Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

Tavolate e territorio. Feste, cibo e comunità in Italia dal secondo dopoguerra a oggi

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Abstract

Traditional feasts (the Palio in Siena), celebrations of the local patron saint (Festa del Redentore); events organized by long-standing charitable organizations (the Purgatory lunch in Gradoli), festivals staged by political groups (the First of May, Festa de L’Unità, or the Lega festivals), or even the replica of a 19th Century political banquet staged for the 150th jubilee of the Italian Unification provide important occasions for communities. Diverse as they are, they are all characterized by commensality and sharing of local food.

Tavolate italiane

Nel 2010 l’Unesco ha attribuito la qualifica di bene culturale immateriale al pranzo gastronomico dei francesi. Non sono state elencate precise vivande e ricette, e l’attenzione si è concentrata esclusivamente sulla tipologia e l’ordine delle portate, dall’aperitivo al dessert. La definizione è rimasta volutamente vaga, perché più che i piatti doveva essere messo in luce il modo in cui i francesi stanno insieme a tavola: una felice convivialità fatta di buona cucina e di buoni vini, il tutto preferibilmente di provenienza locale.

E in Italia? Anche per gli italiani stare insieme attorno a una tavola imbandita con prodotti e piatti del territorio è sicuramente un segno distintivo di come ci vediamo e di come gli altri ci vedono, dell’immagine che costruiamo di noi stessi e che gli altri ci attribuiscono. Le grandi tavolate dove si consumano prodotti tipici del territorio fanno parte integrante dell’immagine del noi. Non penso tanto ai grandi pranzi in famiglia, un tempo non rari la domenica e oggi forse più circoscritti a eventi importanti e riti di passaggio, ma mi concentro sul piacere di condividere la mensa con una comunità più ampia di quella familiare.

Queste tavolate rendono visibili due aspetti che i sociologi hanno messo in evidenza per il nostro paese: da un lato l’importanza del cibo e del gusto del mangiar bene, e dall’altro la sociabilità, spesso collegata all’associazionismo. Qualche anno fa a un affollato evento culturale – la lettura del Mulino nell’aula magna dell’Università di Bologna – il sociologo Edward C. Banfield chiese quanti dei presenti facessero parte di un’associazione. Le mani alzate furono fitte. Contrassegnavano l’appartenenza a un partito o a un gruppo, o più semplicemente a un’associazione, quale che fosse. Oltre a partiti e ad associazioni nazionali pensiamo dunque per un momento al reticolo fitto delle associazioni di volontariato o addirittura alle società calcistiche e sportive, tutte caratterizzate da pranzi o cene in comune. Ma soprattutto pensiamo alle – spesso antiche – società legate a confraternite, ai rituali della chiesa cattolica e alle società di mutuo soccorso soprattutto di ascendenza ottocentesca (laiche o più spesso religiose) nei quartieri delle città, nei paesi e nelle campagne. Queste associazioni organizzano eventi periodici in giorni dell’anno significativi in rapporto alle stagioni (l’equinozio di primavera) e al calendario liturgico, o comunque pranzi che consentono la raccolta di fondi a favore dei più bisognosi. Molto spesso, al centro di questi eventi sta la condivisione, reale e simbolica, del cibo. In molti casi esiste – lo vedremo subito – una continuità documentata e segnata da una forte ritualità.

Gli anni Settanta hanno segnato la ripresa di usanze talvolta interrotte o affievolitesi con gli esiti del miracolo economico, con la modernizzazione e con lo spopolamento di aree rurali e centri minori. Sempre più di frequente, a partire dallo spartiacque di quegli anni, queste feste a predominante vocazione gastronomica in cui lo spazio della piazza o della strada principale si riempie di tavole imbandite sono il prodotto della consapevole costruzione di momenti di coesione della comunità attraverso eventi rivolti agli abitanti, così come a coloro che non vivono più in paese ma vi fanno ritorno per le vacanze, e vogliono ritrovare sapori e conoscenze di una volta. Esse si rivolgono però anche a un turismo diffuso, nei centri più piccoli decisamente di prossimità, ma nei casi più noti proveniente anche da altre regioni o addirittura dall’estero. È stato da più parti rilevato come proprio la partecipazione e la condivisione della mensa da parte di coloro che giungono da fuori e sono di fatto estranei alla comunità crei un insieme di relazioni più complesse che ne allargano i confini. In ciascuno di questi casi, per quanto essi siano diversi tra loro, vengono offerti e gustati piatti semplici che rappresentano la cucina italiana in tutte le sue innumerevoli varianti cittadine e locali prima ancora che regionali, e che hanno un legame stretto con il territorio.

Questi eventi entrano nel gioco dei consumi e costituiscono una risorsa complessa, anche commerciale. Al tempo stesso però sono percepiti e presentati come momenti antichi e importanti, ovvero tradizioni e dunque beni culturali immateriali capaci di imprimersi nella memoria. Le pietanze mangiate insieme, e ora sempre più frequentemente fotografate e postate specie se apprezzate attorno a una grande tavolata, fanno parte del racconto di chi arriva per la prima volta, e ogni volta portano il segno di usanze, tradizioni e sapori del luogo.

