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Dibattiti

L’industria in epoca preindustriale? Riflessioni su “L’industrie au village” di Catherine Verna

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Abstract

The book published by French medievalist Catherine Verna L’industrie au village (2017) raises a double question: on the one hand because it uses the term industry in reference to the Middle Ages, and on the other because it associates the same term with the village, i.e. rurality, whereas medieval industry – at least for those who think it is possible to talk about industry during these times – is traditionally associated with cities rather than the countryside. In the introduction of the book, Verna conducts a historiographical review of the concept of industry, limited to only French medievalists. This paper endeavors a similar review but focused on Italian historiography, illustrating how the concept of industry appears no clearer to Italian medievalists than it does to French ones. In addition, it discusses the definition of industry proposed by Verna – in order to determine whether it is appropriate or not to talk about “industry in the pre-industrial times” – and analyzes what the author means by the expression “industry in the village”. In particular, it pays attention to the concepts of small town and industrial district developed by Verna within her case study (the Pyrenean village of Arles-sur-Tech and the Vallespir localities in the 14th and 15th centuries), i.e. two concepts that constitute valuable interpretive keys for the history of medieval and modern Italy.

L’industrie au village di Catherine Verna (2017), uno studio microstorico sul borgo pirenaico di Arles-sur-Tech e le altre località del Vallespir (Céret, Prats-de-Mollo, Le Boulou, Saint-Jean-Pla-de-Corts) nei secoli XIV e XV, solleva fin dal suo titolo un doppio interrogativo: da un lato perché la storica impiega il termine “industria” in riferimento al Medioevo, dall’altro perché associa lo stesso termine al “villaggio”, cioè al contesto rurale, mentre l’industria medievale – almeno per chi ritiene che si possa parlare di industria per l’epoca medievale – è tradizionalmente associata alle città piuttosto che alle campagne. Il libro di Verna, scritto da una storica non italiana su un territorio non italiano, correva il rischio di passare inosservato nella Penisola, il che sarebbe stato un peccato in quanto capace di fornire chiavi interpretative di grande valore per la storia dell’Italia medievale e moderna, forse per la storia dell’Italia più che per qualsiasi altro paese. In questo articolo torneremo sul concetto di industria e definiremo meglio cosa l’autrice intenda con l’espressione “industria nel villaggio”, soffermandoci in particolare sui concetti di borgo e di distretto industriale sviluppati nel libro.

Storia e polisemia del termine “industria”

Gli storici medievisti riscontrano un problema con il concetto di industria, che spesso è mal distinto da quello di artigianato o confuso con quello di protoindustria coniato da Franklin Mendels (1972; 1984). Così, molti evitano il termine “industria” e preferiscono utilizzare espressioni meno precise, quali “preindustria”, “settore preindustriale”, “industrializzazione”, “protoindustrializzazione”, ecc. È vero che il termine è in conflitto con l’espressione “epoca preindustriale” (o “epoche preindustriali”), cosicché può sembrare contraddittorio parlare di “industria nell’epoca preindustriale”. Anche Fernand Braudel era imbarazzato da questa apparente contraddizione:

Industria: il termine si districa male dal suo vecchio significato di lavoro, attività, abilità, per acquisire, pressappoco nel secolo XVIII e non sempre, il senso specifico che ci è noto, in un settore in cui le parole “arte”, “manifattura”, “fabbrica” saranno a lungo concorrenziali. Trionfante nel secolo XIX, il termine tende a designare la grande industria. Pertanto parleremo spesso qui di “preindustria”, benché la parola non ci piaccia troppo. Il che non ci impedirà, nel corso della frase, di scrivere “industria” senza troppi scrupoli e di parlare di attività “industriali”, anziché “preindustriali”. Nessuna confusione è possibile dal momento che ci collochiamo prima delle macchine a vapore, prima di Newcomen, di Watt, di Cugnot, di Jouffroy, di Fulton, prima insomma del secolo XIX, a partire del quale “la grande industria ci ha circondato da tutte le parti” (Braudel [1979] 1981, 291).

Come ha sottolineato Braudel, la parola “industria” assumeva in origine un senso morale, essendo sinonimo o quasi sinonimo di “inventività”, “abilità” o “astuzia”. Il TLIO (Tesoro della Lingua Italiana delle Origini) segnala la sua prima attestazione volgare – nella forma “adustre” – in un testo fiorentino del Duecento in cui il termine richiamava l’idea di virtù o di probità (Dotto 2014) [1]. Il TLFI (Trésor de la Langue Française Informatisé) suggerisce che la parola è stata introdotta nella lingua francese tramite la volgarizzazione dell’Etica di Aristotele a cura di Nicola d’Oresme (1370-1372 ca.), in cui assumeva il significato di “abilità a realizzare un lavoro, a eseguire, a fare qualcosa” (ATILF, CNRS, e Université de Lorraine) [2]. Col passare dei secoli, l’idea di abilità riferita al termine “industria” divenne sempre più legata all’idea di abilità manuale, cosicché, alla fine del Seicento e soprattutto nel Settecento, la parola veniva usata per designare qualsiasi attività produttiva, di qualsiasi forma o importanza. Da quest’epoca in poi, la parola poteva anche essere impiegata per designare l’insieme di queste attività, ad eccezione di quelle agricole, e quindi per designare un settore economico a sé stante, come avvenne nella Political Arithmetick di William Petty ([1676 ca.] 1690) oppure nella Dîme royale di Vauban ([1707] 1933). Nell’Encyclopédie, l’industria era ancora legata al suo doppio significato, sia morale sia economico, essendo definita da un lato come «una facoltà dell’anima» e dall’altro come «il semplice lavoro delle mani, o le invenzioni della mente in macchine utili» [3]. Inoltre, l’Encyclopédie contrapponeva l’industria all’artigianato, considerando la prima non come un settore economico in particolare, ma come un livello di produzione capace di sovrapporsi a «tutti i mestieri e le professioni» (Jaucourt 1766). Alla fine del Settecento esistevano dunque due definizioni economiche dell’industria: una settoriale (l’industria è un settore economico a sé stante) e una transettoriale (l’industria non è un settore economico ma un’evoluzione dell’artigianato capace di manifestarsi all’interno di qualsiasi settore economico). Tuttavia, con la rivoluzione industriale, la conseguente ridistribuzione settoriale dell’economia e la necessità per gli economisti di adottare nuove nomenclature per tener conto delle veloci evoluzioni dell’epoca, fu la definizione settoriale dell’industria che si impose nell’uso. Il senso morale della parola, d’altro canto, si attenuò fin quasi a sparire. Molti di coloro che si sono occupati della questione ritengono che questa definizione settoriale dell’industria fosse già radicata, almeno in francese, quando Jean-Antoine Chaptal pubblicò De l’industrie françoise (1819). In italiano la stessa definizione appariva radicata nelle Memorie di economia publica di Carlo Cattaneo (1860), anche se nella più antica di queste memorie, Interdizioni israelitiche ([1836] 1860), vi si trovavano ancora alcune rimanenze del senso morale della parola [4]. Nella prima metà del Novecento la definizione settoriale dell’industria si consolidò ancor più con la cosiddetta “legge dei tre settori” (primario, secondario, terziario) formulata da Allan Fisher (1935; 1939) e Colin Clark (1940). Non a caso, Clark definiva questa “legge” – che in realtà è una teoria – sintetizzando il pensiero del già menzionato William Petty attraverso il famoso aforisma «si guadagna più con l’industria che con l’agricoltura e più ancora con il commercio che con l’industria» (si parla talvolta di “legge Petty-Clark”) [5]. Nella sua prospettiva, l’“industria” copriva tutte le attività di produzione non legate allo sfruttamento diretto delle risorse naturali (lasciate al settore primario) a condizione di essere svolte su larga scala, in modo continuo e di riguardare beni trasportabili (Clark 1940; Flacher e Pelletan 2007, 15-6). Questa definizione dell’industria è certamente quella più diffusa oggi; va tuttavia notato che, al di fuori delle definizioni degli economisti, il termine viene spesso applicato a settori di attività che difficilmente possono essere classificati all’interno del settore secondario (così come quando si parla di “industria cinematografica” o di “industria turistica”, ecc.) e che la parola “industria” rimane del tutto polisemica e ambigua.

