Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

Sessualità e prostituzione nella cultura scientifica positivista

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Abstract

Stemming from the work by Marzio Barbagli, the present essay aims at investigating Western sexual morality focusing on the study of the history of prostitution in the Nineteen and Twentieth centuries. In this sense, it will show how positivist medical and anthropological theories, heirs of ancient sexual and gender prejudices, were able to convey the values of a sexual morality that, on the one hand, legitimated the exercise of female prostitution as a phenomenon necessary to ward man’s well-being, while on the other hand it stigmatized male prostitution, especially if homosexual, as a symbol of a lost, ideologically characterized, virility.

Andando ben al di là delle ricerche condotte da Vern L. Bullough (2015), il volume di Marzio Barbagli, Comprare piacere. Sessualità e amore venale dal Medioevo a oggi, rappresenta indubbiamente il più compiuto tentativo di restituire al lettore contemporaneo un quadro d’insieme sulle persistenze e i mutamenti che hanno segnato la storia della prostituzione e della morale sessuale nel mondo occidentale, in un intervallo temporale che, partendo dal XIII secolo, si propone di giungere ai giorni nostri.

Pubblicato in pieno clima pandemico, e dunque in un momento in cui, come l’Autore stesso dichiara, la paura del contagio ha fortemente influenzato i numeri della domanda e dell’offerta del sesso mercenario, favorendo al contempo la graduale “digitalizzazione” del sesso, il lavoro di Barbagli si colloca in un momento in cui la storiografia italiana sembra aver acutizzato il proprio interesse per la storia della sessualità e la storia della prostituzione in età contemporanea.

Se da un lato, a titolo di esempio, Laura Schettini (2019) ha trattato, con riferimento al contesto italiano, il tema della prostituzione femminile quale fenomeno di rilevanza transnazionale e, allo stesso tempo, Annalisa Cegna, Natascia Mattucci e Alessio Ponzio (2019) hanno approfondito, nel volume da loro curato, i temi della prostituzione femminile e maschile, etero e omosessuale, in una prospettiva interdisciplinare, dall’altro, Silvano Montaldo (2019) ha descritto l’eziologia dello stereotipo della “donna delinquente” che, erede del positivismo biologico di matrice lombrosiana, ha contribuito a far rilanciare, come ha suggerito Liliosa Azara (2019), nuove ipotesi di regolamentazione della prostituzione femminile. L’attenzione posta da Fiammetta Balestracci (2020) sul cambiamento dei costumi sessuali degli italiani insieme con la ricostruzione di taglio storico-sociologico condotta da Cirus Rinaldi (2020), incentrata sul fenomeno della prostituzione maschile omosessuale, consentono inoltre di valutare, sulla scorta dello studio condotto da Francesco Torchiani (2021), se e quanto sia mutato, a partire dal XIX secolo, quel corpus di valori, pregiudizi e credenze legati alla dimensione della sessualità.

La vastità della ricostruzione condotta da Barbagli intorno al fenomeno della prostituzione, per la quale l’Autore attinge a una monumentale mole di fonti archivistiche, giudiziarie, scientifiche, sociologiche e letterarie, consente al lettore di valutare l’eredità di pregiudizi sessuali e di genere che, dapprima elaborati sulla base di più o meno falsati precetti moralistici e religiosi, furono poi suffragati, a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, dal discorso scientifico di epoca positivista.

Guardando al positivismo come al momento in cui le discipline naturalistiche si apprestarono a costruire e rivendicare, ciascuna, il proprio statuto di scienza, si cercherà di valutare, in dialogo con il lavoro di Barbagli, quanto le nuove discipline scientifiche abbiano contribuito a saldare e veicolare visioni preconcette della sessualità, in passato ancorate a saperi di natura folclorica. Se è vero, infatti, che la cultura positivista riuscì realmente ad avviare un processo di specializzazione disciplinare, è altrettanto vero che la difficoltà ad abbandonare i vecchi pregiudizi legati alla sessualità e all’organizzazione del rapporto fra i sessi ha determinato l’elaborazione di teorie mediche e antropologiche che, eredi di una tradizione secolare, hanno però cominciato a godere, specie a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, di maggiore credibilità, proprio in quanto suffragate dall’affidabilità del discorso scientifico. In virtù della credibilità accordata a tali teorie, le quali avevano proposto una visione naturalizzata della sessualità, il dettato scientifico positivista è riuscito a penetrare anche nel Novecento, investendo un fenomeno di rilevanza politica, sociale e culturale oltre che prettamente sessuale: quello, cioè, della prostituzione.

