Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Dall’autonomia al centrosinistra. Il governo Corallo (1961) e la transizione politica in Sicilia

PDF
Abstract

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, la Sicilia attraversò un periodo di forte instabilità politica, culminato nel breve “governo di emergenza” guidato da Salvatore Corallo nel 1961. Questo articolo analizza il contesto storico, gli obiettivi e l’azione di governo di quell’esperienza, evidenziandone l’impatto sulla transizione verso il centrosinistra sia in Sicilia, sia a livello nazionale. Attraverso l’esame di questo caso, si esplorano le dinamiche di potere, le strategie politiche e le tensioni sociali che caratterizzarono la delicata fase dell’autonomia siciliana nei primi anni Sessanta. Lo studio getta nuova luce su un momento chiave della storia politica siciliana, confermando il ruolo dell’isola come “laboratorio” di tendenze poi affermatesi a livello nazionale.

Between the late 1950s and early 1960s, Sicily experienced a period of intense political instability, culminating in the short-lived “emergency government” led by Salvatore Corallo in 1961. This article examines the historical context, goals, and achievements of this administration, highlighting its impact on the transition towards a centre-left coalition both in Sicily and at the national level. Through the analysis of this case, the study explores the dynamics of power, political strategies, and social tensions that characterized the delicate phase of Sicilian autonomy during the early 1960s. The study sheds new light on a pivotal moment in Sicilian political history, confirming the island’s role as a “laboratory” for trends later established on a national scale.

Introduzione

Tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, la Sicilia attraversò un periodo di grande turbolenza politica, caratterizzato da alleanze inusuali e crisi istituzionali. La cosiddetta “operazione Milazzo”, un’alleanza tra il Partito comunista, il Partito socialista e il Movimento sociale contro la Democrazia cristiana, segnò l’inizio di una fase di instabilità che culminò con il “governo di emergenza” guidato da Salvatore Corallo nel 1961. Questo governo, seppur breve, rappresentò un esempio significativo di come sia possibile “garantire l’ordine costituito” in situazioni di crisi politica e istituzionale, in linea con i temi trattati nel dossier. Esso fu infatti un tentativo di amministrare nel nome del “bene comune”, in un contesto complesso e politicamente frammentato. Il governo si insediò in un momento in cui l’Assemblea regionale siciliana era paralizzata da conflitti interni e l’ombra della mafia iniziava a intrecciarsi con la politica. La storiografia ha spesso trascurato questo periodo, ma una ricostruzione accurata di questa breve esperienza può offrire preziosi spunti di riflessione sulla governabilità e sulla possibilità di un cambiamento politico duraturo in Sicilia.

L’articolo si propone pertanto di analizzare il contesto storico, gli obiettivi e l’azione del governo Corallo, nonché le sue implicazioni per la nascita del centrosinistra in Sicilia e a livello nazionale. Questo “governo di minoranza”, durato solo un mese, ebbe un forte valore simbolico e politico, perché, pur essendo nato come “soluzione emergenziale” per sbloccare una situazione di stallo che si protraeva da mesi, riuscì nell’intento di normalizzare la vita amministrativa regionale e a porre le basi per il successivo passaggio al centrosinistra, anticipando gli sviluppi nazionali.

Attraverso l’esame di questo “governo provvisorio” è così possibile gettare luce su un momento chiave della storia politica siciliana, per comprendere come la Sicilia abbia spesso anticipato, nel ruolo di “laboratorio politico”, tendenze destinate poi ad affermarsi su scala nazionale. L’obiettivo è quello di far emergere, attraverso l’analisi di un caso emblematico, le dinamiche di potere, le strategie politiche e le tensioni sociali che caratterizzarono la delicata fase storica dell’autonomia siciliana dei primi anni Sessanta nella transizione verso nuovi equilibri politici.

Le radici. Autonomia siciliana e crisi politiche degli anni Cinquanta

Per comprendere la genesi del governo Corallo è necessaria una breve ricostruzione del contesto storico in cui questo si sarebbe sviluppato. Innanzitutto, bisogna considerare che, a differenza delle altre regioni italiane, per porre un freno alle deviazioni separatistiche (Marino 1979) la Sicilia è stata la prima regione a godere del privilegio di uno Statuto speciale, approvato nel maggio 1946. L’autonomia ha conferito al nuovo istituto regionale ampi poteri legislativi, amministrativi e fiscali, oltre che un proprio parlamento e un governo (Di Matteo 1967; Hamel 1984).

Già nella seconda metà degli anni Cinquanta, tuttavia, la regione si trovava al centro di una profonda dicotomia politica e sociale. Da una parte, vi era l’autonomismo di chi governava, rappresentato dalla coalizione centrista incarnata dalla Democrazia cristiana, che metteva in risalto le proprie realizzazioni; dall’altra, le sinistre denunciavano una Sicilia che continuava a essere sfruttata, parlando quindi di un’“autonomia tradita” (Miccichè 2017). Una prima risposta a questa crisi va cercata nelle profonde trasformazioni economiche e sociali che investirono l’isola a partire dal 1953, in seguito alla scoperta del petrolio. Questo evento rappresentò infatti una svolta decisiva per il contesto regionale, suscitando un enorme interesse economico e politico. Non vanno dimenticati il problema dei sali potassici, gli interessi di grandi aziende come Edison e Montecatini e la polemica sulle concessioni petrolifere, che com’è noto amplificarono il ruolo di Enrico Mattei e i suoi interventi in Sicilia, scatenando violentissimi attacchi da parte di don Luigi Sturzo, che considerava tali dinamiche un pericolo per l’autonomia (Giarrizzo 1992, 275).

Questa situazione si intrecciava peraltro con l’altra grande “questione siciliana” degli anni Cinquanta, quella relativa al problema contadino. Fautore della riforma agraria regionale del 27 dicembre 1950 fu il calatino Silvio Milazzo, un ricco agrario e allievo proprio di don Sturzo, che con le sue iniziative radicalizzò la lezione autonomistica e antistatalista del maestro. La riforma introdusse un elemento di novità nella società rurale isolana, segnando di fatto la fine del latifondo siciliano. In questo contesto, la Dc riuscì così a recuperare la leadership politica tra la piccola e media proprietà terriera, mentre la sinistra si trovò relegata a rappresentare il bracciantato. Nel frattempo, comunque, la lentezza e l’opacità che caratterizzavano il definitivo abbandono delle campagne da parte della grande proprietà assenteista favoriva l’emigrazione, soprattutto dei braccianti, verso l’estero. Questi fenomeni contribuirono a modificare profondamente il panorama sociale, economico e politico della Sicilia nel dopoguerra (Mangiameli 1987, 590-600).

Al terzo congresso regionale del Pci, nell’aprile 1957, Palmiro Togliatti mise quindi in evidenza “i problemi della terra” e l’autonomia come terreno di lotta politica. Il segretario comunista affermò senza mezzi termini che l’autonomia era “in pericolo, soprattutto per l’intervento di una forza nuova costituita dai grandi monopoli del Nord”, i quali avevano “dapprima lavorato per impedire che si sviluppassero delle forze capitalistiche in Sicilia e, quando poi esse si sviluppavano […] operato per soffocarle, per rovinarle”. I protagonisti della difesa dell’autonomia venivano quindi identificati nei braccianti, nei coltivatori diretti, nei contadini e negli operai, oltre che nella piccola borghesia e negli intellettuali delle città (Togliatti 1965). Quando la legge regionale n. 51 del 1957, che istituiva la Società finanziaria siciliana (Sofis), entrò nello stesso anno in aperto contrasto con la contemporanea legge nazionale 634/57, che finanziava l’intervento straordinario della Cassa per il Mezzogiorno, lo strumento regionale iniziò dunque a essere inficiato da continue lotte per il potere (Butera 2003). Il mondo politico siciliano si divise sostanzialmente in due fronti: quello composto dal Pci e dalla sinistra socialista, guidata da Salvatore Corallo, schierati contro i gruppi imprenditoriali del Nord e che voleva sostituirne la loro presenza con una combinazione tra impresa locale ed enti pubblici dello Stato, e l’altro fronte, costituito da liberali, monarchici, missini e un folto gruppo di democristiani che apprezzava il ruolo svolto nell’isola dagli industriali settentrionali.