Il termine “industria” nella storiografia francese e italiana

Nell’introduzione di L’industrie au village, Catherine Verna offre una rassegna storiografica del concetto di industria limitata però ai soli medievisti francesi a partire dagli anni ’60, nella quale quindi non vengono evocati i dibattiti sul tema che si sono svolti, per esempio, tra i modernisti Henri Sée (1925), Henri Hauser (1925) e Paul Harsin (1930). Verna comincia la sua rassegna sottolineando che l’uso dell’espressione “rivoluzione industriale” da parte di medievisti come Jean Gimpel (La révolution industrielle au Moyen Âge, 1975) – che riprende un’espressione di Eleanora Carus-Wilson (An Industrial Revolution in the Thirteenth Century, 1941) – costituisce una sorta di provocazione per chi è riluttante alla sola idea che si possa parlare di industria per l’epoca medievale. Che questa espressione sia esagerata o meno (probabilmente lo è), ha almeno il merito di mettere in luce l’insufficienza delle ricerche sul tema dell’industria medievale: «c’è un divario tra la ricerca storica e la diffusione del fenomeno» (Verna 2017, 11). Infatti, la storica fa notare una contraddizione molto diffusa tra i medievisti – francesi, ma come vedremo anche italiani –, che consiste nell’evitare a tutti i costi di utilizzare la parola “industria”, tranne quando ci si riferisce al settore tessile, per il quale invece si utilizza frequentemente l’espressione canonica “industria tessile”. In seguito, la storica esamina diversi libri di storia economica medievale che mostrano quanto le mancanze da lei evidenziate siano diffuse. Nel 1960 il secondo volume dell’Histoire générale du travail, dedicato al periodo compreso tra il V e il XVIII secolo e scritto da Philippe Wolff per la parte medievale, prende il titolo di Le temps de l’artisanat nonostante la successione dei capitoli faccia emergere una distinzione tra un Medioevo centrale associato alla rinascita dell’artigianato (XIe-XIIIe siècle: renaissance de l’artisanat), e un basso Medioevo associato sia al progresso della tecnica industriale e del capitalismo, sia alla crisi dell’artigianato (XIVe-XVe siècle: progrès de la technique industrielle et du capitalisme. Crise de l’artisanat). Quindi, Wolff parla di “tecnica industriale” piuttosto che di “industria”, e fa di quest’ultima una creazione del basso Medioevo; ciononostante, nel capitolo sul Medioevo centrale evoca «le grandi industrie dei secoli XII-XIII, le industrie tessili» (Wolff e Mauro 1960). Nel 1993 L’économie médiévale di Philippe Contamine et al. presenta «l’artigianato tessile» come un «settore preindustriale», in quanto «prefigurava l’industria moderna», ma è comunque restio a usare il termine «industria» e non vi fa nessun riferimento, neppure indirettamente, quando si riferisce ad altri settori di attività come quello metallurgico. In Le travail au Moyen Âge (2000), Robert Foissier nega categoricamente l’uso del termine “industria” prima del XIX secolo, dicendo a proposito del carbon fossile che «è all’origine del vapore, di un nuovo meccanicismo, insomma del passaggio dall’artigianato all’industria». Infine, Verna fa notare che il Dictionnaire du Moyen Âge (Gauvard, De Libera, Zink 2002), con le sue 1.790 voci scritte da 380 specialisti in 1.600 pagine di testo, non contiene una voce per “industria” ma solo una per “artigianato” (Verna 2017, 14). Tuttavia, aggiungiamo che la situazione è ancora peggiore rispetto a quella descritta dalla storica, dato che la voce “artigianato” presente nel Dictionnaire – specchio delle scelte storiografiche dominanti all’inizio del XXI secolo (ossia quelle in cui nel Medioevo raccontato non si produceva e a malapena si lavorava) – in realtà non contiene testo ma consiste solo in un rimando alle due voci “mestiere” e “lavoro”, entrambe piuttosto brevi.

Il libro di Verna ci ha spinto a riflettere su come il tema dell’industria venga trattato dalla storiografia italiana (abbiamo ritenuto opportuno considerare anche alcuni storici non italiani che hanno avuto una certa influenza sulla medievistica peninsulare, così come storici modernisti o contemporaneisti che hanno trattato del Medioevo nei loro studi sul lungo periodo). In questo modo, abbiamo potuto individuare quattro principali approcci al tema: studiosi che non si preoccupano di chiarire il concetto, altri che rifiutano esplicitamente di usarlo perché non lo ritengono adeguato per l’epoca preindustriale, altri ancora che usano il concetto nella sua accezione di settore secondario e, infine, altri che usano il concetto di industria come categoria di produzione di beni distinta da categorie affini come l’artigianato.

