Storicamente. Laboratorio di storia

Studi e ricerche

La riflessione politica nell’Albergo di Maiolino Bisaccioni

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Abstract

The article highlights the political view in the novella L’Albergo by the Ferrarese author Maiolino Bisaccioni. The analysed text, unpublished in an annotated edition, gives a tacit view on the relationship between the sovereign and his collaborators. Generally, it offers a portrait of the 17th-century court. In this work we wanted to emphasise how fundamental is the testimony of Bisaccioni, who, as a politician and secretary at the service of many, on several occasions he expressed a personal opinion about the art of governing.

Introduzione

Nella prima raccolta di novelle dell’autore ferrarese Maiolino Bisaccioni, L’Albergo – pubblicata a Venezia tra il 1637 e il 1638 in due volumi – la trattazione di argomento politico è lo sfondo onnipresente e necessario a quasi tutta la narrazione. Pur non essendo mai uno dei temi centrali di nessuna delle novelle, la riflessione politica appare il contesto indispensabile all’interno del quale muovere le sorti dei personaggi. Bisaccioni descrive, così, e passa in rassegna molte forme di governo, dalla monarchia alla repubblica, dalla democrazia ateniese all’Impero d’Oriente. Conosciamo bene le posizioni politiche del Bisaccioni grazie alle numerose altre opere a carattere storiografico, e grazie soprattutto al romanzo Il Demetrio moscovita, unicum nella produzione letteraria dell’autore; egli è, come la maggior pare degli storiografi del Seicento, uno strenuo sostenitore della monarchia [1]. Tuttavia, la stesura e la pubblicazione dell’Albergo coincidono, per l’autore, con il trasferimento nella Repubblica di Venezia e l’abbandono del mestiere delle armi, per dedicarsi esclusivamente all’ozio letterario [2]. Bisaccioni dimostra più volte, nel corso dell’opera, di essere non soltanto un attento conoscitore della storia e della politica contemporanee, ma soprattutto un uomo di mondo, che viaggiando in lungo e in largo per l’Europa ha avuto modo di conoscere le corti di diversi principi e, per tali motivi, non manca di esprimere opinioni a riguardo, se pur in maniera talvolta molto sottile. Vi sono, infatti, qua e là frasi sentenziose e massime di argomento politico, disposte in maniera diseguale in tutta la narrazione, che fanno da compendio alle storie e permettono all’autore di esprimersi. Nel volume secondo, nella novella ambientata durante le lotte comunali tra le fazioni dei guelfi e dei ghibellini, scrive: «In vero che le Repubbliche a me piacciono molto di più dello stato monarchico» [3]. Come già accennato, Bisaccioni, dopo aver prestato servizio presso molti principi, decide di trasferirsi nella Repubblica di Venezia, dove risiederà per il resto della vita. Nonostante quest’ammissione, nelle opere storiografiche successive l’autore continuerà a difendere la supremazia della monarchica, rigettando qualsiasi sollevazione popolare e forma di democrazia, o peggio di oligarchia nobiliare. Il passo citato potrebbe apparire, dunque, l’epilogo di una riflessione condotta nel corso di tutta l’opera, che muove i primi passi già nella cornice del volume primo dell’Albergo. Dunque, procediamo con ordine.

L’influenza della produzione storiografica

Come lo stesso Croce testimonia, il Seicento fu scosso da eventi importanti, primo fra tutti le sorti della Chiesa cattolica, ma anche le vicende legate alla monarchia spagnola e all’Impero, e, più in generale, le lotte delle varie potenze europee. Non mancarono gli autori che si dedicarono alla stesura di vaste opere storiografiche con l’intento di divulgare la conoscenza di quegli eventi. Prima ancora di letterati si trattava di diplomatici, funzionari, ministri, ossia di uomini che osservavano dall’interno le dinamiche politiche e ne davano poi testimonianza, senza però assumere nei confronti della loro produzione uno sguardo imparziale e oggettivo, ma al contrario rimanendo convintamente fedeli al loro ruolo politico, più che alla missione dello storico [4]. Ammonisce il Boccalini:

proibiamo l’intraprendere l’importante impresa di scrivere istorie s’egli non avrà peregrate molte provincie, se non avrà esercitati incarichi importantissimi di secretario o di consigliere, di prencipe grande o se non sarà senatore di qualche famosa repubblica, e sopra tutte le cose, per i due terzi degli anni della sua vita non avrà praticate le corti (Boccalini 1624, ragguaglio LIV).

