Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Le ‘Indie’ della peste: il contributo gesuita all’ampliamento semantico del concetto di ‘martirio’

PDF
Abstract

The Jesuit theological reflection has played an important role in the long process of redefining the semantic extension of the term ‘martyrdom’. The originality of the Jesuit contribution on the topic is evident in the reflection on the “martyrio per pestem”. Through the study of two consolatory letters written by General Muzio Vitelleschi and the analysis of the “litterae indipetae” it is possible to trace the fourth directive of action of the Jesuit missionary magisterium, the “Indies of the plague”, and to clarify the importance and vividness of Jesuit discussion on the martyrdom for charity. 

Con la pubblicazione della lettera apostolica in forma di motu proprio Maiorem hac dilectionem, dell’11 luglio 2017 Papa Francesco ha realizzato una riforma dottrinale di vitale importanza per la ridefinizione dei modelli di perfezione cristiana della Chiesa Cattolica, introducendo l’«offerta della vita» propter caritatem come quarta via – distinta da quella del martirio, dell’eroicità delle virtù e, infine, della cosiddetta «beatificazione equipollente» – da poter percorrere per l’ottenimento della santità (Ponzo 2020). Questo riconoscimento può essere ottenuto soltanto nel caso in cui risponda anche ai seguenti criteri: quando il dono di sé è frutto di una libera e volontaria scelta dettata dalla carità; la morte prematura è strettamente collegata alla offerta della vita; quando le ragioni di questa offerta siano dimostrabili attraverso documenti, che attestino la fede dell’offerente e la propensione nei confronti del prossimo, e passate al vaglio di una scrupolosa indagine canonica; il candidato presenti virtù eroiche, almeno a un livello ordinario; esista una diffusa e spontanea fama sanctitatis; vi sia l’attestazione di miracoli.

Difatti, la sensibilità apostolica del papa gesuita ha istituzionalizzato la via alla beatificazione e canonizzazione di «quei cristiani che, seguendo più da vicino le orme e gli insegnamenti del Signore Gesù, hanno offerto volontariamente e liberamente la vita per gli altri ed hanno perseverato fino alla morte in questo proposito» (Francesco I 2017), dando così concretezza al vivo e accesso dibattito sul tema che – come vedremo – ha entusiasmato la riflessione teologica più radicale dell’ultimo secolo. Secondo monsignor Marcello Bartolucci, segretario della Congregazione delle Cause dei Santi dal 2010 al 2020, l’offerta della vita propter caritatem può parzialmente assomigliare alla via del martirio perché entrambe le strade comportano una gratuita offerta di sé stessi, fino al raggiungimento della morte, ma con la differenza che nel secondo caso questa avviene in odium fidei. Proprio su questo punto risiede il nocciolo della questione dibattuta.

Tale atto papale è infatti il compimento di una riflessione teologica e giuridica che ha dato luogo ad un ampliamento del significato del concetto di “martirio”, ben lontano dalla sua valenza cristiana originale e per certi versi più vicino ad un’etica laica (Saxer 1999). Si pensi, ad esempio, alla canonizzazione di Camillo de Lellis [1] da parte di papa Benedetto XIV che, come ricorda Bartolucci, «non escludeva dagli onori degli altari quelli che avevano dato la vita in un estremo atto di carità, come ad esempio, l’assistenza degli appestati che, scatenando il contagio, diventava causa certa di morte» (Agasso 2017). O ancora, alle riflessioni espresse in seguito alla promulgazione della costituzione dogmatica Lumen Gentium (1964), nella quale si riflette sui mezzi e sulle vie per ottenere la santità. In particolare, rispetto al “martirio” si afferma che, cosi come Gesù ha manifestato il maggior grado di carità offrendo la propria vita per l’umanità, «il discepolo è reso simile al suo maestro che liberamente accetta la morte per la salute del mondo, e col quale diventa simile a lui nella effusione del sangue, è stimato dalla Chiesa come dono insigne e suprema prova di carità. Ché se a pochi è concesso, tutti però devono essere pronti a confessare Cristo davanti agli uomini e a seguirlo sulla via della croce durante le persecuzioni, che non mancano mai alla Chiesa» (Paolo VI 1964). Tale definizione, eliminando il riferimento alla persecuzione in odium fidei, fu senza dubbio uno dei tasselli principali nell’ampliamento del concetto semantico di “martirio”, come si comprende dalla lettura dei contributi del teologo gesuita Karl Rainher che, sulla scia della santificazione del francescano Maksymilian Kolbe (1894-1941) [2] e anticipando la beatificazione del vescovo Romero, sottolineò come il concetto di martirio debba tener conto anche di coloro che hanno sofferto «in active struggle for the Christian faith and its moral demands» [3]. Una visione che si scontra con il richiamo alla serietà del martirio del teologo von Balthasar, così come scrive nel pamphlet Cordula, ovvero il caso serio (1966) [4], nel quale si preoccupa di una deriva semplicistica e mondana della Chiesa causata dalla «svalutazione della teologia della croce».

In questo lungo processo di ridefinizione dell’estensione semantica del termine “martirio” ha avuto un importante ruolo la riflessione teologica gesuita, soprattutto quando questa si esprimeva storicamente e trovava linfa nell’impegno missionario della Compagnia di Gesù. In particolar modo, l’originalità del contributo gesuita sul tema si evince dalla riflessione sul martirio di carità o martyrio per pestem.

L’impresa missionaria gesuita trovava generalmente il suo compimento «à qualonque luogho dove vi sarà persecutione contro la fede […] ò vero à qualonque parte d’infedeli, Heretici, et mali ò buoni Christiani» [5]. In tal senso si interessava sia dell’evangelizzazione dei neofiti delle Indie Occidentali e Orientali, sia della riduzione degli eretici dei paesi dell’Europa settentrionale, dove la riforma protestante aveva avuto maggiore successo, che del sostegno e dell’educazione delle comunità cattoliche nelle cosiddette Indie de por acá. Tuttavia, a queste principali direttrici d’azione occorre aggiungerne una quarta: l’assistenza spirituale e fisica di coloro che vivevano nelle ‘Indie della peste’, cioè in quei luoghi che erano stati colpiti da epidemie contagiose (quali la peste, il colera, la lebbra, l’influenza spagnola, etc.).

D’altronde, è lo stesso fondatore dell’ordine gesuita a porre le basi dell’impegno gesuita all’assistenza ai malati contagiosi. Nel Racconto del Pellegrino, infatti, Ignazio di Loyola:

[…] trovandovi un ammalato lo confortò e con una mano gli toccò la piaga. Dopo aver cercato di fargli coraggio, se ne andò via da solo. La mano cominciò a dolergli tanto che credette di aver preso la peste. L’impressione era così violenta che non riusciva a dominarla; allora con gesto risoluto portò la mano alla bocca, tenendovi dentro le dita a lungo e dicendo a se stesso: “Se hai la peste alla mano, l’avrai anche alla bocca”. Dopo quel gesto l’impressione scomparve e anche il dolore alla mano (Ignazio di Loyola, Racconto del Pellegrino, n. 83).

Come nota John O’Malley, tale attività è stata perseguita dai primi gesuiti con estrema sollecitudine, seppur a partire dal generalato di Laínez, fu necessario attuare una politica più cauta, al fine di salvaguardare la salute fisica dei missionari. Difatti, secondo le direttive della curia generalizia dell’ordine, qualora il morbo pestilenziale fosse comparso nei pressi di una residenza della Compagnia di Gesù, i gesuiti sarebbero stati trasferiti in località non colpite dal contagio o, se ciò fosse stato impossibile, avrebbero dovuto sottostare a un regime di quarantena e distanziamento sociale dalla comunità cittadina, «perche se ben l’anima del prossimo, si deve preferir ala propria vita, non per la consolatione d’una, s’ha di esponere alla morte un buon operario, il quale vivendo potra aiutar molt’anime» [6]. Ciononostante, «anche con questa nuova politica i gesuiti a volte affrontavano situazioni pericolose pur di aiutare gli ammalati» [7].

