L’uso dell’immagine quale strumento di propaganda religiosa e politica vanta origini molto antiche e anche la Chiesa, fin dai suoi esordi, intuì la rilevante funzione della pittura, biblia degli illetterati, nell’educazione del volgo. Per l’epoca medievale un caso significativo è costituito dal ciclo di affreschi nella Basilica superiore di Assisi, compiuto da Giotto intorno al 1290 e divenuto fin da subito modello e punto di riferimento per i pittori di Francesco. Basandosi sulla Legenda maior di Bonaventura, Giotto interpretò, infatti, l’episodio delle stimmate in chiave innovativa: rese visibile la ferita al petto di Francesco e promosse così «quella identificazione di Francesco con Cristo che Bonaventura aveva solo suggerito»[1] e che i teologi francescani della fine del secolo XIII accetteranno poi pienamente.
Nel periodo comunale si cominciò però a fare un uso più sistematico e cosciente dell’immagine anche al di fuori della Chiesa e gli organi detentori del potere commissionarono allora stemmi, emblemi, scene militari ed episodi civici a fini politici e didattici[2]. L’immagine dipinta divenne veicolo di messaggi ideologici e forma di propaganda politica per costruire consensi, avvalorare passaggi dinastici e promuovere la buona gestione cittadina[3]. Roberto d’Angiò, ad esempio, sovrano molto attento a trasmettere di sé un’immagine di re saggio, virtuoso e cavalleresco, si avvalse della celebre opera di Simone Martini, il San Ludovico di Tolosa (1317), proprio nella delicata questione della successione al trono[4]. Il sapiente uso dell’immagine contribuì non poco all’ascesa di Cola di Rienzo[5], e molto è stato scritto sul Buon Governo di Ambrogio Lorenzetti (1338-39), grandioso «manifesto di propaganda politica», affrescato nel Palazzo Pubblico di Siena su mandato dei Nove, allora al governo della città, per rassicurare sui benefici effetti della reggenza, a monito di quanti volevano sostituirli[6]. All’apparato decorativo infatti, sia interno a un palazzo pubblico, come nel caso senese, che in spazi esterni più visibili, era sovente affidato il compito di trasmettere un messaggio politico esplicito e di presa diretta sul popolo[7].
Il Reliquiario di san Petronio
Tuttavia non fu solo “l’arte maggiore” a divenire veicolo e trasmissione di idee politiche e religiose e talvolta anche l’oreficeria fu un medium utilizzato per scopi affatto simili[8]. Un esempio emblematico è offerto allora da alcuni reliquiari tardo gotici (secc. XIV-XV) eseguiti a Bologna proprio con un preciso intento propagandistico, dietro cui è possibile ravvisare una manifesta volontà di affermazione di potere.È ben noto che la storia di Bologna tra Tre e Quattrocento fu caratterizzata da continui avvicendamenti politici: dal Comune si passò alle varie signorie, prima ci fu quella di Bertrando del Poggetto (1327-1334) poi vennero i Pepoli (Taddeo e i figli, 1337-1350), infine i Visconti lombardi (1350-1361), e nuovamente i vicari pontifici avignonesi (1361-1376), per ritornare al Comune (1376) e ancora sotto la Santa Sede in una ripetuta alternanza, che si risolse solo nel ’400 inoltrato con la più stabile signoria dei Bentivoglio[9]. Bologna quindi, a lungo vessata da signorie forestiere, interessate più ad inasprimenti fiscali che all’abbellimento cittadino, conobbe solo pochi, rari momenti di splendore edilizio e artistico e certo il maggiore di questi fu circoscritto agli anni 1376-1401 mentre la città era retta dal governo del Popolo e delle Arti, il cosiddetto «secondo Comune».
L’affermarsi della signoria del Popolo e delle Arti e la ripresa degli ideali comunali, dopo lunghi decenni di avverse signorie, determinarono la provvida occasione per la diffusione del culto di san Petronio, vescovo di Bologna nel lontano V secolo, ma promosso solo ora a protector et defensor civitatis, in quanto baluardo e modello di quelle virtù civiche su cui voleva porre le basi il regime comunale allora in formazione. L’importanza del culto del santo fu registrata, così, fin dalla redazione dei nuovi statuti cittadini del 1376 che dedicarono un’intera rubrica alla celebrazione della solennità di Petronio, fissata il 4 ottobre, e segnarono l’incipit della volontà di promuovere la devozione al santo, culminata con la costruzione della grande basilica in suo onore. Il 7 giugno del 1390 venne allora posta la prima pietra, «la bella preda lavorada»[10] di quella chiesa fortemente voluta dal Comune, a simbolo ed espressione della sua libertà. L’edificio, che ancora sorge imponente su Piazza Maggiore in stretta simbiosi coi palazzi comunali (Palazzo del Podestà e Palazzo Comunale), rappresenta infatti, come ha sottolineato Mario Fanti, «una delle più evidenti espressioni di fede, di arte, di tensione politica e di autoidentificazione collettiva»[11]. La basilica comunale per antonomasia, costruita a spese della città e del contado di Bologna con introiti derivanti da provvedimenti ufficiali del governo cittadino, fu di fatto l’incarnazione del sentimento religioso e dell’orgoglio civico bolognese e Petronio divenne, più che mai, la bandiera del libero Comune.
Gli statuti del 1376, oltre a decretare la solennità del santo, stabilirono poi che l’importo della cera offerta in tale giorno, venisse destinato alla realizzazione di un reliquiario per custodire il capo del patrono «quod fiat unum solemnem tabernaculum pro capite beati Petronii ornatu de argento, extimationis ad minus ducentorum ducatorum auri»[12]. Il reliquiario, in effetti, fu terminato quattro anni più tardi, nel 1380, a detta dell’iscrizione posta lungo la base del nodo: ad onore del santo ma anche del Comune e delle Arti, committenti e fautrici dell’opera, che vollero essere raffigurate nei 56 scudi smaltati sul piede e sulla cupola della teca[13]. Autore di questo capolavoro custodito, ancor oggi, nel Museo della chiesa di Santo Stefano fu l’orafo bolognese Iacopodetto Roseto che recenti studi hanno portato a identificare con Iacopo di Alberto Azzi, fratello del noto miniatore Stefano di Alberto[14].