Una prima rottura si verificò nel luglio 1958, quando Domenico La Cavera (Amadore 2012), presidente della Sicindustria, venne espulso dal Partito liberale per una rissa scoppiata in una riunione della Confindustria, non riuscendo a trattenersi quando i confederati avevano parlato del presidente della Regione, il democristiano Giuseppe La Loggia, come di un uomo a loro servizio (La Cavera 1961). Si aggiunga che nella stessa estate la Sicilia arrivava già carica di forti tensioni politiche, perché, caduto il monocolore Zoli, Fanfani aveva presentato un governo dove la componente siciliana, pur essendo la più numerosa in parlamento, aveva subito un forte ridimensionamento (Malgeri 1988, 146-153). La convinzione di molti, in Sicilia, era dunque che Fanfani e i poteri forti del capitalismo italiano si apprestassero a restringere gli spazi e le competenze dell’autonomia, come testimoniava d’altronde la soppressione dell’Alta corte per la Sicilia, uno dei pilastri dello Statuto, assorbita dalla Corte costituzionale l’anno prima (Presidenza della Regione siciliana 1961). Al rifiuto di La Loggia a dimettersi, in agosto, malgrado il bilancio da lui presentato venisse bocciato dall’assemblea, era allora iniziato un ostruzionismo parlamentare che, protrattosi per oltre due mesi, nell’ottobre 1958 portò a una seconda clamorosa frattura, l’“operazione Milazzo” (Spampinato 1979).

Accadde in pratica che Milazzo, in aperto contrasto con la gestione fanfaniana della Dc, formò un governo con l’appoggio di una coalizione che includeva da un lato comunisti e socialisti, dall’altro monarchici e missini (Grammatico 1997). Per comprendere la complessità della crisi che avrebbe portato alla nascita del governo Corallo, è allora importante analizzare il ruolo cruciale ricoperto da tale esperimento politico, talmente anomalo che venne coniato il neologismo “milazzismo” (Battaglia, D’Angelo e Fedele 1988; Passiglia 2006). L’allievo di Sturzo incarnava l’idea di un’autonomia reale, concepita non soltanto come uno strumento legislativo, ma come una risposta alle esigenze economiche e sociali dell’isola. Durante il suo governo cercò quindi di affermare un modello che metteva al centro l’interesse regionale, opponendosi alle politiche industriali centralizzate che favorivano i grandi monopoli del Nord. Questo lo portò a promuovere iniziative per il rilancio dell’economia locale, puntando sulla valorizzazione delle risorse siciliane, in particolare attraverso un’attenzione all’agricoltura e alle imprese regionali (Basile 2010). Le posizioni assunte fecero di Milazzo uno dei più sinceri e strenui difensori dell’autonomia siciliana, anche se la sua nomina a presidente della Regione, nell’ottobre 1958, finì per allontanarlo da Sturzo (De Marco 1996). Negli ultimi scambi epistolari, il maestro sconfessò infatti apertamente l’allievo, perché, facendosi attrarre dall’“incanto” della presidenza, con la pretesa di una rivendicazione autonomistica trascinava dietro di sé i comunisti. Negli ultimi mesi della sua vita, il prete calatino non mancò perciò di sottolineare a più riprese la propria amarezza per il fatto che era proprio un suo amico, concittadino e protetto, che come preso da una “febbre panormita” ne sconfessava l’anticomunismo e, novello “cavallo di Troia”, apriva le porte della maggioranza alle sinistre (Sturzo 1999, 688, 710-711, 729).

Per aver oltrepassato la barricata, Milazzo venne dunque considerato un traditore ed espulso dalla Dc, che contro di lui lanciò un anatema additandolo come un “eretico” (Menighetti e Nicastro 2000). La paura che l’operazione potesse comportare la formazione di un secondo partito cattolico anche in ambito nazionale, comunque, sarebbe durata poco, perché in seguito alle dimissioni di Fanfani, nel febbraio 1959, la mediazione di Moro riuscì alla fine a spegnere le luci sul caso siciliano, confinando tutte le ambiguità e le contraddizioni nel campo regionale (Giarrizzo 1987, 625-627). Il nuovo partito, l’Unione siciliana cristiano sociale (Uscs), venne additato anche dalla Chiesa siciliana, che lo accusava di essere uno strumento del comunismo e alleato di chi voleva negare i valori della religione e della tradizione (Stabile 1999, 264-276). Un decreto del Sant’Uffizio, nel marzo 1959, stabilì inoltre che ai cattolici non era permesso dargli il voto, quantunque questo si attribuisse la qualifica di cristiano [1]. Malgrado tali ingiunzioni, i risultati elettorali consegnarono comunque ai cristiano-sociali un successo sorprendente (10,6%) che, se da un lato avrebbe attribuito alla nutrita rappresentanza un ruolo determinante all’Assemblea regionale, dall’altro avrebbe lasciato in eredità alla quarta legislatura regionale un’estrema frammentazione politica, che avrebbe complicato non poco la formazione di maggioranze stabili e contribuito a creare una condizione di paralisi amministrativa.

Nell’estate del 1959, Milazzo riuscì frattanto a farsi rieleggere, stavolta senza l’apporto del Msi che, trovato un accordo con la Dc in funzione anticomunista, non rientrò in maggioranza. Questo nuovo indirizzo non poteva che piacere ai comunisti, che così potevano sciogliere le loro contraddizioni. Sul piano dei numeri le sinistre e i cristiano-sociali disponevano tuttavia solo di 41 voti rispetto ai 46 necessari per formare un governo. Ciononostante, Milazzo riuscì a formare un governo, anche se ciò comportò che questa seconda esperienza risultasse più debole della prima già in partenza. Per continuare a sopravvivere, il governo dovette quindi ricorrere alla vecchia pratica trasformistica di acquisire parlamentari dal fronte avverso. Questo portò allo “scandalo Santalco-Corrao”, quando la rivelazione di un tentativo di “compravendita” di un deputato democristiano – che si sarebbe poi scoperto essere stato orchestrato dalla Dc in collaborazione con i servizi segreti (Macaluso 2003, 122) – costrinse Milazzo a dimettersi e a porre termine in maniera indecorosa all’esperienza politica nel febbraio 1960 (Santalco 1993).

La successiva elezione di Benedetto Majorana della Nicchiara, un ex cristiano-sociale nel frattempo rientrato nel Partito monarchico, e l’ingresso in giunta di due missini permisero al Msi di raggiungere l’apice della sua strategia di avvicinamento al potere, perché subito dopo, anche a livello nazionale, la Dc avrebbe formato il monocolore Tambroni con il determinante appoggio esterno del partito neofascista. L’ingresso del Msi nell’area della maggioranza, com’è noto, comportò la grande mobilitazione antifascista e la conseguente crisi dell’ordine pubblico in tutto il paese. Malgrado Tambroni fosse costretto a dimettersi, nel luglio 1960, in Sicilia Majorana rimase in carica fino al marzo 1961, anche se era chiaro che un governo simile non sarebbe durato a lungo. Bisogna peraltro considerare che, all’indomani delle amministrative del novembre 1960, sopraggiunse il problema delle cosiddette “giunte difficili”, avendo raggiunto città come Milano, Genova e Firenze i numeri per la formazione di maggioranze di centrosinistra che avrebbero potuto favorire il graduale processo per consentire la soluzione anche sul piano nazionale (Totaro 2005). Ciò era possibile anche a Palermo, sia a livello comunale che regionale, ma nell’isola il quadro era complicato dalla presenza dei cristiano-sociali, di cui la Dc rifiutava di accettare i voti [2]. Come annotò lo stesso Nenni nei suoi diari, la “gatta da pelare” non era tanto rappresentata dalla fine del governo Majorana e dalla conseguente rottura con i missini, quanto dalla seconda fase di quest’operazione, e cioè dal fatto che la costituzione di una giunta di centrosinistra, in Sicilia, avrebbe comportato il passaggio all’opposizione dei liberali a Roma e la caduta del governo Fanfani. Date le minacce di Malagodi e della destra interna, in quel delicato frangente Moro si mostrò perciò assai preoccupato al segretario socialista (1982, 146, 152, 161-62). Per la Dc l’unica via d’uscita per il caso siciliano era allora rappresentata da un “monocolore ponte”, con l’appoggio esterno socialista o dei cristiano-sociali. Per porre fine al governo regionale di centrodestra, ormai “un frutto fuor di stagione”, Moro insistette in pratica perché fossero i socialisti o i cristiano-sociali ad assumersi la responsabilità di una soluzione intermedia. In una risoluzione del comitato regionale, il Psi rifiutò però la proposta democristiana, anche se, per proiettarsi verso il centrosinistra, in cambio garantì l’esclusione di una riproposizione dello schieramento milazziano [3].