Nel primo caso, ossia quando gli storici non affrontano direttamente la questione dell’industria né cercano di chiarire il concetto, emerge la stessa osservazione individuata da Verna a proposito della storiografia francese: la parola “industria” non è un tabù ma viene usata unicamente o quasi unicamente in riferimento al settore tessile, ed è mal distinta dall’artigianato o da categorie affini. Nella recente Economia politica classica e storia economica dell’Europa medievale di Paolo Cammarosano (2020), il termine “industria” compare poche volte, mentre l’intero settore della produzione di beni è solitamente descritto come “artigianato”, “attività artigianale” o “produzione artigianale”. Sebbene l’autore evochi uno «sviluppo dell’industria tessile» nel secolo XIII – industria alla quale riconosce, secondo l’espressione canonica, il ruolo di settore «trainante» (309-10) – non spiega in cosa consista il passaggio dall’artigianato all’industria, né quali siano le ragioni che in questo caso lo abbiano condotto a parlare di industria piuttosto che di artigianato. Inoltre, l’autore associa il termine “industria” quasi esclusivamente al settore tessile, senza però fornire le ragioni della sua preferenza settoriale e ciononostante nella maggiore parte del libro, e quindi anche per i periodi successivi al XIII secolo, si riferisce al settore tessile più spesso con il termine “artigianato” o “manifattura” che con quello di “industria”.

Anche Chris Wickham in L’Europa nel Medioevo ([2016] 2018), senza escludere totalmente la parola “industria”, preferisce evitarla. Così, descrive Gand come «un centro di produzione tessile» piuttosto che di industria tessile (181), e ancora indica che alla fine del Medioevo si era spostato verso Anversa «l’epicentro dell’economia produttiva dei Paesi Bassi» piuttosto che della loro industria (281). Sebbene sottolinei che nell’Inghilterra del XIII secolo si assistesse agli «inizi della produzione urbana per la massa della popolazione e […] l’instaurarsi dell’abitudine dei contadini a comprare i tessuti […] invece di produrseli da soli», non riconosce a questa produzione di massa le caratteristiche di un’industria (183-4). E ancora, sebbene riferisca che gli scavi archeologici mostrino che «già nel XIII secolo i contadini possedevano oggetti in metallo relativamente standardizzati», non interpreta questa standardizzazione come un segno che la produzione metallurgica si stesse sviluppando verso forme industriali (172). Può darsi che le ragioni per cui Wickham scarta il termine “industria” si spieghino quando fustiga: «i tentativi di alcuni storici di scorgere dietro ogni angolo i prodromi dell’avvento della Rivoluzione industriale» (284). Tuttavia, nonostante la cura con cui sceglie il lessico, la parola gli sfugge comunque, quando scrive che nell’XI secolo la lana inglese divenne la principale materia prima «per l’industria tessile fiamminga» (182) oppure quando scrive che l’Egitto dei secoli XII-XIII produceva lino e zucchero «su scala industriale» (186). D’altronde, quando finalmente parla di “silk industries” a proposito di Milano, Ferrara e Napoli – i setifici di Tebe, Corinto e Constantinopoli stranamente non hanno avuto diritto a questa denominazione (236-7) – si deve rilevare un’imprecisione nella traduzione che rende “silk industries” con “poli della produzione serica” (282).

Ma vi è una certa differenza tra non definire i concetti e abusarne. In Storia dello sviluppo economico medievale di Pier Luigi D’Eredità (2014) il capitolo IX.4, intitolato La manifattura del Duecento verso forme protoindustriali, rammenta che il più alto grado di specializzazione dell’artigianato nel XIII secolo aveva fatto emergere nuove forme di produzione e una maggiore concentrazione economica, di cui però «se non la si può più considerare artigiana non si può ancora definire industriale» (529). L’autore sembra quindi identificare una via di mezzo tra l’artigianato e l’industria, che tuttavia non definisce né nomina a meno che non ci si debba riferire al termine «protoindustria» presente nel titolo del capitolo, che tuttavia non compare nel corpo del testo né viene associato al concetto mendelsiano, e che quindi risulta utilizzato in maniera abusiva [6]. Nello stesso capitolo, nonostante confuti il termine “industria”, l’autore si riferisce a Jean Gimpel per evocare l’esistenza di «una piccola rivoluzione industriale medievale, diremmo in vitro» e nota, riguardo al settore tessile, che «non siamo però lontani dalle prime forme di produzione industriale» (534). Nel capitolo XIII.5, intitolato La città industriale del Quattrocento, l’autore sottolinea l’importanza del settore tessile a Genova, Firenze, Prato, Gand e Malines precisando che «non si deve pensare a una trasformazione industriale nel senso che si attribuisce al termine a partire dal secolo XVIII» perché due elementi lo impediscono: la lunghezza dei tempi di produzione e la discontinuità del tempo di lavoro durante l’anno (637). Infine, conclude questo capitolo con un’affermazione curiosa e sicuramente del tutto personale, ossia che l’unica industria medievale che avesse caratteristiche simili a quelle della rivoluzione industriale fosse quella dell’allume (639-40):

[…] l’Europa non conobbe una strutturazione economica assimilabile a quella tipica della rivoluzione industriale; il cosiddetto capitale costante non aveva assunto un’efficacia decisiva e il salariato non vendeva a sua volta solo la forza lavoro. L’unica industria che veramente assunse tali caratteri fu quella dell’allume, necessario per la concia di pelli, che effettivamente fu prodotto in sistemi assimilabili a quelli delle industrie del successivo tardo secolo XVIII.

Altri storici si sono preoccupati di riflettere sul concetto di industria, ma per concludere che non è adeguato per trattare le epoche preindustriali. Basti pensare a Ruggiero Romano e al suo volume interamente dedicato all’argomento, Industria: storia e problemi (1976), nel quale lo storico dichiara fin dall’introduzione «di non servir(s)i più di questa parola ‘industria’ e di far ricorso alla espressione ‘produzione di beni non agricoli’», perché «non si può parlare di industria (in un’accezione veramente moderna) prima del secolo XVIII (nel caso inglese) e più tardi ancora» (vii-viii). Anche Carlo Maria Cipolla, in Storia economica dell’Europa pre-industriale ([1974] 2002), fa poco uso della parola “industria”, preferendo termini come “attività manufatturiere”, anche se gli capita comunque di usare il termine, in particolare in riferimento al settore tessile, ad esempio quando, avvalendosi dell’articolo già citato di Carus-Wilson, scrive che la gualchiera idraulica «rivoluzionò l’industria tessile» (203). La sua concezione di industria forse si chiarisce nel capitolo dedicato all’organizzazione produttiva, in cui lo storico mette in opposizione la “fabbrica industriale” con la “bottega artigianale”, lasciando intendere, come poi faranno altri, che la questione dell’industria sia inestricabilmente legata a quella dei luoghi di produzione (130-1):

In questo settore [manifatturiero] l’unità tecnica di produzione oggi è la fabbrica mentre nell’Europa pre-industriale era la bottega. La fabbrica industriale è caratterizzata da un’alta concentrazione di lavoro salariato e macchinari mentre nella bottega artigiana la concentrazione di lavoro e di capitale era minima e il lavoro salariato vi era scarsamente rappresentato.

