Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Sacrificio: questioni, interpretazioni, comparazioni. Una introduzione

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Abstract

This introduction aims to explain the lines of research of a group of scholars, brought together in a joint project on the history of sacrifice from the late Middle Ages to the modern world. Taking into account the theoretical framework formulated by a long tradition of studies on sacrifice, the group compared different historical contexts, focusing on the emergence of religious sciences, biblical commentaries, self-sacrifice and the idea of martyrdom, sanctity, the global missionary context, European approaches to sacrificial rites in Asia, and the relationship between the idea of crusade and the doctrine of sacrifice.

Questo dossier nasce da una serie di incontri seminariali tenutisi tra il 2020 e il 2022 – purtroppo non in presenza, ma attraverso piattaforme web, causa pandemia – nell’ambito di un progetto di ricerca nazionale dedicato alla storia del sacrificio che mette insieme quattro unità di studio delle Università di Bologna (sede principale), Firenze, Macerata e Napoli-L’Orientale (Prin 2017: “Sacrifice in the Europe of the religious conflicts and in the early modern world: comparisons, interpretations, legitimations”). Giovandosi della collaborazione tra storici dell’ebraismo e del cristianesimo, storici delle culture orientali, storici del medioevo, storici dell’età moderna e storici dell’età contemporanea, il progetto si è proposto di studiare alcuni aspetti del sacrificio comparando diverse confessioni dell’Europa occidentale dopo la Riforma protestante e cercando di allargare lo sguardo ad altri contesti religiosi (l’islam, l’induismo, ma non solo) e alle aree toccate dal colonialismo cristiano dopo il XV secolo, in particolare in Asia e in America. Scandagliando un ampio spettro di fonti (commenti biblici e pagine di teologia; testi normativi, agiografici e rituali; immagini e oggetti; riflessioni politico-filosofiche, storico-antiquarie e antropologiche; odeporica e resoconti di missionari), il gruppo ha cercato di mettere a fuoco la grammatica della violenza e del sacrificio (presenza di un capro espiatorio; ruolo rituale del sangue; linguaggi della santità e dell’auto-immolazione), privilegiando l’età moderna e alcune questioni in particolare: le figure bibliche (Isacco, Noè, Sansone…) come modelli interpretativi ed esempi di sacrificio nell’epoca dei conflitti religiosi del Vecchio Continente (XVI-XVII secolo); gli esordi e la sopravvivenza dell’idea di crociata e di guerra santa, con la successiva esaltazione del “morire per la patria” dalla Rivoluzione francese a oggi; la santità cattolica e la riscrittura del sacrificio corporale nel cattolicesimo globalizzato post-tridentino; la martirologia protestante e il riuso dell’idea di sacrificio nella Riforma radicale; i primi esempi di comparazione storico-religiosa e antropologica, con la loro attenzione al sacrificio non cristiano (tradizioni islamiche, ritualità vediche, culture sino-giapponesi, cerimonie mesoamericane).

Sappiamo che sin dalle opere di Émile Durkheim e Marcel Mauss il tema del sacrificio è stato centrale in tutte le moderne interpretazioni storico-religiose; e che negli ultimi cinquant’anni la riflessione sul ruolo e i significati del sacrificio si è notevolmente arricchita grazie alle letture di René Girard, Walter Burkert, Jonathan Z. Smith, Guy Stroumsa e altri autorevoli interpreti non solo del fatto religioso, ma delle dinamiche stesse della violenza, del vincolo politico e della militanza ideologica (si pensi da ultimo a Terry Eagleton). Sin dal momento in cui lo studio delle religioni si è istituzionalizzato, nel XIX secolo, il sacrificio è stato uno dei principali soggetti di studio, data la sua rilevanza e la consapevolezza che pratiche di immolazione sono diffuse in quasi tutte le culture. Quanto al rapporto fra la tradizione biblica (si pensi alla “legatura di Isacco”, reinterpretata come “sacrificio di Isacco”) e la tradizione cristiana, le ricerche non hanno cessato di mettere a fuoco le controversie sul sacrificio. Al centro dell’ambivalenza emotiva che attraversa i cristiani (basata sulla convinzione di avere superato le culture sacrificali, riformulandone dei temi in modo innovativo, primo fra tutti il martirio) si pose subito la figura di Gesù, la cui morte fu interpretata come un finale “sacrificio espiatorio” atto a redimere i peccati dell’uomo e riproposto nei riti eucaristici poi contestati dalle comunità che aderirono alla Riforma. Come cambiò dunque la lettura del sacrificio dopo il Cinquecento? Questa una delle domande che ci ha guidato, sapendo che le definizioni del sacrificio non nascono certo nel XVI secolo. Basti guardare a Etymologiae, VI,19, dove già Isidoro di Siviglia aveva distinto sacrificio e dono e rimarcato l’importanza dei riti di immolazione:

Duo sunt autem quae offeruntur: donum et sacrificium. Donum dicitur quidquid auro argentoque aut qualibet alia specie efficitur. Sacrificium autem est victima et quaecumque in ara cremantur seu ponuntur. Omne autem quod Deo datur, aut dedicatur aut consecratur. Quod dedicatur, dicendo datur unde et appellatur. Vnde errant qui consecrationem dedicationem putant significari. Immolatio ab antiquis dicta eo quod in mole altaris posita victima caederetur. Hostiae apud veteres dicebantur sacrificia quae fiebant antequam ad hostem pergerent. Victimae vero sacrificia quae post victoriam, devictis hostibus, immolabant. Et erant victimae maiora sacrificia quam hostiae. Alii victimam dictam putaverunt, quia ictu percussa cadebat, vel quia vincta ad aras ducebatur. Holocaustum illud est ubi totum igne consumitur quod offertur. Antiqui enim cum maxima sacrificia administrarent, solebant totas hostias in sacrorum consumere flamma, et ipsa erant holocaustomata. Caerimoniae apud Latinos dicuntur sacra omnia quae apud Graecos orgia vocantur. Alii caerimonias proprie in observationibus Iudaeorum credunt. Sacrificium dictum quasi sacrum factum, quia prece mystica consecratur in memoriam pro nobis Dominicae passionis; unde hoc eo iubente corpus Christi et sanguinem dicimus.

L’antiquaria, in età moderna, avrebbe arricchito non solo la riflessione sulle cerimonie ebraiche, ma anche quella sul sacrificio nel mondo antico, mentre le prime opere di comparazione ispirate dall’incontro tutt’altro che pacifico con le culture religiose extra-europee avrebbero raffinato le analisi sui sacrifici e la loro sempre più massiccia rappresentazione iconografica, dai primi resoconti sui popoli indigeni mesoamericani fino all’opera settecentesca di Bernard Picart, passando per le letture missionarie (cattoliche e protestanti) e iconografiche (John Zoffany) del satī in India e dei culti dell’Impero cinese.

Per comprendere le letture del sacrificio in epoca moderna, e per il lavoro del gruppo, sono stati di grande utilità gli studi di Jonathan Sheehan, che individua nel Seicento un punto di svolta e pone l’accento sulle controversie tra le diverse confessioni cristiane circa il “vero sacrificio” (opposto all’idolatria) e sul modo in cui furono messe a fuoco le funzioni politiche delle cerimonie di immolazione nell’età dei conflitti di religione e della nascita dei lessici moderni della sovranità (importante, in questo senso, è anche quanto ha scritto Gilberto Sacerdoti). Come hanno sottolineato le ricerche di Girolamo Imbruglia, se Fausto Sozzini (1594) sostenne che il culto cristiano era quella vero perché aveva escluso il sacrificio, a partire da Hugo Grotius (1617) si affermò una tesi che rimarcava da un lato il fondamento razionale del cristianesimo e dall’altro il fatto che ogni religione avesse bisogno di sacrifici espiatori consumati con il sangue di una vittima. Il cristianesimo era una religione vera perché, come le altre, faceva ricorso ai sacrifici. Solo più tardi si sarebbe diffusa la concezione deista, alimentata dalla ricerca antiquaria, per la quale tutte le religioni rivelate erano al fondo delle “superstizioni”, le cui fondamenta poggiavano sul terrore e sull’ignoranza, placati dal culto. In buona sostanza, alla fine di un percorso iniziato con Hobbes e con Spinoza, la paura avrebbe finito per sostituire la rivelazione. Del resto, era stato lo stesso Machiavelli a suggerire il legame tra riti, norma giuridica, timore e vincoli di obbedienza civile (Discorsi I,12): «La vita della religione Gentile era fondata sopra i responsi degli oracoli […]. Di qui nascevano i templi, di qui i sacrifici, di qui le supplicazioni, ed ogni altra cerimonia in venerarli». A ciò si aggiunse la fortuna dell’immagine dello Stato come un corpo vivente, dai testi umanistici fino ai Lumi (Briguglia): un’immagine che avrebbe innervato i lessici della ribellione e, sul versante opposto, la netta convinzione che immolare una parte, o sacrificare molte sue membra, potesse servire alla salvezza dell’intero organismo politico. Sono noti i risvolti teologici di questa riflessione, sia in campo riformato (Knox, Buchanan, Bèze) sia cattolico (Soto, Mariana). Ma il nostro gruppo ha inteso approfondire tale aspetto analizzando la letteratura giuridico-politica della tarda epoca moderna da una prospettiva attenta alla religione. Rousseau, per esempio, fu accusato da Edward Gibbon di proporre un modello politico “islamico” perché aveva sviluppato una nozione della sovranità repubblicana contestando l’idea razionale della legge con l’immagine del corpo vivente. Il potere, in sostanza, poteva richiedere il sacrificio dei sudditi sfruttando il loro bisogno di protezione con un’impostura: la religione civile, unitaria e libera da ogni aspetto cerimoniale.