A differenza di quanto hanno ben mostrato alcune fra le ricerche condotte da Lorenzo Benadusi (2005; 2012), Laura Schettini (2011), Enrico Oliari (2006), Giovanni Dall’Orto (2015) e Alessio Ponzio (2020), ciò che emerge dal lavoro di Barbagli è quanto il diffuso ricorso maschile alla prostituzione femminile (libera o regolamentata che fosse) insieme alla costruzione dello stereotipo della donna quale individuo naturalmente votato al meretricio, abbiano contribuito a fare della prostituzione, per lo meno a giudizio della maggior parte degli uomini di scienza e per una consistente fetta dell’opinione pubblica otto-novecentesche, un’attività di quasi esclusiva pertinenza femminile. Come ben illustra l’Autore, tale assunto trae le proprie origini dall’introiezione della cosiddetta doppia morale sessuale che, riconoscendo a uomini e donne un diverso valore essenziale nonché diverse prerogative sociali e culturali, ha prodotto una definizione per molti aspetti antitetica dei parametri che sono serviti a costruire la concezione di onore individuale. Dal momento che, specie a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, le scienze mediche e antropologiche, travalicando le loro precipue competenze diagnostiche, hanno desunto dalla costituzione anatomo-biologica individuale e dal rispetto delle leggi di natura i criteri a partire dai quali pronunciarsi sulla moralità e sulla legittimità del comportamento sessuale umano, non c’è da stupirsi del fatto che da una natura femminile “tutta sessualizzata” e da una natura maschile tutta forza, intelletto e potenza sessuale, derivassero due concezioni di onore profondamente diversificate. Due concezioni, queste, in grado di prescrivere, a partire dalla sola differenza sessuale, destini educativi e sociali, per uomini e donne, tra loro compensativi e incommensurabili.

Fin dalle società di Antico Regime, scrive infatti Barbagli, «l’onore della donna dipendeva dalla sua castità, quello dell’uomo dall’affidabilità della parola data. Ma l’onore di un uomo sposato derivava anche da quello della moglie e crollava se questa non gli era fedele e lui era considerato un becco cornuto» (479-80). Il diverso valore attribuito all’onore, pertanto, ha rappresentato uno dei fondamentali elementi legittimanti la compravendita delle prestazioni sessuali femminili. Mentre, infatti, alla donna era imposta la verginità fino al matrimonio quale aspetto connotante della sua moralità, all’uomo era consentito di avere quanti rapporti sessuali avesse voluto, al punto che il ricorso preconiugale alla prostituzione femminile era inteso quale “palestra” sessuale per i futuri amplessi matrimoniali (478).

Tornando alle soglie della contemporaneità, un attento osservatore quale era stato l’allora presidente delle Leghe per la moralità pubblica Rodolfo Bettazzi, vissuto fra il 1861 e il 1941, poté osservare, nel corso di una delle tante conferenze pubbliche da lui presiedute, che

per questa doppia morale l’uomo può togliersi qualunque capriccio, e chiedere, o pretendere, o comperare i favori di qualunque donna, e nessuno dovrà dir nulla, e lo si chiamerà intraprendente, galante, giovine che sente la vita: e la donna che gli fu causa di piacere, che forse sacrificò a lui gioventù ed avvenire, che certamente sacrificò il suo onore, deve essere disprezzata, tenuta in conto di un animale o poco più (Bettazzi 1914, 176).