A mettere in imbarazzo la Dc siciliana sopraggiunse peraltro un comunicato dell’episcopato siciliano, che, per bloccare in partenza ogni ipotesi di “apertura a sinistra”, dichiarava che in caso della formazione di giunte di centrosinistra alla Regione o nei principali comuni dell’isola, i vescovi e gli arcivescovi avrebbero regolato di conseguenza i loro rapporti con le nuove amministrazioni [4]. Erano dunque le forze del conservatorismo siciliano a rendere per il momento impossibile alla Dc una “conversione” di rotta nelle proprie alleanze. Quando, incoraggiato dalla dichiarazione vescovile, il Msi ritirò la fiducia a Majorana per “scoprire” la Dc e costringerla a scegliere ancora una volta a destra – più per un calcolo nazionale, dato che, in Sicilia, più a destra di un governo a partecipazione missina non si poteva andare –, per la chiusura a destra da un lato, e l’immaturità dell’apertura a sinistra dall’altro, la Regione precipitò in una delle crisi più lunghe e drammatiche della sua storia.

Una crisi senza precedenti. I centoventi giorni senza governo

La complessa situazione politica venne aggravata dalla prevedibile disgregazione in atto nell’Uscs, che già da inizio anno veniva abbandonata da molti iscritti mentre gli esponenti regionali restavano in attesa di sviluppi, nella speranza di ricavare un ritorno diretto o indiretto al governo [5]. La decisione del Consiglio nazionale della Dc di considerare definitivamente superata, e perciò non più riproponibile, la maggioranza di centrodestra segnava dunque uno spartiacque fra passato e futuro. A parziale rivalsa, la destra Dc decideva però di non consentire l’ingresso dei socialisti nella maggioranza. Rispetto agli equilibri nazionali, la componente interna al Psi che si opponeva alla rottura dell’unità con i comunisti, in Sicilia, era inoltre parecchio agguerrita. La posizione assunta dai socialisti era pertanto che o la Dc accettava un rapporto di “pari dignità”, includendo nell’intesa anche i cristiano-sociali, oppure essa non avrebbe trovato i voti per varare un nuovo governo. Nell’uno e nell’altro senso, veniva messa in campo una sorta di conventio ad excludendum che, nell’immediato, gettava l’amministrazione nella paralisi totale (Renda 1999, 439-441).

Per comprendere il quadro interno alla Dc e il suo ostruzionismo al centrosinistra in Sicilia, è interessante un verbale della Direzione nazionale del 20 marzo 1961. Numeri alla mano, come detto, erano possibili due soluzioni, sia il centrodestra che il centrosinistra, ma nessuna delle due formule poteva essere presa in considerazione. Si prospettavano quindi quattro combinazioni: un monocolore programmatico con liberali e socialdemocratici; un tricolore Dc-Pli-Psdi senza maggioranza; un governo minoritario con convergenti e indipendenti; un governo di maggioranza per la quale, però, c’erano preclusioni personali perché la soluzione avrebbe dovuto comprendere sia il gruppo Majorana che i cristiano-sociali. Sostenuto dai maggiorenti del partito, Moro optava per la soluzione “meno peggio”, un monocolore con l’appoggio delle minoranze. A non aderire a questa proposta, definita “una operazione di impotenza politica”, erano Ceschi e Corghi, alle cui considerazioni si associavano Granelli, Gui e Barbi, con la replica da parte di Giuseppe D’Angelo, il segretario regionale della Dc, che se un dialogo con i socialisti si fosse aperto in Sicilia, questo sarebbe avvenuto solo dopo un accordo a livello nazionale. Per Moro il monocolore era pertanto l’unica soluzione e, ove non si fosse giunti a una soluzione, non restava eventualmente che lo scioglimento dell’Assemblea regionale [6].

Esaminate le varie possibilità, in seno alla giunta esecutiva della Dc siciliana si faceva avanti un’altra proposta: un governo tripartito (Dc, Pli e Psdi), con l’appoggio esterno dell’Uscs e del gruppo indipendente [7]. Questa nuova intesa concorreva però a creare ulteriori equivoci, tanto che alla successiva votazione del 27 marzo, nell’incertezza, si assentarono sia il gruppo democristiano che quello cristiano-sociale, mentre comunisti, socialisti e missini votarono ognuno per il proprio candidato non concludendo nulla [8]. Nella successiva seduta del 4 aprile parteciparono alla votazione tutti i novanta deputati, ma anche stavolta il risultato fu nullo. Si procedette quindi al ballottaggio tra i due candidati con il maggior numero di voti, il capogruppo Dc, Natale Di Napoli, e il socialista Mario Martinez. Quarantadue voti a quaranta, dalla votazione uscì vittorioso il socialista [9], che con grande senso di responsabilità non accettò a ogni modo l’incarico perché quella “eterogenea convergenza” di voti non offriva prospettive politiche per una valida risoluzione del “grave travaglio” che affliggeva l’autonomia [10].

D’Angelo si diede allora da fare cercando una nuova maggioranza nel cosiddetto “arco dei 51”, che comprendeva i voti della Dc (33), dell’Uscs (7), del Pli (2), del Psdi (1), del gruppo Majorana (7) e dell’indipendente Paolo D’Antoni. Anche questa formazione, però, non poteva mai essere accettata né dai cristiano-sociali né da Majorana, tanto che la prospettiva non resistette che pochi giorni malgrado a sorreggere la formula venisse chiamato Giuseppe Alessi, uno dei padri dell’autonomia. Dato il suo prestigio, la Dc romana rimaneva ciononostante sorpresa dalla sua rinuncia a formare un governo [11]. Nemmeno il naufragio di quello che venne definito il “pateracchio dei 51” contribuì a portare la Dc su un piano di maggiore contatto con la realtà parlamentare siciliana, perché, a seguito di un colloquio fra Moro e il segretario Uscs, Francesco Pignatone, si continuò a cercare una convergenza con i cristiano-sociali escludendo dalle trattative i socialisti [12]. A parte che ogni allineamento all’equilibrio nazionale costituiva una “menomazione” di un parlamento autonomo, a escludere la soluzione bastava infatti la forza dei numeri, che non consentivano al raggruppamento centrista, ivi includendo i cristiano-sociali, di ottenere una maggioranza con 44 voti invece dei 46 necessari. Il problema che la Dc continuava ostinatamente a ignorare, in pratica, era che pur di eludere la formula del centrosinistra, andando alla ricerca di un governo minoritario, si procrastinava sine die la crisi [13].