Ovvero uomini costretti a viaggiare per le province e negli stati europei, ai quali ancora restava estranea una visione propriamente nazionale della storia. Non si trattava di costruire l’identità nazionale di uno Stato, del proprio stato, né di gettare le basi di quel sentimento di appartenenza verso la patria che verrà solo più tardi in epoca romantica. Numerosissimi sono i nomi che accanto a quello del Bisaccioni, andrebbero elencati per un’esaustiva rassegna della letteratura storiografica del XVII secolo, ma non è questo il luogo. Benché la produzione di tal genere sia assai cospicua, proponendosi di informare su quanto stava accadendo in diverse regioni del mondo, dalla cronaca del Concilio di Trento alle vicende delle missioni della Compagnia di Gesù in Asia, fino agli avvenimenti nelle Americhe e nelle varie corti europee, «tutti cotesti libri di storie e ragguagli storici erano vivamente attesi e sollecitati e andavano a ruba e parecchi si ristamparono in molte edizioni. Gli scritti gareggiavano nel soddisfare l’avida curiosità del pubblico» (Croce 1993, 143). Dunque, la storiografia svolge un ruolo fondamentale in tutta l’attività intellettuale di Bisaccioni, il quale dedica buona parte della sua vita a comporre opere storiche come la Vita dell’imperatore Ferdinando II (Venezia 1637); il Commentario delle guerre successe in Alemagna dal tempo che il re Gustavo di Svetia si levò di Norimberga (Venezia 1633-42); i Sensi civili (Venezia 1642); l’Istoria delle guerre civili di questi ultimi tempi (Venezia 1653-55); l’Istoria universale dell’origine, guerre e imperio de’ Turchi (Venezia 1654); le Memorie storiche delle mosse d’armi di Gustavo Adolfo re di Svetia in Germania l’anno 1630 (Bologna 1653).

Le varie sollevazioni dei popoli circa la metà del secolo in difesa delle vecchie loro libertà contro le nuove monarchie assolute e le congiunte o affini “guerre civili”, d’Inghilterra, Catalogna, Portogallo, Palermo, Napoli, Francia, Polonia, Moldavia, formarono oggetto di una serie di monografie del Bisaccioni (Croce 1993, 138).

È inevitabile che nella sua produzione letteraria l’autore si sia lasciato influenzare dalle numerose opere storico-politiche a cui lavorava, anche in contemporanea con la stesura delle raccolte di novelle. Non vi è infatti una linea di demarcazione che segna il momento di abbandono della storiografia per la produzione delle novelle, poiché la prima rappresenterà una costante nella vita dell’autore, il quale probabilmente andrebbe considerato prima di ogni cosa uomo d’azione, ingranaggio perfettamente inserito nella macchina politica, poi, in secondo luogo autore di un gran numero di commentari, memorie e storie che hanno per oggetto tutto ciò di cui egli è venuto a conoscenza. La produzione novellistica si inserisce in questo quadro come nuova forma di espressione dell’autore, il quale sente l’esigenza di sperimentare nuovi orizzonti espressivi, pur in verità mantenendo invariato l’oggetto principale dei suoi racconti, cioè la dimensione reale attinta dalle esperienze accumulate nel corso dei suoi viaggi, incarichi a corte e campagne militari. Come Bisaccioni, altri intellettuali del suo tempo affiancarono l’attività storiografica con quella letteraria, come Giovan Francesco Loredano [5], al quale l’autore dedica il primo volume della raccolta dell’Albergo, o il ligure Luca Assarino, amico dell’autore, romanziere – la sua opera più celebre, La Stratonica, è citata nell’Albergo, poiché il protagonista lo incontra nella locanda all’inizio della trattazione – e anch’egli storiografo. Il tipo di storiografia praticata da Bisaccioni tratta di avvenimenti contemporanei ed è proprio questo interesse nei riguardi dell’attualità che risveglia l’interesse del pubblico, da sempre affascinato da quella che Svetonio ha definito historia fabularis, cioè una storia discorsiva e narrativa, ricca di aneddoti e dettagli eruditi. «Gli studiosi hanno insistito proprio sull’aspetto giornalistico di questa storiografia, talvolta negandogli la qualifica di storico» (Raffaelli 2002, 77), a tal punto da considerare questo tipo di resoconti storiografia minore. Eppure, è lo stesso Bisaccioni ad aver piena consapevolezza della differenza che intercorre tra le sue compilazioni e quelle della storiografia cosiddetta illustre: «Io non mi sono arrischiato di dar nome a questo volume di istoria, perché ho voluto poter a mia voglia uscir di careggiata e dire i miei sentimenti, e trattar quelle parti che sono vietate ad un istorico di rigore» (Bisaccioni 1642, c. 2). Bisaccioni non si considera un erudito storico, ma neppure un arido cronachista che riporta i fatti semplicemente come si sono verificati; la grande differenza che lo distingue forse dalla produzione storiografica di quel tempo, e che in generale distingue la storiografia dotta da quella giornalistico-politica, è l’esigenza di esprimere un commento puntuale sugli eventi narrati, di poter dare contezza dei propri sentimenti:

Distinti il leggere dallo studiare, perché la istoria scritta da uomo intendente ha il midollo più succoso, che quella che serve per semplice notizia dei fatti. Quindi Cornelio Tacito è più in credito di qualche altro molto più di lui erudito istorico, perché non raccontò solo i fatti, ma per così dire, fece il commento alle sue narrative, lasciando anche al lettore di penetrar più addentro quello che egli solo accennava (Bisaccioni 1652, c. 52).