In un magmatico côté culturale cui la scienza positivista aveva contribuito a dar forma, all’interno del quale proliferavano i discorsi intorno al piacere sessuale femminile e in cui all’idea lombrosiana della innata frigidità della donna faceva da contraltare l’idea mantegazziana della maggiore sensibilità sessuale femminile, rimaneva però indiscutibile un assunto fondamentale: le esuberanti pulsioni sessuali maschili erano incontenibili e, come tali, dovevano trovare un’adeguata valvola di sfogo. Reprimere le proprie energie sessuali avrebbe significato, per l’uomo, rinunciare alla propria natura di insaziabile e dominante predatore, con la conseguente perdita di una virilità ideologizzata e plasmata, nel corso dei secoli, dagli stessi uomini (Bellassai 2012).

La prostituta, che da venditrice di sesso privata della propria dignità esistenziale era stata trasformata, dalla scienza positivista, in oggetto di studio dell’antropologia criminale e in immutabile categoria diagnostica a partire dalla quale declinare svariate manifestazioni di comportamenti femminili contro natura, contravvenendo essa al tradizionale ruolo di madre asservita al coniuge, rispondeva, pertanto, a una suppostamente fisiologica esigenza maschile e, sebbene inscritta fra le più rappresentative icone di donna-criminale, essa si configurava quale individuo necessario al benessere dell’uomo. Dal momento che, inoltre, all’interno di una cultura dominata da valori patriarcali, l’infedeltà maschile era socialmente accettata e talvolta esaltata quale elemento connotante la potenza sessuale virile, con tutti i panegirici del Don Giovanni che ne conseguivano1, mentre l’infedeltà femminile, se scoperta, avrebbe leso l’onore maschile, gli incontri con prostitute finirono per risultare, agli occhi di gran parte dell’opinione pubblica otto-novecentesca, quali innocenti ma in qualche modo legittime concessioni femminili a un uomo-tipo naturalmente bisognoso di sesso.

Come mostra il caso italiano, ad esempio, il regime di regolamentazione del sesso mercenario, garantito dallo Stato all’interno delle case di tolleranza (dal 1861 al 1958), aveva in qualche modo contribuito a privare di colpevolezza il maschio infedele il quale, nell’acquistare i favori di una prostituta, non avrebbe tradito la propria moglie ma, quasi egli espletasse una funzione terapeutica, soddisfatto un bisogno fisiologico, con il beneplacito dello Stato. Affidati il benessere maschile e la rispettabilità della Nazione (non v’era infatti fornicazione alcuna!) a donne necessarie sebbene ricettacolo del degrado morale, la prostituta era divenuta, come riporta Barbagli attingendo alle parole dello storico irlandese William Lecky, «il guardiano più efficiente della virtù […] l’estrema sacerdotessa dell’umanità, maledetta per i peccati della gente» (389).

Se da un lato, inoltre, come anche hanno mostrato le ricerche condotte da Sandro Bellassai (2012, 49-52) e Angus McLaren (2004, 204-7), l’Autore riconduce la diffusa accettazione della prostituzione femminile, regolamentata o libera che fosse, a fattori quali i processi di industrializzazione e urbanizzazione, il declino dell’aristocrazia e l’ascesa della borghesia2, l’introduzione della coscrizione obbligatoria e l’istituzione di nuove facoltà universitarie, nelle quali l’accesso alle donne era il più delle volte precluso (331-46), dall’altro, come osserva Barbagli, la tutela degli impellenti bisogni maschili risultava un vero e proprio elemento connotante la legittimazione del ricorso maschile alla prostituzione femminile.