Nella realizzazione del reliquiario il Roseto preferì la struttura a tabernacolo, una tipologia molto diffusa oltralpe ma con meno attestazioni in Italia dove venne invece privilegiata la versione del busto parlante. Probabilmente la scelta di una struttura architettonica circolare fu motivata dall’esigenza di portare il reliquiario in processione, nella celebrazione annuale del santo, evento che prevedeva un contenitore maneggevole e solenne e al contempo adeguato a rendere visibili e contemplabili il capo e le storie di Petronio ai fedeli disposti lungo il percorso processionale. Il reliquiario in argento dorato, ha una forma architettonica con uno zoccolo polilobato su cui sono inseriti gli stemmi delle Arti sovrastati da una cornice e da otto placchette d’argento a smalto traslucido con le storie del santo intercalate dagli stemmi della città di Bologna e dai gigli di Francia. Al di sopra degli smalti la lamina è decorata con figure fantastiche incise dal bulino, le drôleries medievali, su cui si innesta il fusto evidenziato da un bottone centrale a base di tempietto ottagonale con archi a tutto sesto che accolgono otto figure di santi: tra questi si identificano chiaramente Petronio, Ambrogio, Procolo, Floriano, Pietro e Stefano mentre i due restanti potrebbero essere Francesco, come suggerirebbe la caratteristica veste a saio, e infine san Domenico o san Paolo, gli altri due tradizionali santi protettori di Bologna. Il fusto sorregge la preziosa teca, che custodiva un tempo il capo del santo; la statuetta apicale di san Petronio, con la città di Bologna sulla mano sinistra, culmina il manufatto.
L’intera struttura sembra richiamare con enfasi il mausoleo petroniano nella chiesa di Santo Stefano (dove era la tomba del santo), il cui impianto ottagonale torna ripetutamente nel reliquiario
sia nella sezione ottagonale del piede che nel nodo, nella teca e ancora negli otto episodi della vita del vescovo sullo zoccolo. Le storie di san Petronio si susseguono con un andamento antiorario
infatti, seguendo l’ordine degli smalti e l’identificazione dei soggetti proposti da Franco Faranda[15], si ha inizialmente la
Partenza di Petronio da Costantinopoli, poi il Sogno di Papa Celestino, l’Elezione a vescovo di Petronio, l’Ingresso a Bologna, il Miracolo dell’operaio
caduto durante la costruzione della Santa Gerusalemme, la Benedizione delle croci cittadine, il Miracolo del cavaliere di Capua e la Concessione del Privilegio
Teodosiano.
Le storie sono impaginate con una chiara scansione temporale dettata dalla silloge delle due principali fonti agiografiche su Petronio, la Vita sancti Petronii, scritta in latino da un
monaco bolognese di Santo Stefano sullo scorcio del XII secolo e la seguente redazione in volgare, compilata quasi cento anni dopo. Ma nel reliquiario la leggenda risulta arricchita anche da altre
fonti e da una tradizione orale allora in via di codificazione. Le agiografie, seppur con qualche differenza[16],raccontavano infatti
che Petronio, cognato dell’imperatore di Costantinopoli Teodosio II, era stato mandato da questi a Roma per chiedere provvedimenti a papa Celestino I in merito a una pericolosa eresia che si stava
diffondendo. Nello stesso momento una piccola delegazione di bolognesi si era recata dal pontefice per invocare l’elezione del successore alla cattedra episcopale del defunto vescovo Felice e la
notte precedente l’arrivo delle due ambascerie, san Pietro, apparso in sogno a Celestino, aveva suggerito il nome di Petronio per l’episcopato bolognese. Avvenuta la nomina il vescovo aveva fatto
il suo ingresso in una città mal ridotta e completamente da ricostruire in seguito alla distruzione ordinata da Teodosio I. Petronio si era allora
recato a Costantinopoli per reperire i fondi necessari alla riedificazione della città e alla costruzione di nuove chiese (la Santa Gerusalemme) e, oltre a questi, aveva ottenuto da Teodosio II il
privilegio per Bologna di allargare il circuito murario, di amministrarsi tramite un governo autonomo e, soprattutto, di essere l’unica sede dell’Università… il famoso privilegio conosciuto come il
«falso Teodosiano» [17]. Nella vita in volgare il vescovo è ormai il paladino di
Bologna, ricostruttore della città, promotore della sua libertà e artefice della fortuna dello Studio: Petronio è il patrono indiscusso dei bolognesi.
Il reliquiario quindi, capolavoro di oreficeria ma anche di scultura, architettura e pittura, fu il medium dal profondo valore artistico a cui venne affidato il compito di divulgare, in
immagine, la narrazione della vita del patrono. La lucidità dell’iconografo, architetto spirituale dell’opera e la perizia del Roseto, mirabile esecutore del progetto, si esprimo in una perfetta
sintesi della vita del santo, che sottolinea i passaggi più incisivi della virtus petroniana. Il racconto è condotto in otto lastre quadrangolari - più grandi e visibili rispetto alle
tradizionali formelle polilobate - e le storie si dipanano con un ritmo narrativo vivace e intenso sullo sfondo di una Bologna tardo trecentesca dove svettano torri merlate ed edifici
goticheggianti. L’opera si presenta come un testo narrativo armonizzato da sintesi stilistiche debitrici della miniatura e della pittura dei maestri bolognesi del ’300 ma al contempo è foriero di
nuovi modelli.
L’iconografia suggerita trova infatti puntuali riprese in episodi figurativi di inizio ’400, come le storie del santo affrescate nella quarta cappella a sinistra in San Petronio, la famosa cappella
Bolognini, dipinte su volere del proprietario, il ricco mercante di seta Bartolomeo Bolognini. Qui le scene proposte coincidono con quelle del reliquiario solo in sei casi su nove e il filo
conduttore del ciclo è l’operato di Petronio (l’attività edilizia, i miracoli e l’acquisto di reliquie), nell’intento di legittimare il tempio civico e le azioni cittadine, come ha giustamente
osservato Ilka Kloten[18].