Fu in parte anche su questa scia che nel corso dell’età moderna, e soprattutto dei secoli XIX e XX, poté riattivarsi una concezione secolarizzata del sacrificio come quella che ha esaltato il “morire per la patria”: un tema su cui ha riflettuto, tra i primi, Ernst Kantorowicz dopo il suo passaggio negli Usa. Ernest Renan, l’autore di Qu’est-ce qu’une Nation (1882), non è stato certo il solo a ritenere che una nazione è una comunità di scopo (un plebiscito quotidiano) che deve trarre linfa dal sentimento dei sacrifici fatti nel passato e di quelli che attendono il corpo politico nel futuro. Quando, in risposta a un quesito posto da un’accademia di Châlons-sur-Marne, era apparso un Discours sur le patriotisme (1788), il lettore si era trovato davanti a un testo eloquente che interpretava il sentimento di patria come la disposizione a sacrificare ogni passione individuale, e la stessa propria vita, per felicità della comunità politica di appartenenza. Senza eccedere in letture troppo continuiste, il nostro gruppo di ricerca ha cercato perciò di guardare anche a questa nozione (mondana?) di sacrificio, ovvero al nesso tra sacrificio e morte in guerra, risalendo fino all’idea medievale di crociata per poi insistere sugli esiti di tale paradigma interpretativo della moralità della violenza bellica nei secoli seguenti (come ha fatto Daniele Menozzi in un bel libro che riporta un’ampia bibliografia). Quanto all’età moderna, senza contare lo scontro ideologico con gli ottomani, il Dio degli eserciti fu invocato dalle armate cattoliche e da quelle protestanti, in conflitto tra loro, almeno sino alla Guerra dei trent’anni, con l’impiego della catechesi militare e il ricorso a elaborate cerimonie sui campi di battaglia. Importante in tal senso è la riflessione sulle figure veterotestamentarie esaltate per giustificare il sacrificio bellico e lo sterminio dei nemici di fede: si pensi solo ai Maccabei o a Sansone, il guerriero consacrato che, invocando Dio, si fa olocausto e si sopprime pur di annientare l’altare e le vite degli idolatri filistei.

Una figura come quella di Sansone, variamente interpretata in epoca moderna, mette in evidenza il confine sottile che, almeno nella tradizione giudaico-cristiana, passa tra sacrificio e sacrificio di sé. Pertanto, il nostro gruppo di ricerca ha cercato di guardare anche alle retoriche del sacrificio corporale e dell’autoimmolazione, analizzando il modo in cui fu ripreso il tema del martirio nell’epoca dei conflitti religiosi e dell’espansione missionaria cattolica, tanto più che, dopo il concilio di Trento, la Chiesa di Roma fece della santità un potente volano della militanza e della devozione dei fedeli, modificando le regole stabilite per la canonizzazione.