Constatato come «nel corso dell’Ottocento e all’inizio del Novecento […] il mercato del sesso mercenario avesse raggiunto dimensioni fino ad allora sconosciute» (335), e prendendo le mosse dalla Francia quale Paese pioniere del regolamentarismo europeo, Barbagli enuclea, all’interno della sua vasta ricerca, i pilastri fondamentali su cui era stata edificata, in Europa, la cosiddetta “prostituzione di Stato”. Anzitutto, al fine di limitare il contagio di malattie sessualmente trasmissibili quali la sifilide, la Francia, seguita dal Belgio prima e dall’Italia dopo, aveva fondato il regime di regolamentazione della prostituzione femminile su un assunto portante: l’edificazione di case pubbliche destinate al mercimonio del corpo. Una volta identificate le “donne di piacere” – per citare il titolo del lavoro di Alain Corbin (1985) – quali unici veicoli di contagio venereo, all’interno dei bordelli le autorità procedevano, con cadenza differente a seconda della sede in cui la casa di tolleranza era stata edificata (404), a sottoporre le donne ospiti a degradanti visite ginecologiche al fine di stabilirne l’eventuale contagiosità, così da tutelare, con il supporto dello Stato e della polizia, la salute di tutti i potenziali clienti.

Ma la concentrazione del sesso mercenario in case pubbliche appositamente edificate e la contestuale identificazione di una categoria di donne destinata all’oblio e alla stigmatizzazione sociale, risultavano allo stesso tempo misure necessarie alla salvaguardia dell’onore e della presunta moralità della nazione. La comunità scientifica, infatti, ossessionata com’era dallo spettro delle pratiche sessuali non procreative, aveva individuato nelle prostitute una sorta di “surrogato”3 necessario della masturbazione, il ricorso ossessivo alla quale avrebbe minato la potenza sessuale degli uomini. Tuttavia, come bene osserva Barbagli, l’esistenza delle prostitute, e specie di quelle regolamentate, aveva finito col risultare anche un’esigenza indispensabile per «proteggere le donne per bene, incanalando nei postriboli pubblici la libidine degli uomini» (391). E così, come spiega l’Autore in riferimento alla realtà francese, fu proprio la casa di tolleranza a costituire la chiave di volta del regolamentarismo. La “casa”, infatti, dalla quale venivano scartate come merce avariata tutte quelle donne che fossero state ritenute non più idonee a soddisfare le esigenze maschili, garantiva il mantenimento della tranquillità delle strade e «assicurava la decenza esterna isolando» le prostitute (398). Come quando, in Italia, in risposta alla proposta crispina di sostituire i sifilicomi (altrimenti noti come “ospedali per prostitute”) con sezioni dermosifilopatiche all’interno degli ospedali civili4, un uomo di scienza come Giuseppe Sormani, professore di igiene presso l’Ateneo pavese, persuaso che la principale causa di diffusione della sifilide fosse rappresentata dalle prostitute non regolamentate (Sormani 1888, 814), sostenne che, incontrandosi nei medesimi luoghi di cura le donne “per male” con le donne “per bene”, queste ultime avrebbero corso il rischio di esserne moralmente contagiate (ibid. 821-2).

Salvate, quindi, le donne della buona società, confinate quelle “sacerdotesse dell’umanità” che erano le prostitute (389), e garantito il soddisfacimento di un uomo ritenuto incapace di dominare esuberanti pulsioni sessuali, non restava da salvare altro che l’immagine che la nazione avrebbe dovuto dare di sé. E a tale scopo, osserva l’Autore, era necessario che le case di tolleranza, centri chiusi del vizio, fossero collocate in luoghi separati dalla città, lontane dalle chiese, dalle scuole e da tutti quegli spazi adibiti ad accogliere i cosiddetti rappresentanti della società bene. Sede di umiliazione e violenza, le case erano anche luoghi in cui «sottoporre continuamente queste donne al controllo sanitario» (390). Un controllo durante il quale, racconta drammaticamente Barbagli, il medico esaminava tutti gli orifizi del corpo femminile al fine di valutare, insieme con la tecnica diagnostica della palpazione, la salubrità della donna che, se giudicata sana e dunque idonea a vendersi, avrebbe potuto appagare i desideri di qualsiasi cliente (404-5).