Le fonti storiche della Compagnia di Gesù confermano questa tendenza, permettendo di ricostruire il contributo gesuita nelle attività di gestione delle epidemie e di sostegno spirituale e fisico ai malati contagiosi. Se ne trovano tracce, ad esempio, nelle corrispondenze interne ed esterne all’ordine gesuita, nelle litterae annue, nei racconti di vocazioni, nelle relazioni di vite e di morti esemplari, nelle cronache dei collegi gesuiti e nelle litterae indipetae.

Non deve perciò sorprenderci il gran numero di ‘martiri di carità’ gesuiti elencati da Ignace Henri Dugout SJ nel Heroes et victimae charitatis Societatis Iesu, seu Catalogue des Péres et Fréres de la Compagnie de Jèsus morts de maladies contagieuses contractées au service des malades (Dugout 1907). Secondo i dati raccolti nel Catalogue, che purtroppo si interessano ad un arco temporale che arriva soltanto fino al 1906, cioè alla fine del generalato di Luis Martín García, si possono conteggiare almeno 2094 “martiri di carità” della Compagnia di Gesù. Nel volumetto questi sono divisi per generalato, nazionalità, grado rivestito all’interno dell’ordine gerarchico della Compagnia, luogo e data di morte e indicazioni bibliografiche. Nello specifico, i martiri di carità sono così distribuiti: 4 nel generalato di Ignazio da Loyola (1541-56); 30 con Diego Laínez (1558-65); 38 con Francisco de Borja (1565-72); 59 con Everard Mercurian (1573-80); 330 con Claudio Acquaviva (1581-1615); 705 con Muzio Vitelleschi (1615-45); 94 con Vincenzo Carafa (1646-49); 16 con Francesco Piccolomini (1649-51); 5 con Alessandro Gottifredi (1652); 186 con Goschwin Nickel (1652-64); 50 con Giovanni Paolo Oliva (1664-81); 18 con Charles de Noyelle (1682-86); 28 con Tirso González de Santalla (1706-1730); 221 con Michelangelo Tamburini (1706-1730); 39 con Franz Retz (1730-50); 4 con Ignazio Visconti (1751-55); 4 con Luigi Centurione (1755-57); 9 con Lorenzo Ricci (1758-73); 44 negli anni della Soppressione della Compagnia di Gesù (1773-1814); 5 con Tadeusz Brzozowski (1814-20); 1 con Luigi Fortis (1820-29); 50 con Jan Roothaan (1829-53); 177 con Pierre-Jean Beckx (1843-87); 6 con Anton Anderledy (1887-92); ed infine, 14 con Luis Martín (1892-1906) [8].

Purtroppo, i dati forniti dallo storico gesuita risultano incompleti, mancando ad oggi un più aggiornato catalogo dei gesuiti morti per aver prestato soccorso ai malati contagiosi. Più in generale, il tema del martirio di carità è rimasto piuttosto marginale tra gli storici della Compagnia di Gesù, probabilmente a causa delle molte incertezze e incoerenze che, nel corso dei secoli, hanno caratterizzato, sia sul piano giuridico che su quello dottrinale, il giudizio sul martirio di carità o martyrio per pestem.

A tal proposito, sono note le censure e le vicende inquisitoriali che seguirono la pubblicazione di opere che esaltavano il martirio di carità e ne giustificavano il valore, soprattutto in seguito alle riforme di Urbano VIII, nelle quali si vietata la venerazione dei servi di dio non riconosciuti da Roma e si stabilivano norme più severe e stringenti da seguire nei processi di beatificazione e di canonizzazione, riservati da allora alla sola Sede apostolica e limitati a persone morte in odore di santità da almeno cinquanta anni [9]. Tra cui, ad esempio, il trattato De martyrio per pestem (1630) [10] di Theophile Raynaud (c.1583-1663) [11], o il Glorioso trionfo d’invitta morte di carità, emulatrice di vero martirio (1632) del camilliano Francesco Antonio Sarro [12].

Limitando la nostra analisi soltanto ai “martiri di carità” della Antica Compagnia, ne risulta che il 38% di essi morirono durante il generalato di Muzio Vitelleschi (1615-1645). In questo periodo nella penisola italica ci furono due principali ondate epidemiche di peste: la prima è la peste di Santa Rosalia, che arrivò da Tunisi nell’aprile del 1624 e colpì le provincie di Trapani e Palermo fino almeno al 1627, anno di chiusura dei lazzaretti siciliani; la seconda, invece, è quella raccontata da Alessandro Manzoni nelle sue opere, che propagò nei ducati di Milano, Mantova, Modena, Savoia, Parma e Piacenza, nel granducato di Toscana e nella repubblica di Venezia tra il 1629 e il 1632 (Alfani 2013).

Non sorprende perciò come proprio durante il generalato di Muzio Vitelleschi si sviluppò in maniera più strutturata una teologia gesuitica sul martirio di carità, manifestazione del desiderio di imitare Cristo anche nelle contingenze della peste, prestando servizio presso i malati contagiosi e morendo come martiri di carità per la salvezza della loro anima.

Tale riflessione si sviluppò grazie a diversi stimoli: da un lato, rispondeva alla necessità della curia generalizia della Compagnia di Gesù di sfruttare un’altra occasione per legittimare, presso i vari centri di potere – ecclesiastici e politici – con i quali si trovava a dover collaborare, l’impegno missionario profuso, giacché «il martirio emerge come uno tra i più significativi segni indicatori della geopolitica gesuitica» (Mongini 2019; Cañeque 2016); dall’altro, recepì le istanze che venivano dal “basso”, cioè da coloro che chiedevano la licenza per l’invio in missione nelle “Indie”, ovvero gli indipetenti, e le reindirizzò verso un modello di perfezione cristiana più accessibile. Queste due principali sollecitazioni sono rappresentate nei documenti storici della Compagnia di Gesù: nelle lettere consolatorie scritte in tempo di peste dal generale Muzio Vitelleschi ai gesuiti della Compagnia di Gesù e nelle lettere indipetae, che, vista la loro specificità, potremmo chiamare “pestipetae [13].

Le riflessioni di Muzio Vitelleschi sul magistero missionario
in tempo di peste e il “martirio di carità”

Tra i documenti di maggior rilievo per la comprensione del legame tra missione e martirio di carità ci sono le due lettere consolatorie del generale Muzio Vitelleschi, conservate presso l’Archivum Romanum Societatis Iesu: la prima fu scritta il 16 agosto 1624, giorno dedicato a San Rocco, santo patrono degli appestati per i gesuiti della provincia siciliana della Compagnia di Gesù [14]; la seconda invece fu inviata l’8 giugno 1630 ai gesuiti delle province milanese e veneta. In entrambi i casi, le lettere circolarono successivamente anche nei collegi di tutta l’Assistenza italiana [15].

La lettera scritta nel 1624 era stata scritta al fine di consolare quei gesuiti che si trovavano ad affrontare la peste che aveva colpito le province di Palermo e Trapani.

In quell’ondata epidemica, il morbo giunse a Trapani il 26 aprile 1624. Quel giorno aveva attraccato al porto di Trapani un vascello della Redenzione dei Cattivi proveniente da Tunisi, città «sospettata di peste» [16]. Infatti, nonostante il malcontento dei portuali, sembra che il viceré Emanuele Filiberto di Savoia [17], vista la patente netta del console di Francia e malconsigliato dal segretario Antonio di Navarro, permise l’attracco dell’imbarcazione comandata dal moro Maometto Cavalà, giacché era carica «di più di dette persone recattate, di lana, coiri pelusi, cordoane, rascie, riso, dattoli, passole, scagliola et altre mercanzie» [18]. Il vascello proseguì poi per la città di Palermo, dove attraccò il 7 maggio 1624. In breve, in entrambe le città iniziarono a comparire i primi casi di peste, dapprima nei quartieri più poveri, poi anche tra i membri delle classi sociali più agiate (Perni 1825, 163-6). Secondo i dati forniti dalla Breve Relatione di quanto è passato in Palermo nel tempo della peste, dal principio di giugno 1624, che dimorò il male per la prima volta in detta Città [19], dal 23 giugno 1624 al 25 giugno 1625 morirono 12.650 persone.

