Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Come in un campo di battaglia.
Il terremoto della Marsica (1915): un’emergenza inattesa

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Abstract

Il terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915 è stato uno dei più disastrosi per l’Italia. Si verificò in un contesto del tutto particolare, cioè mentre in Europa imperversava la guerra e l’Italia si approssimava a entravi. Ciò determinò un sovrapporsi di emergenza a emergenza e implicò una serie di misure che furono adoperate per il mantenimento dell’ordine pubblico. Il saggio si interroga sull’organizzazione e sulle decisioni che furono messe in atto dalla macchina statale per rispondere al sisma e per preservare lo spirito nazionale.

The Marsica earthquake of January 13, 1915, is one of the most disastrous in Italy’s history. It occurred in a particularly unique context, namely while Europe was engulfed in war and Italy was on the brink of joining it. This led to a situation where one emergency was layered on top of another, necessitating a series of measures to maintain public order. This paper examines the organization and decisions made by the state apparatus in response to the earthquake and to preserve national spirit.

Introduzione

“Le calamità naturali […] si presentano […] come condizionamenti del tutto esterni all’andamento della storia umana. E hanno il loro caso-limite nello sconvolgimento sismico” (Caracciolo 1989, 70). Si configurano a tutti gli effetti come avvenimenti che tendono a colpire e modificare radicalmente l’ordine sociale, naturale e politico di un intero sistema. Infatti,

in simili casi assai più radicalmente di quanto non venisse auspicato nelle forme sporadiche delle rivolte, le popolazioni si trovavano di fronte a sconvolgimenti che mettevano in discussione tanto l’ordine sociale che naturale, l’intero universo di certezze in cui viveva una comunità (Bevilacqua 1981, 187).

È frequente che in tali occasioni si faccia appello a una pace sociale, momenti nei quali le comunità intere devono unirsi per un bene comune: una spinta all’unità nazionale, per evitare il proprio dissolvimento.

L’Italia liberale funge da interessante laboratorio in tal senso, anche solo per il fatto che in un breve scorcio di tempo si sommano disastri naturali vari (Botta 2013; 2020): il terremoto di Casamicciola del 28 luglio 1883, il terremoto della Liguria del 23 febbraio 1887, il terremoto di Palmi del 21 ottobre 1894, passando poi per le numerose esondazioni, frane e alluvioni (Palmieri 2002), per giungere ai sismi di inizio Novecento, che si ripetono a cadenza quasi annuale, nelle Calabrie l’8 settembre 1905, il 23 ottobre 1907 e il devastante terremoto di Messina e Reggio Calabria del 28 dicembre 1908 [1].

Quest’ultimo rappresenta un momento spartiacque sia per quanto riguarda la grandezza e l’impatto sul paese intero sia per le decisioni e le scelte impiegate dal governo Giolitti (1906-1909). Si assiste all’utilizzo dello stato d’assedio politico o civile, adoperato fino al 1908 come misura straordinaria volta alla tutela dell’ordine pubblico (Latini 2018). Si manifesta una pratica che nell’Italia liberale si ripete con frequenza, cioè l’intervento militare come forza di polizia, circostanza che al contempo denota una congenita inadeguatezza della pubblica sicurezza nell’affrontare il tema emergenziale. Perciò, sembrerebbe che queste condizioni non si discostino molto da quelle che si originano da una rivolta o da una rivoluzione, soprattutto in un primo frangente (Martucci 1980; Latini 2010; Botta 2013). Il servirsi di un sistema speciale si inserisce nell’alveo del governo della questione meridionale. Nello specifico, “con il terremoto [di Reggio Calabria e Messina] nasceva insomma una vera e propria legislazione di emergenza, […] sia nel senso della deroga ai principi legislativamente consolidati nell’ordinamento, sia nel senso della creazione di istituti e procedure inediti destinati poi a stratificarsi nell’ordinamento” (Melis 2020, 242-243). Segnatamente, per quanto riguarda il Mezzogiorno, ha ricordato ha ricordato Franco de Felice, attraverso le parole di Antonio De Viti De Marco (1980, 102): “una legislazione speciale diversificata […] è un raffinamento di arte politica, per cui si conserva l’accentramento antico e lo si rafforza aggiungendogli un sistema di leggi speciali, che suonano concessioni di favori o minacce di esclusioni, a singole regioni e a singoli gruppi di interessi”.

A partire da questa breve premessa, il seguente intervento intende indagare il terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915, in quanto profondamente connesso alle vicende italiane che si innestano all’interno dello scenario della Grande guerra. Si vuole analizzare come in situazioni emergenziali, quali sono quelle dell’evento tellurico marsicano, si vada a realizzare un impianto di governo dell’emergenza con alcune peculiarità e come le scelte intraprese abbiano una duplice validità: soccorrere la popolazione e garantire l’ordine pubblico. Inoltre, questo terremoto ha una sua specificità nella lunga storia dei disastri dell’Italia liberale (Guidoboni e Valensise 2013; Guidoboni 2017; Barbini 2021; De Marco 2022), per il fatto che si trova immerso in un quadro complesso in cui l’emergenza del disastro sismico si somma a quella della guerra.

Il saggio si basa sull’analisi di fonti d’archivio, in special modo derivanti dal fondo del Ministero dell’Interno, Direzione generale dell’Amministrazione civile, Divisione servizi speciali, servizi in dipendenza dei terremoti, terremoto della Marsica del 13 gennaio 1915. All’interno del fondo si trovano relazioni, telegrammi e narrazioni varie delle vicende. In aggiunta, il saggio analizza articoli, report giornalistici e memorialistica, soprattutto di soccorritori.

