Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

Fra corporativismo e sociologia: Camillo Pellizzi nell’interpretazione di Mariuccia Salvati

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Abstract

This paper comments on Mariuccia Salvati’s analysis of the life and work of Camillo Pellizzi. The commented book comprehensively and convincingly reconstructs Pellizzi’s personality in the context of fascist and post-fascist Italy, focusing on issues such as corporatism, the theory of elites, the teaching of sociology.

Scrivere la biografia intellettuale di Camillo Pellizzi è un’impresa difficile. Oggetto della narrazione è una vicenda politico-culturale complessa, un’intricata matassa da dipanare, una rete di percorsi che si intersecano e si sovrappongono. Potremmo ragionevolmente attenderci una ricostruzione faticosa e tortuosa. Al contrario, il libro di Mariuccia Salvati è fluido e scorrevole: ordina i dati senza pedanterie o forzature, accompagna il lettore con discrezione e intelligenza nei percorsi più accidentati e genera l’illusione di avere a che fare con una realtà semplice e chiara (un’illusione però nella quale non può cadere chi abbia una conoscenza anche solo superficiale del personaggio biografato).

Mi limito a ricordare alcuni aspetti della multiforme attività e della poliedrica personalità di Camillo Pellizzi. La sua formazione universitaria è giuridica e si svolge a Pisa, dove si laurea con Santi Romano nel 1917, pur vivendo per intero l’esperienza della guerra. La sua educazione giuridica si unisce a precoci e durevoli interessi, da un lato, filosofici, e, dall’altro lato, storico-letterari, che, lungi dall’essere un divertissement, occuperanno una parte importante della sua attività professionale. Egli, infatti, soggiorna e lavora per molti anni in Gran Bretagna, dove, a partire dal 1920, si accredita come studioso di letteratura italiana all’University College di Londra. Al contempo, i suoi molteplici interessi culturali sono immersi e, per così dire, temprati nel crogiolo di un impegno politico-intellettuale che è dominante nell’intero ventennio fascista, ma non si interrompe nemmeno con la fine del regime. Infine, dopo la crisi del fascismo, la tempesta della guerra e il difficile dopoguerra, Pellizzi, giurista, storico della letteratura e polemista, si trova a occupare la prima cattedra di Sociologia dell’ordinamento universitario italiano.

Non è facile trovare il bandolo della matassa. Mariuccia Salvati lo ha trovato, con magistrale (e apparente) semplicità. Certo, l’autrice poteva avvalersi, in questa impresa, della sua lunga esperienza e dei notevoli successi conseguiti nella difficile arte di combinare, in un affresco unitario, le storie individuali e le storie collettive: di assumere anzi le storie individuali come snodo e rifrazione delle interazioni intersoggettive. Mi limito a ricordare, da questo punto di vista, due scritti cui sono particolarmente affezionato: Passaggi (Salvati 2016) e Da Berlino a New York (Salvati 2000), dedicato agli intellettuali tedeschi in esilio alla vigilia della Seconda guerra mondiale. Il fascino di questi lavori deriva appunto dalla riuscita integrazione fra le esistenze individuali e la rete dei rapporti che le plasmano e le trasformano. Anche nel caso di Pellizzi, intenderne gli scritti implica porli in sinergia con le esperienze che conferiscono a essi il loro senso storicamente determinato.

Non mi è possibile soffermarmi sui tanti snodi tematici e sui tanti personaggi che affollano il libro di Mariuccia Salvati. Ne sceglierò solo alcuni, pur consapevole di spezzare, con una selezione inevitabilmente arbitraria, la coerente compattezza della narrazione.

Innanzitutto, il “fascismo” di Pellizzi. Ovviamente, è ormai remoto il tempo in cui Norberto Bobbio, muovendo da un concetto “assiologico” di cultura, rifiutava di prendere in considerazione l’ipotesi di una “cultura fascista”. Oggi è semmai attuale la domanda di Alastair Hamilton sull’appeal del fascismo (Hamilton 1971), sul fascino che il fascismo ha esercitato su una nutrita e variegata schiera di intellettuali, divisi peraltro nelle aspettative che nutrivano nei suoi confronti. In quale fascismo si riconosceva Pellizzi? Quale è stato il suo rapporto con il movimento e poi con il regime fascista?

