«L’assunto di questo libro è che i fatti del fascismo siano perlomeno altrettanto indicativi delle sue parole» (p.12): è questa la chiave di lettura proposta in uno dei più recenti contributi al dibattito sul fascismo, opera dello storico americano Robert Paxton. Un assunto quasi assiomatico, che richiama alla memoria, sebbene senza citarla, la celebre affermazione di Angelo Tasca, secondo cui «definire il fascismo è anzitutto scriverne la storia»; e che tuttavia svela un approccio che vorrebbe porsi in (parziale) controtendenza rispetto agli ultimi sviluppi della riflessione sul tema.
A partire dagli anni Novanta, storici, sociologi e politologi hanno mostrato un rinnovato interesse per la dimensione internazionale del fascismo. Seguendo Emilio Gentile, tra i nuovi sforzi interpretativi, volti a fornire definizioni generali del fascismo, si possono distinguere almeno due principali declinazioni di un minimum comune alle singole esperienze nazionali [1]. La prima chiama in causa essenzialmente la dimensione ideologica: sulla scia delle pionieristiche riflessioni di George Mosse e di quelle più controverse di Zeev Sternhell, alcuni studiosi - tra i quali si sono distinti, per maggior sistematicità, lo storico delle idee Roger Griffin e il politologo Roger Eatwell - hanno attribuito a un’ideologia eclettica, ma «palingenetica» e «olistico-nazionale», il carattere di elemento unificante dei diversi fascismi. La seconda - condivisa fra gli altri da Juan Linz, da Stanley Payne, e dallo stesso Gentile - conduce invece a definizioni tipologiche multidimensionali, che cercano di includere, accanto a quelli ideologici, anche gli aspetti organizzativi, istituzionali e stilistici dei fascismi.
Da parte sua, Paxton prende le distanze da entrambe queste prospettive: non certo negando la dimensione internazionale del fascismo, che anzi viene presentato come la «principale innovazione politica del XX secolo» (p.5); bensì dichiarando la propria perplessità per gli approcci volti a delineare un minimum fascista, e quindi mettendo in discussione il presunto «nuovo consenso» storiografico che si sarebbe formato sulla visione idealtipica del fenomeno.
In primo luogo, fin dal titolo scelto per la traduzione italiana – mutuato dall’edizione francese (Le fascisme en action), così da apparire, caso piuttosto singolare, più esplicito del titolo originale (The Anatomy of Fascism) –, nella sua sintesi risulta privilegiata l’osservazione del fascismo in azione, ovvero della prassi più che del corpo teorico fascista, degli «atti» più che delle «parole». L’autore non sottovaluta l’importanza dell’ideologia nel processo di affermazione dei fascismi, ma la ritiene una delle sue componenti e non quella principale, con un ruolo che di volta in volta ha assunto un’influenza più o meno rilevante, a seconda delle fasi e delle condizioni storiche. Tanto più che il rapporto tra dottrina e fascismo gli appare segnato da un’ambiguità di fondo: per gli stessi capi fascisti, «prima veniva il potere, poi la dottrina»; per cui «a contare non era tanto la ponderata adesione quanto lo zelo indiscusso dei fedeli» (p.20). Esprimendo una valutazione pressoché antitetica rispetto a quella di Eatwell, ma in linea con le considerazioni di Gentile e di Mosse sul fascismo come «stato d’animo» o «atteggiamento verso la vita» [2], Paxton riduce al minimo l’influsso dei fattori razionali per spiegare l’adesione al fascismo, ritenendo quest’ultima «una faccenda più di stomaco che di testa» ed elencando una serie di «passioni mobilitanti» (pp.45-46).
In secondo luogo, lo storico americano ritiene che anche le interpretazioni multidimensionali siano viziate da un’eccessiva staticità e dalla tendenza a isolare i fascismi dagli ambiti socio-politici in cui essi si manifestarono. Solo dedicando una pari attenzione ad alleati e complici è invece possibile comprendere i successi o le sconfitte dei singoli movimenti fascisti. Tra i fattori decisivi per la loro affermazione, dunque, vanno annoverati anche (o soprattutto) uno stato di crisi politica tale da indurre le locali élites conservatrici a cooperare con i fascisti, e la corrispondente disponibilità dei fascisti ad accettare un «processo di normalizzazione» come presupposto di un «compromesso autoritario» (pp.105-116). Ne deriva che solo dopo l’ascesa al potere, consentita dalle «malaugurate scelte di un pugno di alti esponenti della classe dirigente» tradizionale (p.129), i fascismi avviarono l’effettiva «conquista del potere», con modalità sistematicamente illegali. E ne deriva inoltre che il fascismo fu essenzialmente un processo, un fenomeno mutevole, in evoluzione, né statico, né monolitico. Piuttosto che procedere a una compilazione enciclopedica delle sue varie forme, e prima ancora di proporne una definizione, risulta di conseguenza fondamentale, nell’ottica di Paxton, osservare come i fascismi si comportarono e si trasformarono nell’interazione con le rispettive società, scandendone la storia in cinque fasi [paxton link 6.doc]: 1) nascita dei movimenti; 2) radicamento nel sistema politico; 3) ascesa al potere; 4) esercizio del potere; 5) radicalizzazione o entropia come opzioni finali.