In queste tavolate si trova, o meglio si conserva, si riproduce e si ripropone il gusto percepito come antico e radicato nel territorio, spesso in una campagna idealizzata e amata, o in un mare percepito come immutato: pensiamo al finocchietto selvatico o ad altre erbe utilizzate per le tavolate di San Giuseppe, oppure ai molluschi chiamati garagoi tipici di un tratto del litorale marchigiano che a partire dal 1948 vengono consumati a migliaia nelle feste di Marotta. Ma possiamo anche immaginare il profumo dei tartufi bianchi nelle feste di Alba in Piemonte, o di quelli neri di San Miniato e di San Giovanni d’Asso in Toscana.

Quale che sia la loro natura o il loro radicamento, le feste che hanno queste caratteristiche ambiscono a farsi momento distintivo profondamente capace di incidere nella vita e nell’autopercezione della comunità. Il loro centro è davvero la grande tavolata che crea una commensalità larga e spinge a condividere e valorizzare il cibo, quasi sempre enfatizzandone la tipicità. Inoltre attorno alla preparazione delle pietanze si creano collaborazioni intense e aggregative: uomini e donne – investiti di ruoli diversi caratterizzati da forti tratti di genere – lavorano insieme per giorni per cucinare, organizzare e servire il pranzo alla comunità che lo consuma. Il cibo, in questo caso sempre riferito all’area circostante, costruisce identità. Si mobilitano famiglie, gruppi di amici, singoli individui, membri dello stesso partito.

Un altro aspetto importante, rilevabile non soltanto negli eventi legati a feste religiose, è la ritualità del pranzo comune, spesso preceduto e concluso da canti e invocazioni (l’inno della contrada nel caso delle cene del Palio di Siena, che precedono la corsa dei cavalli o che festeggiano la vittoria; le invocazioni religiose delle tavole di San Giuseppe nel Sud d’Italia; gli inni di partito nelle feste delle famiglie politiche). Attorno a queste grandi tavolate si creano nuovi legami sociali, si rinsaldano quelli esistenti e si consolida la percezione e la fierezza dell’appartenenza. Non è un aspetto secondario. Questa ritualità, oserei dire questa solennità, pur nel momento in qualche modo ludico, rafforza il senso dello stare insieme – dell’essere gruppo – e l’apprezzamento della tradizione e del cibo locale.

Fig. 1. Cena della contrada della Lupa, Palio di Siena. Copyright Riccardo Puglielli. Archivio della Contrada della Lupa.
Fig. 1. Cena della contrada della Lupa, Palio di Siena. Copyright Riccardo Puglielli. Archivio della Contrada della Lupa.

Feste, sagre e commensali

La tesi di questo breve contributo è che la cucina del territorio riveste un ruolo centrale in molte occasioni pubbliche importanti, di tipo molto diverso: feste religiose o legate a istituzioni locali di carità, feste tradizionali, magari reinventate nell’Ottocento, feste create di sana pianta di recente per dare un centro alla comunità o inventate a uso e consumo dei turisti come quelle della castagna o dello gnocco (Ascione e Fink 2021, 92-6). A sua volta, però, la ritualità di queste feste, per quanto ogni volta diversa, si riverbera sul gusto e sul carattere gastronomico originario del territorio, saldandolo con la percezione di specifiche identità e radici. In qualche modo, cucina e festa legittimano reciprocamente un radicamento profondo e forse banale, per riprendere l’uso che del termine “banale” fa Michael Billig (1995). Non siamo sul terreno scivoloso e in qualche modo perverso del gastronativismo studiato di recente da Parasecoli (2022), ma su quello di identità più circoscritte e specifiche.

Questo dato non è certamente esclusivo dell’Italia, alla quale qui mi limito, così come le tipologie di feste che tratteggio brevemente non sono proprie soltanto del nostro paese. Feste patronali che finiscono attorno a una grande tavola sono presenti in misura maggiore o minore in tutta l’Europa cattolica, e le tradizioni reinventate pensando all’identità del luogo e all’indotto turistico a partire dagli anni Settanta sono presenti anche altrove, come lo sono le sagre studiate dagli antropologi, che con la globalizzazione finiscono per assomigliarsi sempre di più. Va detto però che in Italia questo fenomeno assume certamente una dimensione eclatante. Chi lo ha studiato ha censito 650 feste di questo tipo nel Lazio (Di Renzo 2005); il calendario delle sagre per l’Umbria [1] ne indica 100, e l’Atlante delle feste popolari in Piemonte [2] del 2015 documenta più di 1.100 eventi di vario tipo in cui il cibo è al centro del palinsesto, e talvolta costituisce l’unico tema e l’unica ragione dell’evento, come spesso accade nei casi di origine più recente (Grimaldi e Porporato 2015; Fontefrancesco 2015; 2017).

Proviamo a vedere in che modo cibo del territorio e identità delle tradizioni (antiche o inventate) si intreccino. Procediamo dunque per quadri che ci consentano di mettere a fuoco tipologie varie ma riconducibili anche a un unico comune denominatore: quello delle grandi tavolate dove una comunità condivide il momento ludico e insieme, in qualche modo, rituale del pranzo.

Fig. 2. Pranzo di Natale a Sant’Egidio, Roma.
Fig. 2. Pranzo di Natale a Sant’Egidio, Roma.