Fascista della prima ora, Pellizzi non è né un opportunista né un fiancheggiatore, ma è un intellettuale costantemente impegnato a far tesoro di ciò che gli appare un’occasione decisiva per il rinnovamento del paese. Che cosa sia il fascismo per Pellizzi ce lo dice precocemente un libro del ’24, Problemi e realtà del fascismo, redatto da un Pellizzi ventisettenne: il fascismo è la promozione degli àristoi, è l’espressione e il tramite del primato, morale e politico, dei “migliori”. Contro ciò che Pellizzi chiama la mimetica – l’inerte imitazione e prosecuzione degli equilibri consolidati – il fascismo si fa portatore della metessica: della capacità di salvare la tradizione, ma anche di lanciarla verso il futuro, facendo leva su un gruppo di individui audaci ed eccellenti.

Quali siano le principali auctoritates del giovane Pellizzi ce lo dice Mariuccia Salvati: l’elitismo italiano (da Mosca a Pareto), da cui egli trae la convinzione che il processo politico è guidato e indirizzato dalle classi dirigenti, quale che sia la formula (come diceva Mosca) politica e ideologica adottata, e poi Sorel e l’idea della forza trainante del mito, Nietzsche e il suo disprezzo per l’umanitarismo democratico, senza dimenticare Gentile e l’attualismo. È di Gentile, peraltro, l’idea, condivisa da Pellizzi, della forza rigeneratrice della guerra: è la Grande guerra che ha mostrato il ruolo salvifico di pochi audaci, chiamati, nella crisi del dopoguerra, da un lato a imporsi, se necessario, con la violenza; dall’altro a mettere a disposizione le loro competenze per l’instaurazione di un ordine nuovo.

Sono implicite in questo orientamento alcune inclinazioni di fondo del fascismo di Pellizzi. In primo luogo, il ruolo centrale delle élites nel movimento storico implica una visione sostanzialmente pessimistica delle masse e la necessità di tradurre la funzione di guida assegnata agli àristoi in un compito di educazione collettiva. Da qui l’attenzione di Pellizzi, da un lato, alla scuola e all’esigenza di una sua riforma (segnalo le pagine, 106 ss., dedicate da Mariuccia Salvati a questo tema e al rapporto fra Pellizzi ed Ernesto Codignola); dall’altro, alla dimensione retorica e persuasiva della scrittura, all’importanza, diremmo oggi, della comunicazione sociale.

Appare in questa prospettiva comprensibile una scelta altrimenti difficile da decifrare: la vicinanza di Pellizzi all’intransigentismo fascista e la sua presa di distanza da Bottai, con il quale pure restano ferme alcune consonanze che dureranno per l’intero ventennio fascista e oltre. Certo, Pellizzi tiene fermo il primato delle aristocrazie e il ruolo insostituibile delle competenze e dei saperi, ma al contempo è convinto della necessità di gettare un ponte fra centro e periferia, fra élite e masse. È questo il senso della collaborazione ai giornali di Strapaese: a L’Italiano di Longanesi e a Il Selvaggio di Maccari. Per Pellizzi tutto ciò «era una via – scrive Mariuccia Salvati – per uscire dalla torre d’avorio» (p. 176) e per costruire «quell’ethos comune di cui egli continuava a sentire la mancanza in Italia» (p. 177), fino a esaltare il ruolo – scrive l’autrice – «dello squadrista, della minoranza incorrotta, dell’aristòcrate-ras» (p. ١٢٤). «Nasceva – conclude Mariuccia Salvati – il saggista-giornalista, né militante né funzionario» (p. ١٧٦). Certamente Pellizzi non è un intellettuale-funzionario: glielo impedivano la sua vivacità intellettuale e il suo anticonformismo. Non escluderei però che egli potesse essere iscritto alla categoria degli intellettuali “militanti”, a patto, certo, di intendere la sua “militanza” come un impegno attento, più che alle ortodossie, al concreto mutare delle situazioni e degli interlocutori (e un impegno che si traduce comunque in una scrittura che ha il carattere dell’esplorazione saggistica e non della trattatistica “dogmatica”).

In nome dell’esigenza di persuadere e di educare, Pellizzi è pronto a calibrare il suo stile per renderlo congeniale ai lettori dei giornali “strapaesani”. Nemmeno in questa sede, tuttavia, Pellizzi cessa di insistere sul suo tema di elezione: la necessità di una classe dirigente per un’Italia rinnovata dal fascismo (p. 180). È questo il tema che accompagna il suo impegno politico-intellettuale e si integra con ciò che egli ritiene l’elemento programmaticamente centrale del fascismo: il corporativismo.