Alfio Cortonesi e Luciano Palermo, in La prima espansione economica europea ([2009] 2019), non fanno neppure uso del termine “industria”, ma si attengono piuttosto, con grande rigore, a quello di “produzione artigianale”. Anche il settore laniero, sebbene descritto come «il settore produttivo artigianale più importante», non è definito “industria” ma «settore della fabbricazione dei panni di lana» (35). In realtà, gli autori associano una volta il settore tessile all’industria, ma mettendo accuratamente la parola tra apici: «particolarmente complessa era l’organizzazione produttiva della maggiore ‘industria’ medievale, quella della produzione dei panni» (136). Nell’ultimo capitolo del libro, la parola «industria» – che anche qui è usata unicamente in riferimento al settore tessile – compare una seconda volta, questa volta non tra apici, ma per riferirsi a una produzione già entrata nell’epoca moderna: «alla fine del XV secolo, l’industria laniera inglese (si può cominciare a chiamarla così) era ormai separata dai quartieri artigiani della città; era impiantata soprattutto nelle campagne, lungo i corsi d’acqua che fornivano l’energia ai mulini necessari per la follatura del panno […]» (181). Da questa citazione, si intuisce che Cortonesi e Palermo, come Cipolla, si riferiscono a un concetto di industria strettamente legato alla questione delle forme di organizzazione della produzione. Infatti, attenti alla scelta delle parole, gli autori hanno introdotto, nei primi capitoli del libro, il termine “manifattura” in relazione all’evoluzione delle forme di produzione negli ultimi secoli del Medioevo: «Anche nel settore secondario, per uscire dalla fase critica furono create, tra il XIV e il XV secolo, delle nuove modalità produttive. […] Queste innovazioni si riassumono nel passaggio dalla bottega artigianale urbana alle prime ed elementari forme di manifattura» (52). Ma questa manifattura, per loro, non è tanto una forma di organizzazione della produzione quanto un luogo: «rispetto alla bottega artigiana, diretta da un capo-bottega ancora coinvolto nei processi produttivi, la manifattura si presentava come un’unità produttiva già assai vicina al modello capitalistico di impresa». Quindi, sembra che ciò che distingue l’artigianato dalla manifattura, e attraverso di essa l’artigianato dall’industria, sia principalmente una questione di organizzazione spaziale (51-2):

[nella manifattura] il ciclo lavorativo non era ancora concentrato in un unico luogo ; non c’era ancora una rigida disciplina del lavoro ; si era, insomma, solo nelle prime fasi, ancora incerte, dei cambiamenti ; ma era ormai aperta la via verso quel modello di impresa e quel modo di produzione che molto più tardi, nell’età moderna, e dopo tanti ulteriori momenti di trasformazione e di innovazione, sarà concentrato nella fabbrica e sarà chiamato ‘industria’.

In contrasto con questi ultimi storici, per Paolo Malanima non v’è dubbio che si possa parlare di “industria” nel Medioevo. Anzi, leggendo L’economia italiana (2002), la giusta domanda da porsi diventa piuttosto: che cosa non era industria in ambito produttivo? Ecco che un criptico documento di un convento fiorentino del IX secolo ricorda che le monache si dedicavano «ad opera nostra faciendo de panno et lino», e questo basta per affermare che «una qualche produzione industriale esisteva anche nei monasteri e nei conventi» (159). In un altro capitolo, dedicato all’«industria alto-medievale», si legge che «in tutta Europa, intorno al X secolo, poche erano le industrie che producevano per mercati lontani» (queste erano le industrie delle armi in acciaio e dei tessuti di lana), mentre «per il resto le attività industriali si rivolgevano alla domanda locale». Inoltre, nell’ordine dei capitoli, “le industrie urbane” al capitolo 1.7 precedono “l’artigianato” al capitolo 1.8, che viene descritto come «la forma prevalente di organizzazione nell’industria» (162). Di conseguenza, il libro di Malanima si può apprezzare appieno solo se si capisce che quello che egli chiama «industria» è in realtà il settore secondario secondo la legge dei tre settori, un’interpretazione di industria che però l’autore non esplicita nella sua analisi.

Anche Stephan Epstein, in Freedom and Growth (2000), fa lo stesso uso della parola «industria», in particolare perché il suo obiettivo è trattare le origini della protoindustria nel periodo 1300-1550, anticipando quindi di diversi secoli la realtà del concetto sviluppato da Mendels in riferimento all’industria tessile olandese dei XVI e XVII secoli (1972; 1984). Infine, anche Giuseppe Felloni, in Profilo di storia economica dell’Europa ([1993] 1997), utilizza la parola “industria” secondo la legge dei tre settori, applicandola a tutte le attività di «trasformazione dei prodotti naturali in beni finiti» (152) e facendo dunque dell’artigianato un sotto-settore di essa: «Sia nel medioevo che nell’età moderna, la forma d’industria prevalente è quella artigianale, ossia la microazienda individuale il cui proprietario partecipa materialmente (in tutto o in buona parte) al processo produttivo» (159). Ciononostante, Felloni presenta i concetti in modo più articolato rispetto a Malanima ed Epstein e distingue, per l’età medievale e l’età moderna, tre livelli di ciò che chiama “industria”: «l’artigianato, l’industria domestica e l’industria capitalistica (chiamata anche manifattura centralizzata o semplicemente manifattura), che sono imperniate rispettivamente sulle figure del maestro artigiano, del mercante imprenditore e dell’imprenditore capitalistico» (155).

Altri storici, diversamente, hanno ritenuto che il concetto di industria sia adeguato per l’epoca preindustriale, non per designare il settore secondario della legge dei tre settori, bensì una categoria di produzione di beni distinta da altre categorie come l’artigianato. È il caso degli autori del manuale di storia economica Dall’espansione allo sviluppo (Di Vittorio [2002] 2010) e in particolare di Paola Massa che si è occupata della parte dedicata al Medioevo: «Nel XV secolo si è nel pieno dell’epoca nota come ‘preindustriale’, nel senso che precede l’industrializzazione dell’Europa contemporanea, […] tuttavia, si può parlare di industria limitando il significato del termine all’impiego della tecnologia propria del periodo in esame» (20). È anche il caso dei contemporaneisti Roberto Romano e Marco Soresina che, in Homo faber (2003), una storia economica dall’alto Medioevo fino alla globalizzazione, aprono la loro analisi con una riflessione sul termine “industria” e sulla sua applicabilità all’età medievale e moderna. Prendendo atto dei problemi sollevati dal termine, gli autori precisano la loro definizione di industria moderna: «1. produzione per il mercato a fini di profitto in un’impresa di tipo capitalistico; 2. concentrazione di lavoratori salariati in un unico luogo; 3. utilizzazione di macchine mosse da energia inanimata; 4. lavorazione continua lungo tutto l’arco dell’anno» (3-5). Poi affermano che, prima della rivoluzione industriale, molte aziende avevano una o più di queste caratteristiche ma raramente tutte e quattro insieme, mentre, dopo la rivoluzione industriale, nessuna azienda manifatturiera che non avesse questi quattro elementi poteva essere designata come industriale, e che è in questo che risiede l’elemento di discontinuità che permette di distinguere l’epoca preindustriale da quella industriale. Ma tale discontinuità non significa assenza totale di continuità, cosicché i due autori, per «adeguarsi all’uso di molti storici medievisti e modernisti» hanno concordato che si possa usare il termine “industria” riferito al periodo preindustriale (3-5).