È questa pratica un’eredità della storiografia rinascimentale guicciardiniana, che non elabora forme ottimali di governo a partire da astratte dottrine politiche, ma dall’osservazione empirica della realtà. Nelle sue opere a carattere storico Bisaccioni «rinuncia all’oratoria sciorinata da re e capitani, riduce i commenti funebri, riferisce in discorso indiretto le consulte segrete, diminuendo altresì lo spazio concesso alle donne dei protagonisti e agli atti di eroismo» (Raffaelli 2002, 80). L’autore ferrarese ha una visione della storia come magistra vitae, essa è indispensabile soprattutto per i principi che si accingono all’arte del governo, ed è soprattutto ai futuri regnanti che le sue opere sono indirizzate, per far conoscere gli errori commessi in precedenza, da rifuggire per non incappare nelle stesse disastrose conseguenze, ma anche le decisioni opportune che invece hanno segnato il successo di un’impresa. Come si evince sin dalle prime righe dell’Historia:

Tra tutte le condizioni di persone a cui l’istoria è profittevole (che a ciascheduno è giovevolissima) non istimo che altri più ne dovesse coltivare, non dirò la notizia, ma lo studio, che il prencipe. Sì, perché ella è un racconto di azioni de’ prencipi e grandi, e dai simili si impara. Sì, perché ella è la vera maestra del governo de’ Stati, mostrando negli altrui accidenti quello che seguire, quello che apertamente fuggire e ciò che destramente schivare si debba (Bisaccioni 1664, I, c. 10).

Spesso, però, gli autori di opere storiografiche del secolo XVII non godono di buona fama tra chi è al governo dei popoli, i loro lavori sono visti con sospetto e sfiducia, e tale tono cupo e pessimista è ciò che caratterizza la riflessione politica dell’autore anche nell’Albergo. Egli più volte ribadisce l’idea di una corte che è portata a mentire, a nascondere le proprie attività e dare una falsa immagine di sé; chi prova dunque a far luce su ciò è inevitabilmente mal visto:

Così il popolo fabbrica sopra le cose che intende e pubblica i suoi pensieri per istorie. Io credo che la istoria non abbia altro di vero che la massa più grossa. Gli altri accidenti e fatti leggieri siano tutte favole in essenza, benché lo scrittore le stimi vere. Né vale il pensiero di coloro che allegano essere le istorie loro cavate da più reconditi archivi dei prencipi, avvenga che quelle sono relazioni fatte da ministri loro, ingannati ancor essi o dalla credenza pubblica, o dall’arte di quei prencipi a presso dei quali risiedono. Perché non è chi non sappia che il principal magistero d’una corte è il far credere il falso e occultare il vero, ed è antica la proposizione di ingannare allo spesso li ministri propri, non che gli estranei (Bisaccioni 1638, Dell’Albergo, cc. 58-59).

Un’affermazione forte, disincantata poiché in un certo senso l’autore rivede non solo tutta la sua produzione storiografica, ma anche quella novellistica; la storia intesa in quanto tale sono solo gli avvenimenti più importanti, tutto il resto sono già favole, è già invenzione. A seconda del modo in cui l’autore vuol dare contezza di questi «fatti leggieri», essi potranno essere considerati storiografia – “minore” – o produzione letteraria. Non potrà mai essere storia veritiera quella che uscirà dai documenti dei ministri, dagli archivi delle corti, perché il potere si cela continuamente e non appare mai nella sua veste originale. Una riflessione amara e veritiera, alla luce della quale occorre rivedere tutta la produzione novellistica dell’autore. Financo i continui e ripetuti richiami alla veridicità della materia ci sembrano essere ora tutta una costruzione retorica dell’autore. Egli ha scritto ciò che ha visto e conosciuto, e questo non va posto in dubbio alcuno, ma non necessariamente ciò che a lui è stato dato di vedere corrisponde alla verità, perché il volto più intimo e oscuro della politica non viene mai messo in mostra e quandanche lo si conoscesse, sarebbe arduo e pericoloso disvelarlo ai più. Sulla complessiva opera dell’autore ferrarese manca tuttora la giusta attenzione da parte della critica, basti ricordare che della sua vastissima produzione è disponibile in edizione commentata solo il romanzo, Il Demetrio moscovita, a cura di Edoardo Taddeo. Sul pensiero politico del Bisaccioni vi è la già citata, ma significativa monografia di Fabio Martelli, che indaga l’aspetto di studioso delle istituzioni e della politica dell’intellettuale seicentesco. Ad ogni modo, assai vivace e interessante appare il contributo di Bisaccioni al dibattito storico-letterario italiano ed europeo. Bisaccioni andrebbe inoltre inscritto tra coloro che fecero propria la concezione boteriana della “ragion di Stato”, offrendo un’autorevole attestazione della diffusione dei discorsi e delle pratiche di tale teoria politica durante il secolo diciassettesimo. Nella volontà formativa del Bisaccioni vi è quell’atteggiamento tipicamente seicentesco di presa di coscienza del periodo di crisi e di reazione alla stessa. I politici e gli storici dell’età barocca non solamente sono in grado di individuare i processi di cambiamento, ma desiderano fortemente intervenire sulle degenerazioni della società, sebbene questo non comporti necessariamente un miglioramento.

