(traduzione a cura di Elena Vezzadini)
Gli dissero: “Dicci dunque tu,
poiché per causa tua ci capita questa sciagura, qual è
il tuo mestiere? A quale popolo appartieni?”
Egli rispose: “Sono Ebreo e temo Iahvé,
Dio del cielo, che ha creato il mare e la terra ferma”
Jonas I, 8-9 (trad. Edouard Dhorme)
Che non si entri facilmente ne Il Distacco dall’Occidente [Amselle 2009], è il minimo che si possa dire. Questa lunga “inchiesta sui postcolonialismi” che porta in meno di trecento pagine in tre continenti diversi, dal modo di vita bengalese all’utopia andina passando attraverso l’afrocentrismo, non riesce sempre ad evitare il rischio di confusioni e di name dropping. All’interno di quest’opera sconnessa si distingue un capitolo in dissonanza con il resto, sia per il suo tema – il distaccamento del pensiero ebraico – sia per la sua atmosfera più intimista, dove l’erudizione universitaria cede il passo all’autobiografia. Che senso ha soffermarsi su questo tema, che interrompe il corso di un periplo critico all’interno delle teorie postcoloniali? Perché invocare il nome ebraico quando dei pensatori così importanti come Homi K. Bhabha sono appena menzionati nel testo ?
Per capirne la ragione, bisogna tornare al concetto di “distacco”, come lo formula Jean-Loup Amselle. Non si tratta semplicemente di una critica alla centralità teorica totalizzante di un’Europa i cui valori pretendono di essere universali, e che bisognerebbe provincializzare [Chakrabarty 2004]. Si tratta soprattutto di un’accusa contro un movimento interno all’Occidente che conduce “culture” tra le quali era stato stabilito un processo di arricchimento reciproco a distaccarsi per rivendicare un’esistenza e un’essenza propria. “L’Occidente fa acqua da tutte le parti, e i topi abbandonano la nave” [Amselle 2007, 7] … Se tale paragone è di dubbio gusto, esso mostra bene che ciò che si denuncia è tanto “un processo di cedimento interno” [Amselle 2007, 8] quanto l’emergere di pensieri concorrenti. È questa la ragione del richiamo all’ordine lanciato bruscamente contro gli epigoni della French theory, che hanno fornito ai pensatori postcoloniali alcune delle loro armi concettuali più efficaci. Così Michel Foucault è rinviato al suo eurocentrismo, Gilles Deleuze e Félix Guattari all’inanità delle loro fonti antropologiche, e Jacques Derrida alla banalità del suo concetto di ibridazione (métissage). Per Amselle, una cosa è chiara: ciò che distrugge l’Occidente viene prima di tutto dall’Occidente stesso. Edward Saïd non è forse il prodotto delle migliori università americane? Che cosa ne sa Partha Chatterjee dei suoi ‘intoccabili’ dall’alto della sua cattedra? E che dire di Gayatri Spivak, erede di Paul de Man e traduttrice de La Grammatologie, che insegna al prestigioso Campus della Columbia University?
Invocando il pensiero ebraico, Amselle affronta un significante che infesta l’intimo dell’Occidente, che lo perseguita fino alla definizione dell’Occidente stesso, nel cuore del sintagma “giudeo-cristiano”. Il distaccamento della componente ebraica tende quindi a mandare in pezzi questo sintagma per ridare indipendenza al significante ebreo. Tale distaccamento oppone l’Europa a se stessa.
Nel dispositivo argomentativo di Amselle la posta in gioco, lo si vede, è alta. Si tratta innanzitutto di disfare la geografia immaginaria che opporrebbe l’Occidente al resto del mondo, ai Nord come ai Sud, di andare al di là di dicotomie mille volte ripetute. Bisogna riconoscere che il tentativo è meritevole, soprattutto nell’ora in cui la profezia auto-avverante del “conflitto delle civilizzazioni” ha penetrato gli spiriti al punto da essere annunciata ovunque.