Nel settembre del 1625 la peste siciliana fu considerata estinta, seppur la realtà dei fatti era ben diversa. Poco dopo, infatti, si iniziò a parlare di una seconda ondata epidemiologica che terminò soltanto il 15 luglio 1627, giorno di chiusura dei lazzaretti siciliani.

I gesuiti siciliani si offrirono sin da subito per sostenere le misure di prevenzione e gestione del contagio e per accompagnare spiritualmente i fedeli in un momento così critico [20]. Il loro servizio fu così apprezzato, che il 22 ottobre 1624 il Senato cittadino nominò Santi patroni della città di Palermo: San Francesco Saverio e Sant’Ignazio da Loyola (Palazzotto 2005, 18).

Come spiega l’incipit della lettera di Vitelleschi, il generale era stato informato dell’epidemia sin da subito e costantemente aggiornato del suo progredimento:

Subito udita la nuova della Visita, che Nostro Signore minacciava sopra cotesto Regno, con grandissima compassione tanto al publico quanto alli miei dilettissimi in Christo Padri e Fratelli; comminciai ad applicare buon numero [a ogni settimana molte centinaia] di Messe e di orationi [corone]. E oltre le povere [orationi] mie dal commune tesoro della Compagnia per concorrere, per quanto mi fosse possibile, à placare lo sdegno della Maestà Sua, et insieme impetrar gratia di raccogliere dal castigo il frutto, che ella pretende. E seguitando poi gli avvisi del flagello, che non cessava, mà più tosto si andava ogni giorno aggravando, geminati in nobis dolorum sunt gemitus, come di sé dice in caso simile Santo Gregorio Papa e sono andato moltiplicando gli aiuti, raccommandando anche caldamente a tutti questi nostri luoghi, che ciascuno si sforzi di cooperare alla medesima intentione, etiam con particolari orationi, mortificationi, e penitenze: come per gratia del Signore si esseguisce ferventemente. Hora poichè ad huc manus Domini extenta, ho voluto significare aggiungere anche alle carità à V. R. queste righe [21].

L’occasione della peste aveva stimolato dunque la costruzione di una riflessione più strutturata sul valore salvifico del dolore e sul tema del sacrificio di sé stessi e del martirio di carità.

La pestilenza, secondo Vitelleschi, è manifestazione dell’ira divina «per supplire all’ignoranza e difetti di molti», ed è necessario accettarne con gioia la sofferenza che ne deriva, mirando «all’intentione et fine altissimo in cui s’indrizza della sua maggior gloria, e nostro bene». Il morbo diviene perciò un antidoto alle malattie spirituali che colpiscono l’umanità [22], poiché, riprendendo il commento di sant’Ambrogio al Salmo 36, l’infermità è «officina virtutis» [23]. Un pensiero simile era stato proposto da Antonio Possevino (1533-1611) in un libretto anonimo a lui attribuito e intitolato Cause et rimedii della peste [24], pubblicato in latino e in italiano nel 1577, cioè appena terminata la peste siciliana del 1575. Anche Possevino individuò i difetti morali umani tra le cause scatenanti delle epidemie. La peste era dunque una visita di Dio salvatore, «Gran Medico de tutti Medici» [25] all’umanità peccatrice.

Vitelleschi continua affermando che il flagello della peste è anche lo strumento per valutare il valore della vocazione gesuita, «il paragone, e la prova de’ veri figliuoli della Compagnia, e la divisa de’ soldati di Giesù» [26]. La peste permette di comprendere «se si corrisponde à primi fervori manifestati» anche «ne’ communi bisogni». Difatti, per sostenere questa tesi, Vitelleschi parafrasa una sentenza di San Francesco Saverio, l’apostolo delle Indie Orientali, spiegando che la vocazione gesuita «par facile ad intendere, et ad esseguire fuori dall’occasione mà venendo il tempo della prattica riesce molto difficile». Attraverso la piaga della peste è perciò possibile distinguere «se l’oro nostro hà qualche mistura di terra» [27].

La peste, infine, è un’occasione per dimostrare di possedere in sé la virtù teologica della Carità. La carità è da considerarsi il requisito fondamentale del missionario, poiché «è quella tanto universale ad ogni natione e persona, che havesse indosso, tutto il mondo» [28]; essa è il fuoco che guida il pellegrino [29]. In tal senso, la carità assume un valore unificante e universale, da contrapporsi a una logica nazionale e stringente. Tale pensiero trovava fondamento nelle parole di Claudio Acquaviva, che definì il nazionalismo dei membri della Compagnia di Gesù come una peste da debellare praticando una universale e «fraterna carità, senza distintioni ò differenza di nationi» [30]. Il riferimento alla lettera di Claudio Acquaviva ci mostra quanto la riflessione gesuita sul martirio di carità, sebbene trovi una sua forma soltanto durante il generalato di Vitelleschi, abbia radici più antiche.

La capacità propria della carità di superare i concetti di frontiera e nazione consente a Vitelleschi di proporre un ulteriore passaggio logico. Se la carità è per sua natura universale e se questa trova una delle sue espressioni più alte proprio nel servizio presso gli appestati, allora è possibile considerare le missioni nelle Indie orientali e occidentali pari per importanza a quelle svolte nelle “Indie della peste”. Difatti, spiega Vitelleschi:

Pareva, che nostri tempi fossero più infelici de gl’antichi: e le nostre Provincie meno privilegiate, che le lontane, mentre per mancamento di persecutori, ci mancavano insieme le Corone. Quanti hanno desiderato [desiderano] L’Inghilterra? quanti la China, et il Giapone? (Donde appunto adesso arrivano nuove di gran numero di segnalatissimi Martyri, e trà gli altri di 14. della nostra Compagnia) per mostrar ancor’essi in fatti, che non faciunt animam suam, pretiosiorem, quam animam fratrum, et caritatem IESU: et che hanno ancor’essi cuore per esser concorsi delle medesime battaglie, e trionfi. Ecco che la suavissima providenza, senza passar mani e spender [anni] in viaggi, ha presentato loro il Giapone nella propria patria: et ha gli quasi risuscitasi i secoli più felici, quando germogliavano ad ogni passo le palme, e le Corone [31].

Questa equivalenza di valore tra i due luoghi di missione permette di comparare anche i due diversi tipi di martirio che si possono idealmente ottenere, rispettivamente nelle Indie Occidentali e orientali e nei lazzaretti, cioè il martirio “di sangue” e il martirio “di carità”. Addirittura, secondo Vitelleschi, il martirio di carità può esser considerato migliore rispetto a quello “di sangue”, «in quanto non è questo congiunto con offesa veruna d’Iddio, ne con peccato di Tiranno, ò di carnefice, ma pare dipenda immediatamente e venga honorato dalla spada del Signore» [32]. Proprio per questa ragione, la peste è preferibile «alla guerra et alla fame, dove hanno più luogo la crudeltà, l’avaritia, et altre ingiustizie, e peccati» [33]. Attraverso il martirio di carità il fedele può ottenere una maggiore consolazione, in quanto nell’ottenere il titolo di testimone della fede cattolica non vi è presenza di alcun peccato o colpa.

Pertanto, secondo Vitelleschi, la tragedia delle peste, altro non è che «una general chiamata al Cielo» [34]; «un publico bando del Giubileo, un’invito del Sommo Pontefice Giesù per la Roma, e Gierusalem celeste» [35]; in sintesi, un’occasione degna di una «Santa Invidia verso quelli massimamente à quali è toccata la felice sorte di entrare nella fornace, et essercitare quell’eminentissimo grado di carità, qua maiorem nemo habet» [36].

