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Christopher Heaney, “Empires of the Dead”

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Christopher Heaney, Empires of the Dead. Inca Mummies and the Peruvian Ancestors of American Anthropology, Oxford: Oxford University Press, 2023. 380 pp.

Empires of the Dead narra storie di defunti straordinariamente vitali e longevi. Muovendosi a cavallo tra antropologia e storia della scienza, Christopher Heaney segue gli itinerari dei corpi defunti di indigeni andini che nel corso di cinque secoli sono stati variamente concepiti come antenati degni di cura, “mummie” che rivaleggiavano con quelle egizie, crani dai quali dedurre tassonomie razziali o testimonianze dello splendore delle società precoloniali. Essiccati, vestiti, nutriti, sotterrati, dissotterrati, saccheggiati, spogliati, scarnificati e misurati, quei corpi - passando nelle mani di inca, spagnoli, peruviani, statunitensi ed europei - sono divenuti dei veri e propri antenati fondatori del nazionalismo peruviano e dell’antropologia, americana e non solo. E ancora oggi quegli stessi corpi si rivelano straordinariamente “buoni da pensare” in un’epoca in cui le sempre più pressanti esigenze decoloniali impongono di guardare criticamente alle modalità di studio ed esposizione dei resti umani nei musei.

Il volume si divide in tre parti, ognuna composta da tre capitoli. La prima parte (“Opening, 1525-1795”), suddivisa nei capitoli “Curing Incas”, “Embalming Incas” e “Mummifying Incas”, copre i tre secoli dell’età coloniale mettendo a confronto le diverse attitudini che andini e spagnoli ebbero nei confronti dei defunti. Per i primi, i loro corpi accuratamente preservati e abbigliati costituivano antenati da curare, nutrire e trasportare sul territorio affinché propiziassero la fertilità di campi e armenti. Nella fase di apogeo dell’impero inca queste pratiche vennero poi trasformate in vere e proprie tecnologie del dominio, quando i corpi dei nemici venivano distrutti o “imprigionati” nella capitale imperiale, mentre quelli dei signori inca defunti erano conservati nei loro palazzi e riveriti come fondatori di potenti casati nobiliari.

All’indomani della conquista gli spagnoli osservarono queste pratiche e, mutuando in certa misura le concezioni andine, iniziarono non solo a requisire, seppellire e distruggere i corpi degli inca defunti ma anche ad esporli in virtù del loro sorprendente stato di conservazione. Questa precoce musealizzazione, che neutralizzava il ruolo politico dei corpi e suscitava speculazioni su presunte tecniche indigene di imbalsamazione, dette avvio a un’intensa e straordinariamente durevole attività estrattiva finalizzata alla raccolta di corpi, non di rado condotta da indigeni in cerca di risorse economiche utili a navigare i tempi difficili della colonia. Fu così che nel corso del XVIII secolo la raccolta di quelle che ormai venivano concepite come “mummie peruviane” divenne parte di un progetto comparativo di storia universale fortemente gerarchizzante, nel quale le competenze tecniche dei peruviani erano collocate al di sotto di quelle degli egizi e, inutile dirlo, degli europei.

La seconda parte (“Exporting: 1780-1893”), suddivisa nei capitoli “Trading Incas”, “Mismeasuring Incas” e “Mining Incas”, insegue invece la circolazione globale dei corpi andini, innescata sia da studiosi europei che da quei creoli – bianchi nati in America – che furono protagonisti dell’Indipendenza del Perù. Per questi ultimi, infatti, l’adesione a un paradigma scientifico di studio delle mummie permetteva, da un lato, di superare l’arretratezza culturale e scientifica del mondo coloniale, dall’altro, di glorificare il passato indigeno precoloniale come sorgente della storia patria. Appropriandosi così del passato e dei corpi indigeni, gli intellettuali creoli dettero vita a un nuovo progetto scientifico nazionalistico nell’ambito del quale lo scavo delle mummie assunse il carattere di un’attività patriottica. Inutile dire che il lavoro materiale di scavo era ancora demandato a indigeni in cerca di qualche guadagno, che non di rado si cautelavano dai potenziali effetti negativi di quell’atto mediante preghiere e offerte di foglie di coca. La disponibilità all’esportazione di mummie da parte degli intellettuali peruviani si sposò magnificamente con gli appetiti degli studiosi stranieri, tanto che già attorno al 1850 mummie peruviane erano esposte in USA, Cile, Australia, Russia, Francia, Danimarca, Svezia, Spagna, Germania e anche in Italia: nel 1859 giunse infatti al Museo civico di storia naturale di Milano la prima mummia inviata da Antonio Raimondi.

Fu proprio nei musei ottocenteschi che presero piede nuove pratiche, pregne di catastrofiche conseguenze. Sin dagli anni ’30, infatti, Samuel George Morton aveva iniziato a decapitare e scarnificare i defunti andini in modo da ottenere crani per la collezione che andava formando a Philadelphia. E fu sulla base della misurazione di quei crani – dislocati dallo spazio della storia a quello della biologia – che nel suo Crania americana (1839) Morton postulò la poligenesi di quelle che individuava come cinque diverse razze umane. Alla morte di quello che è considerato uno dei “padri” non solo del razzismo scientifico ma anche dell’antropologia americana, la popolazione più numerosa nella sua collezione di 867 crani era quella andina, rappresentata da ben 201 individui. Come efficacemente sintetizza Heaney, “l’antropologia americanista nacque con un piede nelle sepolture andine, estendendo alle popolazioni indigene di tutto il mondo quella violenza e quella scienza che erano nate con le requisizioni spagnole degli antenati degli inca”. Paradossalmente, anche i creoli che cercarono di opporsi alle tesi razziste e suprematiste di Morton lo fecero raccogliendo e misurando crani, contestando quindi le sue tesi ma non i suoi metodi.