Come si comporta la macchina statale in occasioni ritenute per stessa convenzione fuori dall’ordinarietà? I terremoti, le alluvioni e tutti quei fenomeni naturali che risultano devastanti sono veramente eventi così straordinari? Oppure, dato il loro ripetersi con una certa regolarità, dovrebbero imporre a coloro che si trovano a governarli almeno una predisposizione di mezzi e modi per affrontarli? Come tutto ciò si collega al conflitto internazionale?

A questi interrogativi prova a offrire delle risposte questo saggio, tentando di aprire nuove riflessioni in merito alle condizioni emergenziali nel contesto italiano.

Un terremoto inaspettato

La mattina del 13 gennaio 1915 uno sconvolgente terremoto rade al suolo Avezzano e i piccoli centri della Marsica, allo stesso tempo distrugge Sora e altri comuni della Valle del Liri e della Terra di Lavoro [2]. Per comprendere a pieno le condizioni emergenziali e disastrose in cui precipita quella parte d’Italia, si intende offrire una panoramica di impressioni che quella vicenda suscita:

la furia devastatrice del disastro aveva in pochi attimi sgretolata una nobilissima regione, ciascun abitante rabbiosamente assalendo nella vita, negli averi, negli affetti […]. Il flagello aveva in pochi attimi schiantato la collettività sgretolandone il funzionamento materiale, economico, e morale, talché la vita collettiva della nobilissima regione dopo il primo sussulto di terrore e di angoscia parve spezzarsi (Saladino 2002, 19).

Questa devastazione viene raccontata dall’artista danese Joergensen ed è quella tipica delle aree belliche: “è con la sensazione di essere tornati da un campo di battaglia che ci si accinge a descrivere le impressioni avute nel paese ove il terremoto ha fatto strage. Là si è veduto ciò che hanno pur veduto i corrispondenti di guerra: città devastate, case distrutte, feriti trasportati agli ospedali e morti che venivano seppelliti” (Joergensen 1931, 33-34). Il disastro della Marsica risuona nelle aule parlamentari, anche a distanza di quasi due mesi. Con le parole che seguono si esprime il presidente del Senato, Giuseppe Manfredi, alla ripresa dei lavori, dopo la chiusura prolungata, in data 10 marzo 1915: “il nuovo anno […] ci ha funestati nel nostro Lazio, nella Marsica, in Terra di Lavoro, con diverso flagello. Là fuori le umane belve si dilaniano, qui la bruta natura si ribella, abbattendo, distruggendo, desolando” [3]. In questa occasione si accomunano i due mali: quello del terremoto da una parte e quello della guerra dall’altro. I due avvenimenti hanno la grande capacità di evocare, in modo non dissimile, l’esperienza di una distruzione totale. Coloro che vivono la devastazione tellurica comprendono a pieno la gravità del momento: “ormai Avezzano non è più che un immenso sepolcro nel senso vero della parola. […] Un odore acre di cadaveri in putrefazione ammorba l’aria” [4].

La portata del terremoto, anche da un punto di vista statistico, è di dimensioni enormi: “fu così colpita una zona vastissima e se in cifra assoluta le vittime umane furono in numero inferiore di molto a quelle della catastrofe del 28 dicembre 1908, in cifra relativa alla popolazione specialmente di Avezzano e di Sora furono in proporzione maggiore” (Fulci 1916, 441). Talvolta, però, il dato in sé è poco accurato, poiché viene riportato a ridosso dell’evento, ma è funzionale a far comprendere la grandezza della calamità: “in attesa arrivo d’imminenti soccorsi da Roma partecipo Avezzano distrutto. Dei 14.000 abitanti solo 500 si ritengono salvi” [5]. Allo stesso modo comunica, in un telegramma nel pomeriggio del 13 gennaio, l’ispettore generale di Pubblica sicurezza (P.S.) Di Domenico: “Avezzano distrutta. Scurcola Magliano Cappelle larghissimamente danneggiate indispensabili soccorsi sanitari uomini numerosissimi per sgombero materiale acque e viveri” [6]. Più accurato risulta il lavoro di Mario Baratta [7], geografo e sismologo italiano, il quale, in un articolo, indica nel dato di 10.700 le persone perite in questo incidente nella sola Avezzano, con una percentuale di deceduti del 96%, punte a cui non era giunto nemmeno il terremoto di Messina e Reggio del 28 dicembre 1908 (Baratta 1915). È la relazione del governo, del 1° dicembre, con la quale si tenta di proporre un primo bilancio:

il disastro tellurico, che aveva avuto il suo epicentro nella conca del Fucino, si era propagato in ben otto province del Regno per una estensione di 16 mila chilometri quadrati di superficie, colpendo più o meno gravemente una popolazione di un milione e duecentomila abitanti, sparsa in 350 comuni, divisi a loro volta in circa 1000 centri abitati, facendo ben 30000 vittime! La regione più duramente provata, scarsa di ferrovie, con villaggi situati sopra appicchi impervi e spesso uniti alle vie carrozzabili soltanto da lunghe strade mulattiere, mal si prestava a poter far giungere ovunque soccorsi immediati quali l’urgenza richiedeva [8].