Ciononostante, la morte non deve essere l’esito necessariamente auspicato da chi chiede di servire presso gli appestati. Infatti, Vitelleschi invita chi presta servizio presso i malati contagiosi alla prudenza e alla moderazione, «affinche possa più lungamente durare in sì gloriosa impresa, più gradire a gl’occhi del suo Signore, et accumulare per sé [tesori] maggiori» [37].

Come rivela il Commentarius Rerum gestorum in Provincia Siciliae Occidentalis pestilentia coorta, allegato alla lettera annua della provincia siciliana per gli anni 1624-26, in molti furono coloro:

qui sane, si nihil aliud, constat ex numero eorum, qui praestanti Christianae pietatis exemplo ad eorum animos, qui peste contacti essent, iuvandos cum aperto capitis periculo operam posuere. Ex quibus non pauci cum in obeundo tam pio, sanctos munere vitam amiserit, digni sunt, quorum in fastos nomina referantur, et immortalitati memoria consecretur; ut quos Christiana religio etiam incluso Martyrium nomine cohonestare solet [38].

Secondo i dati raccolti nel Catalogue di Dugout, durante la peste siciliana morirono, prestando servizio presso gli appestati, 15 missionari gesuiti (Dugout 1907, 24-6). Tra questi vi è, ad esempio, «il fu Padre Gioseppe Corti» che, come afferma Vitelleschi in una lettera indirizzata al Padre provinciale siciliano, «hà presto guadagnato la corona e qui non manca chi gli habbiano santa invidia» [39].

Testimonianze della vocazione missionaria di coloro che si offrirono di aiutare i malati contagiosi, spesso trovandone poi la morte e ottenendo così la desiderata corona martiriale, sono le molte pestipetae conservate nel Fondo Gesuitico (FG) dell’Archivio della Compagnia di Gesù. Dagli scavi archivistici finora svolti, risulta che questo particolare tipo di petizioni sia rintracciabile soltanto a partire dal generalato di Muzio Vitelleschi, e in particolare proprio dall’epidemia di peste che colpì le province di Trapani e Palermo. Difatti, anche se l’uso di inviare indipetae si attesta già a partire dagli anni ’60 del Cinquecento, questa diviene una pratica comune soltanto con il generalato di Claudio Acquaviva [40]. Si può supporre perciò che l’assenza di pestipetae in questo primo periodo sia dovuta, da un lato, a un maggiore interesse della Compagnia nell’ampliare il proprio raggio d’azione missionario, fino ai territori coloniali delle Indie occidentali e orientali; dall’altro, alle deleghe rilasciate ai superiori locali (padri provinciali, rettori, etc.) nella selezione di coloro che dovessero prestare servizio in aiuto dei malati contagiosi.

L’invio di pestipetae si conferma anche per le successive ondate epidemiche come conferma, ad esempio, l’incipit della seconda lettera di Vitelleschi sul tema del martirio di ‘carità’, inviata ai padri e fratelli delle province veneta e milanese. Vitelleschi infatti esordisce attestando il gran numero di «lettere, che di costà mi si scrivono» e le «continue proferte delle proprie Vite, e molto più dalle morti, e corone di tanti Martiri di carità» [41].

Costoro infatti si trovavano ad affrontare l’epidemia di peste che, a partire dal 1629 fino al 1632, colpì gran parte del Nord Italia (ducati di Milano, Mantova, Modena, Savoia, Parma e Piacenza, granducato di Toscana e repubblica di Venezia). Il contagio era infatti giunto in quei territori portato dai due eserciti in lotta per la successione del ducato di Mantova e del Monferrato, cioè quello tedesco e quello francese [42].

Per tal ragione, lo scopo della seconda lettera di Vitelleschi è quello di consigliare e consolare i suoi confratelli «giache non posso di presenza, e co’ fatti essere lor compagno nell’aiuto e soccorso de’ prossimi, e ne’ pericoli veramente pretiosi» [43]. A tal fine, Vitelleschi condivide con loro «due brevi ricordi et avvertimenti à proposito per questo tempo, et occassione della peste, l’uno per i più timorosi, et impauriti di questo gastigo, e offerta di Dio, [se alcuni non ne fussero, il che non credo]; l’altro per i più animo[si] che nient’altro temono, se non di perdere si bella occasione di mettere la vita per il suo prossimo» [44].

Seguendo la stessa struttura argomentativa della lettera del 1624, Vitelleschi propone ai più timorosi una riflessione ispirata dalle parole di San Gregorio e dall’episodio biblico del profeta Gad e di Re Davide. Anche qui ribadisce che il castigo della peste deve essere inteso come il gesto salvifico «di questo Padre delle misericordie, e della mano salutifera di questo buon medico» [45]. Di conseguenza, l’occasione della peste è una promessa immediata di perdono e misericordia, in particolare per coloro che si impegnano nell’aiuto e soccorso dei malati contagiosi.

Il ricordo e avvertimento destinato «ai più animosi, e coraggiosi» è invece tratto dal De mortalitate di San Cipriano Martire, secondo cui «questo fuoco dell’ira di Dio, non venga tanto per punire i colpevoli, quanto per separare l’oro, e l’argento, dalla schiuma, e per fare il paragone, la prova de’ i veri servi, e figliuoli di Giesù, mostrando se corrisponde la virtù loro à i primi fervori de’ i Padri antichi manifestasi al Mondo ne’ i communi bisogni». Come nella precedente lettera, «metter la vita […] in compromesso», prestando servizio presso gli appestati, diviene strumento utile per riconoscere la qualità della vocazione missionaria dei membri della Compagnia di Gesù. Questa occasione infatti offre la possibilità di ottenere «le palme e le corone» del martirio «senza varcar l’oceano». Tale forma di martirio non deve per nulla invidiare quella che ricalca i passi della passione di Cristo, cioè quella causata dal peccato del «tiranno», giacché «questa vien lavorata dal medesimo coltello, e spada di Dio, che così chiamò à punto la peste quel Profeta».

La lettera termina nuovamente con l’esaltazione di coloro che presentarono istanza per poter raggiungere i luoghi colpiti dall’epidemia e con il richiamo alla prudenza e alla moderazione per chi già si trovava sul “campo di battaglia” del lazzaretto.

Nonostante l’avvertimento di Vitelleschi, si calcola che tra il 1629 e il 1632 morirono almeno 92 gesuiti delle province veneta e milanese prestando servizio presso gli appestati (Dugout 1907, 30-36).

Come si è visto, le due lettere di Vitelleschi rappresentano la prima riflessione formale proposta dalla curia generalizia dell’ordine gesuitico sul tema del martirio per pestem o martirio di carità, inteso come veicolo per l’ottenimento del più alto grado di perfezione cristiana e come prova della vocazione missionaria della Compagnia. Una vocazione che, al fine di veicolare al meglio il messaggio di salvezza cristiano, deve adattarsi, non soltanto agli usi e costumi di popolazioni distanti ed esotiche, ma anche alle contingenze storiche del momento. In tal senso, infatti, secondo Vitelleschi, l’occasione della peste, obbliga «à ringratiare la bontà divina, che conserva nella Compagnia il Santo fervore, che lo cava fuori à beneficio de’ prossimi quando è necessario» [46].

Le “pestipetae”

Attraverso uno studio sistematico delle litterae indipetae [47], petizioni scritte al generale della Compagnia di Gesù da coloro che petebant Indias, ovvero da chi aspirava a realizzare la propria vocazione missionaria nelle “Indie”, è possibile rintracciare la quarta direttiva d’azione del magistero missionario della Compagnia di Gesù: le “Indie della peste”.

Sebbene questa quarta via sia stata totalmente ignorata dalla storiografia sulle indipetae, rappresenta a tutti gli effetti un tratto identitario della vocazione missionaria della Compagnia di Gesù, che si sviluppa come fenomeno di lunga durata, protraendosi fino alla Nuova Compagnia [48]. Tale evidenza è stata messa in luce in primo luogo dagli archivisti della Compagnia di Gesù, che hanno raccolto all’interno del faldone Ital. 173, un gruppo di 70 indipetae scritte tra il 1615 e il 1765, da Missiones et servitium peste infectorum petentes delle province milanese e romana [49].