E forse, è un’ipotesi, il reliquiario del santo ispirò anche l’architetto Antonio di Vincenzo nella formulazione del basamento della chiesa dedicata al patrono; l’andamento mistilineo costituito da
punte e lobi convessi alternati del piede del manufatto torna infatti puntuale nei pilastri d’angolo della facciata di San Petronio. Aggiungiamo così un ulteriore tassello al mosaico dei debiti e
delle offerte artistiche racchiuse nel microcosmo del tabernacolo e appare ancora più evidente che questi oggetti, troppo spesso bollati come arte minore, fossero in realtà arte tout
court. Non a caso, allora, proprio a un reliquiario venne affidata la codificazione dell’iconografia petroniana e l’opera divenne il passaggio obbligato per gli artisti del tempo e le
generazioni a seguire nella divulgazione del culto del santo. Il reliquiario rappresentò, di fatto, il primo tangibile segno dell’epifania di Petronio, l’oggetto mistico da mostrare ai fedeli e al
contempo lo strumento ideale per veicolare gli ideali rilanciati dal «secondo Comune», poiché avere una devozione comune aiutava i bolognesi a sentirsi parte integrante dell’esercito che si
opponeva a quanti minacciavano la neonata libertà comunale.
Il Reliquiario di san Domenico
Sempre alla maestria di Iacopo Roseto e a una volontà “propagandistica” della committenza, si riconduce un’altra insigne opera bolognese custodita nella chiesa di San Domenico: il Reliquiario del capo di san Domenico. Un’iscrizione lungo le cornici del basamento ligneo su cui poggia il reliquiario dichiara che il manufatto fu voluto dal cardinale Matteo Orsini su istanza di papa Benedetto XI e del Senato di Bologna, per onorare il santo predicatore nell’anno 1383. Gli studi di padre Venturino Alce[19] hanno però ormai da tempo dimostrato la falsità dell’iscrizione, aggiunta, con ogni probabilità, durante il primo restauro dell’opera eseguito da Padre Ignazio Danti nel 1577[20]. Questi potrebbe essere stato l’autore del falso nell’intento di ricondurre l’importante commissione ai due principali esponenti dell’ordine domenicano e, forse, l’idea degli illustri personaggi gli venne suggerita dal fatto che tra i numerosi pezzi di oreficeria fusi per realizzare l’imponente manufatto, vi furono proprio un calice d’oro donato da papa Benedetto e un’Incoronazione della beata Vergine d’argento offerta dal cardinale Orsini: una connessione, pertanto, seppure ideale, tra i due religiosi e il reliquiario[21]. I più accreditati promotori dell’impresa sembrano invece i frati domenicani Bartolomeus de Bissis detto anche d. Strata e Guido de Guezi raffigurati ai lati della scala che sorregge il santo nello smalto con la Gloria di san Domenico. I due predicatori infatti, maestri di Teologia nello Studio bolognese e documentati dal 1379 al 1383[22], per il prestigio che ricoprivano sia all’interno dell’Ordine che in ambito pubblico, possono essere stati il tramite tra il convento e le autorità cittadine.
Identificati dunque i portavoce di una volontà corale di realizzare il Reliquiario di san Domenico, resta tuttavia da chiarire meglio in quale congiuntura politica o devozionale maturò
l’idea di commissionare un nuovo contenitore in cui traslare l’insigne reliquia già custodita, sarà bene ricordarlo, nella mirabile tomba duecentesca di Nicola Pisano. Diversamente dal caso di san
Petronio, quindi, non vigeva l’urgenza di creare ex novo un tabernacolo per il capo di Domenico.
Per cercare un’eventuale spiegazione è perciò necessario riflettere un istante sull’importanza che aveva ricoperto, fino ad allora, il culto domenicano. Senza stare a sottolineare la centralità
religiosa e civica del convento dei predicatori nella Bologna del Due e Trecento, basterà menzionare che san Domenico era il santo a cui gli statuti cittadini (1335, 1352 e 1357) avevano sempre
accordato maggior rilievo, riservando un’apposita rubrica ai festeggiamenti della solennità De celebratione festivitatum beatorum Dominici et Petronii[23]. La rubrica era dedicata infatti, principalmente, alla regolamentazione della festa di Domenico - in questa occasione le autorità del Comune e le Arti andavano in
processione a visitare la chiesa recando un’offerta in cera - mentre l’accenno a san Petronio era alquanto marginale[24]. Tale
“supremazia” di Domenico rimase indiscussa fino al 1376 quando, come si è visto, i nuovi statuti portarono in auge la figura di san Petronio. L’ascesa del culto petroniano, emblema del
nuovo regime comunale, finì per riflettersi sugli altri comprotettori di Bologna che in questo momento «non sembrano resistere all’exploit petroniano»[25].
È in tale circostanza che si può ipotizzare una decisa volontà domenicana di riaffermare l’importanza del fondatore ed è in quest’ottica, perciò, che va letta la commissione del reliquiario del
capo. Il manufatto doveva essere simile a quello di Petronio ma più sontuoso e ricco quasi a testimoniare che il Frate non cedeva il passo al Vescovo; e osservando le due opere si può riconoscere
che le direttive vennero perfettamente interpretate. Il Comune tuttavia, non assunse interamente l’onere finanziario dell’impresa e per farvi fronte i predicatori furono costretti alla fusione di
quasi tremila pezzi posseduti dal convento di cui dà nota padre Alce[26]. Tra il 14 e il 15 febbraio del 1383 il capo del santo venne
trasferito nel nuovo tabernacolo: ancora una volta l’oreficeria diventò uno strumento per riaffermare l’importanza e il culto di un santo e, soprattutto, della chiesa che ne conservava le reliquie.
Il Reliquiario di san Tommaso d’Aquino
La chiesa di San Domenico custodisce poi un’altra grande opera di oreficeria, il Reliquiario di san Tommaso d’Aquino, strettamente correlata a quella del Roseto. Ideato per contenere un dito del santo, il Reliquiario di san Tommaso d’Aquino[27] è costituito, infatti, da una complessa struttura a tabernacolo in argento fuso, cesellato, inciso, dorato e con smalti che sembra ricalcare, con mirabile affinità, in misure più ridotte ma con eguale, se non addirittura maggiore preziosismo, il Reliquiario di san Domenico. Su una base ad esagono mistilineo si innalza il piede sovrastato da uno zoccolo con formelle rettangolari entro cui sono inseriti gli smalti traslucidi di un’accesa e variopinta cromia con elementi vegetali (bellissimi fiori), animali fantastici e la firma frammentaria dell’autore in lettere gotiche: [opu]S IACOBI MICH[elis]. Tra i tralci del verziere, inciso a colpi di punteruolo sul basamento, si muovono putti giocosi, un giovinetto imberbe e un cigno in un’atmosfera da gotico internazionale, che si dipana armoniosa sullo zoccolo e offre un elegante sostengo a sei diaconi portastemma con lo scudo del cardinale spagnolo Alfonso Carrillo.