L’arte dell’albergare come metafora politica

In tutta l’opera si fa spesso riferimento all’arte della dissimulazione [6], fin dalle prime pagine. Senza dubbio, per intendere appieno la visione dell’autore bisogna tornare alla parte iniziale del testo, quando il protagonista mette piede nell’albergo e incontra la padrona della locanda, presentandola così: «nella bizzarria del comando, nello sfarzo del conversare, nella velocità della lingua e nei sensi del ragionare pareva nata piuttosto al governo dei popoli, che al dominio di un albergo» (Bisaccioni 1638, cc. 18-19). Questo è il primo, importante accostamento che l’autore propone, mettendo a confronto la figura dell’albergatrice con quella del principe-governatore. Possiamo considerarlo un primo interessante indizio con il quale Bisaccioni intende orientare l’interpretazione della sua opera. Benché non apparentemente centrale, abbiamo poco sopra tenuto a sottolineare quanto il richiamo alla politica sia costante nell’opera. Vi è, infatti, una costellazione di accenni, opinioni, pensieri, riflessioni espresse in maniera esplicita sulle forme di governo e sul comportamento dei regnanti, ai quali tuttavia andrebbero aggiunti numerosi altri riferimenti politici, celati dietro comparazioni o metafore, come quella dell’albergatrice che risulta esserne l’esempio più eloquente. Per poter davvero comprendere la dichiarazione politica che l’autore enuncia in un testo come l’Albergo, che a una prima occhiata potrebbe risultare una innocua raccolta di novelle amorose, è necessario tenere in considerazione il ruolo sociale del protagonista, che coincide con quello dell’autore. Bisaccioni è stato un cortigiano al servizio di molti principi e re, mercenario, uomo d’azione e girovago in varie regioni europee, egli ha dunque goduto di una posizione di privilegio e allo stesso tempo è venuto a conoscenza di dinamiche radicate profondamente nella vita di corte e che, in quanto tali, andrebbero tenute nascoste. Nel momento in cui l’autore compone l’Albergo, tuttavia, è in procinto di liberarsi da questi vincoli. Pertanto, ritornando al passo sopra citato, se l’albergatrice è un sovrano, il protagonista è certamente un segretario a essa sottoposto, che può soltanto spiare la condotta del suo signore e rivelarne gli arcana imperii. Piuttosto interessante è la caratteristica principale della stanza nella quale alloggia il protagonista, essa infatti è dotata di una fenditura, di un piccolo buco attraverso il quale poter spiare la stanza accanto. Tramite questo stratagemma il protagonista può infatti assistere, non visto, ad almeno due episodi, il primo è un breve colloquio amoroso tra la cameriera e il cuoco, mentre il secondo è un dialogo didattico-pedagogico che l’albergatrice intrattiene con una giovane di origine e nome sconosciuti. Dei due quello più interessante, ai fini del nostro discorso, è sicuramente il secondo. Anzitutto il narratore dichiara, non appena arrivato nell’albergo, come in una sorta di premessa alla narrazione che seguirà, che: «imparai ciò che in tanti anni pratico di viaggi, non aveva mai creduto. Fui sempre di parere che l’oste fosse degno di onore e d’ogni governo nella repubblica, e che molto errasse la universale opinione […] intorno a questa sorte di persone» (ivi, c. 19). Così come il narratore dalla stanza con la fenditura può osservare quello che veramente accade nell’albergo, il cortigiano assiste a tutte le molteplici metamorfosi del potere e alle perversioni che da queste si possono generare. Questi, non essendo legittimato a declamarle, è necessitato dal trovare un sotterfugio per esprimere tutto il proprio rammarico di fronte alle amare verità. «L’albergo è, perciò, una piccola corte, e la massa di personaggi diversi tra loro che vi compare simboleggia l’eterogeneità della vita cortigiana, che condensa situazioni decorose ed altre inconfessabili» (Raffaelli 2004, 32). Il ruolo che assume il protagonista è tanto più rilevante perché, come un cortigiano, egli ha da essere un intermediario fra l’albergatrice, cioè il potere, e gli ospiti dell’albergo, ovvero la società, essendo a conoscenza dei segreti dell’una e dell’altra, ma capace di ottemperare al suo compito in maniera decorosa, tacendo i segreti meccanismi della società di corte. Alla luce di ciò è certamente più chiaro perché, in ciascuna novella, Bisaccioni si soffermi spesso sull’arte della dissimulazione, generalmente attribuita alle sole donne. La dissimulazione e il silenzio sono le due grandi arti del cortigiano, dell’intellettuale prestato al potere [7]. Dunque come dicevamo, particolarmente interessante è il dialogo didattico-pedagogico tra l’albergatrice e una giovane, al quale il protagonista assiste comodamente nascosto. L’arte dell’albergare è la metafora dietro la quale si celano le considerazioni dell’autore sulla tecnica di governo.

L’albergare, figliuola cara, è la più onorevole virtù che sia fra le arti liberali e io chiamo virtù ogni esercizio che consiste più nella industria e acutezza di ingegno che nella operazione di mano e non ti maravigliare che io chiami tale questo mestiere perché si può e deve esercitare ogni giorno feriato o no senza scrupolo di coscienza. […] Ti parlarò prima della casa, poi delle genti che alloggiano e finalmente di te stessa (Bisaccioni 1638, L’Albergo, cc. 78-79).