Non di tutti questi gusti potrò parlare, né potrò ricordare tutte le feste. Guarderò in primo luogo alle tavolate delle feste patronali o delle confraternite esemplificate dal pranzo del Purgatorio di Gradoli e dalle tavole di San Giuseppe dell’Italia meridionale e insulare; e poi alle feste identitarie, cittadine e un po’ faziose legate alle rievocazioni storiche medievali più antiche (il Palio di Siena) o più recenti (il Mercato delle gaite a Bevagna in Umbria). Ricorderò il senso della rievocazione di un pranzo patriottico ottocentesco in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, che fu occasione per celebrare le antiche radici politiche laiche del territorio ma anche le ricette della tradizione, per concludere infine con le commensalità inclusive ed esclusive delle famiglie politiche, qui esemplificate attraverso le Feste de l’Unità e quelle della Lega. In ciascuna di queste tavolate – come pure in quelle aperte ai poveri e agli immigrati negli eventi organizzati ad esempio dalla Comunità di Sant’Egidio o da altre associazioni caritative – c’è una significativa interruzione dell’io, e si costruisce il noi di comunità a confini variabili. Non si tratta soltanto di mangiare insieme, ma di condividere qualcosa di più profondo, identitario.

Da questi quadri resteranno fuori le tavole nostalgiche e apparentemente apolitiche imbandite nel corso delle recenti rievocazioni di attività tradizionali come la trebbiatura sull’aia, o le cene o i pranzi all’aperto delle società calcistiche locali, dove magari si siedono accanto coloro che non lo avrebbero fatto in occasione della festa parrocchiale o in quella di partito.

Non dovremmo infatti dimenticare che quando la piazza o la strada principale del paese ospitano delle tavolate, i piatti mangiati insieme sono magari gli stessi, ma le microcomunità possono essere antitetiche e le tavolate possono essere in qualche modo anche esclusive e divisive.

Feste patronali

Il punto di partenza è quello delle feste patronali, davvero troppe e troppo varie per poter essere risolte in un esempio soltanto, sfaccettate e poliedriche come più di cento anni di etnografia e di antropologia ci hanno insegnato. Scavare qui nel profondo per capire quale sia il ruolo del cibo e come lo si condivida caso per caso richiederebbe un’osservazione partecipata così larga da essere qui improponibile. Sceglierò dunque alcuni esempi.

Un caso specifico e singolare – che ricorda l’antica tradizione del «rito collettivo di consumo del cibo» (Tacchia 2017, 61) nelle panarde del Lazio e dell’Abruzzo – è quello del Pranzo del Purgatorio di Gradoli, sul Lago di Bolsena, di recente oggetto di inchieste e interviste che ne testimoniano il profondo radicamento nel paese e nella sua tradizione culinaria (Agostini, Piccinetti, e Tognarini 2005) e che è documentato anche dall’eccellente DVD di Marco Marcotulli e Marco D’Aureli (2009).

Qui sembra che l’interesse a coinvolgere i turisti sia del tutto assente, se non decisamente secondario. Le antiche origini della tradizione, probabilmente già consolidata alla fine del Seicento, sono da ricercare nell’attività di un’opera pia, la Confraternita del Purgatorio, il cui compito era inizialmente quello di raccogliere offerte per celebrar messe di suffragio. In tempi più vicini a noi lo scopo principale è diventato quello di devolvere (in forma anonima) il ricavato del pranzo a individui in difficoltà.

Questo evento ruota tutto ed esclusivamente attorno al pasto. Esso è composto di piatti immediatamente riconducibili al territorio, le cui virtù e i cui sapori vengono continuamente esaltati da chi lavora alla loro preparazione. La specificità di genere è forte, e contraddice la tradizionale immagine delle donne al lavoro nelle cucine. Infatti sono soltanto i confratelli (tutti maschi) a preparare e allestire il banchetto in tutte le sue fasi. Sono gli incappucciati a fare la questua in paese per raccogliere denaro ma anche beni da mettere all’asta – alimenti, polli e agnelli vivi, bottiglie di vino e di olio – i cui proventi a loro volta serviranno ad acquistare i prodotti necessari al gigantesco pranzo al quale partecipano più di 1.200 persone e per il quale sono necessari più di cinque quintali di pesce, oltre a quintali di fagioli e di riso.

Che la partecipazione attiva all’evento – almeno finché i piatti fumanti non sono serviti in tavola – sia soltanto maschile è cosa rara, ma non unica. Infatti sono ancora una volta uomini, e più precisamente marinai, tutti coloro che presiedono e contribuiscono alla pesca, alla preparazione, alla cottura e all’impiattatura dei circa cento quintali di molluschi a Marotta in occasione della festa dei garagoi. Di solito però sono le donne a darsi da fare in cucina. E questi confini di genere sarebbero da esplorare in dettaglio, caso per caso, per cercare di tratteggiare bene le varie tipologie a seconda che si tratti di feste nuove o tradizionali, religiose o laiche.

Nel Pranzo del Purgatorio i sapori del territorio sono dominanti se non unici: pesce del Lago di Bolsena, fagioli e olio di Gradoli si compongono in pietanze la cui ricetta precisa viene tramandata oralmente e in segreto dal cuoco in carica al suo successore. I piatti forti sono il pesce lesso, prima preparato in cassette di legno, dove i singoli pezzi sono separati da canne tagliate poco prima sulle rive del lago, e poi immersi in paioli d’acqua bollente, e il pesce in umido, cotto in gigantesche padelle costantemente alimentate dalla brace preparata con i grandi fuochi della notte precedente. Evidentemente, la ritualità è forte ed è percepita e curata in ciascuna delle fasi anche preparatorie dell’incontro. Niente viene sprecato, con attenzione antica: le interiora e le teste del pesce servono a preparare il brodo per la minestra di riso e fagioli.