Queste particolari petizioni sono rintracciabili soprattutto in concomitanza degli anni colpiti da epidemie di peste o di altre malattie contagiose. Queste lettere rappresentano infatti la manifestazione di vocazioni stimolate dal dolore e dalle sofferenze del loro presente. In esse, è perciò evidente lo stretto nesso tra la vocazione missionaria e il desiderio del martirio dei gesuiti candidati alle Indie.

A tal proposito, ad esempio, Pietro Drago, in una pestipeta del 20 dicembre 1625 chiede al generale Vitelleschi la licenza per poter servire gli appestati, «cosa, alla quale molti, et efficaci motivi mi spingono è il vero, ma in particolare peró fra gl’altri perche veggo porgermisi occasione di puoter patire qualche cosa per amor di quel giusto Signore, quale per solo amor di me peccatore tanto volle patire: e certo che non sarei forse in questo mestieri dall’intutto inhabile, come in ogn’altra cosa» [50]. Come nelle indipetae in cui si richiedono mete più esotiche, quali il Messico o la Cina, anche per i pestipeti, la richiesta di invio in missione tra gli appestati è strettamente legata al desiderio di ottenere il titolo di martire, imitando Cristo nella sua passione. La centralità della sequela Christi, fino alle sue conseguenze estreme, era infatti un tratto identitario della Compagnia di Gesù, come si deduce dal percorso di fede proposto negli Esercizi spirituali. Tale visione teologica cristocentrica era ispirata dall’esempio dei primi martiri della Chiesa e si celava nella retorica gesuita sul martirio e sulle persecutiones della Compagnia [51]. Proprio per questa ragione, Luigi Coci, nella sua pestipeta del 12 dicembre 1630, definisce coloro che sono morti prestando servizio presso gli appestanti come «felici mille volte, e bene avventurati Imitatori di Christo, che non hanno dubitato di dare la vita per amor di colui che prima l’ha data per [noi]» [52].

Tuttavia, Cristo non è l’unico modello citato dai candidati alle missioni nelle “Indie della peste”. Molti di loro, ad esempio, raccontano di esser stati ispirati «dalla Nova ultimamente havuta di questi nostri Padri, e fratelli martirizati nel Giappone» [53]. La notizia dei martiri gesuiti missionari dell’Estremo Oriente era infatti ampiamente diffusa e promossa nei collegi gesuiti non solo attraverso la pubblicazione e traduzione di avvisi e relazioni provenienti dai territori di missione, ma anche con la realizzazione di opere pittoriche, teatrali e musicali sul tema [54]. Come nelle due lettere consolatorie di Vitelleschi, i gesuiti che si offrono per servire gli appestati scorsero nel lazzaretto la possibilità di ottenere la stessa palma del martirio di quei missionari martiri delle Indie Orientali e Occidentali. È perciò abbastanza usuale trovare nelle pestipetae comparazioni tra le “Indie della peste” e gli altri territori di missione. È il caso, ad esempio, di Angelo de Magistris che nel 1631 rinnova la richiesta di poter servire gli appestati accostando l’immagine dei martiri del Giappone a quella dei missionari italiani attivi nei luoghi dell’epidemia «tra quali aspetta, benche indegno essere annoverato il suddetto Angelo, per poter gloriarsi poi d’essere stato in un medesimo giorno ammesso da Vostra Paternità alla Religione, et al martirio» [55]. O ancora, quello del coadiutore temporale Giacinto Hurandi che spiega come nonostante il desiderio di «patire, et fatigare per l’amor d’Iddio» lo spingesse a richiedere la missione nelle Indie Occidentali ed Orientali, aveva compreso in tempo di peste che «posso ancora restar in Italia che conseguirò il mio fine» [56].

In tal senso, è possibile affermare che la promozione del martirio di carità presso i collegi della Compagnia di Gesù rispondeva all’esigenza di offrire un’alternativa missionaria ai molti fratelli laici e sacerdoti consacrati che non sarebbe riusciti a ottenere la licenza per partire in missione nelle Indie Occidentali o Orientali. In special modo, tale modello di perfezione cristiana si adattava a coloro che ricoprivano i livelli gerarchici più bassi all’interno della Compagnia di Gesù, come ad esempio i coadiutori temporali, che svolgevano anche «l’officio d’infermiro» [57].

Un ultimo modello proposto dai pestipeti è infine quello di San Luigi Gonzaga, protettore degli appestati. Il candidato Luigi Coci, ad esempio, si offre al generale Vitelleschi per servire gli appestati della Lombardia «ad imitatione del Beato Luiggi, [di] cui indegnamente ne porta il nome» [58]. Per gli indipetenti, e ancor più per coloro che richiesero l’invio in missione nelle ‘Indie della peste’, la figura di Luigi Gonzaga sintetizzava perfettamente: il desiderio di partire per le Indie; l’entusiasmo della vocazione giovanile; le attività di soccorso dei malati svolte durante un periodo di epidemia; la morte come “martire di carità” [59]. La devozione al culto di Luigi Gonzaga era perciò promossa e alimentata nei collegi della Compagnia di Gesù attraverso la diffusione di agiografie, dipinti, opere teatrali, preghiere, reliquie e oggetti dai “poteri curativi”, eccetera [60].

Gli esempi proposti mostrano quale fu la percezione del martirio di carità anche ad un livello gerarchico più basso, quello dei candidati alle “Indie della peste”. Per loro, il soccorso presso gli appestati rappresentava la prova concreta della loro vocazione missionaria; il loro impegno missionario risultava essere non soltanto un’espressione radicale di carità, che si concretizzava attraverso il sostegno della propria comunità in un momento di estrema crisi, ma anche la testimonianza massima della loro fede.

Conclusioni

Le due lettere consolatorie di Vitelleschi sul tema della peste e del martirio di carità e la selezione di pestipetae qui presentate permettono di rintracciare i tratti salienti di una prima teologia gesuitica sul martirio di carità. Tali riflessioni troveranno poi, come è noto, un’espressione più formale nel trattato di Theophile Raynaud e nei successivi contributi gesuiti sul tema, spesso contrari alle posizioni ufficiali della Curia romana.

È quindi necessario ripensare la cronologia riguardante l’evoluzione semantica del martirio di carità, così da includere anche gli importanti contributi della Compagnia di Gesù qui presentati. Questi, come si è visto, si svilupparono in sincrono sui diversi livelli della gerarchia gesuita: da un lato, facendosi portavoce di un’esigenza missionaria che proveniva dal basso e si adattava alle contingenze del presente; dall’altro, comprendendo il valore strumentale sul piano propagandistico e politico di questo particolare martirio. In tal senso, si può affermare che la Compagnia di Gesù comprese in anticipo rispetto ai dicasteri romani la necessità di ampliare il significato semantico della parola martirio e renderla più vicina all’esperienza comune, reinterpretando il suo senso «according to changes in cultural, political, and historical circumstances» (Valiente 2014, 114).