L’albergatrice, dunque, si propone di entrare nel dettaglio, assumendo le parti di un precettore che si pronuncia in tono didascalico; parte dal definire l’arte da lei praticata come una virtù che non ha bisogno tanto della forza, quanto dell’ingegno. Espone, dunque, come proseguirà la trattazione, che verrà ordinatamente suddivisa in tre parti, con tono fortemente programmatico. Segue il primo punto interessante, la descrizione della casa/albergo; questa deve essere immacolata, pulita in ogni suo angolo per non attirare gente bassa e volgare, poiché la nobiltà è abituata a modi fini e cortesi. Dunque, l’apparenza che si deve dare, nella corte e in un albergo, è la medesima: centrali sono la cura e la trasparenza, ogni cosa deve stare al suo posto e deve dar l’idea di essere candida, nel caso di lenzuola e biancheria, incorrotta, se parliamo invece degli affari del regno. Tuttavia, dopo questa quasi stucchevole descrizione dell’attenzione maniacale che bisogna infondere nella cura di un albergo, emerge subito la doppiezza della figura dell’albergatrice, quando costei afferma: «Delle stanze abbi sempre duplicata chiave, l’una occulta, l’altra lasciata al passeggiere. […] dar la burla e trescar con tutti, ma essere innocente con ciascheduno» (ivi, c. 81). Una buona padrona di casa deve conoscere i segreti dei suoi ospiti e allo stesso tempo lasciare che questi si fidino di lei. Dopo la prima trattazione sulla casa, arriva come annunciato quella sulle genti. L’albergatrice deve aver grande cura e attenzione per il forestiero, quindi per lo straniero, perché è considerato coinvolto in affari redditizi e quindi più cedevole in fatto di liberalità, ma soprattutto è il suo ignorare i costumi locali a interessare un’astuta albergatrice: «Tu devi desiderare quelli che della città non sono pratichi, che la moneta non intendono e che de prezzi non siano informati» (ivi, c. 84). Ma si badi bene a non tenerlo troppo a lungo, poiché dopo tempo egli potrebbe accorgersi dei trucchi messi in pratica, «non è peste maggiore in un albergo di un forestiere che i tuoi costumi abbia appresi che alla fine è impossibile il tenerli tutti celati» (ibid.). Fuor di metafora, il forestiero è il cortigiano a cui sono indirizzate tutte queste cortesie, egli deve vivere agiatamente la vita di corte, adorare il suo signore se vuole viver sereno, perché nel momento in cui esso dà l’impressione di star fingendo o adulando, il suo servizio non è più richiesto. D’altra parte, anche il più astuto e manipolatore dei sovrani non riuscirebbe a tenere nascoste tutte le sue incongruenze; va da sé che, dopo un certo periodo di tempo, il cortigiano vada cacciato e sostituito con un altro forestiero, da intendersi dunque non solo come qualcuno di straniero per il solo fatto di appartenere a un’altra cultura, ma come qualcuno che letteralmente viene da foris, da fuori, e che dunque non è ancora a conoscenza delle dinamiche nascoste del potere. Infine, l’ultima parte è quella dedicata alla persona stessa dell’albergatrice e a come questa debba comportarsi. Anzitutto viene fatta una precisazione sulla centralità della figura della padrona, sovrana della sua piccola corte; tutto gira intorno a lei, e non c’è cosa che avvenga di cui lei non debba essere a conoscenza: «La padrona è l’anima di questo corpo e però deve esser tutta in ogni sua parte e tutta nel tutto, vedere e sapere quanto si fa per tutta la casa, non lasciar perdere qualsiasi minima occasione di guadagno» (ivi, c. 85). Ma l’arte più importante per un’albergatrice è una e una sola: «Sopra tutte le arti che sono alla albergatrice necessarie che di tutte essa ha bisogno, importantissima è la pittura, non perché tu debba col pennello in tela figurar genti, ma acciocché ben sappi colorire le menzogne col verisimile» (ivi, c. 87). Subito dopo l’ostessa arriva finalmente a concludere che tra il mestiere dell’albergatore, quello del principe e quello del buffone non vi è differenza alcuna se non nell’aspetto di questi tre diversi componenti della società; al contrario, quanto alla mente, ella ha da essere di alto ingegno. Essi parimenti devono fingere per guadagnare, devono «il rinnegare la propria volontà, il bestemmiare la verità e l’adulare, per guadagno» (ivi, c. 88). Già Raffaelli aveva notato che «l’aggiunta come terzo elemento del buffone conferisce una portata emblematica e dissacrante» (2004, 35). È poi l’albergatrice stessa a sostenere che il buffone e l’oste sono considerati vili, benché essi facciano lo stesso mestiere del cortigiano, «guadagnarsi la grazia con l’adulazione» (ibid.). Quindi, qui il livello metaforico è duplice: l’oste nel suo saper ordinare e governare una casa è pari a un principe, nel suo nascondere i segreti è simile al sovrano che cela le colpe inconfessabili, ma allo stesso tempo è simile al cortigiano, in quanto esperto dell’arte della dissimulazione. La dissimulazione allora è da intendersi come condicio sine qua non per l’arte del governo. Le due figure, del regnante e del cortigiano, diventano complici in questo meccanismo perverso fondato sull’arte del non dire, sull’apparire nel migliore dei modi agli occhi dei sudditi, della società e dei nemici. Una sottomissione che il cortigiano può accettare di buon grado, dal momento che egli è allo stesso tempo scudo e arma per il sovrano; difatti, conoscere i misfatti di un principe mette in una posizione scomoda e delicatissima, come espresso nella novella di Perseonta, contenuta nel secondo volume. Siamo in Persia, e il giovane e valoroso Perseonta è accolto nella corte di Artaserse come consigliere e suddito fidato. Quando Artaserse chiede a Perseonta di uccidere uno dei consiglieri più vicini al fratello Dario, egli non accetta subito, ma riflette bene sulle implicazioni future che potrebbero nascere dal rendersi complice di un crimine voluto dal re: «L’esser partecipe dei misfatti dei prencipi è un camminare con la morte al fianco. Ama il prencipe l’uomo esecutivo, come quello che se ne vede bisognoso, ma l’odia per dubbio, che ardisca contro di lui medesimo» (Bisaccioni 1638, Dell’Albergo, c. 290).