L’opera, di un accentuato goticismo ascensionale, rivela l’acuta perizia del suo artefice da identificare con l’orafo Iacobus Michelis Boni[28], rettore della società degli Orefici (nel 1395, 1401, 1405), massaro nel 1410 e iscritto, insieme a cinque figli, nella matricola di quell’anno[29]. Forse l’orafo si formò proprio accanto al grande Iacopo Roseto ed è certo che la lezione del maestro è fortemente ripresa nel Reliquiario di san
Tommaso sia nella struttura del manufatto che nelle sculture del nodo, tuttavia Iacopo di Michele interpreta gli insegnamenti del Roseto con una maggiore propensione al decorativismo, grazie
alla policromia degli smalti e alla lucentezza delle pietre incastonate nel tabernacolo. L’opera, dunque, segue il modello del capo di san Domenico ma si distingue per una sua ricercata preziosità
e denuncia di essere il frutto maturato da una committenza di registro superiore; tale, infatti fu il proposito del cardinale Alfonso Carrillo.
Figlio di Gomez Carrillo, governatore di Giovanni II di Castiglia e nipote del famoso Egidio Albornoz, Alfonso venne nominato cardinale col titolo di Sant’Eustachio dall’antipapa Benedetto XIII
(1409). Durante il Concilio di Costanza prese però posizione a favore di Martino V che, una volta eletto papa, gli confermò il titolo cardinalizio nel 1418 e lo inviò a Bologna in qualità di legato
(1420). Rimasto in città per un breve lasso di tempo, alternando la residenza urbana a quella di Castel San Pietro, a causa dell’epidemia di peste che infuriava in quegli anni nel capoluogo
emiliano[30], fu infine nominato vicario ad Avignone da Eugenio IV (1423). Morì il 14 marzo 1434 a Basilea, dove si era recato per il
Concilio e venne sepolto a Osma, in Spagna[31].
Se dunque la legazione del Carrillo a Bologna fu circoscritta ad appena un triennio (entrò in città il 25 agosto 1420 e la lasciò, definitivamente, il 26 agosto 1423)[32] questi furono anni importanti per rinsaldare il legame tra Bologna e la Santa Sede, o meglio, per far accettare senza ulteriori moti e sollevazioni, il
dominio pontificio in città. Bologna, infatti, prima dell’arrivo del legato, era stata teatro di continui avvicendamenti al vertice del comando da cui aveva saputo trarre vantaggio il cardinale
Baldassarre Cossa (1403) che, approfittando dello scisma in cui era coinvolta la Santa Sede e fortemente intenzionato a consolidare la sua posizione, trasformò il vicariato sulla città in una sorta
di signoria personale. Il trasferimento della Corte pontificia a Bologna, deciso da papa Alessandro V nel 1410, non fece altro che agevolare l’ascesa del Cossa. Bologna si trovò infatti,
improvvisamente, a essere luogo di incontri e negoziati tra cardinali, signori e ambasciatori, e il peso pubblico del cardinale crebbe in tal modo che quando Alessandro V morì, il conclave
riunitosi in città lo elesse papa con il nome di Giovanni XXIII (elezione poi invalidata dal Concilio di Costanza nel 1415). Essere sede della Curia papale portò qualche iniziale beneficio alla
città, se non altro per il rinnovato fermento culturale e artistico, stimolato dai contatti con ambasciatori e signori in visita al pontefice, tuttavia i metodi di governo spesso dispotici e
l’opprimente imposizione fiscale voluta dal Cossa, finirono per fomentare un generale malcontento, che a pochi mesi dal suo trasferimento a Roma, sfociò in un’insurrezione popolare (1411).
L’offensiva del papa, guidata dalle truppe di Carlo Malatesta, fu immediata e nel 1412 Bologna fu nuovamente sotto la Chiesa. Gli anni seguenti furono caratterizzati da nuove rivolte, scontri e
riconciliazioni, con un continuo avvicendarsi al potere dei Bentivoglio e dei Canetoli -leaderdelle due fazionisotto cui si schieravano le famiglie più influenti del tempo - e pressanti ingerenze
della Santa Sede e dei Visconti. Per un breve periodo la città fu retta nuovamente dal regime comunale del Popolo e delle Arti, guidato dai Notai, che si opposero con strenua resistenza alle
richieste di Martino V di rientrare in possesso del capoluogo (9 novembre 1418). Ma nel 1420, oltre all’esercito papale, arrivò in città anche la scomunica (25 marzo) e il 16 giugno venne tolta
l’acqua del Reno, indispensabile per l’approvvigionamento idrico, così che alle Arti non rimase che accogliere, di buon grado, e consegnare le chiavi della città al cardinale «misser Gabriele
[Condulmer di Venezia, cardinale di Siena]» (21 luglio 1420)[33].
La resa della città era stata, quindi, tutt’altro che pacifica e il pontefice era ben consapevole dell’esigenza di dover inviare un personaggio diplomatico che avrebbe contribuito a rendere più
accettabile ai Bolognesi la sottomissione. La scelta ricadde allora su Alfonso Carrillo, leale a Martino V già durante il Concilio di Costanza, e discendente da una casata ben conosciuta e
apprezzata a Bologna. Vivi, infatti, erano ancora il ricordo e i meriti di Egidio Albornoz e del nipote Gomez (padre di Alfonso), braccio destro dello
zio nella lotta contro Bernabò Visconti e artefice della vittoria di San Ruffillo (1361), tanto che quando venne chiamato dall’Albornoz ad Ancona, i bolognesi gli concessero la cittadinanza in
segno di riconoscenza. La decisione di Martino V fu alquanto oculata e Alfonso Carrillo, all’indomani dell’ingresso in città, nell’intento di far risultare meno gravoso e più condiviso il suo
dominio, cominciò una politica di riavvicinamento alle Arti e alla corporazione fra esse più potente, i Notai. In quest’ottica ci sembra, dunque, di poter leggere la decisione del legato di avviare
la ristrutturazione del Palazzo dei Notai e di prendere lì dimora, come ricorda il cronista Pietro di Mattiolo «[all’interno del palazzo] in la sala de sovra feno la camera de monsignore»
(1422)[34]. Tale operazione sanciva un’alleanza con la corporazione e, al contempo, garantiva al cardinale un controllo diretto su
quell’Arte che avrebbe potuto fomentare una nuova insurrezione.