Fonti e bibliografia

Abbreviazioni
  • APUG Archivio della Pontificia Università Gregoriana
  • ARSI Archivum Romanum Societatis Iesu
  • FG Fondo Gesuitico
  • Ital. Assistenza Italiana
  • Sic. Provincia Sicula
  • Ven. Provincia Veneta
Fonti inedite
  • ARSI, FG 737
  • ARSI, FG 738
  • ARSI, FG 739
  • ARSI, Instit. 121
  • ARSI, Ital. 74
  • ARSI, Ital. 173
  • ARSI, Sic. 8-II
  • ARSI, Sic. 183-II
  • ARSI, Ven. 9-II
  • ARSI, Ven. 99
Bibliografia
  • Acquaviva, Claudio. [1586]. Lettera dello studio della perfettione, et carità fraterna. Roma: [s.n.].
  • Agasso, Domenico. 2017. “Il Papa aggiunge una via per la santità: l’offerta della vita.” La Stampa, 11 luglio 2017. https://www.lastampa.it/vatican-insider/it/2017/07/11/news/il-papa-aggiunge-una-via-per-la-santita-l-offerta-della-vita-1.34449710 (ultimo accesso 23/03/2023).
  • Alfani, Guido. 2013. “Plague in Seventeenth-century Europe and the Decline of Italy: An Epidemiological Hypothesis.” European Review of Economic History 17, no. 4: 408-30. https://doi.org/10.1093/ereh/het013.
  • Ambrogio. 1980. Commento a dodici Salmi, a cura di Luigi F. Pizzolato. Roma-Milano: Città Nuova.
  • Amore, Antonino. 1886. Emanuele Filiberto di Savoia vicerè di Sicilia. Catania: [s.n.].
  • Balthasar, Hans Urs von. 1968. Cordula, ovvero il caso serio. Brescia: Queriniana.
  • Boyarin, Daniel. 1999. Dying for God: Martyrdom and the Meaning of Christianity and Judaism, Stanford: Stanford University Press.
  • Cañeque, Alejandro. 2016. “Mártires y discurso martirial en la formación de las fronteras misionales jesuitas.” Relaciones 145: 13-61.
  • Castelli, Elizabeth A. 2004. Martyrdom and Memory: Early Christian Culture Making. New York: Columbia University.
  • Castelli, Mirella. 2007. Camillo de Lellis. Un soldato della carità. Torino: Marietti.
  • Colombo, Emanuele. 2016. “Possevino, Antonio.” In Dizionario Biografico degli Italiani (s.v.), vol. 85, 153-8. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana.
  • — 2020. “From Paper to Screen. The Digital Indipetae Database, a New Resource for Jesuit Studies.” Archivum Historicum Societatis Iesu 177: 213-30.
  • — 2023. “La missione al tempo del colera. Su alcune lettere italiane dell’Ottocento.” In La vocazione alla missione nella Compagnia di Gesù. Il punto di vista degli indipeti, a cura di Paolo Bianchini e Marco Rochini, 189-214. Brescia: Morcelliana.
  • —, Irene Gaddo, e Guido Mongini, a cura di. The First Indipetae. Boston: Institute for Jesuit Sources.
  • —, e Aliocha Maldavsky. 2022. “Studi e ricerche sulle Litterae indipetae.” In Cinque secoli di Litterae Indipetae. Il desiderio delle missioni nella Compagnia di Gesù, a cura di Pierre-Antoine Fabre, Girolamo Imbruglia e Guido Mongini, 43-81. Roma: Archivum Historicum Societatis Iesu.
  • Crosignani, Ginevra. 2020. “La vocazione di San Luigi Gonzaga al Martirio di Carità.” In «Come gli altri». San Luigi Gonzaga (1568-1591) a 450 anni dalla nascita: ricordarlo da Napoli e dal Mediterraneo, a cura di Anna Canfora e Sergio Tanzarella, 101-11. Trapani: Il Pozzo di Giacobbe.
  • De Filippis, Maurizio, ed Elisabetta Zanarotti Tiranini. 2010. San Camillo de Lellis e l’Ordine dei Ministri degli Infermi nella storia della Chiesa di Milano. Milano: Ares.
  • Dugout, Ignace Henri. 1907. Heroes et victimae charitatis Societatis Iesu, seu Catalogue des pères et frerès de la Compagnie de Jésus. Morts de la maladies contagieuses contractées au service des malades. Paris: Typographie M. R. Leroy.
  • Failla Maria Beatrice. 2003. “Il principe Emanuele Filiberto di Savoia. Collezioni e committenze fra ducato sabaudo, corte spagnola e viceregno di Sicilia.” In Committenti d’età barocca, a cura di Maria Beatrice Failla e Clara Goria, 13-112. Torino: Allemandi.
  • Francesco I 2017. Maiorem hac dilectionem, 11 luglio 2017. https://www.vatican.va/content/francesco/it/events/event.dir.html/content/vaticanevents/it/2017/7/11/maioremhacdilectionem-motuproprio.html (ultimo accesso 23/03/2023).
  • Gaddo, Irene, e Guido Mongini. 2022. “Le prime Indipetae italiane. Testi e temi.” In Cinque secoli di Litterae Indipetae. Il desiderio delle missioni nella Compagnia di Gesù, a cura di Pierre-Antoine Fabre, Girolamo Imbruglia e Guido Mongini, 109-21. Rome: Archivum Historicum Societatis Iesu.
  • Gaudenzio, Claretta. 1872. Il principe Emanuele Filiberto di Savoia alla corte di Spagna: studi storici sul Regno di Carlo Emanuele I. Torino: Stabilimento di G. Civelli.
  • Gay, Jean-Pascal. 2018. Le dernier théologien?: Théophile Raynaud, histoire d’une obsolescence. Paris: Beauchesne.
  • — 2022. “Finding Martyrs at Home?: Jesuit Attempts at Redefining Martyrdom in the Seventeenth Century and Their Censure.” Journal of Jesuit Studies 9: 15-35.
  • Gotor, Miguel. 2002. I beati del Papa: Santità, Inquisizione e obbedienza in età moderna. Firenze: Leo S. Olschki.
  • — 2004. Chiesa e santità nell’Italia moderna. Roma-Bari: Laterza.
  • Hsia, Adrian, e Ruprecht Wimmer, a cura di. 2005. Mission und Theater: Japan und China auf den Bühnen der Gesellschaft Jesu. Regensburg: Schnell und Steiner.
  • Ignazio di Loyola, Racconto del Pellegrino, n. 83. https://gesuiti.it/wp-content/uploads/2017/06/Il-racconto-del-pellegrino-autobiografia.pdf (ultimo accesso 23/03/ 2023).
  • Institutum societatis Iesu Vol II. Examen et constitutiones decreta congregationum generalium formular congregationum. 1893. Firenze: Ex Typographia a SS. Conceptione.
  • Isidori, Sonia. 2023. “La peste nelle Indipetae del Generalato di Muzio Vitelleschi.” In La vocazione alla missione nella Compagnia di Gesù. Il punto di vista degli indipeti, a cura di Paolo Bianchini e Marco Rochini, 117-41. Brescia: Morcelliana.
  • Jetter, Christina. 2009. Die Jesuitenheiligen Stanislaus Kostka und Aloysius von Gonzaga. Wurzburg: Echter Verlag.
  • Jiménez Pablo, Esther. 2017. “El martirio en las misiones durante el siglo XVII: devoción y propaganda política,” Chronica Nova 43: 139-65.
  • Kieckhefer, Richard. 1990. “Imitators of Christ: Sainthood in the Christian Tradition.” In Sainthood: Its Manifestations in World Religions, a cura di Richar Kieckhefer e George Bond, 1-42. Berkeley-Los Angeles: University of California Press.
  • Kijas, Zdzisław Józef. 2020. “The Process of Beatification and Canonization of Maximilian Maria Kolbe.” Studia Elbląskie 21: 199-213.
  • La Rocca, Luigi. 1940. Il principe sabaudo Emanuele Filiberto, grande ammiraglio di Spagna e viceré di Sicilia: con documenti inediti. Torino: [s.n.].
  • Perni, Maggiore Francesco. 1825. Palermo e le sue grandi epidemie dal secolo XVI al XIX. Palermo: Stabilimento tipografico Virzì.
  • Martin, Lynn. 1996. Plague? Jesuit Accounts of Epidemic Disease in the 16th Century. Kirksville: Sixteenth Century Journal Publishers.