Già nel suo libro del ’24 Pellizzi vede nel progetto corporativistico lo strumento decisivo per uscire dalla crisi del dopoguerra attraverso una rinnovata strumentazione del rapporto fra capitale e lavoro. Il corporativismo cui il fascismo si sta orientando non è un esperimento improvvisato, ma è un’aspirazione già presente nell’Italia ottocentesca: per Pellizzi il corporativismo – scrive Mariuccia Salvati – «è uno degli elementi più vitali della società italiana prebellica» (17) e al contempo una proposta che trova consensi e simpatie insospettate in tutta Europa e anche in Gran Bretagna, paese di elezione di Pellizzi, in movimenti di opinione apparentemente molto lontani dalla cultura politica del fascismo quali il ghildismo e il socialismo fabiano. Mariuccia Salvati dedica pagine illuminanti, in generale, agli ambienti inglesi frequentati da Pellizzi, e in particolare alle singolari propensioni “corporativistiche” dei fabiani, a riprova della ricchissima tela di rapporti, di influenze, di scambi che la sua ricerca riesce a ricostruire intorno e attraverso la traiettoria individuale di Pellizzi (163 ss.).

Per Pellizzi il fascismo è una rivoluzione, che però vuol essere al contempo il recupero e il rilancio della tradizione. Di una siffatta rivoluzione il corporativismo vuol essere un’efficace concrezione proprio perché, da un lato, intende dar voce a esigenze diffuse nella cultura europea otto-novecentesca e, dall’altro, si propone come una nuova e coraggiosa soluzione del sempre irrisolto conflitto fra capitale e lavoro, una soluzione celebrata come una provvidenziale via intermedia fra gli estremi del liberalismo e del bolscevismo.

Il processo di costruzione del regime sembra dar ragione alle aspettative di Pellizzi: l’attenzione al corporativismo cresce esponenzialmente nel periodo che va dalla legge Rocco del ’26 al famoso convegno di Ferrara, del ’32, che, in qualche misura, può essere visto come il culmine delle aspettative progettuali dei corporativisti più convinti e al contempo come l’inizio di una progressiva implosione.

Il convegno di Ferrara ottiene gli onori della cronaca (anche al di là della cerchia degli addetti ai lavori) come palcoscenico della famosa, e scandalosa, relazione di Ugo Spirito sulla corporazione proprietaria. Al di là delle funamboliche identificazioni attualistiche di soggetto e oggetto, Stato e individuo, cui si dedicavano tanto Spirito quanto Volpicelli, fa la sua comparsa un tema meno speculativo e assai più promettente sul terreno dell’organizzazione socioeconomica e politica: il tema della gerarchia. È Ugo Spirito che sottolinea l’importanza della gerarchia: una gerarchia che riesce a conciliare i molti e i pochi, la qualità e la quantità. Se l’economia – afferma Ugo Spirito – «si organizza gerarchicamente», la politica e l’economia possono entrambi risolversi «nell’unica integrale gerarchia tecnica» (Spirito 1934, 23). Erano accenti che non potevano non piacere a Pellizzi, da sempre sostenitore del ruolo degli àristoi e dell’importanza delle competenze. Al contempo, però, il futuro docente di sociologia non si lascia incantare dalle fumisterie dell’identità di individuo e Stato e non manca di insistere sull’insopprimibile trascendenza dell’autorità e sulla necessaria articolazione e differenziazione dell’apparato potestativo (Pellizzi 1933, 153). Né può essere condivisa da Pellizzi, come ricorda opportunamente Mariuccia Salvati (p. 214), la sottovalutazione del partito e della sua funzione educativa.

Pur nella varietà degli accenti e nel divampare delle polemiche, il convegno di Ferrara è comunque la conferma e l’espressione della convinzione di fondo di Pellizzi: la convinzione che il corporativismo sia il prodotto più qualificante del fascismo. Si dirà: la celebrazione dello Stato corporativo è il messaggio ossessivamente trasmesso, nel corso degli anni Trenta, da un immane coacervo di testi impegnati nel tentativo di una massiccia fascistizzazione della cultura politico-giuridica. Sarebbe però indebito immergere gli interventi di Pellizzi nella nebbia della retorica di regime perdendo di vista il loro timbro caratteristico, che non ha molto da spartire con la vuota enfasi di interessati fiancheggiatori o di incolti militanti. Pellizzi è capace di uno sguardo lungo e di una prospettiva ampia, che non ha niente di provinciale, e il suo corporativismo non è il frutto di un’improvvisazione posticcia: al corporativismo egli guardava già nei primi anni Venti e ancora al corporativismo si richiamerà post festum, nel secondo dopoguerra, continuando a vedere in esso (non nella sua realizzazione o meglio mancata realizzazione, ma nella sua immanente destinazione progettuale) la risposta storicamente più tempestiva al conflitto fra capitale e lavoro.