Fig. 3. Pranzo del Purgatorio a Gradoli. Fotografo Gianni Mercuri. Archivio della fratellanza del Purgatorio di Gradoli.
Fig. 3. Pranzo del Purgatorio a Gradoli. Fotografo Gianni Mercuri. Archivio della fratellanza del Purgatorio di Gradoli.

La preparazione delle pietanze e la loro cottura nei grandi calderoni non può essere letta separatamente dal complesso rituale che la precede e la regola: la formazione delle squadre, ciascuna composta di sei confratelli e guidata da un capitano, il rullo dei tamburi e le grida al momento della presentazione dei piatti, il modo in cui essi vengono serviti, in grandi scodelle ciascuna delle quali contiene quattro porzioni, che i commensali si divideranno. Le interviste registrate nel film di Marcotulli indicano chiaramente un criterio preciso: “fare come una volta”.

Tra le feste del calendario religioso, un posto d’onore spetta alle tavolate di San Giuseppe nell’Italia meridionale e insulare, non a caso oggetto di studi assai suggestivi.

Nelle tavolate di San Giuseppe – un evento diffuso, intensamente partecipato, e caratterizzato da numerose varianti – le famiglie devote di Sicilia, Basilicata e Puglia allestiscono nelle proprie case grandi tavole coperte di piatti di cibi locali, per lo più cibi poveri: legumi e verdure nel caso di San Giuseppe di Minervino o Casamassella in Puglia, pani votivi a Giurdigiano, e semplici dolci della festa. A questi cibi negli ultimi anni si sono aggiunte altre pietanze: come sappiamo, le feste mutano e si trasformano, e con loro si aggiornano e si arricchiscono le ricette e le composizioni dei piatti, dal momento che le cosiddette tradizioni vengono continuamente trasformate e seguono le evoluzioni di un gusto che non è soltanto alimentare (Teti 1998).

Figg. 4-5. Tavolate di San Giuseppe. Archivio Pro Loco di Caltanissetta.
Figg. 4-5. Tavolate di San Giuseppe. Archivio Pro Loco di Caltanissetta.

Un forte elemento di devozione religiosa, messo in evidenza da Imbriani (2008), si accompagna alla carità che prende la forma dell’offerta di cibo ai poveri. Ma altrettanto decisivo, anche se diverso da luogo a luogo, è soprattutto, in questo caso, il ritmo delle stagioni (San Giuseppe cade appunto il 19 di marzo, ed è quindi contiguo all’equinozio di primavera).

In Puglia le famiglie aprono la propria casa – e offrono cibo – prima di tutto a persone conosciute, per lo più ai parenti più stretti, che compongono il piccolo nucleo che assume il ruolo preciso di rappresentare la sacra famiglia e altri santi (i componenti saranno dunque da tre a tredici), ma anche ai visitatori, noti e sconosciuti, che portano con sé ceppi di olivo e fascine: la processione si incammina verso un luogo alla periferia del paese dove si accende un grande falò. Nelle tavole vere e proprie, costruite su uno o due livelli e coperte da tovaglie bianche o da carta, domina un quadro o la statua del santo, addobbata con decorazioni, tendaggi, veli. La festa, studiata da Pitré tra Otto e Novecento, è stata di recente oggetto di nuovi studi per gli anni Settanta e Duemila [3]. In alcuni centri il confine di status e di età è discriminante, dal momento che possono partecipare soltanto ragazzi e ragazze in età da marito ma non sposati (chiamati per l’appunto virgineddi o virginiaddri). In centri come Gangi e Alimena, invece, resta un “pranzo a porte aperte”, alla cui tavola si avvicendano diversi gruppi di convitati. Alla base del pranzo, come in Puglia, sono le erbe di campo e specialmente i finocchietti, che vengono infarinati e fritti: rami di erbe aromatiche, carciofi, e pani intrecciati o tondi (altrove, in Puglia, caratterizzati da forme particolari o contrassegnati dalle iniziali del santo) (Medico 2002). Dominano i segni legati a san Giuseppe: la mano e la barba del santo (a manu e a varvuzza); il bastone (u vastuni); le iniziali S e G (“san Giuseppe”); gli utensili del falegname (martieddu, scala, tinagghia) e vegetali – rametti, carciofi, gigli, pani votivi (Giacomarra 2012, 193).

A Giurdignano (a ridosso di Capo d’Otranto) – ma anche a Valguarnera-Caropepe (Enna) – è parte integrante del rituale la benedizione delle grandi tavole di San Giuseppe, ma centrale è anche l’accoglienza. Anche in questo caso, i sapori del territorio si comprendono meglio se letti come parte di un rituale e di una pratica che tocca tutti i sensi: l’udito (le grida di benedizione e di invocazione al santo), la vista (le immagini, gli altari), ma anche il tatto, l’olfatto e il gusto. L’esperienza è complessa e immersiva, all’interno di un ritmo liturgico che crea una comunione quasi mistica. In qualche caso, si attribuisce al santo il ritrovamento di un sacco di farina o di una bottiglia d’olio. Di recente, queste tavolate si sono talvolta aperte alle difficoltà del presente, e al tema dei rifugiati.