Un ulteriore indizio del legame tra il cardinale e la corporazione si può poi ripercorrere seguendo la sottile linea rossa che congiunge il Carrillo ai Notai e al culto di san Tommaso d’Aquino, di
cui il nostro reliquiario è chiara testimonianza. Lo storico erudito locale Cherubino Ghirardacci[35] riporta la notizia che nel 1422
i Notai ottennero da frate Leonardo, professore di Sacra Teologia e generale dell’ordine dei Domenicani, la licenza di prendere san Tommaso d’Aquino quale protettore della corporazione[36]. Così, a partire da questa data, alcune annotazioni nel libro dei conti della società dei Notai registrano le spese per l’acquisto dei
ceri da offrire alla chiesa di San Domenico nell’occorrenza della festività di san Tommaso d’Aquino[37] e gli Statuti della
Società del 1459 glorificano il nuovo patrono raffigurandolo col libro e la palma entro l’iniziale G (Gloriosissimi) della Prefactio[38].
L’aspirazione dei Notai - una categoria professionale acculturata, che fondava l’esercizio del mestiere sullo studio - ad eleggere Tommaso, il santo colto per eccellenza, quale protettore
dell’Arte, è di facile comprensione ma non è altrettanto chiaro perché questo fatto avvenne solamente nel 1422. Forse tale desiderio era stato espresso già in anni precedenti ma solo
l’intermediazione del Carrillo consentì ai Notai di vedere accolta siffatta richiesta. D’altronde il cardinale poteva far leva sul legame di lunga data che stringeva i Domenicani agli Albornoz,
consolidato, tra l’altro, dal peso avuto da Egidio nella fondazione della Facoltà Teologica, e quindi non gli fu difficile riuscire nell’intento. E
forse, per suggellare l’importanza dell’evento e fare gesto gradito sia ai Domenicani e che ai Notai, lo spagnolo commissionò il bel reliquiario a custodia ed esaltazione della preziosa reliquia del venerato santo. Ben si comprende, allora, perché il modello tipologico seguito dall’orafo fu quello del Roseto “domenicano”: l’affinità formale
avvicinava i due reliquiari e, con essi, le aspirazioni e gli animi dei protagonisti di questa vicenda.
Il Reliquiario di san Floriano
L’ultimo grande reliquiario a tabernacolo di metà ’400, in cui è possibile ravvisare una precisa volontà di riaffermare il potere del committente, è il Reliquiario di san Floriano conservato nel Museo della chiesa di Santo Stefano[39]. L’opera, frutto di un assemblaggio avvenuto nel XVI secolo, poggia su una massiccia base esagonale in cui sono inseriti tre nielli: il primo reca lo stemma del Comune di Bologna e la data indicativa del restauro 1526, il secondo lo stemma gentilizio e il titolo DOMINUS HERCULES CARDINALIS SANCTE AGATHE e il terzo l’emblema del convento di Santo Stefano.Un’iscrizione all’attaccatura del fusto conferma che il restauro del pezzo avvenne mentre il cardinale Ercole Rangoni era abate commendatario di Santo Stefano: HER[cules] CAR[dinalis] de RANGON[e] ABBAS MDXXVI. Il fusto termina con un dado contenente l’iscrizione dedicatoria [40] da cui si apprende che il reliquiario, dedicato a san Floriano, fu eseguito nel 1451, ai tempi della reggenza dell’abate Giacomo Battagli. Autore dell’opera fu l’orafo Matteo dei Tederici[41]. Per cercare di cogliere le motivazioni alla base della committenza artistica varrà però la pena dedicare una breve digressione alla figura e al culto di san Floriano, titolare del reliquiario.
La prima testimonianza del culto di san Floriano a Bologna, comprotettore della città fino al 1964[42], risale alla Vita in volgare di san Petronio di tardo Duecento (1270-80 ca.)[43], secondo cui il patrono cittadino, recatosi in pellegrinaggio in Palestina, e acquistate numerose reliquie, le avrebbe trasportate a Bologna nella chiesa di Santo Stefano e ivi nascoste in luoghi segreti per proteggerle da profanazioni e saccheggi: tra esse vi furono quelle dei martiri di Gaza e del loro capo Floriano. Dalla successiva Passio sanctorum Floriani et sociorum (XIV sec.)[44] si apprende poi che Floriano era il comandante di sessanta soldati, catturati a Gaza dai Saraceni e tenuti in misere condizioni di prigionia perché si rifiutavano di abiurare la fede cristiana. Ignaro dei fatti, il santo si trovava a Gerusalemme quando, informato da un angelo, apparve miracolosamente a Gaza per recare conforto e consolazione ai suoi soldati; dieci di questi, con a capo Callinico, furono poi trasferiti a Gerusalemme e qui decapitati, gli altri cinquanta subirono analogo martirio dopo un mese. Floriano li seppellì ad Eleuteropoli e per questa azione e per il suo rifiuto di apostatare, il governatore Ambro lo condannò a morte[45].