A ognuno di questi cinque stadi è dedicato un capitolo, in cui l’autore affronta - sulla base di un’ampia conoscenza della letteratura specialistica - i nodi interpretativi cruciali relativi alla fase in esame. Per il periodo delle origini, il tema dei precedenti culturali e intellettuali che resero «pensabile» il fascismo. Per la tappa del radicamento, i peculiari presupposti politici, sociali ed economici che favorirono o ostacolarono l’affermazione dei singoli movimenti. Per la fase di avvicinamento al potere, la natura della crisi che permise solo ai fascismi italiano e tedesco di accedere al governo. Per il capitolo sui due regimi, la questione del loro sistema di potere tendenzialmente totalitario, ma oscillante tra monocrazia e policrazia, coesione e tensioni interne, coercizione e consenso, e in ultima analisi funzionante come un «epossidico», un amalgama di due agenti diversissimi quali il dinamismo fascista e l’ordine conservatore (p.162). Per l’ultima deriva, infine, la dicotomia tra gli impulsi alla radicalizzazione - presenti in forme più contraddittorie nel fascismo italiano e più estreme nel nazionalsocialismo, fino all’apice rappresentato dalla «soluzione finale» - e i processi di «normalizzazione» - propri di regimi parafascisti come la Spagna di Franco o il Portogallo di Salazar -, che dimostra come il fascismo sia stato un «fenomeno destabilizzante» (p.188), condannato o all’autodistruzione o al ripiegamento su modelli di autoritarismo tradizionale.
L’inesorabilità di tale epilogo, tuttavia, non implica che l’esperienza fascista vada circoscritta esclusivamente a uno spazio e a un’epoca determinati, ovvero all’Europa nel periodo tra le due guerre mondiali. Diversamente da chi ha interpretato il fascismo come il prodotto irripetibile di una crisi specifica (per esempio Ernst Nolte, Renzo De Felice, o Stanley Payne), per Paxton l’unico requisito imprescindibile al suo sviluppo sembra essere la presenza di sistemi democratici deboli o fallimentari, per cui tentazioni fasciste possono essere individuate anche fuori dal continente europeo e/o dopo il 1945. Senza, ben inteso, la necessità di una totale conformità ideologica, organizzativa, o istituzionale, con il «fascismo classico». Così, il penultimo capitolo è riservato a una rapida carrellata su movimenti e regimi che hanno manifestato, o tuttora manifestano, ascendenze fasciste - più sul piano dello stile, a dir il vero, che non su quello dei programmi o degli interessi socio-politici. Fino a includere, sebbene con una certa cautela, recenti forme di integralismo religioso; per cui sarebbero approssimabili al fascismo - «suprema ironia», chiosa l’autore - pure alcune correnti della destra israeliana.
È solo al termine di questo percorso che lo storico americano arriva a formulare una propria definizione del fascismo, che vorrebbe essere applicabile a ogni fase della sua evoluzione:
forma di condotta politica caratterizzata da un’ossessiva ansia di declino, umiliazione e patita ingiustizia nazionale e da un compensativo culto dell’unità, della forza e della purezza, in cui un partito di massa di devoti militanti nazionalisti, agendo in scomoda ma efficace collaborazione con le tradizionali classi dirigenti, abbandona le libertà democratiche e persegue con redentoria violenza, svincolato da qualsiasi laccio morale o giuridico, obiettivi di epurazione interna e di espansione territoriale. (p. 241)
Ed è forse proprio questa pagina conclusiva la meno convincente del libro. Non tanto perché la formula di Paxton non apporta sostanziali novità rispetto ad altre definizioni (se non per il riferimento alla «collaborazione con le tradizionali classi dirigenti» come elemento costitutivo della «condotta politica» fascista). Quanto, piuttosto, perché anche il suo modello di generic fascism - che a ben vedere risulta riferibile solo ai casi italiano e tedesco - non sembra risolvere il problema alla base di tutte le definizioni del fascismo, cioè la difficoltà di comprendere in un’unica istantanea un fenomeno connotato da gradi di sviluppo differenti. Rimane invece molto più stimolante tutta l’analisi comparativa condotta fase per fase, con un approccio che - senza essere di per sé innovativo - ridimensiona l’enfasi recentemente posta sull’autorappresentazione ideologica del fascismo, privilegiando al contrario l’osservazione empirica della sua evoluzione. Così come rimane uno strumento assai utile per orientarsi tra la mole sterminata di studi sul fascismo l’accurato saggio bibliografico di trenta pagine che chiude il libro.