Descritto fin nei più minuti dettagli il sistema di regolamentazione della prostituzione femminile, l’Autore sceglie di concentrare la sua attenzione anche su quel fenomeno che ha segnato il passaggio dalla sorveglianza alla “liberazione” delle prostitute: l’abolizionismo. Privilegiando, forse anche a causa della più esigua quantità di fonti a disposizione, gli aspetti che soggiacciono all’edificazione del regime regolamentarista piuttosto che le cause storico-sociali dell’abolizionismo, Barbagli presta attenzione alle vicende dell’Inghilterra, primo Paese europeo ad abolire la prostituzione di Stato (1886), senza approfondire altri casi di studio come quello italiano (non v’è che un cenno, infatti, alla legge che, nel 1958 – la cosiddetta legge Merlin – aveva sancito l’abolizione della regolamentazione della prostituzione e la lotta contro lo sfruttamento della prostituzione altrui)5.

Il caso dell’Inghilterra, in cui era stato determinante l’attivismo della militante Josephine Butler, dimostrerebbe una fra le tesi sostenute dall’Autore, secondo il quale «l’abolizionismo si affermò prima dove il movimento femminista era più forte e consapevole» (427). Inoltre, nella convinzione che i tempi del successo della causa abolizionista risiedessero anche e soprattutto nei valori, nelle credenze e nei pregiudizi sessuali differentemente sedimentati nelle molteplici realtà occidentali, Barbagli rileva l’incapacità degli italiani di abbandonare i principi di una morale sessuale segnatamente patriarcale e ipocrita. Non solo, infatti, i risultati di un’inchiesta Doxa lanciata nel 1949 avevano fatto luce su un campione di uomini ancora convinti che il ricorso alla prostituzione femminile rappresentasse un male necessario al benessere maschile ma, come sarebbe emerso nel corso del decennale dibattito intorno alla proposta di legge Merlin, uomini politici come il senatore socialdemocratico Gaetano Pieraccini sostenevano ancora, dal Parlamento, la causa regolamentarista, ritenendo che l’abolizione dei bordelli avrebbe causato disastrose conseguenze per la sanità e la moralità pubbliche (428)6.

Invitando a un approccio storiografico nel quale accanto alla venditrice del sesso mercenario venga posto sotto osservazione il cliente quale acquirente (469-71), Barbagli si interroga anche sul fenomeno prostituzionale declinato al maschile, nonché sullo statuto degli uomini che esercitano la vendita di prestazioni sessuali. Riscontrando una vera e propria difficoltà semantica nella definizione e identificazione della figura del “prostituto”, l’Autore inserisce la questione della prostituzione maschile all’interno del dibattito che, a partire dalla fine del Settecento e in particolare nella seconda metà dell’Ottocento, condusse alla criminalizzazione dell’omosessualità. Decriminalizzata nei paesi eredi del Codice Civile napoleonico, che aveva abrogato il reato di sodomia, ma sempre e comunque ragione di stigmatizzazione in quei paesi come l’Italia, in cui le scienze positiviste avevano fomentato la paura sociale nei confronti dell’inversione sessuale e delle pratiche di travestitismo di genere (Schettini 2011), la macrocategoria dell’omosessualità (ante litteram) era diventata la stessa sotto cui sussumere il fenomeno della prostituzione maschile.

E in effetti, sebbene Barbagli riconduca lo scarso numero di donne acquirenti prestazioni sessuali maschili a una cultura patriarcale che ha concesso loro poco spazio di autonomia (481), sembra che proprio la documentazione presentata nel volume voglia confermare il fatto che a essere clienti dei prostituti furono prevalentemente uomini alla ricerca della soddisfazione di pulsioni omoerotiche, non altrimenti appagabili. In questo senso, «la polizia ha a lungo chiamato “prostitute” o “donne pubbliche” quelle che vendono le prestazioni sessuali, ma “sodomiti”, “antifisici”, “infami”, “pederasti”, “finocchi”, “omosessuali” o “gay” gli uomini che si offrono nel mercato del sesso» (360). Così, mentre la prostituzione femminile è stata oggetto di un processo di naturalizzazione tale da renderla assimilabile a una professione, indispensabile al benessere dell’uomo e dello Stato, la prostituzione maschile, ricondotta a un “regime di omosessualità” all’interno di un contesto segnatamente etero-normativo, non avrebbe fatto altro che minare la rispettabilità e la moralità nazionali (Loconsole 2022).