Più recentemente anche Richard Goldthwaite in L’economia della Firenze rinascimentale ([2009] 2013) fa uso del termine “industria” ma solo in riferimento a quei settori e quelle forme di produzione che si adattano al concetto. In tal modo, nella parte del libro dedicata all’economia urbana di Firenze (Parte seconda: L’economia urbana), distingue un primo capitolo dedicato alle industrie tessili (IV. Le industrie tessili) e un secondo dedicato al settore dell’artigianato (V. Artigiani, bottegai, lavoratori). Questa distinzione tra industria e artigianato operata dall’autore (“industrial sector” e “artisan sector” nella versione originale) è infatti essenziale, poiché il suo obiettivo è proprio quello di sottolineare l’importanza del settore artigianale – spesso dimenticato dagli altri storici dell’economia fiorentina – in relazione al commercio, alla banca e, quindi, all’industria vera e propria (824):

I settori commerciale, bancario e industriale conseguirono lo straordinario risultato di strappare la città al suo isolamento. Se il loro insuccesso finale non vide il ritorno della città all’isolamento fu grazie al settore artigianale che crebbe e prosperò nel frattempo, alimentato dalla ricchezza apportata alla città da quelle altre attività. Nel lungo periodo infatti il massimo successo dell’economia fiorentina fu lo sviluppo di questo settore attraverso il quale la ricchezza generata dai settori avanzati veniva riciclata e pertanto investita in capitale umano e trasformata in un patrimonio di architettura urbana, di opere creative e di una tradizione di maestria artigianale ineguagliata da qualsiasi altra città.

Cos’è l’industria?

La nostra rassegna ha permesso di individuare diverse visioni del concetto di industria, di cui la meno convincente, a nostro parere, è quella che interpreta l’industria come il settore secondario secondo la legge dei tre settori. Tale concezione è insoddisfacente in quanto implica di collocare l’artigianato ‘dentro’ l’industria, ossia di concepire l’artigianato come la forma basilare dell’industria, piuttosto che di considerarle come due entità distinte. Questa concezione rappresenta d’altronde una semplificazione estrema della legge dei tre settori, in quanto gli economisti hanno sempre distinto l’artigianato dall’industria all’interno del settore secondario (la definizione di Clark limita l’industria alle sole attività produttive non agricole svolte su larga scala, in modo continuo e che riguardino beni trasportabili). Infine, da parte degli storici italiani, questo utilizzo del termine “industria” rappresenta un anglicismo, ossia un calco semantico della parola “industry”. La differenza infatti tra “industria” e “artigianato” esiste nelle lingue romanze ma non si ritrova in inglese, dove il concetto di artigianato – inteso come categoria di produzione di beni definito in opposizione con industria – non ha un equivalente nel linguaggio corrente [7]. Infatti, la differenza tra “industria” e “artigianato” che esiste nelle lingue romanze non si ritrova in inglese, dove il concetto di artigianato – inteso come categoria di produzione di beni definita in opposizione con industria – non ha un equivalente nel linguaggio corrente e dove il termine “industry” designa sia il concetto di industria sia quello di artigianato, e talvolta anche la combinazione di essi, ossia il concetto di settore secondario. Questa è la ragione per cui la maggior parte degli storici anglosassoni – come Stephan Epstein in Freedom and Growth – utilizza unicamente il termine “industry” senza cercare di collegare il concetto di artigianato a un termine specifico, come è anche la ragione per cui quegli storici anglosassoni che invece vogliono stabilire una distinzione semantica tra i due concetti sono costretti a usare delle espressioni sui generis, come ha fatto Richard Goldthwaite attraverso la distinzione tra “industrial sector” e “artisan sector [8].

Un’altra concezione di industria che è emersa dalla nostra analisi – una visione molto comune, rappresentata da Cipolla o da Cortonesi e Palermo – indentifica l’industria con le forme di organizzazione della produzione, o addirittura con i luoghi di produzione, quasi a ridurre l’industria a una semplice questione topografica. Anche i contemporaneisti Romano e Soresina fanno della «concentrazione di lavoratori salariati in un unico luogo» una condizione necessaria dell’industria moderna (2003, 3). Per tutti questi autori, l’industria, insomma, sarebbe la fabbrica (o almeno la “manifattura”, ma nel senso ‘edilizio’ del termine). A nostro parere, anche questa concezione è insoddisfacente, in quanto molte delle attività produttive che oggi vengono chiamate “industrie”, sia nelle nomenclature degli economisti sia nella lingua comune, non hanno luogo all’interno di fabbriche né sono necessariamente svolte in un luogo unico. Inoltre, la storiografia italiana della prima metà del Novecento, con i concetti di “opificio decentrato” e di “fabbrica disseminata” coniati rispettivamente da Gino Luzzatto e da Gioacchino Volpe, aveva già fornito gli strumenti concettuali che permettono di separare la questione dell’industria da quella delle forme di organizzazione della produzione. Dunque, ci appare opportuno considerare che l’industria può assumere molteplici forme e che, se è vero che la fabbrica divenne la forma più rilevante dell’industria con la rivoluzione industriale, e se è anche vero che questa forma di industria era sconosciuta nel Medioevo, è un sillogismo dire che l’epoca medievale non conobbe l’industria perché non conobbe la fabbrica. Quella medievale era un’industria senza fabbrica, ma era comunque un’industria a tutti gli effetti.

Assodato questo punto, come spiegare in che cosa consiste il passaggio dall’artigianato all’industria? Questa domanda, che è sicuramente una delle più importanti a cui agli storici dell’economia spetta rispondere, ha bisogno di essere adeguatamente inquadrata. L’artigianato e l’industria non sono infatti due entità assolute: non inglobano l’intera economia produttiva di una determinata epoca e non coincidono con i settori di produzione nella loro totalità. Oggi il settore tessile è ampiamente industrializzato, cioè incentrato sulla produzione nelle fabbriche, ma ciò non esclude che gli stilisti creino ancora a mano vestiti unici e personalizzati, realizzando prodotti artigianali. Artigianato e industria possono perfettamente coesistere all’interno di uno stesso settore nella medesima epoca, sicché la valutazione della presenza di uno o dell’altro dovrebbe sempre riferirsi a contesti particolari. Lo stesso vale per l’epoca medievale, per la quale quindi non ha senso chiedersi se bisogna parlare di “industria tessile” piuttosto che di “artigianato tessile”, dato che entrambi coesistevano, pur se in contesti diversi. Di conseguenza, l’apparente contraddizione presente nell’espressione “industria nell’epoca preindustriale” non è una vera contraddizione. L’artigianato e l’industria esistono sia in epoca preindustriale sia in epoca industriale, la differenza tra queste due epoche riguarda la proporzione: l’artigianato era la forma di produzione di beni prevalente nell’epoca preindustriale, l’industria quella prevalente nell’epoca industriale.