Fin qui la leggenda e la storia del santo il cui culto nacque verso la fine del XIII sec. e si sviluppò in un contesto storico ben preciso per la città di Bologna, per assumere solo in seguito connotazioni più specifiche. Una devozione che va letta in stretta concomitanza col fiorire del culto di san Petronio, quando ormai stava maturando il sentimento civico cittadino. In più occasioni Antonio Ivan Pini sottolineò che «i Bolognesi riconobbero come loro specifici protettori due santi dalla storicità molto incerta e in ogni caso “inventati” al culto pubblico solo dalla metà del XII secolo, ma da subito assurti a vessilliferi di messaggi politici tra loro contrapposti»[46], il primo, Petronio, campione del monastero di Santo Stefano (fondato dal vescovo verso la fine del X sec.), radunò sotto la sua bandiera l’anima locale e civica del Comune, guelfa e filogregoriana, il secondo, Procolo, baluardo del monastero di San Procolo (fondato da un discendente dei conti di Spoleto nell’XI sec.) riunì lo spirito universalistico dello Studio, la fazione ghibellina e antigregoriana.
Lo scontro - continuava lo studioso - si prolungò per oltre due secoli quando san Petronio, il santo che vince, sbaragliò per sempre san Procolo, il santo che perde, divenendo il patrono indiscusso dei Bolognesi che vollero erigergli l’immensa basilica su Piazza Maggiore[47].
Ma nel corso di questi due secoli l’opposizione dei due culti (e soprattutto dei due monasteri) fu serrata e non priva di colpi di mano, tanto che in momenti di crisi, quando la città reclamava un “santo guerriero” che la difendesse, il favore concesso a Procolo e, di riflesso, al suo monastero era maggiore rispetto a quello accordato a Santo Stefano. Così, quando alla fine del XIII secolo la guerra contro il marchese d’Este, che dominava su Ferrara, Modena e Reggio ed aspirava ad insignorirsi di Bologna, riportò in auge la figura di Procolo, i monaci di Santo Stefano risposero sullo stesso campo promuovendo la figura di Floriano, il martire guerriero sacrificato per la fede, portavoce di quelle virtù morali e di quella forza fisica che Bologna, minacciata e assediata, invocava. Una riprova che l’ascesa di Floriano iniziò proprio in tale frangente è offerta dal Ghirardacci che scrive di come il Comune «cominciò a festare il giorno di san Floriano» per decreto del 1298[48] e, inoltre, dal fatto che tra le festività contemplate nello statuto degli Orefici del 1299, rientra anche quella di san Floriano[49] e nel 1300 compare in quello dei Bisilieri[50]. La devozione del santo incontrò un immediato favore popolare e per celebrare degnamente la sua solennità, nel dicembre del 1312 venne dato mandato di pagamento di 24 lire all’orafo Manno di Bandino da Siena «pro tabernaculo argenteo pro festo sancti Floriani»[51]. Ma il vero trionfo di Floriano arrivò dopo il 1376, quando venne instaurato il «governo del Popolo e delle Arti» ed eletto Petronio a patrono cittadino.
L’epifania del santo fu allora completa: la sua solennità inserita, definitivamente, nel calendario festivo, la sua presenza divenne costante nei proemi statutari e, infine, la sua immagine trovò una precisa codificazione negli statuti e nella pittura del tempo, oltre che nella scultura e nell’oreficeria[52]. Una fortuna perpetuata nei secoli, a fasi alterne e talvolta spartita con l’antagonista Procolo - ritratto con un’iconografia simile e quindi, a volte, confuso con Floriano - un favore che durò fino al 1964, quando il nuovo calendario del cardinale Lercaro ne abolì, definitivamente, la memoria.
Tornando ora al reliquiario del santo custodito nel complesso stefaniano, che si è detto essere opera di assemblaggio (il fusto e il tabernacolo del 1451, la base del 1526), si possono aggiungere
ulteriori considerazioni per delinearne meglio la vicenda storica. In un articolo del 1914 Francesco Filippini pubblicava il documento con il pagamento a Manno di Bandino, arrivando alla
conclusione che il reliquiario nel Museo dovesse essere opera del maestro senese[53]. Tralasciando questa proposta, insostenibile da
un punto di vista stilistico, resta tuttavia aperta la questione del tabernacolo trecentesco. Che fosse pervenuto fino al ’400, lo apprendiamo con certezza da un inventario inedito del monastero di
Santo Stefano del 19 settembre 1402, in cui ve ne è ancora menzione[54]. Ed è presumibilmente lo stesso reliquiario denunciato durante
la visita pastorale del cardinale di Bologna Nicolò Albergati nel 1417 «caput beati Floriani cum tabernaculo aureo»[55]. Sembra,
quindi, che il reliquiario di Manno fosse presente e in buono stato conservativo (non è definito fractum) almeno fino al 1417; perché, dunque, commissionarne uno nuovo nel 1451? Era forse
stato danneggiato irrimediabilmente o era scomparso in seguito a uno dei temuti e condannati furta sacra? Certo nessuna di queste congetture è da scartare ma un fatto storico di poco
anteriore la metà del secolo ci porta a formulare un’ipotesi alternativa.
Gina Fasoli, parlando delle reliquie conservate in Santo Stefano, e citando fonti più antiche, riporta che tra la fine del XIV secolo e gli inizi del XV, cioè in coincidenza con lo Scisma
d’Occidente, si diffuse la credenza che il corpo di san Pietro non fosse a Roma bensì a Bologna nel complesso di Santo Stefano, nella chiesa ora intitolata ai Santi Vitale e Agricola. «Era stata -
suppone la Fasoli - un’abile manovra dei monaci per riparare i danni morali e materiali provocati al loro monastero dalla costruzione della chiesa di San Petronio»[56]. La nuova devozione si affermò rapidamente, apportando notevoli introiti al convento, fino a quando papa Eugenio IV, di passaggio a Bologna (1437-38) prima di
recarsi al concilio di Ferrara, ordinò la cessazione del culto di Simon Pietro e la chiusura della chiesa, facendone murare le porte. Nel 1447 poi, il nuovo papa Tommaso Parentucelli (Niccolò V),
che era stato vescovo di Bologna fra il 1444 e il 1447, diede il monastero in commenda e sanzionò così per Santo Stefano l’inizio di un momento di crisi conclusasi solo con la venuta dei Celestini
nel 1493.