Come è noto, sin dalle origini il martirio come sacrificio di sé ha innervato la santità cristiana sul piano dei simboli, del linguaggio agiografico e delle pratiche sociali e rituali. Tuttavia, in età moderna la santità ha rappresentato in una misura sempre maggiore uno dei grandi vettori della fede cattolica. Con le sue risorse (il miracolo, la profezia, la taumaturgia), la Chiesa romana ha cercato di rimodellare i credenti, rinsaldando il proprio ruolo di mediatrice. La santità moderna, inoltre, ha posto al centro donne e uomini riconoscibili nella loro identità, che “parlavano” con i loro corpi rispondendo ai bisogni dei fedeli. Già i profeti e le “sante vive” del Quattro e Cinquecento, guardati talvolta con sospetto dalla Chiesa, avevano catalizzato la devozione anzitutto attraverso un sacrificio fisico autoinflitto, fatto di digiuni, penitenze e dominio delle passioni. Ma più tardi, in epoca moderna, fu la volta della Chiesa militante: la lotta contro l’eresia (e poi contro il materialismo) avrebbe trovato nuovi martiri in nome di un progetto zelante che si riallacciava al modello apostolico delle origini. La Chiesa romana si fece così garante e beneficiaria di una nuova epoca del sacrificio: i martiri delle guerre di religione in Francia, nei Paesi Bassi, in Germania e in Europa orientale; quelli uccisi dagli eserciti rivoluzionari, dai socialisti e dagli atei, divennero un pilastro del discorso propagandistico e furono celebrati quali simboli di una Chiesa che individuava nel martirio il sigillo della propria aspirazione egemonica.

Per questo il nostro gruppo di ricerca, dentro la lunga storia della santità moderna, ha cercato di individuare i modelli di narrazione e le pratiche del sacrificio, tenendo conto del vaglio operato dagli organi deputati al controllo della santità, in primo luogo la Congregazione dei Riti. Le fonti non mancano: i processi di beatificazione e di canonizzazione, le agiografie, la letteratura devozionale, l’iconografia, anche quella dedicata alla croce e al sacrificio eucaristico. Tuttavia, una particolare attenzione è stata rivolta alle distinte strategie messe in campo dagli ordini religiosi della Controriforma per proporre ai fedeli specifici modelli di sacrificio e santità e, soprattutto, al mondo delle missioni fino alla metà del XIX secolo, dove furono testate conflittuali strategie di conversione rivolte alle comunità indigene nonché agli imperi asiatici. In Cina, ad esempio, i domenicani interpretarono la mancanza di martiri gesuiti tra la prima generazione di missionari come un evidente segnale dell’errata strategia di evangelizzazione proposta dalla Compagnia (Michela Catto). Inoltre, sulla scia della lettera apostolica Maiorem hac dilectionem (2017) di papa Francesco, che ha proposto una quarta via di offerta della vita propter caritatem distinta dal martirio, sempre nell’ambito degli studi gesuitici si è introdotta una nuova categoria, il “martirio per peste” che emerge con forza dalle lettere dei missionari (Colombo, Isidori). Negli ultimi anni sono state molte le ricerche sui temi apologetici del martirio missionario; ma molto resta da fare attraverso lo studio della corrispondenza dei gesuiti e di altri ordini religiosi, che tentarono di equiparare retoricamente la moderna esperienza del martirio “globale” a quella della Chiesa delle origini (senza contare le fonti della Congregazione di Propaganda Fide). In sostanza, come si costruì, fuori dall’Europa, una “emotional community” (Ines Županov) fondata sul martirio, capace di attivare strategie efficaci di conversione? E come incise la vocazione al martirio nel reclutamento stesso dei missionari?

Ma il tema del sacrificio come autoimmolazione, ovviamente, non fu solo un affare della Chiesa cattolica, e rientra anzi tra le questioni cruciali della storia della Riforma. Zwingli, per esempio, considerò la morte in armi come un dovere per la difesa della Repubblica sul piano civile e religioso, che ai suoi occhi finivano per coincidere. Per Calvino il martirio assunse un significato forte come espressione della vocazione individuale (Beruf): la rinunzia a praticarlo (per ragioni dottrinali o di opportunità) manifestava ipso facto la predestinazione a essere dannati. Inoltre, come si è detto sopra, il martirio come testimonianza di fede svolse un ruolo fondamentale nei conflitti di religione, quando i riformati si investirono del ruolo di “guerrieri di Dio” per la costruzione di una nuova Gerusalemme sulla terra. Il sacrificio fu essenziale anche per la costruzione dell’identità protestante attraverso la scrittura storiografica, che fece dei martiri gli eroi storici delle nuove Chiese, sostituendoli ai santi del calendario romano. Quanto alla Riforma radicale, per molti gruppi, dagli anabattisti agli apologeti della tolleranza, il martirio rappresentò un cardine della concezione della Chiesa perseguitata come vera Ecclesia Dei. La sopportazione della persecuzione fu la misura dell’appartenenza all’autentica Chiesa e una fonte di legittimità per le comunità non conformiste, che teorizzarono la libertà e la tolleranza ribaltando l’immagine dell’eretico in vero interprete delle fede, e dei chierici in persecutori. Esistono diverse indagini sui temi che qui si evocano (Lestringant, Gregory); ma molto resta da studiare, in particolare nel campo delle Chiese “radicali”, distinte da quelle “magisteriali”, senza contare che – lo si è accennato anche prima – l’immaginario sacrificale del martirio per lungo tempo si è intrecciato con la riflessione sul diritto di ribellarsi. Tra le comunità cristiane che meritano un ulteriore approfondimento vi sono poi quelle presenti in area balcanica come i pauliciani, i cui riti sacrificali funerari (i cosidetti kurbani) sono al centro della negoziazione con le autorità romane per tutto il corso della prima età moderna (Notarfonso).