Ma qual è quindi la definizione di industria? Catherine Verna risponde a questa domanda affidandosi all’articolo di Philippe Braunstein, L’industrie à la fin du Moyen Âge : un objet historique nouveau ? ([1998] 2003), nel quale lo storico osserva che: «è senza dubbio più facile per gli storici del mondo contemporaneo ammettere che prima dell’industria c’era già l’industria che per i medievisti riconoscere che l’artigianato, categoria del lavoro e dei servizi di prossimità, non può rendere conto di tutti i livelli di produzione». In seguito, ed è questa la definizione condivisa da Verna, Braunstein afferma che: «ciò che distingue l’industria dall’artigianato in qualsiasi epoca è la commercializzazione di una produzione di massa, in serie, di qualità costante» (93-4). Si tratta dunque di una definizione in linea con quella dell’Encyclopédie, tanto più che Braunstein ricorda il significato morale del termine e riprende l’espressione “facoltà dell’anima”. In una prospettiva storica, questa definizione ha un doppio vantaggio rispetto a quelle che abbiamo analizzato finora: da un lato, fornisce una concezione transettoriale che permette di far coesistere l’artigianato e l’industria all’interno di uno stesso settore produttivo, dall’altro distacca l’industria dalle forme di organizzazione della produzione, il che permette di inquadrare meglio la pluralità di forme che poteva assumere la produzione di beni in qualsiasi settore e in qualsiasi epoca.

L’industria nel borgo

Tornando a L’industrie au village, il terzo capitolo del libro di Verna presenta quattro tipi di attività non agricole praticate ad Arles-sur-Tech: la produzione tessile e più precisamente quella laniera, la produzione di cuoio, la filiera del legno e la metallurgia. Tra questi, il settore laniero e la metallurgia erano indubbiamente i più sviluppati, quelli che esigevano maggiore manodopera e i meglio documentati nelle fonti [9]. I panni di lana prodotti ad Arles erano esportati dagli uomini del borgo fino a Camprodon, Castelló d’Empúries, Barcellona e Perpignano, da dove erano inseriti nei grandi flussi del commercio internazionale e rivenduti, insieme ai panni perpignanesi, a Napoli e in Sicilia. Tuttavia, Verna fa notare che la produzione di Arles non si confondeva con quella di Perpignano: nella prima metà del XV secolo né gli uomini, né i capitali, né le tecniche del lanificio perpignanese penetravano nel Vallespir, la cui produzione tessile rimaneva autonoma. Ciò che colpisce di più gli storici del tessile, nel caso di Arles, è lo squilibro tra il numero di artigiani che si dedicavano alle fasi di rifinitura del ciclo lavorativo (47 pareurs, 4 tintori) e il numero degli addetti alle fasi preliminari (27 tessitori, 7 pettinatori). Verna precisa che questa caratteristica si ritrova anche nelle altre località del Vallespir e in quelle della valle adiacente del Conflent, e ritiene che questo costituisca un segno della maturità raggiunta dalla produzione tessile di Arles (si potrebbe anche dire, una delle pietre miliari del passaggio dall’artigianato all’industria): «appare chiaramente che un processo di concentrazione è in corso intorno alle botteghe di tintura. Porta al controllo di una filiera di produzione del panno, dall’acquisto della lana fino alla tintura e finitura, che include la fase di tessitura» (88). Questo squilibrio si ritrova in molti studi sull’industria tessile medievale, anche urbana, poiché erano quasi sempre gli artigiani delle ultime fasi del ciclo produttivo (tintori, tonditori, lanaioli, ecc.) che, sviluppando la loro attività commerciale, costituivano il motore dell’integrazione economica della produzione tessile. Il paragone che fa Verna tra i pareurs di Arles e i paraires di Valenza, per chi conosce un po’ la storia dell’industria tessile valenziana, è su questo punto molto eloquente (89). Per quanto riguarda il settore metallurgico, che si era affermato come “una specialità di Arles” e di cui Verna è un’esperta riconosciuta, basta soffermarsi sull’elenco dei beni prodotti: spade, coltelli, punte di lancia, candelieri, fiaschette per il profumo (la regina Violante ordinava i suoi perfumadors ad Arles), ecc., quindi prodotti metallurgici che non si limitavano all’attrezzatura di base delle campagne, ma erano orientati verso il mercato, la cui produzione supponeva capacità tecniche e commerciali di un certo spessore (110). Grazie alla presenza di un capitolo sul basso forno idraulico (noto come “basso forno catalano”), in cui Verna dimostra la propria competenza nella storia delle tecniche, e grazie a diversi capitoli sui mercati del ferro e sul lavoro di forgiatura (299-340), è possibile affermare che il settore metallurgico è quello più approfondito nel libro, ma lasceremo a uno storico più esperto del tema il compito di apprezzarne la qualità.

Che fosse per la produzione laniera o per quella metallurgica, non c’è dubbio che – come rammenda il titolo del libro – esisteva un’“industria nel villaggio”. Tuttavia, questo “villaggio” non era tanto un villaggio, dato che Verna l’associa fin dal primo capitolo al concetto di borgo, ossia il bourg degli storici francesi e la small town o market town degli storici anglosassoni. Anche in questo caso, gli storici francesi hanno esitato sul termine (gros village, petite ville, bourgade, ecc.), ma non tanto sulla definizione del concetto. Philippe Wolff, Georges Duby, Guy Bois e Fernand Braudel hanno tutti sottolineato l’importanza del borgo come categoria intermedia tra la città e il villaggio, centro di scambio e di mercato, ma anche come centro di dominazione dello spazio rurale circostante, il quale aveva tanto bisogno del borgo quanto il borgo aveva bisogno di esso (32-4). Il borgo, secondo Braudel, «per la società rurale, rappresenta soprattutto, da solo, il mondo esterno nella sua totalità: l’amministrazione, la giustizia, il commercio» (1986, 141). Anche la storiografia italiana, soprattutto grazie all’articolo di Giorgio Chittolini (1990), ha messo in luce la realtà del borgo e sottolineato la sua importanza.