Per Amselle, si tratta inoltre di mettere a nudo i meccanismi che stanno conducendo al distaccamento di un gruppo - gli Ebrei - il cui ancoramento all’universalismo dell’Illuminismo fu una delle grandi questioni della Repubblica nata dalla Rivoluzione Francese. Vediamo che il punto di partenza di Amselle, così come il suo punto di arrivo, si situano in Francia all’epoca delle sommosse del 2005. É qui che si situa l’insidia: Amselle rompe l’opposizione Oriente/Occidente solamente per ricadere nella dialettica, altrettanto riduttrice, dell’universale/particolare. L’universale dei diritti umani e della democrazia contro il particolare del “frammento” culturale. In questo senso, la lettura che propone Amselle del ‘distacco ebreo’ è strategica, ovvero allo stesso tempo orientata e parziale. Questo conduce l’autore a scegliere una ‘metodologia regressiva’ di lettura che parte dall’oggetto per dedurne la sua genealogia, con il rischio di fissarla in un’immagine totalizzante e riduttrice. Nel voler “leggere il distaccamento ebreo alla luce del postcolonialismo e postoccidentalismo” [Amselle 2007, 39], Amselle perde di vista il punto principale: tutta la riflessione sull’identità ebraica è un tentativo di ri-concettualizzare la nozione di universale, e non di allontanarvisi. Possiamo leggere tutta l’opera di Lévinas, compresi i suoi scritti religiosi, attraverso il prisma di questo tentativo. Ed è Benny Lévy che se ne approprierà a sua volta, per far giocare, alla fine della sua vita, “Lévinas contro Lévinas” [Lévy 2003] e proporre una dislocazione dell’universale da Atene verso Gerusalemme. L’ingannante chiarezza della coppia universale/particolare diventa complessa alla luce di queste riflessioni. È lungo il filo di tali erranze concettuali che vorrei leggere leggere Il distacco dall’Occidente, prolungandone le intuizioni, e talvolta prendendolo in contropiede. Infatti, troppo spesso Amselle si arresta alla soglia dell’universale, e si sottrae alla discussione che si impone invece come il nodo della questione. Si tratta forse di un mezzo per non sacrificare la Repubblica e la democrazia, a vantaggio dell’universalismo astratto.
La sofferenza come universale
Non è affatto un caso che il viaggio verso il “distacco dall’Occidente” cominci da Martin Heidegger. Amselle vuole cogliere un momento preciso, quello della rottura con il sistema filosofico occidentale: il punto di uscita dalla totalità hegeliana. Il “primitivismo” heideggeriano aprirebbe la porta al ritorno della Tradizione, e quindi a delle identità sognate e cristallizzate, opposte a tutto quello che compone la nostra modernità occidentale fondata sulla razionalità. Per Amselle, è su questo substrato che si fonda l’edificio teorico di Sartre, il quale a sua volta avrebbe fornito le basi del pensiero di Lévinas. Ci sarebbe molto da dire su questa genealogia bruscamente imposta, non fosse che per il fatto che essa trasforma in filiazione il dialogo critico costante che l’opera levinassiana effettivamente mantiene con l’esistenzialismo sartriano. Ma se Amselle li avvicina è perché entrambi sono divenuti dei punti di riferimento largamente condivisi fra i pensatori postcoloniali. Heidegger permette la frantumazione del sistema occidentale; mentre sono l’umanesimo di Sartre e il pensiero radicale dell’alterità di Lévinas che permettono la grande apertura alle differenze oppresse. In questo senso, il pensiero di Sartre è prima di tutto una morale, e la filosofia di Lévinas un’etica. Questi pensieri che si aprono sull’Altro, uniti all’esperienza ebraica della sofferenza, sarebbero il motore dell’empatia di una generazione di giovani ebrei verso i colonizzati e verso tutti i “dannati della terra” [Fanon 1962].