Ed è particolarmente acuta, a questo riguardo, l’osservazione che Barbagli compie nelle pagine conclusive del volume. Sembra, infatti, che anche le autorità religiose, oltre a quelle civili, impegnate com’erano a combattere contro il “flagello” dell’omosessualità, avessero scelto di tacere sul mercato delle prestazioni sessuali maschili. Sempre perseguendo la propria crociata contro pederasti e sodomiti, indipendentemente dal fatto che essi vendessero le loro prestazioni erotiche, la Chiesa cattolica, nel caso particolare, non ha potuto fare altro che occuparsi dell’altro mercato, quello declinato al femminile. Facendosi interprete di una moralità ambigua, la Chiesa, che aveva da sempre condannato come peccaminosa la fornicazione, aveva però provveduto a elaborare, già a partire dal IV secolo e sulla scorta degli insegnamenti dei padri del Cristianesimo, la teoria del male minore, «sostenendo che la prostituzione era necessaria per il buon funzionamento della società» (476). Un teoria che, come è noto, ha continuato a essere rilanciata anche nel corso del XIX e del XX secolo.

D’altro canto, parlare di prostituzione maschile, specie nella sua declinazione omosessuale, avrebbe significato, sia per le autorità civili che per quelle religiose, riconoscere l’esistenza di uno specifico tipo di uomo, il prostituto appunto, il quale non solo non sarebbe servito a garantire il buon funzionamento della società ma, quale testimone della diffusione del cosiddetto “nefando vizio” omosessuale, avrebbe leso, oltre al pubblico pudore, la stessa moralità cattolica.

Ed è un aspetto, questo, estremamente interessante se si pensa che, come emerge dal drammatico quadro descritto da Francesco Benigno e Vincenzo Lavenia, la pratica del cosiddetto “vizio nefando” ha potuto godere (e gode tuttora) di uno statuto di impunità proprio all’interno degli ambienti ecclesiastici, laddove alcuni membri del clero hanno abusato di un impressionante numero di minori. Ma, cosa ancora più paradossale, tutto questo è continuato ad avvenire, prendendo in esame il solo caso italiano, anche quando, dapprima con il Concordato fra Stato e Chiesa (1929) e successivamente con l’emanazione dell’enciclica Casti Connubii (1930), la Chiesa cattolica ha rilanciato il prototipo della famiglia nucleare cristiana quale vessillo di moralità. Una famiglia, però, all’interno della quale restava, come costante, un assunto apparentemente inalienabile: quello della subordinazione della moglie al marito (Benigno e Lavenia 2021, 214-9).

Insomma, facendo luce su alcuni dei principi che hanno dominato e a lungo regolato le dinamiche del rapporto fra i sessi, il volume di Barbagli, collocato all’interno di un più ampio contesto storico e storiografico, pur non approfondendo talvolta, forse a causa della vastità dei temi trattati, aspetti che avrebbero meritato maggiore attenzione, offre al lettore un vero e proprio affresco, geograficamente e cronologicamente esteso, dei mutamenti, ma più spesso delle persistenze, che hanno connotato la storia della morale sessuale e della prostituzione maschile e femminile nel mondo occidentale. E sebbene l’Autore abbia privilegiato la minuta narrazione dei fatti alla valorizzazione degli aspetti più strettamente legati ai temi della sofferenza di coloro che vendevano prestazioni sessuali e dello sfruttamento della prostituzione, temi questi che risultano talvolta sottostimati se non lasciati ai margini della narrazione, dal lavoro di Barbagli emerge con nitidezza come molti dei pregiudizi legati alla sessualità, già consolidatisi tra Medioevo ed Età moderna, abbiano acquisito, con il suffragio del discorso scientifico di epoca positivista, sempre maggiore credibilità fino a penetrare, seppure in modi, tempi e modalità differenti, all’interno della cultura occidentale del XX ma anche del XXI secolo.


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