Il braccio di ferro si ripropose nella seduta del 17 maggio, quando, in seguito all’ennesima votazione nulla, al ballottaggio uscì vittorioso il redivivo Silvio Milazzo. Non si trattava di una riedizione dell’esperimento milazzista, perché socialisti e comunisti avevano fatto convergere su di lui i propri voti all’insaputa dell’interessato. Milazzo accettò comunque il mandato per assicurare la funzionalità degli istituti regionali e provocare un immediato chiarimento politico e parlamentare [14]. Venne fuori, tuttavia, un nuovo ingombro. Nella intenzione delle sinistre, il voto all’ex allievo di Sturzo era volto ad affidare all’Uscs lo sblocco della crisi, giunta ormai al suo ottantesimo giorno. Dopo aver parlato con la delegazione siciliana, lo stesso Nenni (1982, 181) annotò che il voto su Milazzo era “un elemento positivo” per sottrarre la crisi a Roma. Incontrato Moro, il 24 maggio, la conclusione del segretario Dc era però, ancora una volta, che per il centrosinistra non c’era “niente o poco da fare” e che in Sicilia non si poteva andare oltre un monocolore. Lo stesso giorno una riunione del gruppo regionale socialista decise perciò di respingere nuovamente la proposta del monocolore, aggiungendo che il Psi non avrebbe appoggiato qualsiasi altra soluzione che tenesse conto di una “adesione sottobanco dei socialisti” [15]. Dopo aver dato l’impressione di voler assolvere a una funzione di mediatore, Milazzo si tirò così indietro e, nella seduta del 25 maggio, rassegnò le dimissioni. [16]

Il mancato accordo, spiegava il capogruppo socialista Corallo, era dovuto al “curioso” modo di affrontare la questione da parte della Dc, che si rivolgeva al Psi “col piglio del feudatario che affronta i servi della gleba”. Con il Psi, infatti, la Dc poteva parlare a Milano, Firenze e Genova, ma non a Palermo, malgrado in tre mesi e una ventina di votazioni non fosse riuscita a partorire né un presidente della Regione né un governo. I democristiani pretendevano di fatto “una decisione unilaterale” da parte dei socialisti, così da governare con i loro voti “senza pagare alcun prezzo politico e programmatico”. Se la Dc voleva alcunché dal Psi, affermava Corallo, avrebbe dovuto “chiederlo alla luce del sole” e dichiararsi disposta a una netta svolta a sinistra. Sul perché, infine, i socialisti avessero attribuito a Milazzo “un ruolo di particolare importanza” per la soluzione della crisi, Corallo spiegava che il Psi aveva ritenuto che l’Uscs, avendo dato ripetute prove di fedeltà agli impegni assunti con la Dc, fosse l’unico in grado di rivolgersi con autorevolezza a quel partito per chiedergli di “abbandonare la sciagurata formula centrista e ricercare nuove vie”. Aver rinunciato al tentativo, concludeva polemicamente con i cristiano-sociali, significava “evitare di mettere la Democrazia cristiana con le spalle al muro” e pronunciare giudizi sulle sue responsabilità [17]. Il punto era che l’Unione cristiano-sociale, apparsa prossima a scomparire, stava cercando di riprendere quota. La replica di Pignatone (1994, 228-253) era dunque che i socialisti avevano tentato di assegnare ai cristiano-sociali il compito di “docili paraninfi” dell’apertura a sinistra, quando l’Uscs era un partito autonomista che sollecitava il dialogo con la sinistra, ma non era esclusivamente per il desiderio di tale apertura che esso si differenziava dalla Dc [18].

Le numerose votazioni senza frutto, i ripetuti colpi di scena dei suffragi inaspettatamente confluiti su nominativi non previsti, le dimissioni e le accese polemiche, frattanto, avevano provocato l’arresto dell’attività amministrativa della Regione. Tutto ciò colpiva inevitabilmente un’opinione pubblica sempre più scettica e amareggiata, priva ormai di fiducia nella classe dirigente regionale. Non mancavano accenni al progressivo snaturamento dell’istituto autonomistico, che, lungi dal realizzare le speranze destate al suo sorgere, era giunto – attraverso la sua eccessiva politicizzazione – a un immobilismo deleterio. Il perdurare della stasi, d’altro canto, creava gravi ripercussioni nella vita economica, specie nei confronti di quelle categorie interessate all’attività della Regione (appaltatori, imprenditori e lavoratori di opere pubbliche), mentre il funzionamento degli organi giurisdizionali era paralizzato da mesi per il mancato rinnovo dei membri elettivi del Consiglio di Giustizia Amministrativa [19].

La crisi continuava ciononostante a non vedere una soluzione. La Dc si manteneva fedele alla formula nazionale della “convergenza democratica”, mentre i cristiano-sociali, rotto con i socialisti, si dichiaravano disposti a collaborare con la Dc ma senza l’appoggio della destra. Tanto i socialisti quanto la destra continuavano invece a chiedere alla Dc siciliana una scelta che, però, essa non poteva prendere, perché non poteva andare verso i socialisti fintantoché essi non avessero dichiarato la rottura con i comunisti, mentre la collaborazione con la destra era stata preclusa dalla direzione nazionale. Poiché il dissidio non sembrava sanabile, in sempre più larghi settori dell’opinione pubblica cresceva a questo punto la richiesta di uno scioglimento anticipato dell’Assemblea regionale [20].

Uno sbocco sembrò apparire nella seduta del 14 giugno, quando, trovato un accordo per una giunta minoritaria Dc-Psdi che poteva contare su 42 voti (33 Dc, 7 Uscs, 1 Psdi, 1 Pri) e sull’astensione socialista, si fece avanti la candidatura dell’esponente della sinistra Dc Vincenzo Carollo [21]. L’ennesimo colpo di scena mandò però all’aria l’operazione, perché i cristiano-sociali si astennero dal voto e dal successivo ballottaggio uscì a sorpresa eletto il socialista Corallo, il quale dichiarò immediatamente di non poter accettare l’incarico perché all’elezione avevano contribuito i voti del gruppo dell’“Intesa” di destra (monarchici e missini) senza il concorso del suo gruppo. Con estrema serietà, il capogruppo socialista ammise perciò che la crisi non solo era divenuta “estenuante e dannosa”, ma anche che quella votazione, senza che da parte del Psi vi fosse stato alcun concorso, non faceva che umiliare e intristire l’istituto autonomistico [22].

Malgrado fosse ormai evidente che non si sarebbe risolta senza un accordo con il Psi [23], la crisi si trascinò fino al 22 giugno, quando, ancora una volta, su Corallo si coagularono i voti di protesta contro la Dc [24]. Per superare l’impasse e sbloccare la situazione, non rimase allora che procedere con la maniera più traumatica: lo scioglimento anticipato dell’assemblea. Quando tutto pareva compromesso, proprio allo scoccare della mezzanotte si verificò quindi l’ennesimo colpo di scena. Per evitare l’esercizio provvisorio, infatti, socialisti, comunisti e cristiano-sociali si orientarono nuovamente su Corallo, stavolta riuscendo a eleggerlo grazie a un errato calcolo politico del gruppo democristiano che, non partecipando alla votazione, non solo apparì clamorosamente isolato ma consentì al socialista di ottenere la maggioranza relativa. Questa seconda elezione aveva per Corallo “un carattere ben diverso” da quella precedente, perché non derivava dai voti della destra. Non essendovi alcun ostacolo di “moralità politica” e considerati i rischi per la sorte dell’autonomia rispetto alla procedura di scioglimento, Corallo accettò dunque l’incarico assumendo l’impegno di dimettersi dopo un mese. [25]

Data l’incapacità dei partiti di trovare una soluzione stabile, il suo governo non avrebbe di certo rappresentato la conclusione della crisi, ma quantomeno sarebbe servito a normalizzare la vita amministrativa e a porre il problema delle garanzie nel caso di scioglimento dell’Assemblea regionale.

Il governo Corallo. Obiettivi, realizzazioni e impatto politico

Prima di analizzare l’esperienza del governo Corallo, è utile presentare brevemente la figura dell’esponente socialista (1928-2019). Nato a Siracusa, figlio di un giornalista antifascista e di un’impiegata, si trasferì a Forlì alla morte del padre, nel 1939. Durante l’occupazione tedesca si iscrisse al Partito socialista. In Emilia-Romagna compì le prime esperienze politiche, divenendo nel 1948, a soli vent’anni, segretario della Camera del lavoro di Forlì e di Ravenna. Qualche anno dopo, nel 1951, assunse il ruolo di vicesegretario della federazione del Psi di Milano. Nel capoluogo lombardo fu consigliere provinciale e capogruppo. Al congresso di Venezia del 1957 entrò nella Direzione nazionale e fu nominato segretario regionale del Psi in Sicilia. Nel 1959, nel pieno dell’esperienza milazzista, era stato eletto all’Assemblea regionale, lasciando l’incarico di segretario per diventare capogruppo. Dopo l’esperienza di presidente della Regione, nel 1962 sarebbe poi divenuto assessore regionale all’Industria, nel governo D’Angelo, per poi essere rieletto nel 1963. Alla scissione del Psi avrebbe quindi aderito al Psiup, e con il nuovo partito sarebbe stato rieletto nel 1967 e nel 1971. Passato infine al Pci, nel 1976 sarebbe stato eletto alla Camera e nel 1979 al Senato (Ciancimino 2021, 71-74).