Bisogna rileggere sotto questa luce le Riflessioni sulla questione ebraica del 1946 di Sartre. Amselle fa di Sartre, in modo un po’ convenzionale, il pensatore del giudaismo vuoto e astratto di un “essere serializzato, risultato dello scopo intenzionale dello sguardo dell’altro”. In poche parole, “è l’antisemitismo che fa l’Ebreo” [Amselle 2007, 45]. La formula è famosa, e ha finito per riassumere la maggior parte del pensiero di Sartre sulla questione ebraica. È vero che tale lettura passa un po’ velocemente sul fatto che Sartre concettualizza ugualmente la figura dell’ “Ebreo autentico”, che “si sceglie come Ebreo”, e davanti al quale “l’antisemita, disarmato, non può che accontentarsi di abbaiare” [Sartre 1985, 147]. Ma una lettura attenta di questo lavoro di Sartre mette in evidenza un fatto cruciale: le Riflessioni sulla questione ebraica non sono un’opera sul giudaismo. Sartre stesso lo ricorda nelle sue interviste del 1980 con Benny Lévy [Sartre Lévy 1991]. Questo libro è “una dichiarazione di guerra agli antisemiti” [Sartre Lévy 1991, 68], e non un’immersione nell’interiorità ebraica. Contrariamente a quello che si legge, non ci sono contraddizioni fra il Sartre delle Riflessioni e quello di L’espoir maintenant. La positività del fatto ebraico è invece di una scoperta tardiva per Sartre, trent’anni dopo e attraverso la frequentazione d’Arlette Elkaïm-Sartre e i dialoghi con Benny Lévy. Si può quindi affermare, con Amselle, che il coinvolgimento di Sartre alla fine della Seconda Guerra Mondiale nella causa degli ebrei perseguitati è determinata dalla “simpatia, se non dalla compassione, che gli ispiravano gli oppressi di ogni tipo”. Egli riconosce agli ebrei la loro parte di sofferenza, come la riconosce ai popoli colonizzati. L’empatia fra le “comunità di sofferenza” passa attraverso l’avventura del pensiero di Sartre.
È uno dei meriti del libro di Amselle di comprendere la portata che questo momento ha rappresentato per una generazione di intellettuali ebrei, intrappolati dalla vacuità di un nome senza contenuto, ma rinviati all’irrimediabilità della loro condizione attraverso il trauma che hanno vissuto le loro famiglie. Amselle rintraccia tre percorsi di personaggi mossi dalla loro volontà di vivere il giudaismo attraverso l’empatia nei confronti della la moltitudine di vittime dell’Occidente. Fra di loro, Rober Paul Wolff, un ricercatore universitario newyorchese venuto in difesa degli Afro-Americani attraverso la decostruzione del mito del sogno americano del melting-pot. Ma anche Alain Alber, alias Ilan Halevi, che passa dai locali di Saint-Germain-des-Près dove si producevano i grandi jazzmen neri americani, al sostegno della causa palestinese, fino a divenire una delle persone vicine a Yasser Arafat. Amselle si sofferma infine sul suo proprio percorso, che l’ha portato verso lo studio delle società africane. Tre figure, tre modi di uomini ebrei di “toccare l’universale” attraverso le diaspore e le “comunità di sofferenza”.
Ma questo universale è minacciato da un’essenzialismo: l’identificazione della realtà ebraica con la sofferenza. Questo motivo si iscrive in una tradizione ben più antica della “distruzione degli Ebrei d’Europa” [Hilberg 1995]. Non si citerà che l’esempio de La vallée des pleurs, cronaca delle sofferenze del popolo ebraico, scritta nel 1558 in Italia da Joseph Ha-Cohen e che sarà consideratoa in seguito come fonte storica importante, tradotta in varie lingue nel corso del XIX secolo [Benbassa 2007]. Si corre il rischio di una reclusione in una storia dolorista che non parla del giudaismo che al passato e che cancella ciò che non riguarda la sofferenza pura. Come il primo Sartre, che sulla scia dell’Illuminismo e dell’ Haskalah dissocia l’essere sociale dell’Ebreo da ciò che fa parte dell’interiorità ebraica, lasciando solo una forma vuota nella quale viene colata un’identità di sofferenza. È la critica rivolta a Alain Badiou da Amselle: per Badiou, non si tratta tanto di negare la sofferenza degli ebrei, quanto ciò che gli ebrei rivendicano in nome di questa sofferenza: quello che Badiou chiama il mercanteggiamento identitario con un Occidente colpevole dell’onta della persecuzione nazista degli ebrei [Badiou 2005]. Badiou rigetta il concetto di sofferenza come segno di elezione. Tuttavia, anche Badiou assimila il pensiero ebraico all’universale e la condizione diasporica diventa l’unica modalità per raggiungerlo. Ancora una volta, si tratta di un universale astratto, senza contenuto, che anzi implica una cancellazione programmata del nome ebraico nell’universale.