Dopo una serie di richiami e richieste di intervento, il governo solo nella serata del 13 gennaio agisce effettivamente, anche grazie al sopraggiungere a Roma di notizie sia da Sora sia dall’Aquila, riportate dal prefetto del capoluogo abruzzese Scamoni: “malgrado ripetute richieste da stamane ore otto non ho avuto alcuna comunicazione telegrafica e telefonica da Avezzano. […] pregherei siano inviate direttamente da Roma soldati e soccorsi che giungerebbero colà più rapidamente che da Aquila” [9]. Ancora più accurate le comunicazioni del sottoprefetto di Sora, recapitate dal viceprefetto di Caserta, Luigi Carbone:

essersi Sora verificato immane disastro molti fabbricati abbattuti vittime numerosissime per cui chiedonsi pronti aiuti uomini e mezzi soccorso – Eguali notizie da Isola Liri ove sarebbero stati già estratti dieci cadaveri e circa centocinquanta feriti – non meno gravi sono notizie da Arpino Belmonte Castello Alvino San Donato Val Comino Roccasecca Conca Campani Mignano ed Arce. Avevo già chiesto cinquanta uomini arma genio codesta divisione che ora data gravità disastro aumenterò a duecento. Partono immediatamente di qui altri centodieci zappatori con tende […] Occorrono forti sussidi in danaro per sovvenire urgenti bisogni quella popolazione che per ora limito dire quattromila oltre duemila che cotesto ministero si compiacerà inviare direttamente sottoprefetto Sora [10].

Come si può notare da questi scambi di telegrammi, i centri di potere periferici, in occasioni emergenziali, sembrano ricoprire una certa importanza. Purtuttavia, a partire da inizio secolo, si presenta sempre più una forma di supplenza da parte del potere centrale rispetto a quello periferico (Melis 1993). Da questa considerazione si comprende come prendano forma figure e istituzioni, spesso temporanee, quali quelle commissariali, direttamente dipendenti dal centro e in particolare selezionate dal governo e dal Ministero dell’Interno (Melis 2020). Malgrado ciò, oltre a un intervento diretto da Roma, la figura prefettizia mantiene la sua centralità, si muove con grande celerità e si prodiga a offrire soluzioni. Esemplificativo a questo riguardo è quello che compie il prefetto dell’Aquila:

nonostante ripetuti telegrammi nessuna comunicazione giungevami da Avezzano, silenzio purtroppo preoccupatissimo, perciò non esitai inviare subito un’automobile, ed avute così prime notizie dell’immane disastro, colà rivolsi specialissime cure. In tal modo potei far giungere in tempo brevissimo tutte quelle provvidenze, che erano a mia disposizione, nonostante l’ora tarda, la impraticabilità delle strade e la mancanza di comunicazioni ferroviarie, ciò con gli unici tre camions disponibili. […] Soggiungo che facendosi d’ora in ora sempre più palese immanità disastro, stabilii recarmi Avezzano, cosa che feci la mattina del 14 […]. Concludendo: nessun comune è stato trascurato, non si è perduto un momento né per parte mia né per parte del personale d’ufficio, e devo far notare che questo lavoro si svolse nelle più tristi condizioni [11].

Le parole del prefetto sono funzionali a cogliere come, da una parte, questi voglia mettere in mostra il proprio ruolo essenziale e, dall’altra, che esistono dei mezzi direttamente dipendenti dai prefetti e dai sindaci, per gestire queste condizioni (Romanelli 1995; Ricci 2017; Melis 2020). A questo punto, è forse necessario accennare, brevemente, alla legge 20 marzo 1865 n. 2248, allegato A, Legge comunale e provinciale, in cui proprio alle istituzioni provinciali viene lasciata la gestione delle calamità naturali; l’articolo 3 così recita: “[il prefetto] veglia sull’andamento di tutte le pubbliche amministrazioni, ed in caso d’urgenza fa i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami di servizio”. Questa competenza sarà a lungo esclusiva di prefetti, ma come si è lasciato intendere nel corso del primo Novecento, questo sistema inizia a modificarsi.

Allo stesso tempo, proprio dalla zona terremotata si capisce che solo tramite un servizio diretto da Roma possono superarsi quelle difficoltà, congenite e incancrenite di quel territorio. Questa condizione di bisogno viene comunicata da Vincenzo Gentile, presidente della Deputazione provinciale dell’Aquila:

immensità disastro che si appalesa ogni giorno più tremendo dimostra che amministrazione provinciale non può in alcun modo provvedere neppure minori bisogni – permettomi far riflettere autorità governative necessità assoluta governo prenda direzione generale per intera provincia baraccamento soccorsi con unica direttiva [12].

Non diversamente anche le autorità governative riconoscono la totale inadeguatezza dei soccorsi, così il telegramma del Sottosegretario dei Lavori Pubblici (LL.PP.), Achille Visocchi: “qui il servizio ferroviario procede malissimo. Finora sono arrivati 500 soldati e 100 carabinieri, pochissimo materiale sanitario e poche gallette; niente tende. Occorre provvedere subito […]. Inoltre bisogna riattivare subito il servizio telegrafico sulla linea ferroviaria perché non procede” [13].