Un ritratto poco originale del buon principe

Come si è già detto, non tutte le novelle sono ambientante nella contemporaneità dell’autore, talune sono lontane nel tempo e nello spazio, sicché sembra che egli voglia indirettamente deprecare i vizi dei principi del suo tempo e tessere l’elogio delle virtù di quelli del passato. Non sarebbe certo cosa nuova se un autore avvezzo di storiografia si lanciasse nell’impresa di descrivere le caratteristiche del buon principe. La trattatistica cinquecentesca era stata in questo un modello prezioso, se solo si voglia pensare a Machiavelli:

Beati quei secoli, ne quali una virtù fuggitiva dall’ira di un prencipe trovava premio e ricovero in un altro. Infelice il nostro, dove pare, che solo il vizio sbandito da un regno abbia subito l’asilo dovunque passa, ma sia costretto il virtuoso per lo più, se vuole manducare e mendicare (ivi, c. 314).

Manducare e mendicare, con tale paronomasia – espediente retorico assai utilizzato dagli autori del Seicento – l’autore sintetizza finemente il ruolo dell’uomo di corte, che mendica attenzioni per poter sopravvivere. Bisaccioni, in quanto segretario al servizio di molti sovrani, ha potuto toccare con mano gli strumenti del mestiere politico e meglio di altri può descrivere la figura dell’ottimo regnante; tuttavia, il ritratto che possiamo ricostruire non è poi così originale. La prima descrizione che viene presentata è quella del principe di Avellino, Marino Caracciolo [8]. Egli è un uomo magnanimo, cortese, dedito alle arti e all’opulenza. Viene infatti descritta una grande festa organizzata in occasione del Carnevale, con gran tripudio di addobbi, decori, vestiti riccamente decorati, sale piene di specchi, statue e oro:

Marino Caracciolo prencipe di Avellino fu signore di riguardevoli stati, di molta facoltà, che bene a sessanta mila scudi ascendeva di rendita e di così abbondanti e reali abbigliamenti aveva il palazzo, o castello, adornato che la sua corte poteva con molte de prencipi liberi gareggiare. Fu questo signore di poca salute e di minor sonno, ma di grand’animo […] egli fu il mecenate del regno e la sua corte di fertili ingegni abbondò (Bisaccioni 1638, L’Albergo, c. 168).

Nella descrizione della corte e dei suoi ospiti figura anche la persona di Giambattista Basile, autore della celebre raccolta di fiabe in napoletano, Lo cunto de li cunti, nella quale l’autore descrive ricchezza e povertà, nobiltà e popolino. Il Seicento napoletano è un’epoca di forti idiosincrasie, in cui sacro e profano si mischiano tra loro dando vita a strane convivenze. Così, mentre la corte avellinese viveva nel lusso più sfarzoso e nella beatitudine profusa dall’arte, il popolo annegava nella povertà, nell’ignoranza e nella criminalità. Tuttavia, dare spettacoli pubblici e feste era la consuetudine nelle monarchie spagnole, un mezzo politico per tenere a freno la nobiltà e il popolo, che nel frattempo accanto ai fasti bacchici affrontavano il dissanguamento delle leve per le guerre. Una caratteristica del sovrano dunque è la liberalità, in linea con la trattatistica politica e la letteratura giunta sino a noi. Già in epoca medievale un buon re doveva essere innanzitutto generoso, ma anche saggio e prudente. Tuttavia, la larghezza in questo caso non si applica al popolo, ai sudditi, ma è prerogativa esclusiva della corte, ed è un mezzo per corrompere i nemici e assicurarsi gli amici, quando questa è ben praticata: «Gran politica insin da quei tempi conosciuta di vincere con i doni, e con gli onori. Il saper corrompere il ferro con l’oro e i petti con gli onori è ben da molti inteso, ma da pochi ben praticato» (ivi, c. 216). Il principe poi, secondo la logica della ragion di stato, deve fare tutto ciò che è in suo potere per mantenere l’ordine e il suddito deve sacrificarsi in nome dell’utilità:

Non dover l’uomo onorato muoversi a sdegno per qualunque cosa li faccia il prencipe, sapendo che allo spesso egli opera per necessità, non per elezione. Necessità chiamandosi tutto quello che per salute dello stato si fa, né darsi necessità maggiore che non lasciare invendicata la offesa fatta in casa reale e se deve il suddito la vita stessa al suo signore per beneficio dello scettro, ben poteva egli soffrire con buon animo una mutazione di fortuna (ivi, cc. 156-57).