Riguardo alla sua elezione, è importante notare che, colta di sorpresa, la Dc tentò subito di coprire le proprie responsabilità, accusando il Psi di frontismo e il Msi di tradimento dell’anticomunismo. L’elezione, secondo la stampa democristiana, era infatti stata possibile non solo per la convergenza di socialisti, comunisti e Uscs, ma soprattutto per la partecipazione al voto dei missini che, in assenza del gruppo Dc, avevano permesso la presenza di almeno metà dei componenti dell’assemblea rendendo valida la votazione [26]. Tale ragionamento, tuttavia, celava una “concezione antidemocratica”, poiché la Dc partiva dal presupposto che fosse normale l’assenza dei deputati dall’aula quando, al contrario, a essere grave era stata proprio la sua assenza. Se questo ragionamento fosse stato valido, lo stesso si sarebbe peraltro dovuto dire anche a liberali e socialdemocratici, anch’essi presenti al voto” e che quindi contribuirono al raggiungimento del quorum necessario a rendere valida la votazione. Era stata al contrario l’assenza dei democristiani a permettere l’elezione di Corallo, anche perché, se essi fossero stati presenti, avrebbero reso nuovamente determinanti i voti delle destre inducendo il socialista a dimettersi come già fatto in precedenza [27]. Al di là dei numeri e delle polemiche tra partiti, il punto che la Dc continuava a ignorare era che, resistendo al “ricatto romano” di cui si faceva portavoce il segretario D’Angelo, l’assemblea aveva di fatto scelto di prendere in mano l’iniziativa, decidendo autonomamente della propria sorte. Data l’incapacità di piegare gli altri, disertando le votazioni la Dc aveva invece preferito giocare la carta del “caos”, esponendo la Sicilia al rischio dello scioglimento dell’Assemblea regionale senza le necessarie garanzie [28].

Anche l’accusa di frontismo era falsa. Durante una riunione del comitato regionale del Pci, infatti, molti dirigenti sostennero apertamente che il partito avrebbe dovuto battersi per lo scioglimento e nuove elezioni piuttosto che appoggiare una soluzione senza maggioranza e destinata a finire presto [29]. A rendere evidente quanto fosse frammentato il dibattito internamente a ogni partito, si aggiunga che gli stessi comunisti della federazione palermitana consideravano invece il governo Corallo uno strumento indispensabile per assicurare alla città l’immediata approvazione del piano regolatore, a garanzia contro i numerosi attentati urbanistici che nel frattempo continuavano ad avvenire a opera della speculazione privata. In ambito provinciale, i comunisti avevano infatti chiesto la nomina di una commissione d’inchiesta per indagare sull’attività dell’assessorato comunale ai Lavori pubblici, dove il sindaco Salvo Lima (Cassarà 2022) e l’assessore Vito Ciancimino, amministratori parecchio chiacchierati, erano investiti da tanti e “clamorosi scandali” [30] che, ormai, sulla stampa si era iniziato a parlare del “sacco di Palermo” [31].

Consapevole delle difficoltà, Corallo fissò da subito tre obiettivi fondamentali per il suo “governo di servizio”. Il primo era l’approvazione del bilancio provvisorio, che fu votato già il 5 luglio, con la presenza stavolta in aula dei democristiani, i quali, astenendosi, permisero l’abbassamento della soglia di maggioranza a quota 41 [32]. Nella stessa seduta il gruppo Dc denunciò però l’equivoco su cui era nata la giunta minoritaria, presentando una mozione di sfiducia. Tutto ciò accadde quasi contemporaneamente a quanto avveniva a Roma, dove un’analoga mozione di sfiducia, presentata da Nenni contro il governo Fanfani, dimostrava quanto questo “tiro di fuoco incrociato” stesse progressivamente logorando la prospettiva del centrosinistra, tanto a livello nazionale che regionale. Al di là dell’esito scontato di entrambe le mozioni, se la mossa di Nenni aveva il significato di far uscire allo scoperto la Dc – nel corso del dibattito parlamentare, infatti, Moro iniziava a parlare di un necessario “allargamento dell’area democratica” grazie al “richiesto e atteso” concorso del Psi, di cui lamentava ancora i limiti nel processo di autonomia (Malgeri 1988, 255-65) – meno senso aveva la sfiducia al governo siciliano, dato che Corallo aveva fin da principio assunto l’impegno di dimettersi il 31 luglio [33]. È peraltro curioso osservare come la stessa sera Nenni (1982, 185-186) annotasse che a Roma molti tra i democristiani, socialdemocratici e repubblicani lo salutassero con un “arrivederci a ottobre!” e che, proprio per l’evolversi delle vicende siciliane, all’inizio dell’autunno il problema si sarebbe effettivamente ripresentato in altri termini. A conferma dell’improvvisazione della Dc regionale, inoltre, basti osservare che il giorno seguente il capogruppo Di Napoli, promotore della mozione di sfiducia, venne rimosso dall’incarico e sostituito da Barbaro Lo Giudice. [34]

Il secondo obiettivo del governo Corallo era di rimettere in moto l’ordinaria amministrazione. A metà luglio la giunta si impegnò dunque a tranquillizzare i numerosi impiegati cottimisti minacciati dal licenziamento, garantendo la sicurezza del posto di lavoro e dello stipendio. Corallo ebbe peraltro il coraggio di affrontare, per la prima volta, una delle tante “piaghe” della gestione clientelare della Dc, prendendosi la responsabilità di licenziare quasi trecento cottimisti che erano stati abusivamente assunti per scopi elettorali dall’assessore Vincenzo Carollo. Che l’assunzione di personale avventizio in seno agli organi regionali avesse dato luogo a un cospicuo fenomeno di disfunzione rispetto al normale svolgimento dell’attività amministrativa, creando “uffici fantasma” e inconsistenti che non trovavano riscontro nei pochi concorsi banditi, sarebbe stato d’altronde oggetto, nel 1966, delle analisi di Paolo Sylos Labini e dei suoi collaboratori come uno dei tanti “problemi dell’economia siciliana”.

In ossequio al terzo impegno, Corallo contrattò infine con Roma le necessarie garanzie costituzionali, ovvero quelle norme di attuazione dello Statuto che, in caso di un inauspicato prolungarsi della crisi politica, avrebbero reso inevitabile lo scioglimento dell’Assemblea regionale. Non solo era il primo presidente della Regione siciliana a partecipare a una riunione del Consiglio dei ministri, ma riuscì anche a creare attorno al tema una mobilitazione che, se da un lato raggiunse lo scopo di scongiurarne il pericolo e di rendere possibile il proseguimento della legislatura, alla fine si dovette però imbattere nella netta contrapposizione del governo nazionale. Le conclusioni del testo presentato dalla giunta regionale, infatti, furono parzialmente rigettate dal governo, che varò un testo dell’art. 8 dello Statuto che modificava unilateralmente, peggiorandole, le proposte della commissione paritetica [35]. Secondo i socialisti la responsabilità ricadeva ancora una volta sulla Dc, la quale, dopo aver impedito per quattro mesi la costituzione di una giunta, adesso metteva in atto l’ennesima manovra tendente a svuotare l’autonomia siciliana. Corallo denunciò gli arbitri del governo all’Assemblea regionale, nella seduta del 28 luglio, accusando la Dc di aver rigettato sulla sua giunta le responsabilità delle decisioni prese a Roma. “Estremamente significativo” era d’altra parte che l’ordine del giorno proposto dal governo non ricevesse i voti dei democristiani e delle destre, a rivelare la subordinazione della Dc siciliana alla volontà del governo nazionale. Su iniziativa democristiana venne peraltro approvato un emendamento, dove si diceva che, “constatato l’insuccesso dell’azione governativa”, il Consiglio dei ministri aveva solo parzialmente accolto le garanzie formulate in sede regionale [36]. Le norme di attuazione dell’art. 8 dello Statuto, alla fine, furono emanate con il successivo D.P.R. 5 agosto 1961, in cui si affermava che il decreto di scioglimento dell’Assemblea regionale spettava al presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio dei ministri, previa deliberazione delle due Camere. Nel termine di tre mesi dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto di scioglimento, si sarebbero quindi dovute indire nuove elezioni e convocare la nuova assemblea entro novanta giorni dal decreto di indizione dei comizi elettorali [37].