Si è fin qui solo accennato allo stato in cui versano le zone colpite dal terremoto e non si è ancora entrati nel merito di quali siano le decisioni prese dalla macchina governativa. Le disposizioni che si susseguono, in gran parte tra 14 e 21 gennaio, sono sottoforma di 17 decreti-legge, che vengono convertiti in legge soltanto il 1° aprile: legge 1° aprile 1915, n. 476. Con il decreto del 14 gennaio n. 13 viene nominato il Regio commissario con pieni poteri per i circondari di Avezzano e Sora nella figura di Secondo Dezza, ispettore generale del Ministero dell’Interno. Sarà solo il 22 gennaio che prenderà servizio un nuovo commissario per il circondario di Sora: Camillo De Fabritiis, ispettore del Ministero dell’Interno. Una settimana dopo la formazione del commissario (Secondo Dezza) vengono concesse delle sovvenzioni con il R.D. n. 27 del 21 gennaio 1915: “è assegnata la somma di lire 30 milioni per provvedimenti ed opere urgenti nei comuni danneggiati dal terremoto e sono date altre disposizioni d’indole finanziaria a pro dei comuni stessi”. Con il R.D. n. 106 dell’11 febbraio 1915 si hanno “disposizioni sull’uso delle baracche, somministrazione di legnami, uso di aree” (Franco 1915, 809), solo per citare alcuni provvedimenti con i quali viene portato sollievo alle popolazioni colpite dal terremoto [14].

Tutte queste prescrizioni devono essere unite al peso che gioca l’esercito, per cui si potrebbe essere in presenza di un “piccolo stato d’assedio”, ovvero:

è da osservarsi che alcune volte non si dichiara nemmeno lo stato d’assedio, sebbene si accentrino in mano militare le funzioni di polizia di una o più province, in tutto o in parte togliendone l’esercizio all’autorità civili che hanno dimostrato di non aver forza allo scopo […] designato colla denominazione di piccolo stato d’assedio (Longhi 1909, 149).

Nel caso marsicano sembra prefigurarsi una forma non molto dissimile e si ha uno scarto dovuto solo al fatto che le funzioni sono in capo a una struttura civile, benché gli uomini e i mezzi siano in grandissima parte militari.

Questa proliferazione di decreti-legge acquisisce una sua normalizzazione e diviene un tratto permanente e che raggiunge il suo apice durante il primo conflitto mondiale (Latini 2005; 2023; Benvenuti 2012). Contemporaneamente, questa opera di costante e continua decretazione acquista sempre più i connotati di ordinarietà, perdendo quelle caratteristiche di urgenza e straordinarietà a cui era legata. Come sostiene Carlotta Latini (2023, 2): “durante la Prima guerra mondiale in particolare, l’Italia rinunciava ad impiegare lo stato d’assedio come rimedio generalizzato per fronteggiare le emergenze belliche, sismiche, e per la tutela dell’ordine pubblico, preferendo l’opzione della delega legislativa”. Alla fine del conflitto prendevano avvio una serie di discussioni in merito a “una non mai vista baraonda” di decreti-legge (Benvenuti 2012). Ciò trasformava questo strumento, per sua stessa natura eccezionale, in un mezzo comune e “ordinario” con cui governare non solo l’emergenza.

Per quanto riguarda il caso preso in esame, si ha un massiccio utilizzo di decretazione d’urgenza, di per sé non un fatto inedito nel panorama dell’Italia liberale, che, d’altro canto, si connette a un prolungato periodo in cui il Parlamento rimane chiuso, dando adito al governo di agire e legiferare. Solo a partire da marzo, cioè due mesi dopo il terremoto, il Parlamento troverà occasione di dibattere e votare i precedenti decreti, anche se, ora, ci troviamo dentro un altro scenario: quello del conflitto mondiale. Si noti che, proprio tra terremoto e guerra, trova forma la legge del 21 marzo 1915 n. 273, dal titolo Provvedimenti per la difesa economica e militare dello Stato. Ciò, chiaramente, prefigura quanto il governo italiano stia preparando il paese all’esperienza bellica internazionale. Prendono vita e forza meccanismi di controllo non tollerabili in altri contesti, ma che in tali occasioni appaiono necessari e perfino mostrati come essenziali e ineluttabili.

Come si è già avuto modo di evidenziare, non esiste un sistema dedicato in modo specifico alla gestione delle calamità, eccetto alcuni strumenti formati sul momento, uffici straordinari o speciali, che proprio in questa situazione acquistano le caratteristiche dell’ordinarietà. Il terremoto del 13 gennaio 1915 si delinea come un vero e proprio “evento spartiacque sia per quanto riguarda la natura degli interventi approntati dall’apparato statale sia per la conformazione delle amministrazioni e nei rapporti di queste con quelle autonomie locali” (Ricci 2017, 249). Sembra che si vadano a definire tutte delle pratiche emergenziali che perdurano nell’Italia liberale:

si ricordino quelli [provvedimenti] adottati dal governo nazionale in conseguenza del disastro di Casamicciola del 1883, i vasti e grandiosi provvedimenti attuati nella Calabria e nel Messinese in dipendenza dei moti tellurici del 1894, 1905 e 1908 e quelli emanati in conseguenza del terremoto della Marsica. Sono soluzioni parziali di un problema che si veniva ponendo irrevocabilmente (Mauceri 1918, 10-11).

Questa analisi porta Mauceri a un’altra riflessione, ovvero quanto si possa parlare di emergenza: “mentre la natura offre alle proprie collere tutta la forza brutale degli elementi, l’uomo dal canto suo non impiega nemmeno un minimo di previdenza, di unione, di organizzazione e di tecnicismo, né alcuna chiaroveggenza, in cospetto della minaccia di grandi calamità”, e continua Giovanni Ciraolo (1931, 8) [15]: “quanto ingegno […] per armarsi e uccidersi. Ma per difendersi contro la guerra della natura, quale scarsezza di previdenza e di coordinazione”. Il geografo Mario Baratta, a proposito del terremoto della Marsica, indica come un tipico “costume” italico sia la mala costruzione:

è certo però che in parte la distruzione terribile che operano e le stragi immani che determinano [il riferimento sono ai terremoti frequenti] dipendono dalla poco provvida opera dell’uomo: noi con le cattive costruzioni e con i restauri insensati prepariamo incoscientemente la tomba a noi stessi, ai nostri figli e nepoti (Baratta 1915, 143).