Mantenere l’ordine comprando i nemici [9], nascondendo i segreti della corte, ha soprattutto un unico grande obiettivo, il consenso dei sudditi per la conservazione del potere:

La maggior pena, che possa darsi al prencipe, e che avanza la morte, è la mala fama, e questa nasce da chi non punisce pubblicamente i rei, essendo solo d’Iddio il distribuire o pene o vendette occulte; grave pena del prencipe è l’odio, che il popolo concepisce di morti nascoste, come quelle che sono stimate ingiuste, e quest’odio snerva l’obbedienza, la fede, e la prontezza dei cuori; il prencipe micidiario veste l’abito de’ privati; può ben egli occultare le cagioni delle morti, anzi doverebbe vestirle di apparenza giusta, ma non mai commetterle ad altri, che a ministri a questo effetto destinati (ivi, c. 304).

Ecco che si arriva allora alla caratteristica principale di una corte, il vero motore dell’attività politica, la dissimulazione: «Il principal magistero d’una corte è il far credere il falso e occultare il vero, e è antica la proposizione di ingannare allo spesso li ministri propri, non che gli estranei» (ivi, c. 59). In quest’arte il principe non può cimentarsi da solo, egli ha bisogno del ministro, del segretario, il quale, come abbiamo già detto, mette in atto quest’abile tecnica del non dire su un duplice livello. Egli deve infatti celare i peccati del suo sovrano e dimostrare la sua incorrotta fedeltà verso il regno e verso i sudditi, e contemporaneamente deve celare sé stesso, la sua etica e le sue opinioni al sovrano stesso, dimostrando a quest’ultimo la propria devozione e il proprio asservimento. Essere un sottoposto al potere in simili condizioni non è così auspicabile, è un ruolo di grande responsabilità e richiede abilità sopraffine. Difficilmente si conquista il cuore di un sovrano, e altrettanto difficilmente si riesce a mantenere l’adorazione del popolo nei confronti della casa reale. In questo senso allora possiamo intendere le strettezze derivate dalla condizione dell’autore, che lo hanno spinto a lasciare definitivamente il suo ruolo di segretario presso principi e re di tutta Europa e a rifugiarsi nella Repubblica di Venezia, dove il potere non è nelle mani di uno solo e l’asservimento non è così spudorato. Inoltre, in questa lotta verso la conquista della fiducia del re e del consenso del popolo, la figura mediatrice del cortigiano ne esce inevitabilmente sconfitta, e a testimonianza di ciò sono le numerose sentenze amareggiate che l’autore dissemina in tutta l’opera, come: «Il gentiluomo e il prencipe restano sempre nei gradi loro, il contadino e il cortigiano sono quelli che vanno a capo rotto di robba e di onore e quello che è peggio, sono poi anco burlati» (ivi, cc. 270-1). Con l’ennesima similitudine tra la figura del sovrano e quella del gentiluomo, che, detentori di un privilegio, ne fanno abuso su chi, nonostante qualsiasi tentativo di scalata sociale, rimarrà sempre un loro sottoposto, Bisaccioni dipinge in toni pessimistici la figura del segretario, fondamentale, ma sostituibile. Al pari di un contadino, sul quale grava l’economia della villa, benché sia poi il gentiluomo a raccoglierne i frutti e il merito, un cortigiano deve costantemente oliare le macchine del potere e provvedere al loro corretto funzionamento, stando però nella vigile ombra.

Prima del Bisaccioni, già altri intellettuali avevano intuito la necessità di rifuggire il sistema politico della corte e cambiar vita, cercando fortuna nella Serenissima [10]. Dunque, ci è sembrato opportuno iniziare quest’analisi della tematica politica presente nell’Albergo di Bisaccioni citando icasticamente un passo dal testo: «In vero che le repubbliche a me piacciono molto più dello stato monarchico, quanto alla forma del pubblico governo, ma se poi volessi paragonare nel tratto del corteggio, del festeggiare e delle delizie private, al governo del prencipe solo negarei il retto senso e mi vi darei a credere per insipido» (Bisaccioni 1638, Dell’Albergo, c. 340). Siamo quasi alla fine della narrazione novellistica, è la penultima novella raccontata prima del congedo finale dell’autore ai lettori, occorrenza da ritenersi, forse, non casuale. In tutta l’opera, l’autore si è cimentato nella descrizione dei detentori del potere e delle loro corti, facendone un ritratto frammentato che abbiamo cercato mano a mano di ricomporre; il potere di uno solo ha in sé inevitabilmente luci e ombre, ma non è tanto la compresenza di pregi e difetti della sovranità che all’autore interessa sottolineare, quanto l’arte del celare, del nascondere ciò che vi è di scabroso che mantiene in piedi il potere del principe, perché l’unica cosa che possa tutelarlo di fronte alla destituzione è creare il consenso dei sudditi e comprare l’appoggio dei nemici, perché in caso contrario non vi sono legami dinastici che possano valere.