Intorno al 1450, dunque, i monaci si trovavano ad affrontare le pesanti conseguenze per aver sfidato Roma e dovevano, di certo, trovare nuova linfa per rinvigorire la devozione al monastero e ai
santi ivi venerati. È in questo momento, pensiamo, che conobbe una nuova enfasi il culto di san Floriano - il santo “naturalizzato” bolognese e in stretto, indiscutibile e indissolubile connubio
con san Petronio - ed è in tale contesto, quindi, di maggiore solennità dedicata al santo che ben si potrebbe spiegare l’esecuzione del reliquiario del 1451, più imponente e maestoso del
precedente, da mostrare ai fedeli accorsi a Santo Stefano. La rinnovata devozione al santo e il frequente uso liturgico del tabernacolo dovettero però portare alla sua consunzione e resero
necessario l’intervento del 1526 e la sostituzione della base del reliquiario il quale, ancora oggi, è memoria della passata venerazione per un patrono cittadino quasi sconosciuto ai bolognesi.
Dopo avere preso in esame questi significativi esempi di reliquiari bolognesi, si può dunque concludere che oreficeria e potere si intrecciarono spesso nella Bologna tardo medievale: i preziosi
manufatti costituirono infatti veri e propri oggetti di didattica spirituale e furono lo strumento scelto dai committenti, sia laici che religiosi, per manifestare la volontà politica, oltre che
devozionale, di rilanciare il culto dei santi dedicatari e, con esso, l’importanza delle sedi che ne custodivano le sacre spoglie.
Note
[1] Il presente articolo sintetizza parte degli studi sull’oreficeria bolognese tardo medioevale pubblicati in maniera più ampia e diffusa
in R. Pini, Oreficeria e potere a Bologna nei secoli XIV e XV, Bologna, Clueb, 2007.
C. Frugoni, Francesco e l’invenzione delle stimmate, Torino, Einaudi,1993, 210-216: 211.
[2] Una sintesi sull’uso dell’immagine politica è offerto da M. Bacci, Artisti, corti, comuni, in: E. Castelnuovo, G. Sergi (eds.), Arti e storia nel Medioevo. 1 Tempi Spazi Istituzioni, Torino, Einaudi, 2002, 631-700.
[3] Sulla propaganda politica cfr. Istituto storico della Resistenza in Piemonte (ed.), I linguaggi della propaganda nel Medioevo, Milano, 1991.
[4] A. Barbero, La propaganda di Roberto d’Angiò re di Napoli (1309-1343), in: P. Cammarosano (ed.) Le forme della propaganda politica nel Due e nel Trecento, Roma, École Française de Rome, 1994, 111-131.
[5] P. Sonnay, La politique artistique de Cola de Rienzo (1313-1354), «Revue de l’art», 55 (1982), 35-43.
[6] Sul messaggio di propaganda insito negli affreschi cfr. C. Frugoni, Una lontana città. Sentimenti e immagini nel Medioevo, Torino, Einaudi, 1983, 136-210; M.M. Donato, La «bellissima invettiva»: immagini e idee nella Sala della Pace, in: E. Castelnuovo (ed.), Ambrogio Lorenzetti. Il Buon Governo, Milano, Electa, 1995, 23-41; Ead., Buon Governo. Una lettura, «Accademia dei Rozzi», 23 (2005), 7-20.
[7] Sul tema cfr. H. Belting, Malerei und Stadtkultur in der Dantezeit. Die Argumentation der Bilder, Muenchen, Hirmer, 1989; M.M. Donato, Immagini e iscrizioni nell’arte ‘politica’ fra Tre e Quattrocento, in: ‘Visibile parlare’. Le scritture esposte nei volgari italiani dal Medioevo al Rinascimento, Atti del Convegno internazionale, Cassino, Edizioni scientifiche italiane, 1992.
[8] Per una valenza politica insita anche nel Reliquiario di San Galgano, cfr. E. Cioni Liserani, Il reliquiario di San Galgano: contributo alla storia dell’oreficeria e dell’iconografia, Firenze, Spes, 2005.
[9] Per un’ampia analisi dei fatti storici di questo periodo cfr. O. Capitani (ed.). Storia di Bologna,vol. 2: Storia di Bologna nel Medioevo, Bologna, Bononia University Press, 2007.
[10] P. Di Mattiolo, Cronaca bolognese, a cura di C. Ricci, Bologna 1885, rist. an. Bologna, Tamari, 1969, 22-24.
[11] M. Fanti, La basilica di S. Petronio nella storia religiosa e civile della città, in: M. Fanti, G. Lorenzoni, A.M. Matteucci, R. Roli (eds.), La Basilica di San Petronio in Bologna, Cinisello Balsamo, Silvana, 1983-84, I: 9-40: 9.
[12] Cfr. M. Fanti, La fabbrica di S. Petronio in Bologna dal XIV al XX secolo. Storia di una istituzione, Roma, Herder, 1980, 31-32.
[13] Per la bibliografia sul reliquiario cfr. G. Pizzi, Jacopo Roseto orafo, «Culta Bononia», III (1971), 200-219; D. Trento, Tracciato per l’oreficeria a Bologna: reliquiari e paramenti liturgici dal 1372 al 1451, in: R. D’Amico, R. Grandi (eds.), Il tramonto del Medioevo a Bologna. Il cantiere di San Petronio, Bologna, Nuova Alfa Editoriale, 1987, 231-253; F. Faranda, Il Reliquiario del capo di S. Petronio, in: Id. (ed.), Iacopo Roseto e il suo tempo. Il restauro del reliquiario di San Petronio, Forlì, Filograf, 1992, 57-118.
[14] R. Pini, Oreficeria e potere a Bologna nei secoli XIV e XV, Bologna, Clueb, 2007, 66 e passim.
[15] F. Faranda, Il reliquiario del capo di S. Petronio, cit., 87.
[16] Al riguardo cfr. M. Corti, Vita di S. Petronio, disp. CCLX della «Scelta di curiosità letterarie inedite o rare dal secolo XIII al XIX», Bologna, Tamari, 1962; M. Fanti, La fabbrica di S. Petronio in Bologna dal XIV al XX secolo cit.; M. Fanti, San Petronio patrono di Bologna, in: R. D’Amico, C. De Angelis, M. Fanti, P. Foschi, E. Fregni, O. Mischiati (eds.), Sesto Centenario di Fondazione della Basilica di San Petronio 1390-1990, Bologna, 1990, 31-35; A.M. Orselli, L’immaginario religioso della città medievale, Ravenna,Lapucci Edizioni del Girasole, 1985, 41-51 e 283-343; A.I. Pini, Città, Chiesa e culti civici in Bologna medievale, Bologna, Clueb, 1999, 251-279.