Baratta, da studioso, prova a ricostruire quanto accaduto, constatando che, benché certe calamità si presentino regolarmente, allo stesso tempo non si sia ancora stratificato un sapere condiviso. Rammenta il giurista Maugerio Mauceri (1918, 76): “quando l’umanità sarà intenta non più a distruggere, ma a costruire, il nostro paese dovrà fare ogni opera per premunirsi contro i massimi fatali flagelli distruttori di vite e di capitali: guerre e terremoti”.

Se, da una parte, la calamità tellurica determina una condizione di assoluta emergenza e squarcia il velo dell’incapacità amministrativa, dall’altra svolge un ruolo fondamentale nella sedimentazione dell’esaltazione dello spirito nazionalista. In molte occasioni, si richiama la grande prova offerta dal popolo italiano subito corso in aiuto dei “fratelli”. Oltre alla retorica, è innegabile che tantissimi comitati cittadini e associazioni si avvicendano a portare assistenza, mostrando quanto la solidarietà sia il vero architrave dei soccorsi (Bevilacqua 1981; Castenetto e Galadini 1999; Botta 2013).

Un’altra pratica che si ripete nei contesti emergenziali è quella dell’esaltazione di alcune figure, descritte come salvifiche. In questo caso il riferimento corre alla persona del re, narrato come soccorritore e portatore di conforto alla popolazione. Questa narrazione ha anche la funzione di preparare lo spirito nazionale alle ostilità (Gentile 1999; Brice 2002; Botta 2013). In Abruzzo, un quotidiano teramano e filogovernativo, quale il Corriere abruzzese, dopo aver paragonato la catastrofe del 13 gennaio a una battaglia perduta, riporta in un articolo: “Roma non muore”. Ancora più fermamente Adone Solari, giornalista di questo quotidiano, su un numero speciale dedicato al terremoto si lancia in: “La sventura che ha colpito nuovamente l’Italia non renda immemori gli italiani dei doveri che su di essi incombono nell’ora che volge. Si sollevino pure i colpiti dal terremoto ma cessino i lamenti e si diano nove energie alla nostra azione pratica per la grandezza d’Italia” (Solari 1915). Nella stessa maniera intervengono giornali nazionali come il Giornale d’Italia e il Resto del Carlino, l’Idea nazionale, ma non solo. A partire da queste poche battute, si rende evidente come su questa terra e su queste popolazioni si ripercuota, oltre alla negligenza governativa, anche la pesante e costante dialettica del conflitto internazionale (Natalia 2016).

La ricostruzione di questi eventi, visti sì come tragici, perché raccontano di un mondo intero che svanisce, mostra come l’emergenza sia una risultante dell’incompetenza, della non curanza e di un peso che viene scaricato dalla classe dirigente sulle classi subalterne, totalmente minate ed eliminate dalla scena della tragedia.

Nella realtà l’Italia è prossima a entrare nel conflitto e gli accordi sono più o meno già stabiliti. Come ricorda Fimiani (2015, 526): “la guerra per gli abruzzesi inizia ben prima del primo colpo di cannone oltre il Piave, per la precisione quasi alle otto del mattino del 13 gennaio 1915”.

Tra terremoto e guerra: “c’è malcontento nella popolazione”

Nei pochi mesi che separano il terremoto dall’entrata in guerra, si possono ritrovare fattori emergenziali che si accavallano: si passa dalle ostilità che avanzano in Europa, al terremoto, alla crisi del grano. Sembra che l’ordinario sia rimpiazzato dallo straordinario, dall’emergenza, dalla crisi. In condizioni così composite dove ogni piano si accavalla all’altro, lo stato emergenziale diviene detonatore di complessità. Una condizione economica sempre più complessa quella in cui entra l’Italia, perché come si rintraccia sulle colonne di Critica sociale: “alla guerra economica tra i belligeranti […] partecipano, sia pure forzatamente, anche i neutrali […]. In tale senso è vera la proposizione che della guerra sentono le conseguenze e gli oneri anche i paesi neutrali, costretti a subire la legge di un mercato internazionale, che la guerra ha profondamento mutato e sconvolto” (Merloni 1915, 53). Paradigmatici sono anche alcuni titoli di prima pagina e di articoli dell’Avanti: “Mortali tumulti per la fame a Catania” (Avanti, 21 gennaio); “La responsabilità della fame da Sonnino a Salandra” (Avanti, 22 gennaio); “Le agitazioni e le proteste della miseria” (Avanti, 24 gennaio); “Disoccupazione, miseria e caroviveri! Verso la carestia?” (Avanti, 25 gennaio).

Da un punto di vista generale si potrebbe sostenere che il terremoto ha una funzione di “disvelamento del potere” (Bevilacqua 2000). Si intrecciano, mostrando una condizione di complessità estrema, fattori che sembrano accelerare e mescolare emergenza a emergenza (Castenetto e Galadini 1999; Botta 2013; Latini 2018). Inoltre, si pone l’interesse di come “due concomitanti emergenze: quella del terremoto e quella della guerra” siano eventi fondamentalmente connessi, e non solo da un punto di vista istituzionale, ma anche e soprattutto, nelle modalità con le quali politicamente si sceglie di operare e di assicurare l’ingresso in guerra, cercando di mantenere intatto lo spirito nazionale, messo in pericolo dal sisma (Botta 2013; Latini 2018). Allo stesso tempo, si presentano delle analogie tra diversi panorami emergenziali:

la devastazione dei luoghi prodotta dal cataclisma naturale, gl’incendi che quasi sempre divampavano in seguito ad un terremoto, i saccheggi che spesso li accompagnano, i morti e i feriti, i superstiti fuggiaschi, fan ricorrere alla mente il ricordo della guerra, sicché si presenta spontanea l’analogia tra lo stato di guerra e quello che immediatamente succede al terremoto catastrofico (Fulci 1916, 6-7).