Mantenuto fede a due dei tre impegni, con il terzo che non veniva realizzato per l’opposizione del governo nazionale, Corallo rassegnò le dimissioni, dimostrando quanto fossero ingiustificati gli attacchi e le manovre della Dc. Prima di lasciare, diede ai suoi qualche soddisfazione, rimuovendo dalla Sofis il monarchico Annibale Bianco, per sostituirlo con il direttore generale La Cavera, ben visto dalla sinistra e in particolare dal Pci (Sanfilippo 2008, 126-127). Poiché la coppia Lima-Ciancimino continuava nel frattempo a frapporsi alla nomina di una commissione d’inchiesta sui lavori pubblici [38], Corallo impartì quindi al compagno Filippo Lentini, assessore regionale agli Enti locali, di disporre un’ispezione presso il Comune di Palermo [39]. Come ultimo atto della sua amministrazione, infine, il 1° agosto riunì il comitato esecutivo della Commissione regionale urbanistica, allo scopo di esaminare la strumentazione urbanistica predisposta dal Comune di Palermo in merito al piano regolatore. Nell’occasione, l’architetto Bruno Zevi, segretario generale dell’Istituto nazionale di urbanistica, mosse una dura contestazione al tracciato della cosiddetta “terza via” – una strada larga venticinque metri che, se realizzata, avrebbe ripetuto gli infausti sventramenti degli anni Venti e Trenta nel centro storico – convincendo Corallo ad accogliere la proposta di stralcio dal piano (Cannarozzo 2016, 59-60). Non è certo questa la sede per entrare nel dettaglio della lunga e tormentata vicenda del piano regolatore del capoluogo siciliano, anche se si deve sottolineare che, da questo punto di vista, l’inopportuna caduta del governo Corallo ne avrebbe provocato una battuta d’arresto perché il decreto di approvazione sarebbe giunto solamente l’anno dopo, nel giugno 1962 (Inzerillo 1984, 172-174; Cammarata 2013, 21-23).

La sera delle dimissioni, infine, Corallo illustrò i risultati conseguiti dal suo governo in un comizio in centro città. Dichiarò di aver pestato “molti calli”, e di averlo fatto nella convinzione che le leggi dovessero essere valide per tutti. Rivendicò che il Psi non era ricorso ad assunzioni straordinarie, elargizioni o sostituzioni per immettere propri uomini nei posti di sottogoverno, e di essere intervenuto solamente dove era necessario. Era stata approvata una legge importante come quella sugli appalti delle opere pubbliche, che, se si fosse portata avanti “la volontà politica di applicarla”, avrebbe estirpato “il cancro” della speculazione edilizia e posto fine agli “scandali permanenti” della pubblica amministrazione. Il Psi, concluse, aveva fatto “poco, ma buono”, dimostrando di voler “lasciare il segno” per dire ai siciliani che, anche in Sicilia, era possibile “amministrare bene” [40].

La transizione verso il centrosinistra. Conseguenze regionali e nazionali

La parentesi del governo Corallo si era imposta all’attenzione pubblica per vari aspetti. Diversi erano i commenti non solo negli ambienti politici, ma anche nella maggioranza della popolazione che, nel complesso, aveva giudicato favorevolmente il governo provvisorio, forse perché attratta dall’operato drastico di alcuni provvedimenti come lo scioglimento dei “comitati fantasma”. Per la prima volta, inoltre, un governo di sinistra aveva afferrato il potere in Sicilia e, cogliendo il momento favorevole, non si era fatto sfuggire l’occasione per servirsene come mezzo di propaganda [41]. Convocata l’assemblea regionale nella prima data utile dopo la pausa feriale – durante la quale è utile sottolineare come al funzionario incaricato dell’inchiesta ai lavori pubblici al Comune non era possibile dare esecuzione al mandato e che, per una “strana coincidenza”, c’era stato un furto all’ufficio del piano regolatore proprio quando la notizia aveva preso a circolare [42] –, il dibattito sulle dimissioni si concluse in un’aula nuovamente vuota tra i banchi democristiani [43].

In considerazione dell’evolversi della situazione politica nazionale, che lasciava intravedere un’imminente crisi della maggioranza di convergenza, Moro invitò frattanto D’Angelo a temporeggiare [44]. Tutto lasciava supporre che la giunta Corallo avesse creato le condizioni per lo scioglimento dell’Assemblea e per indire nuove elezioni, quando, il 29 agosto, un accordo segreto tra il segretario Dc e il segretario del Psi siciliano, Salvatore Lauricella, rimescolò le carte ponendo le basi per la costituzione del centrosinistra (Saladino 2015, 91-93). A prendere l’iniziativa fu D’Angelo, che stupiva i socialisti perché, fino a poco prima, s’era dichiarato favorevole a una giunta di centrodestra. Già i primi di settembre Lauricella poté quindi illustrare al comitato regionale del Psi le modalità delle trattative. L’accordo provocò le polemiche della sinistra “carrista” e dello stesso Corallo, perché non solo non era stato raggiunto in base a un concreto programma di sviluppo economico, ma finiva per escludere Milazzo e i cristiano-sociali che, da quel momento, sarebbero divenuti irrilevanti (Nicastro 2014). Per Lauricella e gli “autonomisti”, l’accordo aveva invece molti aspetti positivi, perché non prevedeva alcuna preclusione al Psi di mantenere l’unità sindacale con il Pci e perché dava atto che l’esperimento Corallo era stato utile e avrebbe permesso ai socialisti di non annullarne i risultati. 29 voti contro 21, prevaleva la linea degli autonomisti [45].

Era questa la mossa che si aspettavano a Roma, dove, in seguito alla decisione del Psi siciliano, Moro convocò urgentemente D’Angelo [46]. Raggiunto un accordo di massima, il segretario democristiano comunicò quindi la sua decisione a Malagodi, che, come prevedibile, gli espresse il proprio disappunto facendo presente che i liberali non potevano accettare la formazione di una giunta con i socialisti in Sicilia perché questa sarebbe stata la premessa del centrosinistra nazionale. Fingendo di sminuire l’importanza dell’accordo siciliano, Moro sostenne che l’accordo era dettato esclusivamente dall’impossibilità di giungere allo scioglimento dell’Assemblea regionale per l’opposizione di tutti i gruppi, compresi quelli che prima ne avevano sostenuto lo scioglimento, e perché la misura avrebbe suscitato prevedibili contraccolpi in Sicilia [47]. Scongiurato il campo dalla minaccia liberale (Orsina 2010), D’Angelo poteva così tornare in Sicilia e farsi eleggere primo presidente di una giunta di centrosinistra nella storia della Regione siciliana [48].

Dopo le lunghe e contraddittorie vicissitudini che, per mesi, avevano riempito le cronache politiche e amministrative, l’ultima delle giunte difficili – “la più dura da scorticare”, scriveva Nenni – trovava finalmente la soluzione. Se, sul piano nazionale, la vicenda vedeva sconfitto Malagodi, che della giunta siciliana aveva fatto la “pietra angolare” del suo atteggiamento nei confronti della Dc, indubbiamente era a seguito del successo politico del governo Corallo che la Dc aveva accettato la trattativa coi socialisti fino ad allora sempre rifiutata. La Sicilia, di fatto, dava “uno scossone” alla situazione nazionale, accelerando la scelta verso il centrosinistra [49]. A dare atto a Corallo del suo lavoro “serio e umile”, d’altra parte, era lo stesso D’Angelo allo scambio delle consegne, a Palazzo d’Orleans, quando il neopresidente riconobbe come il precedente governo, seppur provvisorio, avesse contribuito a creare nuovi “rapporti umani” tra democristiani e socialisti [50].