Nel 2005, ancora a Giurdignano, furono invitati a partecipare alla tavolata in piazza pellegrini provenienti dai diversi paesi del Mediterraneo. In questo c’è un’analogia con le grandi tavolate per i poveri di altre feste patronali tradizionali – pensiamo ad esempio alla festa di Sant’Efisio che si celebra a Cagliari il 1° maggio, dove il corteo che segue il santo, prima riccamente paludato e poi spogliato del cocchio prezioso e delle ricche vesti arriva a Nora, alla chiesetta ritenuta il luogo del martirio. E lì viene offerto un pranzo agli indigenti. Ma soprattutto c’è un’analogia con le grandi tavolate dell’accoglienza allestite dalla comunità di Sant’Egidio e dalla Caritas, o con alcuni “pranzi dei poveri” ospitati addirittura nello spazio delle chiese principali, come è accaduto in San Petronio a Bologna in occasione della visita del pontefice.

In alcune località siciliane il pranzo di San Giuseppe inizia con pane e quarti di arance degli agrumeti di Scillato, che maturano in ritardo, e sono dunque pronte alla fine di marzo. Non si usa il coltello ma si addenta la polpa per staccarla dalla buccia. Si prosegue con minestre e pietanze in cui dominano una volta di più fagioli e lenticchie, finocchietti, cardi selvatici e baccalà fritto. Il pane è cosparso di semi di sambuco o papavero e ha forme speciali. I dolci sono palline di pasta fritta. Chiudono il pranzo un ulteriore quarto di arancia e un bicchiere di vino, e alla fine ogni commensale riceve un pezzetto di pane benedetto. L’evento si apre e si chiude con l’invocazione gridate tre volte Viva u patriarch’e san Giuseppi!, che peraltro viene anche pronunciata varie volte durante il pranzo, il quale non dura più di un’ora. Facile pensare a un’agape mistica, tanto più che un momento forte della celebrazione è la benedizione della tavola da parte del parroco e che l’evento si conclude talvolta con una preghiera.

Il gran pranzo patriottico del 150° anniversario
dell’Unità d’Italia a Forlì

Dalle tavolate di San Giuseppe, così intrise di esperienza religiosa, passiamo a un esempio diametralmente opposto, di celebrazione laica e patriottica: non una ricorrenza ma un evento unico, in cui l’identità politica del territorio, a forte e antico radicamento repubblicano e democratico, fu celebrata in occasione del Centocinquantenario dell’Unificazione nazionale in modo singolare, comunitario e coerente, all’apice di una giornata di celebrazioni patriottiche, tra le quali spiccavano il passaggio di un tradizionale carro romagnolo (plaustro), sul quale fu trasportato un albero da piantare a memoria dell’albero della libertà eretto nel 1849, e una rievocazione dei tradizionali mestieri. Anche in questa tavolata straordinaria, nel quadro delle celebrazioni del 150° anniversario dell’Italia unita, si sono coniugati identità culturale e identità gastronomica, sapori e ricette del territorio. Il 4 giugno 2011 a Forlì si replicò il pranzo patriottico che si tenne il 4 marzo 1849 nel clima della Repubblica Romana, che, ricordiamo, ebbe proprio nel forlivese Aurelio Saffi uno dei protagonisti.

Se pranzi e banchetti politici ebbero un’importanza decisiva nell’Europa dell’Ottocento, il modello cui il comune si era a sua volta ispirato nel 1849 era quello delle Repubbliche giacobine e dunque della Rivoluzione francese, dove l’idea dell’uguaglianza si traduceva nella scelta simbolica di affiancare a ogni cittadino o cittadina (alcuni pranzi patriottici furono esclusivamente femminili) un povero o una povera, il cui pranzo veniva ovviamente pagato dai benestanti (Schettini 2015). La condivisione della mensa richiamava – e per un giorno metteva in pratica – l’idea della fratellanza.

Il pranzo organizzato dai repubblicani nel 1849 aveva fatto sedere alla stessa, lunghissima, tavolata centinaia e centinaia di concittadini secondo un ordine volutamente casuale, affinché fosse rispettato in qualche modo un criterio di uguaglianza. A questa idea si è ispirato nel 2011 l’allora sindaco di Forlì, lo storico Roberto Balzani, che ha adottato un criterio assolutamente filologico: stesso ordine casuale nella distribuzione dei posti a tavola per i circa 1.250 commensali, stesse coccarde, e – aspetto che qui ci interessa da vicino nell’ambito della nostra riflessione sul gusto italiano – stesso menù: «un antipasto, un rosto [arrosto] con [patate] croccanti, frutta e vino» (Pranzo patriottico 2011), portate alle quali per l’occasione sono stati aggiunti dei patriottici biscotti tricolori. Il tutto accompagnato da Sangiovese e Albana, vini a chilometro zero.

L’unione dei due elementi in qualche modo salda aspetti identitari apparentemente afferenti a piani totalmente diversi: quello della politica e quello del quotidiano. Tuttavia, mi pare che proprio la percezione implicita di una cucina radicata nel territorio (esplicitamente o implicitamente indirizzata a promuovere la conoscenza dei prodotti del territorio) (Cavicchi, Santini, e Belletti 2013) faccia parte di una sotterranea e condivisa grammatica normativa, e sia un modo per evidenziare due forme della stessa ragion d’essere della comunità.

Figg. 6-7. Gran pranzo patriottico a Forlì, 2011.
Figg. 6-7. Gran pranzo patriottico a Forlì, 2011.