Nonostante si tratti di un concetto su cui vi è maggiore accordo rispetto a quello di industria, Verna ne fa una disamina approfondita. In primo luogo, afferma «credo che la questione demografica, che talvolta è stata utilizzata per distinguere borghi e piccole città, si possa eliminare in quanto non realmente rilevante». Il borgo si definisce innanzitutto come luogo di comando (era spesso il luogo in cui soggiornavano gli agenti signorili) e come luogo di mercato (attraverso mercati regolari, fiere o altri luoghi di scambio come gli alberghi). Inoltre, il borgo era anche il luogo deputato ai servizi: «bisogna forse cominciare l’elenco con la capacità di cui dispone il borgo di registrare dei contratti che inquadrino, organizzino e permettano lo sviluppo della vita economica». Vi si trovavano quindi notai, prestatori, professioni sanitarie (barbieri, chirurgi, speziali, ecc.), oppure istituzioni di beneficenza (ospedali dei poveri, ecc.). Nelle campagne, il borgo rappresentava anche la comunità che interveniva in maniera collettiva per assicurare la manutenzione delle infrastrutture, costruire o riparare un ponte, una strada, ecc. Ma a questi elementi classici della definizione di borgo, Verna aggiunge anche l’industria: «mi è parso che l’industria fosse un elemento forte della definizione dei borghi, anche se questa caratteristica non era stata sottolineata dagli storici che avevano indagato il fenomeno» (32-5).

Il distretto industriale

Secondo Verna, il borgo costituiva il luogo di insediamento privilegiato dell’industria rurale, e l’industria è parte integrante della definizione di borgo. Ma non è tutto. Infatti, in maniera originale, la storica aggiunge che la realtà industriale del borgo si comprende solo se si fa riferimento al concetto di distretto industriale. Quest’ultimo concetto, che va distinto da concetti affini quali territorio industriale o bacino industriale, è stato definito nei Principles of Economics dell’economista inglese Alfred Marshall (1890). Il punto di partenza di Marshall fu constatare l’esistenza in Europa di aree di concentrazione industriale specializzate, caratterizzate soprattutto dalla lunghissima permanenza in attività. Nella teoria economica, il concetto di distretto è doppio, sia geografico sia temporale, ma Marshall insisteva sull’importanza delle scelte iniziali, notando che la maggior parte delle concentrazioni che analizzava avevano un’origine medievale. Più recentemente, il concetto è stato applicato alla realtà attuale dall’economista italiano Giacomo Beccatini, che definisce il distretto industriale come una rete di piccole o medie imprese distribuite su territori diversi dalle aree urbane, e nei quali i borghi e i villaggi servono da punto di ancoraggio delle attività produttive (1989; 2000). Ancor più di recente, il concetto è stato utilizzato dagli storici delle epoche preindustriali, in particolare da quelli riuniti alle 33e Journées Internationales d’Histoire dell’abbazia di Flaran (2011) dedicate alle “industrie rurali nell’Europa medievale e moderna” (Minovez, Verna, Hilaire-Pérez 2013). Naturalmente, in questo contesto è stata sottolineata la storicità della definizione di distretto industriale proposta da Marshall, che spiegava la permanenza dei distretti con la loro capacità di adattarsi ai cambiamenti della domanda grazie all’alta concentrazione di know how in un determinato territorio. Mathieu Arnoux ha precisato che, se la stabilità dei distretti talvolta ha dato luogo alla formazione di istituzioni specifiche, queste istituzioni sono passate in secondo piano rispetto al mercato: «questi raggruppamenti non si confondono con dei centri palaziali o delle manifatture dotate di privilegi» (2013, 16). Marco Belfanti, da parte sua, ha insistito sull’importanza dei borghi e delle loro reti nella formazione dei distretti industriali. Inoltre, ha notato che «l’area che probabilmente conta la maggiore tradizione di manifatture rurali è quella delle valli della regione prealpina» (2013, 297), perché l’area disponeva di numerose risorse naturali, di uno sviluppo agricolo limitato e di una relativa indipendenza istituzionale nei confronti delle città. Belfanti ha quindi definito il distretto industriale come «una forma di industrializzazione tipica dell’Italia centrale e settentrionale» (295) nel periodo medievale e moderno, ossia, complessivamente, la stessa forma di industrializzazione che Beccatini osservava ancora alla fine del XX secolo.

Nel quinto capitolo di L’industrie au village Verna spiega che «la combinazione di scale, dal villaggio alla valle e alla contea, ci permette di definire il Vallespir come un distretto industriale, con attività combinate da un borgo all’altro, dove circolavano persone e capitali, i cui flussi circoscrivono lo spazio e lo definiscono» (139). Infatti, il concetto di distretto industriale rappresenta una chiave essenziale per comprendere la realtà produttiva di Arles, che non era chiusa in se stessa ma era legata ai borghi vicini. Verna precisa che il concetto di distretto industriale integra la nozione di «complementarità funzionale» dei borghi che lo compongono e che la specializzazione industriale di un borgo «è interessante solo alla luce della situazione riscontrabile negli altri borghi» (140). Infatti, nel Vallespir del XV secolo, Prats-de-Mollo e Céret erano specializzati nel settore del legno, Saint-Jean-Pla-de-Corts e Le Boulou erano caratterizzati da un gran numero di imprese di mulattieri, mentre «Arles era il borgo dei fabbri» (ibid.). Questa complementarità non implicava una totale assenza di concorrenza tra i borghi del distretto, tanto che Verna sottolinea che la specializzazione di Arles nel settore metallurgico si era affermata probabilmente a scapito di Prats-de-Mollo, la cui attività metallurgica appariva più sviluppata nel Trecento che nel Quattrocento. Oltre alla complementarità, il distretto è anche il luogo della circolazione. Verna evidenzia il caso di investitori presenti in diversi borghi del distretto, alcuni originari di Arles, altri di Perpignano. Tra questi si distinguevano membri delle famiglie notabili di Arles che si erano stabiliti in città per beneficiare dei suoi servizi, privilegi e franchigie: «questa inclusione delle reti rurali nella città non può essere interpretata come un segno del dominio della città sulla campagna. Al contrario, rivela la capacità dei notabili rurali di investire nella città e di utilizzare i suoi privilegi a loro vantaggio» (147). Sulla questione del finanziamento dell’industria (144-55), Verna sottolinea il ruolo delle istituzioni caritative di Arles (la confraternita dei Santi Abdon e Sennen e in misura minore l’Ospedale dei poveri) che, attraverso prestiti, assumevano una funzione importante nel finanziamento delle imprese e nel coordinamento delle attività produttive: «l’industria del Vallespir trova, almeno in parte, i capitali di cui ha bisogno in loco» (154). La circolazione del denaro coincideva anche con quella degli uomini, così come quella degli uomini coincideva con quella delle tecniche, tanto che «il distretto del Vallespir si è sviluppato contando sull’innovazione tecnica e sulla sua rapida diffusione in ambito economico» (139-40). Queste innovazioni tecniche riguardavano le gualchiere per l’industria tessile, i bassi forni (moulines) per il lavoro del ferro, i mulini serradors per quello del legno, le fusine per il trattamento del minerale d’argento, ecc.