Nell’ultimo quarto del XIX secolo, poi, altri eventi contribuirono a nuove “raccolte” e a nuove forme espositive. Nel 1875 venne scoperta la grande necropoli di Ancón, poco a nord di Lima, ben presto trasformata nel più grande giacimento di “mummie” delle Americhe, mentre nel 1876 si tenne a Philadelphia la prima di una serie di esposizioni internazionali culminata nel 1893 con la celebre World’s Columbian Exposition di Chicago. La combinazione tra i due fattori fu davvero esplosiva: molte delle migliaia di mummie che in Perù archeologi professionisti, amatori e semplici turisti dissotterravano senza posa con la più o meno volontaria collaborazione di manodopera indigena furono infatti esposte nelle esibizioni all’estero, al punto da spingere un visitatore statunitense a chiedersi se “quella repubblica producesse solo mummie”. La vera novità stava però nelle modalità di esposizione: non più sfasciate per svelare gli effetti della mummificazione o scarnificate per trarne crani misurabili, ora le mummie venivano esposte intatte e accompagnate dai loro corredi. Un’antropologia americana sempre più culturalista – dove spiccavano ormai nomi come quelli di Frederick Ward Putnam e Franz Boas – le guardava ora come testimonianze di pratiche culturali degne di studio, così come lo erano anche le cerimonie che gli indigeni conducevano nel momento dello scavo delle mummie, trasformate così da ingenue “superstizioni” in preziosi dati etnografici.

La terza parte (“Healing, 1863-1965”), suddivisa nei capitoli “Trepanning Incas”, “Decapitating Incas” e “The three burials of Julio César Tello”), muove dallo studio della trapanazione cranica effettuata per scopi terapeutici nell’antico mondo andino, dove si curavano in questo modo i traumi causati dall’impiego di mazze e fionde come armi da guerra. Pur avendo ancora il “nudo cranio” piuttosto che l’intera “mummia” come oggetto di analisi, lo studio della trapanazione costituì un importante spartiacque nella storia degli studi. Capace di superare le tassonomie razzializzanti e di valorizzare pratiche culturali che rivelavano uno stupefacente tasso di successo, tale studio fu infatti in gran parte realizzato dal più grande archeologo indigeno della storia peruviana, Julio César Tello, vero e proprio protagonista della terza parte del volume. Formatosi ad Harvard, Tello dovette affrontare gli atteggiamenti razzisti dei colleghi bianchi così come la disonesta competizione del celebre antropologo Ales Hrdlička dello Smithsonian. Paradossalmente, pur essendo stato il fondatore di tre importanti musei in Perù, nonché – anche grazie al suo ruolo di deputato – il campione della difesa del patrimonio archeologico nazionale, Tello riuscì nell’impresa di rivendicare le raffinate capacità mediche dei suoi antenati inviando centinaia di crani trapanati ad Harvard. A lui poi si dovette la scoperta della necropoli di Paracas, dove nel solo 1928 scavò ben 429 “mummie” avvolte in quelli che sono considerati tra i più straordinari tessuti dell’America precoloniale. E fu proprio esponendo quei defunti nei musei da lui fondati che Tello riuscì a rivendicare la dignità delle società andine precoloniali e a dar vita a un’antropologia peruviana dichiaratamente antirazzista. Alla fine della sua straordinaria carriera, Julio César Tello fu sepolto nel Museo Nazionale di Archeologia e Antropologia da lui fondato, come un antenato tra gli antenati.

Nell’epilogo del volume, Heaney sottolinea il fondamentale ruolo che i corpi defunti degli indigeni andini hanno avuto nel dar forma a una storia che, passando attraverso fasi coloniali, imperiali e nazionalistiche, ha portato alla nascita dell’antropologia americanista così come allo sviluppo di pratiche museali poi diffusesi in tutto il pianeta. Molti degli attori di questa storia sono stati agenti del colonialismo, ma il raffinato testo di Heaney mostra chiaramente come vi abbiano preso parte anche indigeni, patrioti e studiosi peruviani, immersi in un mondo dove diventa difficile tracciare una netta distinzione tra “buoni” e “cattivi”, tra pratiche “giuste” e “ingiuste”. Certo, non mancano i personaggi ripugnanti come Morton e Hrdlička, ma nella maggior parte dei casi le storie raccontate in questo libro suscitano più riflessioni che giudizi netti e decisi. E questa caratteristica lo rende un testo prezioso in un mondo come quello odierno, dove la restituzione di manufatti e di resti umani conservati nei musei è diventato un tema di dibattito pubblico dove spesso prevale la necessità di una decisa presa di posizione. La complessità delle vicende narrate in Empires of the Dead - dove sin dall’epoca precoloniale i defunti furono conservati ed esibiti, per servire poi da oggetti di studio al servizio delle cause più diverse - impone di evitare la ricerca di soluzioni troppo standardizzate, adatte ad ogni contesto e ad ogni epoca. E se a prima vista quella trattata da Heaney potrebbe sembrarci una storia lontana, è forse utile ricordare che “mummie” peruviane costellano i musei di città come Torino, Varallo Sesia, Reggio Emilia, Modena, Firenze, Pisa, Roma, Napoli e Sassari. Gli antenati andini sono insomma così vicini che la loro storia è inevitabilmente anche la nostra.