Lévinas e l’Occidente: l’universale come problema
Come oltrepassare l’aporia dell’articolazione fra particolare e universale è una delle grandi questioni del pensiero di Lévinas, di cui Amselle non dà, sfortunatamente, che una visione troncata. Ne Il distacco dall’Occidente, il pensiero di Lévinas è limitato a un’ “etica dell’intersoggettività” , il cui centro di gravità sarebbe il mio “incontro con l’Altro”, il cui viso mi rinvia alla mia responsabilità verso l’Altro e che mi ordina di accoglierlo [Lévinas 1961]. Si tratta di un’apertura all’Altro e ai diritti dell’Altro, descritta da Amselle attraverso la metafora del viaggio di Abramo fuori da Israele in una terra sconosciuta, piuttosto che nel periplo tautologico di Ulisse, da Itaca a Itaca. Questa lettura limita il movimento del pensiero di Lévinas al rifiuto della centralità dell’universalità occidentale. È vero che questo è quello su cui spesso si soffermano i pensatori postcoloniali quando parlano dell’ ‘apertura’ levinassiana. Bisogna formulare il problema in tutta la sua incandescenza, prendere la misura della tensione che percorre tutto il pensiero di Lévinas.
“Che cos’é l’Europa?”, si chiede Lévinas. La sua risposta è “La Bibbia e i Greci” [Lévinas 1988]. La formula è bella, ma ci tende una trappola. Infatti, non si tratta di postulare l’uguaglianza di due termini già uguali, ovvero la Bibbia e i Greci, ma di affermare un’indissolubile solidarietà fra Gerusalemme e Atene nell’universale europeo. La storia dell’Occidente non si può concepire senza l’intervento del nome ebraico, nonostante le occultazioni di cui è stato oggetto. Quanto all’ebreo moderno, è condannato a essere un ebreo che ha attraversato l’assimilazione, che lo voglia o no. Poco importa che si getti anima e corpo nel rinnovamento religioso, o che progetti la sua identità ebrea in seno allo Stato d’Israele. La questione della diaspora ebraica urta contro l’aporia mitica dell’origine: si seguono i passi di Ulisse piuttosto che quelli di Abramo, ma verso un luogo senza luogo, poiché un’Itaca a cui ritornare non esiste. L’essere ebreo si configura quindi come l’estremo di un’utopia - nel senso greco del termine di luogo che non ha luogo. Henri Meschonnie commenta: “non si può uscire dall’Europa come non si può uscire dal segno” [Meshonnic 2001]… L’assimilazione degli Ebrei è un fatto. La purezza della tradizione un fantasma.
È in questo modo che bisogna leggere l’omaggio sfumato che Lévinas rende a Moses Mendelssohn. Le speranze della Haskalah si sono spezzate sul grande massacro degli Ebrei del XX secolo. Ma l’ideale mendelsoniano, “che esige con così tanta forza libertà e di diritti umani” resta centrale per la modernità ebraica, al punto da definire la cittadinanza israeliana in relazione di continuità alla cittadinanza europea. Che i politici del passato e del presente in Israele non siano all’altezza di questo ideale, e che addirittura lo sviino, è un’altra questione.
Quindi, il ‘distaccamento’ dall’Occidente di Lévinas è tutt’altro che evidente. “La Bibbia e i Greci”… Bisogna andare oltre l’interrogativo levinassiano. Che cos’è la Bibbia per Lévinas? È la Torah, come si apre alla lettura nell’infinito del senso del Talmud. E i Greci? “La maniera in cui si esprime, o si sforza di esprimersi, in tutte le contrade della Terra, l’universalità dell’Occidente” [Lévinas 1988 p. 156]. In una delle sue letture talmudiche consacrata al trattato Mena’hoth [Lévinas 1982], Lévinas fa riferimento ad un magnifico passaggio della Guemara , che è utile citare per intero.