Complementarità e circolazione (degli uomini, delle tecniche, dei prodotti e dei capitali) sono dunque le due parole chiave che fungono da fattori omogeneizzanti del distretto industriale. Spiegano anche la sua permanenza? L’approccio microstorico adottato da Verna, che era certamente l’unico possibile di fronte alla documentazione disponibile, non permette di inserire il distretto industriale del Vallespir in una prospettiva di longue durée, il che è un peccato, essendo la permanenza dei processi storici e l’importanza delle scelte iniziali, spesso risalenti al Medioevo, uno degli aspetti rilevanti del concetto di distretto industriale coniato da Marshall. È forse questo uno dei limiti maggiori del libro qui analizzato, ma si tratta di un limite dettato dal suo approccio microstorico e, più in generale, della microstoria tout court. Comunque sia, L’industrie au village – industria di borghi che formavano distretti – riesce nel suo obiettivo di mettere in luce una forma di industrializzazione raramente considerata nei modelli storiografici dominanti. Nel caso italiano, per esempio, sarebbe interessante tornare sul modello di “protoindustrializzazione medievale” sviluppato da Epstein, che considera l’industria rurale unicamente alla luce delle città con le quali era connessa (dal punto di visto normativo, si noti che Epstein fa uso dell’espressione “distretto industriale” per designare spazi urbano-rurali centrati sulle città piuttosto che sulle campagne). Ma se ci si chiede se la forma di industrializzazione osservata nel Vallespir sia generalizzabile, la risposta è probabilmente no, come afferma Verna, dato che si tratta solo di una delle forme possibili tra la «pluralità delle vie della crescita e dell’industrializzazione» e tra la «pluralità di esperienze europee» che la storiografia ha recentemente messo in luce. Comunque sia, L’industrie au village – per citare qui le ultime parole della sua conclusione – ha l’incontestabile merito di aver mostrato che «molte delle campagne medievali non erano popolate solo da signori e contadini» (410).


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Note

1. «E ’l di[s]cepolo domanda il suo maestro quali sono le sette arti liberali, e le sette probilia e le sette adustre»: Disciplina Clericalis [Volgarizzamento di un frammento della], 81.

2. «E telz chevaliers qui sont hardis pour l’experience que il ont eüe, il sont paoureus quant le peril excede et seürmonte leur industrie, leur art et leur science»: Oresme, 213.

3. «Industrie, s.f. (Métaphys.) l’industrie prise dans un sens métaphysique, est, suivant M. Quesnay, qui me fournira cet article, une faculté de l’ame, dont l’objet roule sur les productions & les opérations méchaniques ; qui sont le fruit de l’invention, & non pas simplement de l’imitation, de l’adresse & de la routine, comme dans les ouvrages ordinaires des artisans. […] Industrie, (Droit polit. & Commerce.) ce mot signifie deux choses ; ou le simple travail des mains, ou les inventions de l’esprit en machines utiles, relativement aux arts & aux métiers ; l’industrie renferme tantôt l’une, tantôt l’autre de ces deux choses, & souvent les réunit toutes les deux». Salvo dove diversamente indicato, tutte le traduzioni dal francese all’italiano sono dell’autore.

4. «Da per tutto i possidenti di terre ebbero il primato su tutte le altre proprietà; ed anche su quelle che non possono esistere se non accompagnate con l’industria, l’intelligenza e la buona condotta»: Cattaneo [1836] 1860, 73.

5. «There is much more to be gained by Manufacture than Husbandry; and by Merchandise than Manufacture»: Clark 1940, 176.

6. A differenza dei termini “industria” e “artigianato”, che appartengono alla lingua corrente e del cui significato si può liberamente discutere, la parola “protoindustria” è un termine scientifico preciso, coniato ad hoc dal suo ideatore, che dunque non dovrebbe essere utilizzato senza riferimento alla sua definizione originale.

7. L’OED (Oxford English Dictionary) attribuisce un indice di frequenza a ciascun termine presente nel dizionario: con un indice di 7 su 8 la parola industry è da considerare molto frequente, cosa che non avviene per nessuno dei termini che potrebbero tradurre il concetto di artigianato: artisanate (2 su 8), artisanry, artisanship e handcraft (3 su 8), handicraft e crafting (5 su 8).

8. Prendendo in esame tre importanti libri di storia economica in lingua inglese dell’ultimo ventennio, Freedom and Growth di Stephan Epstein (2000), Institutions and the Path to the Modern Economy di Avner Greif (2006) e The Long Road to the Industrial Revolution di Jan Luiten van Zanden (2009), si può verificare che le parole artisanate, artisanry, artisanship, handcraft, handicraft e crafting sono totalmente assenti, così come artisan per i due ultimi libri e artisan sector – l’espressione invece usata da Richard Goldthwaite – per tutti e tre. In tutti e tre i libri compare la parola craft, ma unicamente nell’espressione craft guild (“corporazione”) oppure da sola ma nel senso di “artigiano, mestiere artigianale” piuttosto che di “artigianato”. Per le occorrenze della parola craft al di fuori dell’espressione craft guild: Epstein 2000, 58, 64-5, 119, 122, 124, 130, 131, 137, 146; Greif 2006, 93, 322, 439; Van Zanden 2009, 135, 228. C’è forse una sola volta in cui la parola craft potrebbe essere tradotta con “artigianato”: «The more robust industries of Pisa, Arezzo and Pistoia acted earlier and left no room for development in their contado, and even the small town of Borgo San Sepolcro which set up a new wool craft in the late fourteenth century was later careful to establish a monopoly over the surrounding district»: Epstein 2000, 134.

9. I numerosi (circa cento) registri notarili studiati da Verna le hanno consentito di identificare, per la prima metà del Quattrocento, 47 pareurs, 27 tessitori, 7 pettinatori e 4 tintori per il settore tessile, 56 fabbri, 31 calzolai e 12 falegnami. Tale censimento solleva diversi problemi: per esempio, quello dell’esattezza dei nomi professionali riportati nelle fonti notarili («noto che il nome professionale appare, in media, solo nel 24% degli atti») o quello della pluriattività, che in effetti l’autrice non ha mancato di indicare. In totale, gli spogli le hanno permesso di identificare «631 individui […] domiciliati ad Arles nella prima metà del XV secolo», di cui «427 sono identificati da una denominazione professionale» e di cui «218 lavorano nell’artigianato e nell’industria»: Verna 2017, 69-137.