Conclusioni

Da quel momento, sarebbe cominciata una nuova stagione politica. Se, sul piano regionale, dopo il turbolento periodo milazziano l’autonomia sarebbe stata “normalizzata” e l’Assemblea regionale “sgomberata” dai cristiano-sociali (Pumilia 2018, 123), nonostante nell’isola la nascita del centrosinistra non fosse accompagnata da un dibattito paragonabile a quello svolto nel paese, la sua formazione avrebbe avuto forti riflessi sul piano nazionale (Pumilia 1998, 44-48). Un passaggio cruciale fu indubbiamente rappresentato dal cambiamento di posizione della Chiesa. Inizialmente contraria, la gerarchia ecclesiastica, attraverso il cardinale Ruffini, assunse infatti una posizione di “vigile attesa”, lasciando intendere un consenso condizionato alla nuova formula politica. Sebbene il settimanale della curia palermitana avesse specificato che non si trattava di un imprimatur, la scelta venne giustificata come un “male minore” necessario in un contesto emergenziale [51].

Questo consenso permise l’attuazione del centrosinistra, contribuendo a chiudere definitivamente la parentesi milazziana. Non è questa la sede per approfondire le valutazioni contrastanti che negli anni sono state fatte sulla nuova formula politica, che in Sicilia avrebbe innovato la vita sociale ed economica (Saladino 2015), ma anche posto fine alla “battaglia autonomista” e, malgrado le velleità riformiste, non sarebbe riuscita a dare la stabilità politica attesa (Macaluso 1970, 158-162). Anche sul fronte della lotta alla mafia, d’altra parte, se D’Angelo fu stato il primo uomo politico ed esponente di governo siciliano a promuovere provvedimenti e iniziative contro il fenomeno, come quando indicò al Parlamento la necessità dell’istituzione della Commissione d’inchiesta antimafia (Nicastro 2003), il suo mancato scioglimento del Consiglio comunale di Palermo, su cui tanto la federazione socialista si era battuta, alla luce di quanto sarebbe emerso sui rapporti tra mafia e politica nei trent’anni successivi non può non considerarsi un “fallimento”.

La storia del centrosinistra, in ogni caso, fa parte di un altro capitolo della storia siciliana. Poiché la sua nascita ha confermato la peculiarità dell’isola come anticipatrice di eventi e tendenze nazionali, tanto da meritarsi negli anni la definizione di “laboratorio politico” (Giarrizzo 1987, 615-642), l’obiettivo di questo contributo è stato, in definitiva, la ricostruzione di un’esperienza che, seppur breve, ha rappresentato un momento di svolta nella politica siciliana. La capacità del governo Corallo di amministrare nel nome del “bene comune” dimostrò infatti che era possibile “garantire l’ordine costituito” anche in un contesto complesso e difficile come quello siciliano. La sua esperienza non solo chiuse definitivamente i conti con l’era milazziana, ma gettò le basi per la nascita del centrosinistra, influenzando significativamente il panorama politico regionale e nazionale. Questo caso di studio, come gli altri trattati nel dossier, ha quindi offerto significativi spunti di riflessione su come le misure emergenziali possano spesso portare a dei cambiamenti duraturi.

Bibliografia

Abbreviazioni

    • ACS, MI, Gab. Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Gabinetto
    • AILS Archivio Istituto Luigi Sturzo
    • ARS Assemblea regionale siciliana
    • ASDPa Archivio storico diocesano di Palermo
    • ASPa Archivio di Stato di Palermo
    • Pref. Prefettura

Studi

  • Amadore, Nino. 2012. L’eretico. Mimì La Cavera un liberale contro la razza padrona. Soveria Mannelli: Rubbettino.
  • Basile, Pierluigi. 2010. “Per l’Autonomia, contro la partitocrazia. L’autonomismo sicilianista di Silvio Milazzo.” Diacronie. Studi di Storia Contemporanea 2: 1-15. http://www.studistorici.com/2010/07/30/basile_milazzo_dossier_3/
  • Battaglia, Rosario, Michela D’Angelo, e Santi Fedele. 1988. Il milazzismo. La Sicilia nella crisi del centrismo. Roma: Gangemi.
  • Butera, Salvatore. 2003. “Il milazzismo e la crisi dell’autonomia siciliana.” Aggiornamenti sociali 1: 52-59.
  • Cammarata, Valerio. 2013. Architetture e opere pubbliche a Palermo negli anni della ricostruzione 1943-1962. Palermo: Nuova Ipsa Editore.
  • Cannarozzo, Teresa. 2016. Palermo e l’urbanistica sociale di Edoardo Caracciolo. Scritti e piani, 1930-1960. Palermo: Caracol.
  • Cassarà, Vincenzo. 2022. Salvo Lima. L’anello di congiunzione tra mafia e politica (1928-1992). Roma: Aracne.
  • Ciancimino, Giovanni. 2021. I presidenti della Sicilia. Gli inquilini di Palazzo Orléans nella storia dell’Autonomia regionale, in collaborazione con Loredana Passarello. Palermo: Arti grafiche palermitane.
  • De Marco, Vittorio. Sturzo e la Sicilia nel secondo dopoguerra, 1943-1959. Torino: Società editrice internazionale.
  • Di Matteo, Salvo. 1967. Anni roventi. La Sicilia dal 1943 al 1947: cronache di un quinquennio. Palermo: G. Denaro.
  • Giarrizzo, Giuseppe. 1987. “Sicilia oggi (1950-1986).” In “La Sicilia.” Vol. 5 di Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi, a cura di Maurice Aymard e Giuseppe Giarrizzo, 603-696. Torino: Einaudi.
  • –, 1992. Mezzogiorno senza meridionalismo. La Sicilia, lo sviluppo, il potere. Venezia: Marsilio.
  • Grammatico, Dino. 1997. La rivolta siciliana del 1958. Il primo governo Milazzo. Palermo: Sellerio.
  • Hamel, Pasquale. 1984. Da regione a nazione. Storia e cronaca dell’autonomia regionale siciliana, 1947-67. Caltanissetta-Roma: Sciascia.
  • Inzerillo, Salvatore Mario. 1984. Urbanistica e società negli ultimi duecento anni a Palermo. Crescita della città e politica amministrativa dalla ricostruzione al piano del 1962. Palermo: Istituto di urbanistica e pianificazione.
  • La Cavera, Domenico. 1961. Liberali e grande industria nel Mezzogiorno. S.l.: Parenti.
  • Macaluso, Emanuele. 1970. I comunisti e la Sicilia. Roma: Editori riuniti.
  • –, 2003. 50 anni nel Pci, con uno scambio di opinioni tra l’Autore e Paolo Franchi. Soveria Mannelli: Rubbettino.
  • Malgeri, Francesco, a cura di. 1988. “Gli anni di transizione: da Fanfani a Moro, 1954-1962.” Vol. 3 di Storia della Democrazia cristiana. Roma: Cinque Lune.
  • Mangiameli, Rosario. 1987. “La regione in guerra (1943-1950).” In “La Sicilia.” Vol. 5 di Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi, a cura di Maurice Aymard e Giuseppe Giarrizzo, 485-600. Torino: Einaudi.
  • Marino, Giuseppe Carlo. 1979. Storia del separatismo siciliano. 1943-1947. Roma: Editori riuniti.
  • Menighetti, Romolo, e Franco Nicastro. 2000. L’eresia di Milazzo. Crisi del cattolicesimo politico in Sicilia e ruolo del Pci, 1958-1960. Caltanissetta-Roma: Sciascia.
  • Miccichè, Andrea. 2017. La Sicilia e gli anni Cinquanta. Il decennio dell’autonomia. Milano: FrancoAngeli.
  • Nenni, Pietro. 1982. Gli anni del centrosinistra. Diari 1957-1966. Milano: Sugarco.
  • Nicastro, Franco. 2003. Giuseppe D’Angelo. Il democristiano che sfidò la mafia, le mafie e l’Antimafia. Palermo: Ila Palma.
  • –, 2014. L’Uscs in fumo. La fine del milazzismo e dei suoi derivati. Caltanissetta-Roma: Sciascia.
  • Orsina, Giovanni. 2010. L’alternativa liberale. Malagodi e l’opposizione al centrosinistra. Venezia: Marsilio.
  • Passiglia, Enzo. 2006. Sicilia ’58. Nascita e declino del milazzismo e dei cristiano sociali. Palermo: A.crò.po.li.
  • Pignatone, Francesco. 1994. Nella crisi dell’autonomia siciliana e del cattolicesimo politico: testi da L’unione siciliana (1959-1961). San Cataldo: Centro studi Cammarata.
  • Presidenza della Regione siciliana. 1961. Attuazione dello Statuto e interventi dello Stato in Sicilia: cenni sui rapporti tra lo Stato e la Regione. Palermo: Zangara.
  • Pumilia, Calogero. 1998. La Sicilia al tempo della Democrazia Cristiana. Soveria Mannelli: Rubbettino.
  • –, 2018. Partecipazione e cambiamento. Un’(auto)biografia politica della Sicilia. San Cataldo: Centro studi Cammarata.
  • Renda, Francesco. 1999. “Dall’occupazione militare alleata al centrosinistra.” Vol. 3 di Storia della Sicilia dal 1860 al 1970. Palermo: Sellerio.
  • Saladino, Gaspare. 2015. Socialismo in Sicilia. Catania: G. Maimone.
  • Sanfilippo, Elio. 2008. Quando eravamo comunisti. La singolare avventura del Partito comunista in Sicilia. Palermo: Edizioni di passaggio.
  • Santalco, Carmelo. 1993. Quel 15 febbraio a Sala d’Ercole. Palermo: Ila Palma.
  • Sturzo, Luigi. 1999. Carteggi siciliani nel secondo dopoguerra. Corrispondenza con i primi quattro presidenti della Regione siciliana: G. Alessi, F. Restivo, G. La Loggia, S. Milazzo, a cura di Vittorio De Marco. Caltanissetta-Roma: Sciascia.
  • Sylos Labini, Paolo. 1966. Problemi dell’economia siciliana. Milano: Feltrinelli.
  • Spampinato, Alberto. 1979. Operazione Milazzo. Cronaca della rivolta siciliana del 1958: come nacque, a chi giovò, come finì. Palermo: Flaccovio.
  • Stabile, Francesco Michele. 1999. I consoli di Dio. Vescovi e politica in Sicilia, 1953-1963. Caltanissetta-Roma: Sciascia.
  • Togliatti Palmiro. 1965. La questione siciliana, a cura di Francesco Renda. Palermo: Libri siciliani.
  • Totaro, Pierluigi. 2005. “L’azione politica di Aldo Moro per l’autonomia e l’unità della Dc nella crisi del 1960.” Studi storici 2: 437-513.