Siamo di fronte a una tenace illusione? Per lungo tempo la storiografia ha presentato il corporativismo come una montagna che partorisce il topolino, sottolineando la discrasia fra il discorso corporativistico e l’effettiva gestione del processo politico-economico. Certo, il corporativismo fascista è stato un efficace dispositivo retorico, un ingranaggio della macchina deputata alla costruzione del consenso. E possiamo vedere nelle numerose logomachie cui ha dato luogo la trasposizione discorsiva di conflitti di potere interni al regime. E tuttavia non manca nella letteratura corporativistica la percezione o addirittura la tematizzazione di ciò che, per usare una frase di Alessio Gagliardi, è il «problema centrale della politica moderna»: come conciliare la pluralità degli interessi con l’unità di comando dello Stato (Gagliardi 2010, ix).

Secondo Pellizzi, il corporativismo era la chiave per affrontare i problemi socioeconomici più importanti. È una convinzione che Pellizzi continua tenacemente a coltivare in tutto l’arco della sua riflessione. Valga come conferma il convegno che Pellizzi, come direttore dell’Istituto nazionale di cultura fascista, dedica al “Piano economico” e organizza in due sezioni distinte, la prima nel novembre del ’42 e la seconda nell’aprile del ’43 (Melis 1997). Il tema della pianificazione economica era già comparso, come ricorda Mariuccia Salvati (pp. 318 ss.), nella pubblicistica degli anni Trenta e nel convegno di Ferrara. Vi si erano riferiti tanto Spirito quanto Bottai (un «programmatore degli anni Trenta», come recita il titolo di un saggio di Sabino Cassese (Cassese 1970; Faucci 1999, 9-58); e tornano a discuterne, nel convegno, lo statistico Paolo Fortunati e l’aziendalista Federico Pacces. Parlare di “corporativismo” e di “pianificazione”, nel ’43, non è parlare di un passato ormai concluso: al contrario, è entrare nel merito di quel contrasto fra liberismo e dirigismo di cui il corporativismo si era proposto come soluzione e che – come scrive Mariuccia Salvati – «di lì a pochissimi anni […] si sarebbe ripetuto nel governo nazionale neorepubblicano» (p. 320).

È ancora al corporativismo che guarda Pellizzi nel secondo dopoguerra, quando, nel ١٩٤٩, scrive Una rivoluzione mancata: un libro «che altro non è – scrive Mariuccia Salvati – se non il racconto del tentativo, da parte di una élite consapevole, di trasformare la nazione in senso corporativo, a cavallo degli anni ’20 e ’30» (p. 367). Il tentativo è fallito; ed è proprio questo fallimento che ha decretato l’insuccesso del fascismo. Il fascismo è imploso non perché ha realizzato il corporativismo, ma perché lo ha sostanzialmente disatteso.

La rivisitazione della parabola corporativistica proposta da Pellizzi nel suo libro del ’49 ha gli accenti non di una palinodia, ma di una conferma: la conferma delle sue mai smentite aspettative nei confronti del corporativismo; la reiterata convinzione che il corporativismo fosse la giusta diagnosi e la giusta terapia delle disfunzioni socioeconomiche del Novecento. Il libro del ’49 è un’ulteriore conferma di questa tesi di fondo, anche se non omette di denunciare il fallimento dell’operazione chirurgica – tanto per usare una metafora impiegata dallo stesso Pellizzi – approntata dal fascismo. Certo, nel secondo dopoguerra intervengono nuovi autori di riferimento: a partire da James Burnham, che Pellizzi aveva contribuito a far conoscere in Italia traducendo per Mondadori, nel 1946, Una rivoluzione dei tecnici (o meglio dei managers). È nei managers di Burnham che Pellizzi ravvisa, per così dire, una qualche aria di famiglia con gli àristoi che egli aveva celebrato già nei lontani anni Venti, e che aveva creduto di ravvisare nella “gerarchia” teorizzata da Ugo Spirito.

