a una strategia di integrazione per affermazione di differenza (che in questo caso, è vero, “razzializza il conflitto sociale”), visto che le promesse dell’egalitarismo repubblicano non sono state mantenute, piuttosto che a un rifiuto inespiabile dei valori occidentali, anche se possono verificarsi movimenti da una posizione all’altra.

Jean-Loup Amselle incrimina in seguito di nuovo, ma nell’ambito questa volta del caso francese, il feticismo postmodernista del frammento come strumento di sovversione politica. Ci avverte che la French Theory, “ovvero il postmodernismo e il postcolonialismo”, sta ritornando nel suo paese d’origine, e che si tratta di “un mezzo particolarmente efficace” (sebbene “la forza delle idee” sia messa in dubbio nove pagine prima) di decostruire frammentandolo il modello repubblicano ormai svigorito, di soffocare le contestazioni di classe accentuando le divisioni verticali di razza, di cultura e di genere, e in questo modo di fare entrare la Francia nella postmodernità (206). Sulla scala mondiale, il postcolonialismo, sciogliendosi in un modello di multiculturalismo liberale, farebbe in definitiva il gioco dell’imperialismo americano (213). Un tale susseguirsi di scorciatoie, che non è quello a cui l’autore ci ha abituati, getta un’ombra imbarazzante su tutto quello che precede, tanto si ha l’impressione che il libro sia stato scritto per arrivare a queste pagine, in cui l’esposizione critica delle idee cede il passo al saggio polemico: dopo l’esposizione di queste tesi, la conta dei vasi rotti, la “fattura”. Ciò che dà più fastidio nell’impiego di questo termine, è l’essenzializzazione del postcolonialismo che esso presuppone, questa maniera di calcare la mano, di portarlo a delle posizioni omogenee sistematicamente identificate alle loro formulazioni più estreme, e l’effetto di demonizzazione che tale riduzionismo comporta. Che ci siano degli autori irresponsabili, provocatori, se non criminali, che ravvivano l’odio verso l’Altro, si è già visto e si vede tuttora. Il diritto a una critica franca che permetta di denunciarli, inerente a ogni vita intellettuale degna di questo nome, è evidente. Ma si possono considerare tutti i ricercatori, i pensatori e i creatori che si dichiarano postcoloniali come direttamente responsabili degli agitatori e dei seminatori di zizzania che rischiano di strumentalizzarli, probabilmente senza averli letti? Le auto bruciate del Dipartimento “93”[7] sarebbero quindi veramente “il prezzo da pagare” per il genio di Aimé Cesaire (di cui i postcolonialisti hanno fatto un’icona)? Come se non ci fosse nel pensiero postcoloniale visto non attraverso il prisma del nostro Esagono insulare, ma alla luce della sua storia plurale e della sua diversità planetaria, nessuna esigenza percepibile di giustizia, nessun tentativo di andare al di là del risentimento…

Traduzione a cura di Elena Vezzadini

Bibliografia

Bhabha, H. 1994, The Location of Culture, Londres e New York: Routledge

Brydon D. 2006, Is There a Politics of Postcoloniality?, «Postcolonial Text», 2 (1), disponibile on line http://postcolonial.org

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Spivak G. 1999, A Critique of Postcolonial Reason: Toward a History of the Vanishing Present, Cambridge, USA: Harvard University Press

Data di pubblicazione 21 ottobre 2010

Sul tema "postcolonialismo" vedi anche Il femminismo postcoloniale di Stefania De Pretis

Note

[1] Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, 54 boulevard Raspail, Paris, , F-75006, France, jpdass@club-internet.fr

[2] Questo articolo é stato pubblicato per la prima volta in francese con il titolo ‘Les émeutes du “93” sont-elles postcoloniales ?’ sulla rivista L’Homme, n° 187-188 2008/3-4, pp. 413-21. Si ringrazia Jean Jamin, redattore de l’Homme, per aver acconsentito alla ripubblicazione dell’articolo. Traduzione di Elena Vezzadini.

[3]  La legge suscitò in Francia un’ondata di scioperi e di polemiche organizzate da varie associazioni, a cui prese parte una larga parte del corpo docente universitario e scolastico [ndt].

[4]  Vi mancano tuttavia l’Africa del Sud e l’Australia, e forse anche un tentativo di spiegare perché il pensiero postcoloniale abbia trovato un’eco così debole nel Maghreb.

[5]   O per dirlo negli stessi termini di Homi Bhabha: “It is the realm of representation and the process of signification that constitutes the space of the political" [Bhabha 1994, 190].

[6] In particolare, é a torto che Jean-Loup Amselle lascia intendere [126, 130] una prossimità intellettuale fra i postcolonialisti indiani e il comunitarismo sterminatore che i nazionalisti hindu alimentano in India contro i Musulmani del paese.

[7] “93” è il numero del dipartimento francese di Seine-Saint-Denis, che comprende la periferia nord di Parigi. In questo dipartimento si trova la più alta percentuale di popolazione discendente dagli immigrati delle vecchie colonie francesi [ndt].