Il gruppo di ricerca ha provato anche a scandagliare la nozione del sacrificio al di fuori della tradizione giudaica e di quella cristiana, guardando per esempio all’ambito giapponese e a quello musulmano; un termine di paragone, il secondo, che in epoca medievale e moderna spinse i controversisti cristiani a evidenziare similitudini o, al contrario, presunte distanze fondate sul carattere razionale dell’islam, sul suo legalismo, sulla non centralità del sacrificio nel Corano. Ma che funzione ha svolto realmente il sacrificio, oltre all’autoimmolazione, nelle diverse tradizioni islamiche? E come è stata interpretata la discendenza di Abramo, dopo la rinuncia al sacrificio del figlio, nelle scuole teologiche e giuridiche dell’islam? Cosa fu noto del sacrificio islamico agli interpreti cristiani occidentali, a partire dalla prima traduzione latina del Corano, nel XII secolo? La letteratura missionaria e coloniale moderna, inoltre, mise l’Europa davanti al problema di come decrittare altre tradizioni quali il sacrificio rituale delle vedove indiane (satī). Nello sforzo di adattamento messo in campo, soprattutto dai gesuiti, per favorire la conversione delle comunità locali in quell’area del mondo toccata dopo il 1498, i riti della tradizione vedica apparvero ora giustificabili, ora ingiustificabili. I missionari cattolici furono sempre critici circa il satī, ma cosa pensarono davvero di quel rito? Come si distinse la loro analisi da quella dei protestanti (nel 1829 le autorità britanniche avrebbe condannato la cerimonia)? Se la storiografia anglofona ha pubblicato ottime ricerche, il tema, legato peraltro alla condanna cristiana del suicidio, non è stato quasi affrontato dalla storiografia italiana, nonostante la connected history abbia posto l’accento sui missionari come agenti degli scambi transculturali. Le fonti gesuitiche permettono tuttavia di analizzare la questione da un punto di vista che non trascuri le donne, protagoniste del rito. I missionari, inoltre, individuarono nella conversione l’alternativa all’immolazione, sostituendo la santificazione della confessione a quella della cremazione sacrificale, nonostante fossero attratti dalla volontarietà del gesto in virtù dell’ideale del martirio vivo nella Compagnia. Ma non vi erano solo i gesuiti: l’archivio di Propaganda Fide permette di studiare l’atteggiamento dei carmelitani scalzi e di altri ordini religiosi. Infine, nell’Ottocento sarebbero nate congregazioni indigene, una delle quali destinata alle vedove per contrastarne il sacrificio rituale: una strategia che nel Madurai vide protagonista il padre gesuita Joseph Bertrand.

I saggi qui pubblicati – e la breve bibliografia che segue a questa introduzione – non pretendono né di rendere la ricchezza della storiografia sul sacrificio, né di dare conto di tutte le pubblicazioni e di tutti i seminari organizzati dal gruppo di ricerca nazionale. Abbiamo solo scelto alcuni contributi prodotti dai suoi membri o da altri studiosi invitati a confrontarsi con noi sulle questioni che qui sono state velocemente evocate: la nascita della moderna categoria di religione e i primi studi storico-antropologici sul sacrificio; il ruolo giocato dal corpo e dal sacrificio di sé nella tradizione cristiana; la dimensione del martirio e della santità, missionaria e non; il tema della violenza sacra; dalla nascita dell’idea cristiana di crociata fino alle guerre moderne e contemporanee; i risvolti politici della nozione di sacrificio; i contesti non cristiani che possono tornare utili alla comparazione.

La ricchezza del lavoro del gruppo si può misurare anche dal sito di ricerca che sta allestendo, sacrifiles.unibo.it, che rubrica fonti a stampa, immagini e letteratura secondaria sul sacrificio in alcune sezioni tematiche, secondo i percorsi indicati.

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