Le feste della politica

Se pensiamo alle feste della politica, è impossibile non fare almeno un rapido riferimento innanzitutto alle feste del 1° maggio: feste di antiche radici, che tra la fine dell’Ottocento e la Prima guerra mondiale ebbero un notevole sviluppo, soprattutto in rapporto alle fortune del Partito socialista, e si svilupparono di solito fuori porta, a differenza delle feste ufficiali e ufficiose del Regno d’Italia. L’uso di mangiare sul prato e di bere del vino è attestato anche in questo periodo, ma non ci sono studi precisi su cosa gli intervenuti consumassero. Sappiamo di più sulla festa del 1° maggio in un paese del Senese, Mensano, fotografato e direi quasi studiato dagli scatti di Ferruccio Malandrini, che ci raccontano le sue trasformazioni tra il 1963 – quando l’industria cominciava a spopolare le campagne e la mezzadria era entrata in crisi – e il 1975 (Malandrini 2018).

Dopo la sfilata con in testa la banda e il discorso del politico locale, ci si sedeva sul prato (niente tavolate dunque ma un picnic sull’erba) per consumare le pietanze che le donne avevano portato nei vassoi avvolti da un tovagliolo legato per le cocche o nelle teglie appena tolte dal forno. A volte alle lasagne, alle farfalle al sugo e al pollo arrosto si aggiungeva una torta sul modello di quelle nuziali, con la glassa di zucchero e la scritta “W il primo maggio”.

Sono le donne a fare da mangiare e a portare le pietanze a questa tavola diffusa che riunisce generazioni diverse: i ragazzi ormai di città, già con i capelli lunghi, e i contadini con il volto bruciato dal sole e però con il cappello e la giacca e la cravatta, nella dignità composta della loro festa. Una ragazza suona la chitarra, i giovani si affollano attorno a una tavola dove sono state condivise le vivande e il vino, donne e uomini vengono a portare i piatti che hanno cucinato e i fiaschi di vino.

Il modello delle feste del 1° maggio fu importante soprattutto per le prime feste politiche comuniste in Emilia dopo la liberazione, e anche per la prima “scampagnata” di Mariano Comense del 1945 a cui parteciparono 200.000 persone e dove furono consumati essenzialmente polenta, salumi, frutta e vino. Per le feste de L’Unità, il cui scopo principale era quello di finanziare il giornale e il partito, la convivialità e il cibo erano uno dei punti forti, insieme alla dimensione di socializzazione e di militanza, di passione civile e di cultura politica. La festa aveva una sua autonomia dai momenti più schiettamente politici, ed era fatta per attirare un pubblico più ampio di quello dei militanti proprio grazie a quegli eventi che affiancavano i comizi o i dibattiti, e che avevano volutamente un taglio più ludico: il ballo, le lotterie, e soprattutto le cene a base di prodotti del territorio.

Fig. 8. Primo maggio a Mensano (Siena) 1969-71. Copyright Ferruccio Malandrini.
Fig. 8. Primo maggio a Mensano (Siena) 1969-71. Copyright Ferruccio Malandrini.

Se il cibo costituisce un importante momento aggregativo delle feste comuniste studiate da Kertzer (1974, 381), il settore gastronomico è il tratto vincente delle feste de L’Unità. Già alla festa di Firenze del 1951 venne allestito il “Villaggio gastronomico de L’Unità”, questa volta con vere e proprie cucine e cuochi con il grembiule e il cappello, che sfornavano piatti caldi per le famiglie di visitatori. Alla festa nazionale di Genova del 1955 c’erano già 23 friggitorie e bar, tre grandi ristoranti con tavola calda e 8 stand gastronomici dove era possibile scegliere piatti come tagliatelle, tortellini, ravioli, ma anche piatti che allora non uscivano dalla tradizione gastronomica locale, come le trenette col pesto e – ovviamente – i frutti di mare. Si servivano Verdicchio e vino di Panigaro (Alta Val Chiaravagna) (Tonelli 2012, 44).

Non a caso il 14 settembre 1976 un articolo sulla festa uscito su L’Unità era significativamente intitolato “Tra cappelletti, pesce e funghi”, e un verso della poesia scritta da Sergio Staino per la festa di Reggio Emilia del 1983 rammentava «bolliti misti e funghi eccezionali» (ivi, 192).

Figg. 9-10. Grigliate alla Festa de L’Unità.
Figg. 9-10. Grigliate alla Festa de L’Unità.

Il cibo era preparato per lo più da volontarie, spesso affiancate da uomini per la griglia e la brace, secondo consolidati schemi di genere propri non soltanto della cultura italiana. Le grandi tavole affiancate (sostituite solo negli ultimi anni da tavolini più piccoli) avevano un ruolo importante. Mangiare tutti insieme era un segno di condivisione e, specialmente nelle feste minori, i dirigenti o i sindaci comunisti servivano a tavola come gli altri. La militanza e il volontariato si collocavano entro una dimensione gastronomica nazionalpopolare, spesso con forti riferimenti al territorio.

La quantità andava di pari passo con la caratterizzazione dei piatti in senso provinciale o regionale: ecco dunque nel 1960 a Ferrara un milione di cappellacci, ovvero tortelloni di zucca, e ventisei quintali di lasagne, circa venti quintali di anguille, trenta quintali di salama da sugo, e poi migliaia di polli allo spiedo e alla griglia. Ecco lo gnocco fritto e l’erbazzone a Reggio Emilia, le crescentine a Bologna, la piadina e salciccia in Romagna, le pappardelle in Toscana, la porchetta e pagnottelle a Roma.