  • Merlotti, Andrea. 2018. “Emanuele Filiberto di Savoia, principe di Oneglia.” In Dizionario Biografico degli Italiani (s.v.), vol. 91. Roma: Istituto della Enciclopedia Italiana.
  • Mongini, Guido. 2011. “Ad Christi Similitudinem”. Ignazio di Loyola e i primi gesuiti tra eresia e ortodossia. Alessandria: Edizioni dell’Orso.
  • — 2016. Maschere dell’identità. Alle origini della Compagnia di Gesù. Roma: Edizioni di Storia e Letteratura, 87-122.
  • — 2019. “L’apostolo gesuitico tra propaganda religiosa e autoconservazione.” Annali di Scienze Religiose 12: 11-51.
  • Moss, Candida. 2010. The Other Christs: Imitating Jesus in Ancient Christian Ideologies of Martyrdom. Oxford: Oxford University Press.
  • Nadal, Jerónimo. 1962. “13a Exhortatio complutensis, Alcalá, 1561.” In Epistolae et Monumenta P. Hieronymi Nadal, di Jerónimo Nadal, a cura di Miguel Nicolau, vol. V, 469-70, § 256. Roma: [s.n.].
  • O’Malley, John. 1999. I primi gesuiti. Milano: Vita e Pensiero.
  • Osswald, Cristina. 2009. “A iconografía do martirio na Companhia de Jesus entreos sécs. XVI e XVIII.” Revista Portuguesa de Filosofia 65: 481-93.
  • — 2021. “On Christian Martyrdom in Japan (1597-1658).” Hipogrifo. Revista de literatura y cultura del Siglo de Oro 9: 927-47.
  • Palazzini, Pietro. 1989. “Le origini della Congregazione dei Riti e l’evolversi della legislazione e prassi per le cause dei Santi fino ad Urbano VIII.” Bessarione 7: 27-35.
  • Palazzotto, Pierfrancesco. 2005. Sante e Patrone. Iconografia delle Sante Agata, Cristina, Ninfa e Oliva nelle chiese di Palermo dal XII al XX secolo. Palermo: Officine Tipografiche Aiello & Provenzano.
  • Paolo VI, 1964. Lumen Gentium, 21 novembre 1964. https://www.vatican.va/archive/hist_councils/ii_vatican_council/documents/vat-ii_const_19641121_lumen-gentium_it.html (ultimo accesso 23/03/2023).
  • Parrott, David. 1997. “The Mantuan Succession, 1627–31: A Sovereignty Dispute in Early Modern Europe.” English Historical Review 112: 20-65.
  • Pastore, Stefania. 2022. “Le prime Indipetae: la formazione di un genere e il suo contesto.” In Cinque secoli di Litterae Indipetae. Il desiderio delle missioni nella Compagnia di Gesù, a cura di Pierre-Antoine Fabre, Girolamo Imbruglia e Guido Mongini, 85-101. Rome: Archivum Historicum Societatis Iesu.
  • Perini, Giuseppe. 1969. “‘Cordula’ Di H. Urs Von Balthasar: Problemi Si Pongono.” Divus Thomas 72: 332-39. http://www.jstor.org/stable/45078777.
  • Piazzi, Matteo. 1630. Memorie di diverse provvisioni e usi pratticate nella città di Palermo in occasion della peste gli anni 1624, 1625, 1626. Modena, Bologna e Siena: Stamperia del Publico.
  • Pigeaud, Jackie. 1981. La maladie de l’ame. Etude sur la relation de l’ame et du corps dans la tradition médico-philosophique antique. Paris: Les Belles Lettres.
  • Piredda, Anna Maria. 1996. “La ‘malattia dell’anima’ negli scrittori cristiani d’Africa.” In L’Africa romana. Atti dell’XI convegno di studio Cartagine, 15-18 dicembre 1994, a cura di Mustapha Khanoussi, Paola Ruggeri e Cinzia Vismara, 409-24. Sassari: Editrice il Torchietto.
  • Ponzo, Jenny. 2020. “The Case of the ‘Offering of Life’ in the Causes for Canonization of Catholic Saints: The Threshold of Self-Sacrifice.” International Journal for the Semiotics of Law-Revue Internationale de Sémiotique Juridique 33, no. 4: 983-1003.
  • [Possevino, Antonio]. 1577a. Causae et remedia pestilentiae. Firenze e Mantova: Giunti.
  • [Possevino, Antonio]. 1577b. Causae et remedia pestilentiae [ed. it.]. Firenze: Giunti-Macerata: Martellini.
  • Prosperi, Adriano. 1974. “Camillo De Lellis, santo.” In Dizionario Biografico degli Italiani (s.v.), vol. 17, 230-34. Roma: Istituto dell’Enciclopedia Italiana.
  • Quazza, Romolo. 1926. La guerra per la successione di Mantova e del Monferrato (1628-31). Mantova: [s.n.].
  • Rahner, Karl. 1983. “Dimensions of Martyrdom: A Plea for the Broadening of a Classical Concept.” Concilium 18: 9-11.
  • Raynaud, Théophile. 1630. De martyrio per pestem: Disquisitio theologica. Lyons: Iacobus Cardon.
  • Relazione della maniera che osservò la Città di Palermo nell’anno 1624, che fu travagliata da nostro signore Iddio, per li peccati di quella, del mal contaggioso di peste, che afflisse detta città dalli 7 di maggio 1624 per insino alli 10 di giugno 1626, che si diede l’ultima volta, per grazia di Dio, l’universal prattica a quella; scritta dal capitan… May o Maya. Quale ho avuto dal M. R. P. D. Michele di Leone clerico regolare di vita esemplare, e copiata di propria mano sua. 1869. In Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX, a cura di Gioacchino di Marzo. Palermo: Luigi Pedone Lauriel Editore.
  • Ruffini, Felice. 1992. La vita per Cristo. Religiosi camilliani stimati ‘Martiri della Carità’ vivente il fondatore San Camillo de Lellis. Roma: Camilliani.
  • Salomone-Marino, Salvatore. 1905. La peste in Palermo, negli anni 1624-1626. Relazione di anonimo ora per la prima volta stampata. Palermo: Scuola Tipografica “Boccone del Povero”.
  • Sannazzaro, Piero. 1986. Storia dell’ordine camilliano (1550-1699). Torino: Edizioni Camilliane.
  • Sarro, Francesco Antonio. 1632. Glorioso trionfo d’invitta morte di carita, emulatrice di vero martirio: Discorso nel quale al vivo si dimostra la molta somiglianza ch’é frà la morte de Santi Martiri, et di coloro, ch’in serviggio dell’appestati per la Carita Christiana muoiono. Napoli: Aegidius Longus.
  • Saxer, Victor. 1999. “Le origini della Teologia del martirio e del culto dei martiri.” In Quarta seduta pubblica delle Pontificie Accademie. Contributo delle Pontificie Accademie all’umanesimo cristiano. Il Martire identificato a Cristo protomartire fedele. Una figura dell’umanesimo cristiano, 3 novembre 1999. https://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/cultr/documents/rc_pc_cultr_doc_03111999_acd-iv_it.html (ultimo accesso 23/03/2023).
  • Schmutz, Jacob. 2008. “Théophile Raynaud.” In Dictionary of Seventeenth-Century French Philosophers, a cura di Luc Foisneau, vol. 2, 1052-57. London: Thoemmes.
  • Sobrino, Jon. 2004. “Karl Rahner and Liberation Theology.” The Way 43, no. 4: 53-66.
  • Turrini, Miriam. 2020. “«Come lui». La ricezione del beato Luigi Gonzaga nei collegi dei gesuiti (1605-1726).” In «Come gli altri». San Luigi Gonzaga (1568-1591) a 450 anni dalla nascita: ricordarlo da Napoli e dal Mediterraneo, a cura di Anna Canfora e Sergio Tanzarella, 123-57. Trapani: Il Pozzo di Giacobbe.
  • Valiente, Ernesto. 2014. “Renewing the Theology of Martyrdom.” Irish Theological Quarterly 79: 112-27.
  • Vanti, Mario. 1929. S. Camillo De Lellis (1550-1614) apostolo di carità infermiera fondatore dei Chierici regolari Ministri degli Infermi Patrono degli ammalati e degli ospedali, dai processi canonici e da documenti inediti. Roma: Libreria Editrice Francesco Ferrari.
  • Vanti, Mario. 1967. S. Camillo e i suoi Ministri degli Infermi. Roma: Coletti.