Conclusioni

Maiolino Bisaccioni si pone come un autore interessante almeno per due ragioni. La prima è una questione di tipo contenutistico: egli è rappresentante di un gruppo sociale ben definito, non è solamente un intellettuale, ma partecipa attivamente alla vita politica, unendosi a diverse campagne militari e legandosi a principi di tutta Italia. Abbiamo più volte ribadito la centralità dell’esperienza presso le corti nell’elaborazione letteraria della raccolta di novelle. L’autore ferrarese, inoltre, è da ritenere tanto più degno di nota se si vuole considerare la sua opera come un tentativo riuscito di esprimere liberamente la propria opinione in maniera tacita e velata; probabilmente, un trattato di genere storiografico che smaschera apertamente le ombre dell’arte del governare non avrebbe subito le stesse sorti e di certo non avrebbe goduto di una larga circolazione. Stando invece alle ristampe e alle edizioni che dell’Albergo circolarono, nonché alle successive raccolte di novelle dello stesso autore, possiamo senza dubbio pensare che questo tipo di letteratura ebbe un certo successo e non solo in ambienti letterari elitari come le accademie. Analizzando l’opera, infatti, è emersa la volontà dell’autore di esprimere idee e pensieri talvolta troppo audaci nei confronti degli assaetti politici contemporanei. L’obiettivo dell’autore, a nostro avviso, non è tanto quello di smascherare un sistema corrotto e agonizzante, quanto quello di riportare un’esperienza realmente vissuta, e al contempo fittizia, per trarne materia di racconto. Bisaccioni parte dell’osservazione del reale e si erge a interprete dello stesso, con lo scopo principale di intrattenere, di dilettare. Quest’attitudine è presente in realtà in tutta la produzione bisaccioniana, anche nella storiografia, che non si pone mai in maniera oggettiva di fronte alla descrizione degli eventi, ma è ugualmente filtrata dalla personalità dell’autore. Per tali ragioni, si potrebbe cadere nel giudizio negativo di ritenere l’Albergo un’opera ripetitiva, ridondante ed eccessivamente prolissa, come certamente è stata condannata dalla critica otto-novecentesca; essa va invece considerata un importante momento della letteratura italiana, non solo in quanto testimonianza delle caratteristiche tipiche della prosa barocca – enciclopedismo, gusto per il particolare, ricercatezza lessicale –, ma soprattutto come attestazione di quell’ambito letterario ancora poco indagato dalla critica che è la novellistica secentesca.

Fonti

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Note

1. Per la ricostruzione del pensiero politico dell’autore seicentesco sulla scienza del governo e per l’individuazione, nella teoria bisaccioniana, di una società per necessità gerarchicamente organizzata, a partire dalla suprema autorità divina, Martelli 2010.

2. Sulla vita del Bisaccioni, Castronovo 1968; Taddeo 1992.

3. Bisaccioni 1638, c. 340. Da qui in avanti si userà L’Albergo per indicare il volume primo e Dell’Albergo per il secondo.

4. Per una panoramica della storiografia seicentesca, Spini 1946.

5. Per approfondire i rapporti tra Bisaccioni e l’Accademia degli Incogniti, Miato 1998.

6. Per un approfondimento sull’argomento, Raffaelli 2004.

7. Per approfondimenti sull’argomento, Nigro 1983; Villari 2003; Quondam 1983.

8. Bisaccioni si reca al servizio dei duchi di Avellino nel 1621. Il principe Marino era figlio del duca Camillo Caracciolo, che militò per l’intera sua vita, specialmente nelle Fiandre. Marino Caracciolo, nato nel 1597 da Camillo Caracciolo e Roberta Carafa dei duchi di Maddaloni, famiglia importante a Napoli, dopo aver seguito il padre nelle Fiandre, ed esserne tornato ferito nel corpo e nello spirito, decise di dedicarsi allo studio delle scienze e delle lettere (Croce [1927] 1963).

9. «Hanno li prencipi sempre nelle città nimiche persone comprate con l’oro o con altri beneficii, che tutto ardiscono» (Bisaccioni 1638, Dell’Albergo, c. 152).

10. Pietro Aretino è uno dei primi intellettuali a percepire il potere economico della Repubblica veneziana; circa cento anni prima di Bisaccioni, egli interrompe definitivamente i rapporti con le corti settentrionali in cerca di una svolta nella sua carriera di intellettuale che non ha mai voluto sottomettersi completamente al monarca cortese. Egli è tanto più fondamentale per aver delineato, già nel Cinquecento, una nuova figura di intellettuale, dedito più al guadagno che non all’adulazione. Su questo tema, Sberlati 2018.