Note

1. ASDPa, Conferenza episcopale siciliana, Comunicato degli arcivescovi e vescovi di Sicilia, 9 aprile 1959.

2. ACS, MI, Gab. 1957-1960, Situazione politico-amministrativa post-elettorale 1960, b. 400, f. Giunte comunali e provinciali “difficili”, Il prefetto sull’attività del Psi, 18 novembre 1960.

3. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1123, Il prefetto al ministero dell’Interno, 1° febbraio 1961.

4. “Dichiarazione.” Bollettino ecclesiastico palermitano, 1/2 (gennaio-febbraio 1961): 7-8.

5. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1129, Relazione trimestrale dicembre-febbraio, 6 marzo 1961.

6. AILS, Democrazia Cristiana, Direzione nazionale, sc. 35, f. 413, verbale 20 marzo 1961.

7. AILS, Democrazia Cristiana, Segreteria Moro, sc. 137, f. 6, D’Angelo a Moro, 23 marzo 1961.

8. ARS, Resoconti parlamentari, 27 marzo 1961, 447-449.

9. ARS, Resoconti parlamentari, 4 aprile 1961, 451-455.

10. ARS, Resoconti parlamentari, 11 aprile 1961, 457-460.

11. Giornale di Sicilia. 1961. “Sfiducia e scetticismo a Roma per la rinuncia dell’on. Alessi.” 16 aprile 1961.

12. Giornale di Sicilia. 1961. “Governo di coalizione con appoggio esterno dell’Uscs.” 25 aprile 1961.

13. L’ora socialista. 1961. “Non si governa senza maggioranza.” 10 maggio 1961.

14. ARS, Resoconti parlamentari, 17 maggio 1961, 497-499.

15. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1120, ARS, f. governo Corallo, Il questore alla Prefettura, 24 maggio 1961.

16. ARS, Resoconti parlamentari, 25 maggio 1961, 501-506.

17. ARS, Resoconti parlamentari, 26 maggio 1961, 513-518.

18. Pignatone, F. 1961. “Il dibattito sulla crisi all’Assemblea regionale.” L’Unione cristiana sociale, 3 giugno 1961.

19. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1129, Relazione trimestrale marzo-giugno, 6 giugno 1961.

20. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1129, Legione territoriale dei carabinieri, Relazione trimestrale, 6 giugno 1961

21. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1120, ARS, f. governo Corallo, Il questore alla Prefettura, 13 giugno 1961.

22. ARS, Resoconti parlamentari, 14 giugno 1961, 609-613.

23. Avanti!. 1961. “Non si risolve la crisi senza trattare con i socialisti.” 14 giugno 1961.

24. ARS, Resoconti parlamentari, 22 giugno 1961, 619-623.

25. ARS, Resoconti parlamentari, 30 giugno 1961, 631-638.

26. Il Popolo. 1961. “Il Psi riproduce all’assemblea siciliana una soluzione frontista complice il Msi.” 1° luglio 1961.

27. Avanti!. 1961. “È stata la Dc ad eleggere Corallo alla presidenza.” 2 luglio 1961.

28. L’Ora. 1961. “Dc alla sbarra.” 1° luglio 1961.

29. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1120, ARS, f. governo Corallo, Il questore alla Prefettura, 3 luglio 1961.

30. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1120, ARS, f. governo Corallo, Il questore alla Prefettura, 6 luglio 1961.

31. Ciuni, R. [anno] “Il sacco di Palermo.” L’Ora, 23 giugno [anno? 1961?]; L’Ora. 1961. “Storia segreta di un Piano regolatore.” 1° luglio 1961.

32. ARS, Resoconti parlamentari, 5 luglio 1961, 671-675.

33. ARS, Resoconti parlamentari, 11-12 luglio, 741-811.

34. Il Popolo. 1961. “Lo Giudice capogruppo della Dc a Palermo.” 13 luglio 1961.

35. Avanti!. 1961. “Il governo non concede le garanzie alla Sicilia.” 21 luglio 1961.

36. ARS, Resoconti parlamentari, 29 luglio 1961, 863-921.

37. D.P.R. 5 agosto 1961, n. 784, “Norme di attuazione dell’art. 8 dello Statuto della Regione siciliana.”

38. L’Ora. 1961. “Insabbiata la discussione sulle speculazioni edilizie.” 24 luglio 1961.

39. ACS, MI, Gab. 1944-1966, Amministrazioni comunali, b. 94, f. Palermo, Decreto n. 1575 dell’assessore regionale per l’Amministrazione civile della Regione siciliana, 30 luglio 1961.

40. Giornale di Sicilia. 1961. “Comizio politico di Corallo a Palermo.” 2 agosto 1961.

41. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1129, Relazione trimestrale della Questura, giugno-agosto, 31 agosto 1961.

42. L’Ora. 1961. “Ostacolata l’inchiesta sui lavori pubblici.” 12 agosto 1961.

43. Lo Bianco, V. 1961. “Corallo si è dimesso, riaperta la crisi.” Avanti!, 24 agosto 1961.

44. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1120, ARS, f. governo Corallo, Il questore alla Prefettura, 26 agosto 1961.

45. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1120, ARS, f. governo Corallo, Il questore alla Prefettura, 3 settembre 1961.

46. ASPa, Pref., Gab. 1961-65, b. 1120, ARS, f. governo Corallo, Il questore alla Prefettura, 5 settembre 1961.

47. Avanti!. 1961. “Il Pli minaccia la crisi per la Sicilia.” 7 settembre 1961.

48. ARS, Resoconti parlamentari, 7 settembre 1961, 971-972.

49. Nenni, P. 1961. “Uno scossone.” Avanti!, 10 settembre 1961.

50. Il Popolo. 1961. “La giunta regionale eletta ieri a Palermo.” 10 settembre 1961.

51. Voce Cattolica. 1961 “I cattolici rimangono in attesa.” 17 settembre 1961.