In aggiunta, nelle zone terremotate, come in quelle belliche, affiora la paura che tutto vada a sciogliersi, si fa strada insomma il terrore dell’anarchia, come già individuato per il caso del terremoto del 28 dicembre 1908:

c’è anarchia, in effetti, ogni volta che, per uno sconvolgimento della natura, o per la violenza degli uomini, un’entità civilizzata, grande o piccola, si trova rovinata nelle fondamenta, e sparisce, nello stesso tempo, l’impalcatura più o meno armoniosa di contratti, tradizioni, costumi, sentimenti o leggi, la cui ordinata coesione forma l’umana società (Carrère 2008, 99-100).

Jean Carrère, giornalista francese, inviato in Italia, induce a riflettere sulla situazione in cui piombano intere comunità travolte tanto da stati di conflittualità politico-sociale, quanto da sconvolgimenti naturali, come anche il caso marsicano.

Il racconto riproposto dai contemporanei del terremoto, di terre totalmente distrutte, comunità squassate, a cui si devono aggiungere interi giorni di gelo e forti nevicate, porta a immaginare che l’emergenza non si esaurisca in una o in qualche settimana. Accanto all’opera di soccorso, che si mette in moto a partire già dal 14 gennaio, sia a livello governativo sia per quanto riguarda l’associazionismo, prendono forma una serie di norme volte a garantire l’ordine costituito e lo spirito nazionale; aspetto quest’ultimo che si connette strettamente al futuro stato di guerra. In proposito, è del tutto singolare che in un telegramma datato 25 gennaio il presidente del Consiglio, Antonio Salandra, solleciti informazioni al commissario per il circondario di Sora, sul numero di soldati presenti, al fine di “[evitare] superflui eccessivi agglomeramenti” [16]. In data 9 febbraio si assiste, pertanto, alla diminuzione degli effettivi per Sora, “presi gli accordi col R. commissario, per addivenire alla diminuzione delle truppe” [17]. Sembra verificarsi un accordo tra commissari e militari, al fine di rendere possibile una riduzione del personale militare nei luoghi del disastro. Tuttavia, non sempre si riscontra questo clima di armonia. Per esempio, il 12 febbraio, il Ministero della Guerra sollecita il Ministero dell’Interno affinché “questi [i regi commissari] facilitino ed assecondino le richieste dell’autorità militare tendenti al sollecito richiamo alle sedi delle truppe e degli ufficiali ed alla raccolta dei materiali militari tuttora colà dislocati” [18]. È evidente come la Grande guerra abbia avuto un peso non trascurabile sull’utilizzo e sulla permanenza dell’esercito nell’area colpita duramente dal sisma (Castenetto e Galadini 1999).

Il ruolo dell’esercito è un fattore di cui bisogna tenere conto dal momento che, come si è riferito precedentemente, la gestione dell’emergenza è affidata sì a una guida civile, ma i militari sono i principali e primi artefici dell’intervento. Le cifre e la loro partecipazione è massiccia, nella fase di massimo afflusso sono presenti 10.630 uomini (Castenetto e Galadini 1999). Nel volume di Giovanni Giuriati, su cui si tornerà successivamente, si può cogliere anche la parte centrale, di controllo e di organizzazione dei soccorsi, in capo effettivamente ai militari. Questo gruppo di irredentisti e nazionalisti, guidato appunto da Giuriati, giunge ad Avezzano il 15 gennaio e si presenta al generale Guicciardi, per avere notizie e indicazioni su come poter essere di supporto:

riunii i miei irredentisti sul piazzale esterno della stazione. Poscia mi presentai al generale Guicciardi, lo informai brevemente del nostro viaggio, lo pregai di mandare soccorsi a Cerchio, gli raccomandai i feriti che avevamo portato nel bagagliaio e gli domandai dove potevamo essere impiegati, fornendogli ragguagli sul numero degli uomini e sui mezzi dei quali potevamo disporre (Giuriati 1929, 211-212).

Nei primi giorni che seguono al terremoto, l’esercito, di fatto, ha in mano la completa direzione della macchina emergenziale. Questo dato offre l’opportunità per interrogarsi sul rapporto che si instaura tra esercito e strutture civili, a cui è demandata la gestione dell’emergenza. A questo proposito, nella relazione del delegato speciale del prefetto dell’Aquila Angelo Continenza, poi incaricato del commissario civile per l’amministrazione di Pescina, è indicata la modalità in cui viene a essere amministrato il territorio; e come sul territorio si possa rintracciare una sovrapposizione di mansioni, che innesca una qualche competizione tra funzionari civili e militari. Il delegato infatti si trova a condividere le operazioni con il colonnello Andrea Graziani, comandante di zona. Quindi, le due strutture si dedicano alla sistemazione delle strade, dell’elettricità, dell’acqua, del mulino, insomma a tutte quelle attività funzionali alla sopravvivenza e ripresa della vita di contrade e villaggi. In diverse occasioni, appare come tra militari e rappresentati civili non si agisca all’unisono, per esempio: “del seppellimento dei cadaveri e degli scavi si interessò il Comando del Presidio col quale, di buon accordo, temperammo l’ordine de Sig. Colonello Graziani di obbligare (manu militari) i cittadini al lavoro” [19]. Si può osservare come, in alcuni casi, l’intervento civile sia volto anche a mitigare le decisioni e l’operato militare. Un altro esempio, a cui si rimanda, è quello che pertiene agli espropri di terre, necessari per la costruzione di baracche utilizzate per il ricovero dei superstiti. In questo quadro complesso interviene Continenza, in completo disaccordo con la scelta operata dal colonnello:

per la scelta della località della Nuova Pescina sorse subito qualche dissapore tra i proprietari del luogo, ma io che conoscevo benissimo le località, stabilii che sorgessero in contrada Alto delle Vigne o Prezolo e, senza dover ricorrere ad occupazione forzosa, cominciai, nella mancanza di pubblico spazio o di terreni comunali, con lo accordo dei proprietari (…); ma non ebbi tempo di fare contratto. (…) Apprendo che il Sig. Colonnello Graziani ha occupato tutta la vigna del Dott. Freda e non una sola zona frontale e che il proprietario è rimasto turbato di una tale occupazione generale [20].

Da questo breve spaccato si può intuire come nella pratica e nella quotidianità della tragedia la relazione tra militari e struttura commissariale sia particolarmente contraddittoria e talora conflittuale.

L’utilizzo dell’esercito come forza di polizia e di soccorso ha acquistato una sua ordinarietà, eppure non può essere catalogato come un semplice fatto ordinario. Come si desume anche dalle relazioni, è innegabile che i soldati siano la maggioranza fra i soccorritori, benché non esista uno stato d’assedio: il ruolo nelle grandi calamità dei militari appare essenziale (Dickie, Foot e Snowden 2002). Sotto questo aspetto è utile ricordare le parole di Giolitti del marzo 1908, anno caratterizzato da diverse emergenze che vanno dalla conflittualità socio-politica al terremoto del 28 dicembre:

l’esercito in tempo di pace, provvede a mantenere la pace interna, provvede ai casi in cui succedono gravi disastri, inondazioni, ecc., e si rende benemerito nel paese altrettanto quanto lo può essere in un servizio, che fortunatamente è assai raro, di guerra. L’esercito, infine ha funzioni di ordine interno alle quali non è possibile rinunciare in modo assoluto, ma che si cercherà di restringere entro i limiti più ristretti. Uso della truppa e spese eccessive per le continue trasferte: due problemi su cui si continuerà a discutere molto (Fiorentino 1978, 40-41).

Nel contempo, sembra esistere all’interno del mondo militare un certo risentimento e disagio nel costante intervento in contesti non bellici, come si può anche dimostrare dall’insofferenza che si riscontra sin dall’immediato del terremoto marsicano.

Il rapporto tra esercito e popolazione civile si ripercuote nelle decisioni di tutti i giorni. Emblematica è la richiesta di cui si fa carico il sindaco di Cappadocia, piccolo comune abruzzese. Questi dispone che le reclute della classe 1895 “rimangano in paese per apportare primi soccorsi, in luogo di partire alla volta del distretto militare di Sulmona” [21]. A questa esigenza risponde direttamente il comandante del VII corpo d’armata di Ancona, il generale Angelotti, ammettendo che tale competenza è riservata all’autorità militare: “comune di Cappadocia non si ritiene opportuno aderire richiesta sindaco circa ritardo chiamata classe 1895 di quel comune” [22]. Questo breve passaggio non vuole essere sintomatico di una condizione generale, ma mostra come si sia agito, indicando in modo palese quali fossero le priorità nazionali.

In pratica, per suo stesso contrasto il terremoto, invece che funzionare da freno e ripensamento all’ingresso in guerra, sembra divenire un acceleratore del conflitto, perché assorbe il contrasto alla guerra e lo trasforma in nuove possibilità. Insomma, una guerra avversata e ora divenuta “inevitabile”.

L’esercito dovrebbe solo soccorrere e portare conforto attraverso i mezzi che possiede, anche per una questione meramente numerica. Su questa mansione, di tutta rilevanza sono le relazioni dell’esercito, per esempio quella del capitano del 1° Rgt. Granatieri, Saladino (2002, 19-20):

nello svolgimento di tale opera comandi e reparti doverono porre cura speciale a che nessun attrito ne menomasse o svisasse il beneficio, […] così i comandi grandemente si sforzarono a che le inframmettenze inopportune fossero divelte sul nascere, che passioni di parte non consigliassero una non equa distribuzione di soccorsi e che antiche rivalità fra comuni, o fra questi e le frazioni si inasprissero.

Quindi, questa opera che viene portata avanti a totale beneficio della popolazione, in un secondo momento sembra essere volta a prendere il posto della forza pubblica, affinché garantisca l’ordine stabilito. Infatti, a più di due mesi dalla calamità, si ritiene opportuno il supporto dell’esercito, per queste ragioni or ora indicate:

il regio commissario del comune di Sora […] fa presente che, quantunque per provvedere alle esigenze dell’ordine pubblico in quella città si renderebbe necessario un contingente di truppa nella misura da lui richiesta, tuttavia tale contingente potrebbe anche essere limitato a 200 uomini qualora potesse farsi completo assegnamento su questa cifra [23].

Saranno i militari a evidenziare come esista già un numero cospicuo di carabinieri sulla zona e anche a Fontana Liri, purtuttavia si muoveranno: “per accontentare in quanto è possibile i desideri del R. Commissario di Sora” [24]. Questa vicenda è sintomatica del ruolo indefinito e amplissimo che occupa l’esercito nei contesti emergenziali.