Ben Dima, figlio della sorella del Rabbi Yischmaël, chiese al Rabbi Yischmaël: “per un uomo come me, che ha imparato a memoria tutta la Torah, è utile lo studio della saggezza greca?” Rabbi Yischmaël, come risposta, lesse questo versetto: “Che la Torah non abbandoni mai le tue labbra e che tu la mediti giorno e notte” (Giosué 1, 8) “Trovami un’ora che non sia né giorno né notte e studia la saggezza greca.” [Lévinas 1982, 43]
Non ci si soffermerà nel dettaglio sull’analisi levinassiana. Sarà sufficiente notare che il testo suggerisce l’interdizione radicale dello studio dei Greci. Lévinas commenta però: “si tratta della saggezza greca suscettibile d’eloquenza umanista” [Lévinas 1982, 43]. Lo studio dei Greci significa apertura al pensiero e al sapere, certo, ma anche pericolo, poiché questa saggezza apre alla “possibilità di parlarsi attraverso dei segni che non siano universalmente compresi”, e quindi di ricorrere alla retorica, “arma di furbizia e di dominio” [Lévinas 1982, 44]. Lévinas introduce la diffrazione nel cuore dell’universale occidentale, sempre in pericolo di vedere la sua generosità tradita dal logos, minacciata da una strana oscurità: dalla tentazione della dominazione sostenuta dalla tecnica. Quello che ci mostra Lévinas è il pericolo di un sapere senza etica, che minaccia di occultare la voce della Legge. Questa è la tentazione alla quale tutta la filosofia è esposta. In questo senso, per Ben Dima, per gli Ebrei tentati dai Greci, la filosofia è una tentazione al quadrato: “una tentazione della tentazione” [Lévinas 1968, 65-109]. Per Lévinas , la tentazione della tentazione é la tentazione del sapere. Quindi tentazione all’autoreferenzialità, possibilità di tautologia, e rischio dell’etnocentrismo sovrano.
Il distaccamento dall’universale: da Atene a Gerusalemme (passando da Alessandria)
È a questo punto di tensione concettuale che Benny Lévy riprende il testo di Lévinas. Nella riflessione di Amselle, a Benny Lévy tocca incarnare insieme a Jean-Claude Milner il momento più radicale del ‘distaccamento’ ebreo. Ebreo egiziano emigrato a Parigi, Lévy cerca attraverso il concorso alla Scuola Normale Superiore (ENS) la forma d’integrazione più completa. All’ ENS studia sotto la supervisione d’Althusser l’opera di Lenin per poi diventare maoista e uno dei capi della Sinistra Proletaria, di cui deciderà la dissoluzione. Avviene a questo punto il leggendario incontro con Sartre, di cui sarà il segretario, poi il ritorno agli studi ebraici, che lo porta prima a Strasburgo e in seguito in Israele. Là egli elabora una rilettura puntigliosa di Lévinas in cui rifiuta la dimensione puramente filosofica dell’opera levinassiana, leggendola invece come un “pensiero del ritorno”. Un ritorno ad una tradizione che non ha niente da invidiare alla filosofia della Sorbonne. Bisogna scegliere, afferma Lévy, tornando all’interpretazione rigorista dell’interdetto della Guemara. Per colui che vuole studiare i testi talmudici, non c’è ora del giorno o della notte in cui si possa studiare filosofia: “o si è talmudisti della domenica, o si è filosofi della domenica” [Lévy 2005]. Questa scelta è importante: essa determina il campo in cui ci si situa nella “guerra metafisica sulla nozione stessa dell’universale” [Lévy 2004]. Ma in Lévy, l’universale non solo si articola come particolare, questo particolare pretende di essere una forma di ‘universale superiore’. All’universale dell’Europa, e anche all’universale dell’Islam, che se concepirebbe come “estensione”, egli oppone un universale ripiegato “nei quattro angoli di Israele”, un universale che “dipende da me” [Lévy 1984], dalla mia responsabilità verso l’altro. Si tratta di un universale dell’identità, che non coincide tuttavia così bene come vorrebbe far credere, all’universale dell’appartenenza territoriale.