Note

1. Su San Camillo de Lellis, fondatore dell’Ordine dei Chierici Regolari Ministri degli Infermi, Vanti 1929; Vanti 1967; Prosperi 1974; Castelli 2007; De Filippis e Zanarotti Tiranini 2010.

2. Sulla beatificazione e canonizzazione di Maximilian Maria Kolbe, Kijas 2020.

3. Rahner 1983. Per un approfondimento, Sobrino 2004; Valiente 2014.

4. Balthasar 1968. La prima edizione in lingua tedesca è invece del 1966. Per un commento dell’opera, Perini 1969.

5. ARSI, FG 738, 81: lettera di Ascanio Francesco Ruida al Generale Muzio Vitelleschi, Milano, 29 giugno 1627.

6. Canisius Petrus 1896-1923, vol. III, 547-48: lettera di Juan de Polanco a Pietro Canisio del 1° dicembre 1562.

7. O’Malley 1999, 189. Anche Martin 1996, 176-7.

8. Nel presente conteggio non sono stati presi in considerazione i martiri di carità morti infra-generalato.

9. Palazzini 1989; Gotor 2002; Gotor 2004, 82-8.

10. Raynaud 1630. Sulla censura dell’opera, Gay 2022.

11. Su Theophile Raynaud, Gay 2018; Schmutz 2008.

12. Sarro 1632. Un breve commento all’opera di Francesco Antonio Sarro si trova in Sannazzaro 1986, 136-8; Ruffini 1992, 44-6.

13. Le litterae indipetae sono petizioni inviate al generale della Compagnia di Gesù da coloro che petebant Indias, ovvero da chi aspirava a realizzare la propria vocazione missionaria nelle “Indie”. Pestipetae è un neologismo della scrivente. Per una bibliografia sulle indipetae, Colombo e Maldavsky 2022. Sulle “pestipetae” del generalato Vitelleschi e, in particolare, sul contributo gesuita durante la peste siciliana del 1624, Isidori 2023.

14. ARSI, Ital. 74., ff. 21v-23v: Lettera commune alli PP. e Fratelli della Provincia di Sicilia, consolatoria per la peste, 16 agosto 1624. La lettera si trova anche in ARSI, Instit. 121, f. 257r-260v.

15. ARSI, Ital. 74., ff. 33-35: Lettera circolare ai PP. e FF. delle Province di Milano e Venezia, 8 giugno 1630, all’occasione della grande peste e delle generose offerte di molti de’ Nostri per esporsi al servigio dei contagiosi.

16. Relazione 1869, vol. II, 114.

17. Su Emanuele Filiberto di Savoia, Gaudenzio 1872; Amore 1886; La Rocca 1940; Failla 2003; Merlotti 2018.

18. Relazione 1869, vol. II, 113.

19. Il testo della Relatione anonima è stato pubblicato in Salomone-Marino 1905, 8-9; 47-70.

20. Una sintesi delle misure sanitarie prese durante la peste siciliana del 1624-27 si trova in Piazzi 1630. Una copia manoscritta dell’opera, non firmata, è conservata presso l’Archivio della Pontificia Università Gregoriana: APUG, 895rec, c. 18r-27v. Anche Isidori 2023.

21. ARSI, Ital. 74., f. 21v.

22. Sulla relazione tra malattia e male spirituale, Pigeaud 1981; Piredda 1996.

23. ARSI, Ital. 74., f. 21v. Ambrogio 1980.

24. Edizione latina: [Antonio Possevino] 1577a. Edizione italiana: [Antonio Possevino] 1577b. Per l’attribuzione a Possevino, Martin 1996, 89. Su Antonio Possevino, Colombo 2016.

25. [Possevino] 1577b, 15.

26. ARSI, Ital. 74., f. 22r.

27. Ibid.

28. ARSI, Ital. 74., f. 22v. Chiaro è il rimando al famoso motto di Jerónimo Nadal: «Il mondo è la nostra casa». Nadal 1962.

29. Sapienza 18, 3: «Invece delle tenebre desti loro una colonna di fuoco, come guida in un viaggio sconosciuto e come un sole innocuo per il glorioso emigrare».

30. Acquaviva [1586], 16.

31. ARSI, Ital. 74., f. 23r.

32. Ibid.

33. Ibid. Samuele, II, 24, 11-5.

34. Ibid.

35. Ivi, f. 23v.

36. Ivi, f. 22v.

37. Ivi, f. 23v.

38. ARSI, Sic. 183-II, f. 577r.

39. ARSI, Sic. 8-II, f. 524v. Lettera di Muzio Vitelleschi, Roma, 22 luglio 1624.

40. Sulle prime indipetae, Gaddo e Mongini 2022; Pastore 2022; Colombo, Gaddo e Mongini c.s.

41. ARSI, Ital. 74., f. 33.

42. Sulla guerra di successione del Ducato di Mantova, Quazza 1926; Parrott 1997. Sulla diffusione della peste nel 1630, Alfani 2013.

43. ARSI, Ital. 74., f. 33r.

44. Ibid.

45. Ivi, f. 33v.

46. ARSI, Ven. 9-II, f. 280v: lettera di Muzio Vitelleschi al Padre Provinciale veneto, 25 maggio 1630.

47. Per uno studio sistematico delle litterae indipetae si rivela fondamentale il progetto di digital humanities Digital Indipetae Database, promosso dall’Institute for Advanced Jesuit Studies del Boston College e l’Archivio Romano della Compagnia di Gesù (https://indipetae.bc.edu, ultimo accesso 23/03/2023). Il Digital Indipetae Database permette di visualizzare le trascrizioni paleografiche delle lettere indipetae insieme alle riproduzioni digitali dei documenti originali. Inoltre, attraverso il motore di ricerca della banca dati è possibile fare ricerche avanzate scegliendo tra una serie di campi, tra cui: il nome del mittente o del destinatario; il luogo di invio o di ricezione della lettera; la data di spedizione della lettera; la destinazione desiderata dall’aspirante missionario; l’espressione di una vocazione anteriore, cioè nata prima dell’ingresso nella Religione; i nomi citati nel testo; il ruolo rivestito dall’autore all’interno dell’ordine (novizio, scolastico, coadiutore temporale, etc.); la collocazione archivistica. Sul Digital Indipetae Database, Colombo 2020.

48. Lo dimostra, ad esempio, il recente studio di Emanuele Colombo sulle indipetae scritte al tempo del colera del XIX secolo: Colombo 2023.

49. ARSI, Ital. 173.

50. ARSI, FG 737, 337: lettera di Pietro Drago, Palermo, 20 dicembre 1625.

51. Sull’imitatio Christi e il martirio nelle prime comunità cristiane, Kieckhefer 1990; Boyarin 1999; Castelli 2004; Moss 2010. Sull’imititatio Christi come tratto identitario della Compagnia di Gesù, Mongini 2011 e 2016.

52. ARSI, FG 739, 98: lettera di Luigi Coci, Catanzaro, 12 dicembre 1630.

53. ARSI, FG 737, 178: lettera di Adriano Formoso, Catanzaro, 5 agosto 1624. Sui martiri cristiani in Giappone, Osswald 2021.

54. Sulla propaganda gesuita dei martiri missionari, Hsia e Wimmer 2005; Osswald 2009; Jiménez Pablo 2017.

55. ARSI, FG 739, 104: lettera di Angelo de Magistris, s. l., 2 maggio 1631.

56. ARSI, FG 738, 236: lettera di Giacinto Hurandi, Perugia, 12 luglio 1630.

57. ARSI, Ven. 99, 85: lettera di Gregorio Sittl, Parma, 8 febbraio 1689. Sulle attività svolte dai coadiutori temporali, Institutum Societatis Iesu 1893, 28.

58. ARSI, FG 739, 81: lettera di Luigi Coci, Catanzaro, 24 settembre 1630.

59. Sul martirio di carità di Luigi Gonzaga, Crosignani 2020.

60. Sulla devozione del culto di Luigi Gonzaga nei collegi gesuiti, Jetter 2009; Turrini 2020.