Come ricordò il dirigente comunista Fabio Mussi, furono proprio il cibo e la convivialità a far sì che la festa entrasse a far parte del costume italiano. Negli anni Novanta una ricerca di Ipsos Public Affairs su 9 feste de L’Unità (Reggio Emilia, Bologna, Modena, Milano, Genova, Firenze, Roma, Napoli e Palermo) rileva che il 50% dei visitatori sceglie le feste per «mangiare, trascorrere qualche ora in compagnia» (ivi, 236). Venivano però rilevate alcune trasformazioni dei ristoranti, dal momento che spesso alle grandi tavolate i sostituiscono tavolini più piccoli. Il volume di persone, di cibi e di affari era davvero rilevante: negli anni Ottanta, per non citare che un momento, si tennero in Italia ben 8.000 feste de L’Unità che duravano tra i tre e i nove giorni (e anche oltre). Furono registrati 29 milioni di presenze, con una media di 17 milioni di visitatori e un fatturato di 300-350 milioni di lire. Dopo il 1991, la prima festa nazionale de L’Unità senza il PCI a Bologna durò comunque dal 30 agosto al 22 settembre: i 23 ristoranti disponevano di 8.500 posti (ivi, 224). A essi si affiancavano 31 bar e punti di ristoro.

Dal 2008, la festa perde il nome classico, e comincia a chiamarsi festa democratica, in conseguenza della nascita del Partito democratico. Ma in alcune città si mantiene di fatto il vecchio nome. A Firenze, invece, la festa muta più rapidamente e sul piano gastronomico sono presenti i ristoranti ungherese e cecoslovacco. In seguito, le grandi tavolate si dividono in tavolini per piccoli gruppi. Ed è un segno che qualcosa di profondo è cambiato.

Noi e loro. Le feste della Lega Nord

Dove il cibo ha avuto davvero un carattere identitario – inclusivo ed esclusivo – è stato nelle feste della Lega Nord, iniziate con gli annuali raduni tenutisi, a partire dal 1990, nel bergamasco, a Pontida, luogo legato a un mito unitario di grande rilievo nel Risorgimento, al quale la Lega Nord ha notoriamente attribuito un significato simbolico separatista declinato su un «regionalismo populista» (Newth 2019, 384). Dal 1996 al 2011 le feste dei popoli padani si aprivano con il gesto simbolico dell’attingere acqua del Po alla sorgente, e si chiudevano con lo svuotamento dell’ampolla alla foce, per mano di Umberto Bossi. Accanto ai giuramenti in dialetto e ai proclami dai tratti etnico identitari trovava posto anche un aspetto gastronomico di rilievo: l’esaltazione della polenta, considerata il tipico piatto padano. Si ricorderà come la polenta di mais, pianta originaria dell’America centrale, fu a lungo quasi l’unico cibo dei valligiani e dei contadini. Incidentalmente, vale la pena di ricordare che fu anche all’origine del diffondersi della disastrosa pellagra, causata dalla mancanza di vitamina PP (Pellagra Preventing), e fu all’origine di tante malattie nervose che riempirono i manicomi dell’Italia settentrionale.

Fig. 11. Polenta e Cassoeula. Manifesto di una festa delle tradizioni lombarde. Lega Nord.
Fig. 11. Polenta e Cassoeula. Manifesto di una festa delle tradizioni lombarde. Lega Nord.

Come è stato rilevato da diversi studiosi, il regionalismo populista della Lega poneva il tema dell’immigrazione al centro del discorso italiano sul cibo, e lo accompagnava con una visione chiaramente binaria riassunta nello slogan: “sì alla polenta, no al couscous” (McKinley 2010). L’idea era quella di mettere a fuoco la purezza del cibo locale, di contro al cibo degli altri. Gli antropologi della cucina ben conoscono l’uso dicotomico della coppia oppositiva purezza/impurità e delle sue metafore. Qui un’identità a base territoriale è stata richiamata da un cibo povero e comune, presentato con un forte carattere identitario e nativista.

Sagre locali

Se usciamo dall’ambito delle famiglie politiche e passiamo alle semplici sagre locali (Di Francesco 2013), ci dobbiamo confrontare con una pluralità quasi infinita. Non ne citerò che un paio, tra quelle fondate a partire dal secondo dopoguerra, e basate su un gran pasto collettivo. Ricordiamo ad esempio, per la sua spettacolarità scenica, la sagra del pesce di Camogli, alla quale cominciò a pensare un avvocato del luogo nel 1949. All’origine, accanto alla volontà di promuovere la cittadina ligure, quella di render grazie alla protezione del patrono san Fortunato per il supposto salvataggio di un gruppo di barche che riuscì a rientrare indenne da una zona minata durante la Seconda guerra mondiale. Se all’inizio la frittura dei pesci avveniva in una serie di piccole padelle, a partire dalla fine degli anni Cinquanta fu utilizzata un’enorme padella di 4 metri di diametro, alla quale nel 1966 se ne aggiunse una seconda ancora più grande. Oggi vi si friggono circa due tonnellate di pesce offerto ai turisti come segno di prosperità. Il motto della festa è “San Fortunato pesce regalato” [4].