[17] Per le problematiche inerenti al Falso Teodosiano cfr. A.I. Pini, Federico II, lo Studio di Bologna e il Falso Teodosiano, in: Federico II e Bologna, Deputazione di Storia patria – Documenti e studi XXVII, 1996, 27-60.
[18] I. Kloten, La fortuna di S. Petronio: il patrono della città e la politica delle immagini, in: G. Perini (ed.), Il luogo e il ruolo della città di Bologna tra Europa Continentale e Mediterranea, Bologna, Nuova Alfa, 1992, 87-101, 96-97.
[19] V. Alce, Il reliquiario del capo di san Domenico, «Culta Bononia», III (1971), 3-45.
[20] Ivi, 18 e passim.
[21] Per l’elenco dei pezzi fusi cfr. ivi, 14-15, n. 15.
[22] Ivi, 14.
[23] Nello Statuto del 1335, libro III, rubr. 97, cc. 103 v-104; Statuto del 1352, libro III, rubr. 53, c. 53; Statuto del 1357, libr. III, rubr. 61, c. 54. Cfr. A.L. Trombetti Budriesi, V. Braidi (eds.), Per l’edizione degli Statuti del Comune di Bologna (secoli XIV-XV). I Rubricari, Bologna, La Fotocromo Emiliana, 1995.
[24] Su questo cfr. M. Fanti, La fabbrica di S. Petronio in Bologna dal XIV al XX secolo cit., 27-28.
[25] Ivi, 33.
[26] I pezzi utilizzati furono oltre 2946, cfr. V. Alce, Il reliquiario del capo di san Domenico, cit., 11.
[27] Misura cm 90x45, è stato restaurato da Giovanni Morigi nel 2002.
[28] La proposta di identificazione è in D. Trento, Tracciato per l’oreficeria a Bologna cit., 241.
[29] Cfr. R. Pini, Oreficeria e potere a Bologna nei secoli XIV e XV cit., 87-88.
[30] Ci fu l’epidemia del 1410, quella del 1418 e quella molto virulenta che comparve nel 1423 e durò fino al 1425, cfr. O. Corradi, Annali delle epidemie occorso in Italia dalle prime memorie fino al 1850, Bologna, Gamberini e Parmeggiani, 1865, 255-57, 265.
[31] Per le notizie biografiche di Alfonso Carrillo cfr. C. Berton, Dictionnaire des cardinaux contenent des notions generales sur le cardinalat, Paris 1857, rist. an. Michigan, Ann Arbor UMI, 2003, 634.
[32] P. Di Mattiolo, Cronaca bolognese cit.,313, 342.
[33] Ivi, 307.
[34] Ivi, 332-333.
[35] C. Ghirardacci, Historia di Bologna, Bologna 1596, rist. an. Sala Bolognese (BO), Forni Editore, 1973, II: 640-641.
[36] Prima di tale data i santi patroni dell’Arte erano i Quattro Evangelisti in quanto scribi.
[37] Società dei Notai, in Archivio di Stato di Bologna [d’ora in poi: ASBo], libro 101, c. 151v (1421); 156r (1423); 165r (1424).
[38] Società dei Notai, Statuti, in ASBo, reg. 7, c. 3. Per la miniatura cfr. M. Medica, Miniatura e committenza: il caso delle corporazioni, in: M. Medica (ed.), Haec sunt statuta. Le corporazioni medievali nelle miniature bolognesi, Savignano sul Panaro, Litografia F.G., 1999, scheda 31.
[39] Il manufatto in argento e rame con smalti e nielli misura cm 120x60.
[40] Per il commento e la proposta di lettura delle abbreviazioni, cfr. G. Pizzi, Jacopo Roseto orafo cit., 212-213.
[41] R. Pini, Oreficeria e potere a Bologna nei secoli XIV e XV cit., 92-93.
[42] Cfr. calendario liturgico del cardinale Lercaro.
[43] Cfr. nota 18.
[44] Per l’edizione cfr. I. Delehaye, Passio Sanctorum sexaginta martyrum, «Analecta Bollandiana», XXIII (1904), 289-307, 303-307.
[45] Nella Passio il numero dei martiri è sessanta ma a Bologna si afferma il culto di Floriano e i Quaranta Martiri di Gaza. Per questo e per le altre incongruenze legate al culto di Floriano rimando all’articolo di prossima pubblicazione, R. Pini, Ascesa, trionfo e oblio di un patrono cittadino. San Floriano di Bologna nella storia e nell’iconografia, «Atti e Memorie della Deputazione di Storia Patria per le Province di Romagna» (2007), in corso di stampa.
[46] I diversi saggi sull’argomento sono stati raccolti in A.I. Pini, Città, Chiesa e culti civici in Bologna medievale cit. Per la citazione vedi p. 252.
[47] Ivi, 252-253.
[48] C. Ghirardacci, Historia di Bologna cit., I: 364.
[49] Statuto degli Orefici 1299, in ASBo, Capitano del Popolo, Società d’Arti e Armi, b. IX bis, rubr. XLIII.
[50] Statuto dei Bisilieri 1300, in ASBo, Capitano del Popolo, Società d’Arti e Armi, b. IV, rubr. IX.
[51] Documento del 15 dicembre 1312, in F. Filippini, Il reliquiario di S. Floriano, «L’Archiginnasio», 1914, 187.
[52] La schedatura e il commento delle opere raffiguranti san Floriano è in R. Pini, Ascesa, trionfo e oblio di un patrono cittadino cit.
[53] F. Filippini, Il reliquiario di san Floriano cit., 187.
[54] Rogito di Rolando Castellani, in ASBo, Archivio Notarile, busta 7/1, filza 1, doc. 4.
[55] Ivi, Filza 19, doc. 132, c. 5r.
[56] G. Fasoli, Reliquie e reliquiari nella Chiesa di Santo Stefano a Bologna, «Atti della Accademia delle Scienze dell’Istituto di Bologna», cl. Scienze Morali, Memorie, LXXXI (1981-82), 5-31, 17 e passim.