In Pellizzi è presente un singolare mélange, efficacemente ricostruito dal nostro libro: da un lato egli mantiene, nel lungo e tormentato periodo storico in cui si svolge la sua vita, una sostanziale fedeltà a una visione politico-sociale precocemente delineata; dall’altro, tuttavia, è sensibile al mutarsi dei tempi e pronto a modulare le sue tesi di fondo in rapporto a essi. Contribuiscono forse ad acuire la sua sensibilità al mutamento la sua simultanea appartenenza a due ambienti culturalmente e politicamente assai diversi (l’Italia e la Gran Bretagna) e la sua distanza da incarichi e oneri immediatamente politici. C’è un’unica eccezione (come non manca di sottolineare Mariuccia Salvati): l’accettazione della direzione dell’Istituto nazionale di cultura fascista in anni di crescente difficoltà e drammaticità. E non è forse un caso che proprio nel momento della sua più diretta compromissione politica Pellizzi mostri una sostanziale subalternità nei confronti delle scelte filotedesche del regime e delle leggi razziali; appare francamente debole il suo tentativo di aggirarle “spiritualizzando” o de-biologizzando il razzismo di Stato, e ancora più singolare e improbabile suona il suo tentativo di contrapporre la dottrina nazionalsocialista all’ideologia fascista, presentando la prima come “particolaristica” e la seconda come “universalistica” (o, diremmo, “inclusiva”).

Pellizzi sembra dunque disposto a inghiottire l’orrido boccone delle ideologie razziali, ma non chiude gli occhi di fronte alla gravità di una situazione che appare ormai compromessa. È in questo difficile periodo che egli organizza non solo il convegno sul Piano economico, che ho ricordato, ma anche un convegno sull’idea di Europa, in entrambi i casi «con l’obiettivo – scrive Mariuccia Salvati – di prefigurare il nuovo ‘ordine europeo’ dopo la fine della guerra» (p. 318). È in questa prospettiva che Pellizzi comincia a pensare a un futuro comune per l’Europa e a prendere contatto con alcuni federalisti verosimilmente vicini a Colorni. Il contatto era destinato a fallire, ma l’idea sarebbe stata ancora coltivata da Pellizzi nel dopoguerra: l’idea – scrive Mariuccia Salvati – di «un disegno europeo basato su un minimo comune denominatore […] incentrato su grandi programmazioni per i bisogni essenziali delle popolazioni civili» (p. 353).

Certo, erano fiori coltivati sul ciglio di un abisso: l’abisso che si spalanca nel 1943 e si chiude con la fine della guerra e con il faticoso avvio della ricostruzione. Pellizzi stesso rischia di essere travolto, prima dall’ostilità dei sostenitori della Repubblica di Salò e poi dall’epurazione che lo priva della cattedra. La cattedra però gli viene infine assegnata di nuovo: ed è la cattedra di Sociologia, la prima – e per lungo tempo l’unica – cattedra di Sociologia in Italia. È quindi quanto mai pertinente il titolo del paragrafo che apre il quarto e ultimo capitolo del nostro libro: «dal corporativismo alla sociologia».

Il titolo è pertinente perché la sociologia coltivata da Pellizzi continua ad affrontare quei problemi strutturali della società industriale che erano stati messi a fuoco dal corporativismo e attendevano ancora, nel secondo Novecento, di essere presi sul serio e adeguatamente reimpostati. È in questa prospettiva che devono essere lette le pagine che Mariuccia Salvati dedica alla nouvelle vague giuslavoristica che si viene sviluppando negli anni Cinquanta-Sessanta con Gino Giugni e Federico Mancini. Sono pagine non solo interessanti come tali, ma anche funzionali alla comprensione dell’ambiente nel quale l’ultimo Pellizzi veniva insegnando e riflettendo. È un ambiente nel quale si laurea con Pellizzi Giovanni Evangelisti, il futuro direttore editoriale del Mulino, che, come scrive Mariuccia Salvati, trova in Pellizzi un docente che «gli ha fornito il quadro di riferimento e il know-how della disciplina e, dunque, anche dell’editoria sociologica» (p. 391).

Come è facile intendere, il sottile gioco delle continuità e delle discontinuità – croce e delizia, passaggio ineludibile e insidioso di ogni ricognizione storiografica – trova in Pellizzi uno straordinario banco di prova. Chi si cimenti con la sua biografia è costretto a tenersi in equilibrio su una corda, consapevole della difficoltà di soppesare fratture e permanenze. Anche da questo punto di vista il libro di Mariuccia Salvati è esemplare: esso riesce a delineare un ritratto a tutto tondo di Pellizzi, un ritratto dove le sfumature, le tensioni, anche le contraddizioni del personaggio trovano una loro coerenza e concorrono a restituirci il suo volto in tutta la sua storica concretezza e complessità. Il libro di Mariuccia Salvati non colma soltanto (come si usa dire) una lacuna storiografica. È un libro che ci fa capire meglio, insieme a Pellizzi, una fase decisiva e complessa di una storia che arriva fino a noi.


Bibliografia

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