Fig. 12. Sagra del pesce di Camogli.
Fig. 12. Sagra del pesce di Camogli.

Oppure possiamo ricordare la sagra dell’anguilla di Comacchio, lanciata per iniziativa di un imprenditore e degli enti locali all’inizio di questo millennio per celebrare un importante prodotto locale (Rambelli 2022, 10). La festa si sviluppa per le strade del paese con bancarelle, ristoranti e soprattutto con i due grandi stand che ospitano le ampie tavolate in cui si serve in vari modi l’anguilla, la cui antica fabbrica è celebrata tra l’altro in alcune scene del film La donna del fiume che vide impegnati a vario titolo Mario Soldati, Alberto Moravia, Giorgio Bassani e Pier Paolo Pasolini e del quale fu protagonista un’icona nazionale: Sophia Loren. Oggi la fabbrica è diventata un museo che racconta la tradizione ittica del paese. Per l’occasione si riaccendono i fornelli e vengono serviti i piatti tipici della manifattura e delle valli di Comacchio in grandi tavolate poste dentro e fuori dalla grande stanza dei camini. Qui e nelle tavolate allestite nel campo sportivo si possono mangiare cibi cucinati secondo le ricette della tradizione come l’anguilla ai ferri, i bocconcini d’anguilla fritta e il brodetto d’anguilla “a becco d’asino”, piatti tutti preparati esclusivamente dagli abitanti del luogo.

In queste feste di nuova istituzione, e tanto più in quelle inventate a partire dagli anni Settanta del Novecento, il momento del cibo è assolutamente decisivo, se non esclusivo. È il collante della comunità, l’evento da proporre all’esterno, un elemento di orgoglio e di appropriazione.

In Umbria, ad esempio, il festival del medioevo di Gubbio offre talvolta cene medievali e riflessioni, anche di spessore, sul “mangiare da Barbari”. Qui però ci concentreremo su un’altra festa anch’essa imperniata sul medioevo, che impegna tutta la cittadinanza in una sfida tra quartieri. La festa delle gaite, ancora in Umbria, a Bevagna, è imperniata sulla valorizzazione dei quartieri e degli antichi mestieri. Il cibo vi gioca una parte importantissima: la gara gastronomica tra le gaite – rigorosamente a base di piatti medievali (sono dunque banditi pomodori, tacchini, patate e altri alimenti arrivati in Europa con il cosiddetto scambio colombiano) – è una delle quattro sfide che consentono di aggiudicarsi il “palio”. Se i cuochi scelti per la gara cucinano soltanto per la giuria, nelle cosiddette “taverne” – ovvero le tavolate all’aperto – ciascuno dei quartieri deve poter offrire per la cena ai commensali anche il piatto proposto ai giudici. E poi, a turno, uno dei quartieri deve allestire il banchetto annuale nella piazza principale, che vede sedersi a tavola più di trecento persone. Anche questa volta si mangia solo ciò che si cucinava nel medioevo italiano, tornando indietro a un gusto antico, a spezie e cibi riscoperti e riproposti come elementi di un gusto che appartiene alla cittadina e forse anche all’Umbria e all’Italia.

Concludendo: ripensiamo ad antichi scambi

Immaginiamo di festeggiare un lieto evento [si legge in un recente libro] con un banchetto organizzato in una delle innumerevoli piazze storiche d’Italia. Un cameriere si avvicina con il suo “taccuino” (dall’arabo taqwīm, “ordinata disposizione”) pronto per le ordinazioni. Come primo piatto chiediamo un simbolo della “cucina del nord”, il risotto allo zafferano (dall’arabo za῾farān, “giallo oro” o “luce”), seguito da un secondo a base di carciofi (dall’arabo alkarshūf), un contorno di spinaci (dall’arabo aspanakh, “mano verde”) e per dolce un “classico”: la cassata siciliana (dall’arabo qashāta). Non sarebbe un banchetto degno di questo nome senza che sulla tavola compaia anche un po’ di frutta (come le albicocche, dall’arabo al-barqūq), un caffè (dall’arabo qahwa) e, soprattutto, una modica quantità di alcool (dall’arabo al-Kuhl) un calice di un vino bianco come il celebre Zibibbo (da zabīb, “uva passita”) rappresenterebbe il degno coronamento a una giornata da ricordare (Kamel 2021, 1).

Forse, quando ci sediamo attorno a grandi tavolate, oltre che alle radici nel territorio, dobbiamo volgere lo sguardo un po’ più lontano e un po’ più indietro nel tempo, per ricordarci comunque che cibi, sapori e piatti portano impressa, prima di tutto, l’impronta di tanti e antichi contatti [5].


Bibliografia

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Note

1. https://www.umbriaeventi.com/sagre-umbria.htm (ultimo accesso 27/06/2022).

2. http://www.atlantefestepiemonte.it (ultimo accesso 27/06/2022).

3. Giallombardo 2003; 2006; Buttitta e Algonzino 2006; Giacomarra 2007; 2012; Buttitta 2013; Di Francesco 2013.

4. Ligurianotizie.it/si-comincio-con-6-padelle-alla-sagra-del-pesce-di-camogli/2018/05/06/295596 (ultimo accesso: 27/06/2022).

5. Ringrazio per gli utilissimi suggerimenti Pietro Clemente, Lello Mazzacane e Roberto Righi, e per l’aiuto Ilaria Berti e Giacomo Bonan.