Amselle passa molto velocemente su queste riflessioni. Egli preferisce vedere Benny Lévy come ‘operatore’ piuttosto che come autore, perché Lévy permette l’evoluzione di Sartre verso la comprensione della positività ebraica. Amselle non va fino al cuore del problema, che si situa nella divergenza fra due visioni dell’universale che condizionano il rapporto dell’individuo con il sociale, e quindi con i segni, e quindi con il linguaggio.
La cosa diventa ancora più evidente quando Amselle passa a Jean-Claude Milner, autore che in modo più completo esprimerebbe la requisitoria ebraica contro l’Occidente. Distinto linguista, membro della Sinistra Proletaria dove fiancheggia Benny Lévy, Milner si lancia, in Les Penchants criminels de l’Europe démocratique [Le tendenze criminali dell’Europa democratica] in un attacco violento contro l’Europa, accusata d’aver voluto dissolvere il “problema ebraico” nell’assimilazione prima di tentare la sua cancellazione più radicale nella “soluzione finale” [Milner 2003]. Appoggiandosi sull’apparato concettuale lacaniano, denuncia, con una logica di una crudeltà implacabile, una società europea funzionante sul regime dell’illimitato (o, come direbbe Lévy, un ‘universale di estensione’). E’ un peccato che Amselle non spieghi in tutta la sua ampiezza la dimostrazione elegante e terribile di Milner. La “distruzione degli Ebrei d’Europa” non sarebbe che la soluzione radicale del problema formulato dall’Illuminismo: l’irriducibilità del nome ebraico alla società totalitaria prodotta dell’universalismo. La via dell’assimilazione aveva tentato “la trasformazione interiore dell’Ebreo” [Milner 2003, 46] dissolvendo il nome ebraico nel concetto di cittadinanza. La via della “scomparsa materiale dell’Ebreo” prende atto della permanenza di un problema e propone una soluzione radicale. L’importante per Milner è che, su questo punto, “Hitler ha vinto” [Milner 2003, 64]. La possibilità di un’Europa unita si fonderebbe sia su questa vittoria, sia sull’oblio del crimine, visti come la sola condizione per una pace possibile. Per Milner, questa volontà d’oblio si consacra nella vittoria della scuola degli Annali, e della loro apostasia di una “storia come battaglia” a vantaggio di una storia delle società: “non la storia dei morti, ma la storia dei vivi” [Milner 2003, 64]. La conclusione è senza revoca: “il primo dovere degli Ebrei è di liberarsi dell’Europa” diventata “criminale per omissione senza limite” [Milner 2003, 130].
Jean-Claude Milner ritorna su queste riflessioni in un articolo comparso nel 2007 [Milner 2007]. Il cuore di questa “conversazione sull’universale” è di riprendere e continuare il pensiero di Benny Lévy sull’universale proprio del popolo ebraico, di dargli un contenuto che permetta di abbattere il regno dell’universale molteplice. Questo passa attraverso la decostruzione della genealogia dell’universale greco, ovvero di quello di Aristotele, che per Milner si definisce al singolare: “ogni uomo è mortale”. È Alessandro Magno che attraverso l’invenzione della forma politica dell’impero introduce l’universale plurale, di cui la politica non si è mai più liberata. La traduzione della Torah in greco fa parte di questo ideale dell’unicità del molteplice: un solo popolo, una sola religione. Il ritorno del nome ebraico, per Milner, è un’opportunità di rivedere l’articolazione politico-sociale dalla parte del singolare, di promuovere un “universale d’intensità” che non includerebbe tutti, ma solo alcuni. Ma il prezzo da pagare è quello di restare imprigionati nella coppia identità/alterità, nella quale gli Ebrei stessi si perdono.
L’universale come ragione meticcia
Henri Meschonnic ci ricorda giustamente: “come non esiste la razza ebrea, così non esiste nemmeno la specificità ebrea” [Meschonnic 2001]. Ogni pensiero dell’alterità radicale rinvia a un pensiero dell’identità come narrazione, quindi come folclore. E il folclore non è che un segno vuoto al quale l’universalismo come la religione non possono ridare vita. Il folclore non può essere restituito all’erranza feconda del significante. Ma come evitare che questa erranza non si trasformi in un’atonia qualunque? Attraverso la restituzione del significante alla sua “specificità, ovvero alla sua storia” [Meschonnic 2001, 33]. Una storia che sfugge all’impresa mitica della narrazione univoca delle origini per ricercare il molteplice. Che non servirebbe da auto-giustificazione a un’autoctonia sognata . Che riconosca, con Meschonnic, che “ogni terra è provinciale”, che “la terra stessa è errante” [Meschonnic 1981].
La tradizione ripete con insistenza che “la Torah ha settanta volti”, uno per ciascuna delle settanta nazioni che esistono nella tradizione biblica. Come per la Torah, che nessuna interpretazione riesce ad esaurire, sarebbe vano tentare di ridurre all’universale la molteplicità del significante ebraico. Ogni soggetto, nella sua opera, tocca all’universale, a meno che egli o ella non fraintenda il vuoto dei segni per il contenuto della sua vita. È forse arrivato il momento di finirla con questo tentativo eterno di definizione attraverso l’essere che si impiglia nel fascino nauseabondo dell’identità. Alcuni vorrebbero parlare di questo come di un meticciato.
Amselle rifiuta la nozione di meticciato per sostituirla, in un’altra opera [Amselle 2001], a quella di “diramazione”, poiché ogni meticciato presuppone l’incontro improbabile di due identità pure. Ha ragione. Il meticciato non può che pensarsi come un’accumulazione di ibridità che non ha un punto di origine. E questo punto sembra essere sfuggito non solo ai pensatori del giudaismo, ma anche a certi pensatori postcoloniali. L’impurità è nel cuore del giudaismo. Essa guida le analisi di Sholo Pinès, alla ricerca delle fonti arabe di Maimonide. Essa raggiunge anche la Bibbia, dove si vede che l’intervento di Ruth, la Moabita, è necessario per permettere alla linea dei re d’Israele di continuare. Essa si legge nella necessità di tradurre la Torah in greco antico affinché gli Ebrei di Alessandria possano accedere ai propri testi.
I cantori dell’anima ebraica, come abbiamo visto, che essi si identifichino con la cittadinanza israeliana o la religione, o con qualsiasi altro universalismo del particolare, sono là per attestare la normalità del tentativo di ricorrere ad un universalismo del particolare, che “l’etnocentrismo non caratterizza solo l’Occidente. È la potenza tecnica che lo caratterizza”. Il vero torto di Amselle è di rendere invisibile questo rapporto di forza, nella sua foga nel denunciare le malefatte del “subalternismo”. Che certe analisi nascano da un’incomprensione di Gramsci non esaurisce la questione, e non dovrebbe impedire l’interesse per tutte le forme di vita soggette a dominazione.
Nella concorrenza per la memoria, dove tutto fa parte della più sordida negoziazione, il grado di riconoscimento di una minoranza da parte dello Stato passa attraverso il grado di cooptazione con il potere, che viene fatto passare per raggruppamento comunitario o per lobbying. In questo contesto, l’appello lanciato a una Repubblica vittima “di un eccesso di fiducia o di diffidenza” sembra derisorio. Soprattutto perché questa Repubblica è molto lontana dal costituire un bastione di difesa contro il ritorno “alle nazioni” dell’Ancien Régime, viste da Amselle come il riflesso, sul territorio nazionale, dei “frammenti” teorizzati da Partha Chatterjee. Soprattutto, rifiutando di mettere in discussione l’universale dei diritti umani e della democrazia perché esso costituisce un punto di riferimento che permette di giudicare l’Occidente stesso per i suoi atti, egli si avvicina pericolosamente alle tesi di Samuel Huntington, che Amselle intende invece denunciare. Infatti, ciò vuol dire ancora una volta mantenere la visione occidentale del mondo attraverso dei significanti principali, che basta brandire per ottenere una vittoria discorsiva. Si tratta del pericolo, precisamente, della “saggezza greca” di Lévinas. Si avrebbe torto, tuttavia, nel prendere alla leggera l’ammonizione de Il distacco dell’Occidente. Attraverso la sua critica, Amselle lancia un appello angosciato in favore di una teoria capace di ravvivare l’articolazione del politico e del sociale. E questa sfida si rivolge a ogni campo delle scienze sociali.
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