In questa cornice, se pensiamo alle pessime condizioni in cui si sono mossi i soccorsi e alla pesante sottovalutazione dell’accaduto, non è banale considerare quanto viene riportato dall’inviato dell’Avanti Mario Trozzi. Questi, sul quotidiano socialista del 20 gennaio, scrive di una situazione, di cui è venuto a conoscenza, che renderebbe palese le grandi responsabilità del governo, ovvero che l’annuncio del disastro di Avezzano sarebbe arrivato a Roma, già nella mattina del 13 gennaio, grazie a un impiegato postale, al maresciallo dei carabinieri D’Antimi e al capo stazione di Tagliacozzo:

la mattina del 13 corrente alle ore 8.30 è partito da Avezzano un treno per Roma per avvisare la capitale dell’immane catastrofe avvenuta mezz’ora prima. Quel treno è arrivato a Roma alle ore 13 […]. Lo stesso treno si è fermato dalle 8.30 alle 9.30 nella stazione di Tagliacozzo […]. Per modo che alle ore 10 al massimo, il Governo era in perfetta conoscenza dell’immane disastro e poteva subito, se voleva, provvedere pronti soccorsi […]. Il Governo può essere ritenuto responsabile del delitto civile di aver fatto morire seimila cittadini ad Avezzano (Trozzi 1915) [25].

Su altri organi di stampa e secondo le informazioni governative sembrerebbe che la notizia sia pervenuta tra la tarda mattinata e il primo pomeriggio (Botta 2013, 493-494). Non ci esprimiamo sulla veridicità o meno dell’informazione, ma è importante far emergere la paura di “censura telegrafica” provata da Trozzi, il quale decide di informare il giornale via espresso.

Un altro esempio interessante, sul funzionamento dei soccorsi, è ciò che si verifica a Sora, in base alla richiesta del viceprefetto Carbone, il quale in un telegramma datato 14 gennaio, così si esprime: “parto col commissario cav. Rubinacci per Sora per tutela ordine proprietà private. In quel circondario non sufficiente carabinieri disponibili, prego concentrare altri 100 Sora per avere dislocati ove necessari” [26]. Una situazione di imminente pericolo è quella che si prefigura ad Achille Visocchi, sottosegretario ai Lavori pubblici (LL.PP.), il quale in un telegramma dalle zone terremotate inviato al comm. Zammarano, segretario capo della Presidenza del Consiglio dei ministri, così manifesta ciò di cui è testimone: “bada che c’è molto malcontento nelle popolazioni, e nei paesi vicini si è verificata già qualche dimostrazione. Urge provvedere, perché il disastro è immane in tutta la conca del Fucino” [27]. Le motivazioni che inducono alle sollevazioni sono delle più svariate. Accade che si abbiano dimostrazioni più o meno organizzate, per mancanza di baracche o per l’assenza del minimo sostentamento:

stamane corteo circa 200 persone di qui si portava presso baracca municipio emettendo grida ostili per preteso ritardo […]. Mentre corteo sostava avanti municipio una commissione veniva da me ricevuta ed esponeva suoi desideri. […] Causa suddetta manifestazione va soprattutto ricercata nell’azione avv. Corbi che mira ad assicurarsi fin d’ora base elettorale [28].

Ciò si registra a due mesi dal terremoto, il telegramma indica chiaramente un risentimento, forse non così diffuso, ma presente, e che porta il commissario Dezza a esprimere un’indicazione politica, atipica per una figura tecnica, volta a delegittimare l’avversario.

Ancora a proposito di pericolo per l’ordine pubblico, dovuto a questioni politiche, dice la sua Salandra in data 20 gennaio:

da persone molto autorevoli mi vengono segnalate seguenti considerazioni che io trovo molto opportune: dalle visite fatte diverse località è risultato che qua e là esistono fabbricati lievemente lesionati, che con qualche riparazione o puntello potrebbero rendersi sicuramente abitabili con notevole immediato vantaggio popolazioni. Ciò specialmente verificasi nella Valle Liri (Sora, Isola del Liri ecc). Ove abbonda elemento operaio. Anche per considerazioni ordine politico converrebbe provvedere inviando sul posto ingegneri genio civile ed autorizzando anche mano opera locale [29].

Sempre il presidente del Consiglio, in un telegramma indirizzato al ministro dei LL.PP. Augusto Ciuffelli, segnala una nuova preoccupazione: “la discesa a Roma di intere popolazioni potrebbe creare un nuovo grave problema di ordine pubblico e di assistenza pubblica nella capitale” [30]. Le parole di Salandra sono rivolte, in modo particolare, a coloro che arriverebbero a Roma, pur essendo incolumi, e ciò farebbe aumentare il numero di profughi. Nelle pagine dei quotidiani si indica in diverse migliaia i rifugiati, che preoccupano non poco le autorità, per la difficile sistemazione e le condizioni in cui si presentano.

Connesso a doppio filo a questo tema è la conservazione dello spirito nazionale in un paese che si appresta a intervenire nel conflitto mondiale. Su questo argomento scende in campo anche il segretario particolare di Salandra, Nicola D’Atri, attraverso un telegramma che si potrebbe definire paradigmatico, inviato al prefetto di Bari, Giovanni Facciolati, con il quale si vuole impedire che giunga alla popolazione una realtà drammatica:

pregola personalmente richiamare subito attenzione direttore corriere delle Puglie sulla manifesta esagerazione di talune corrispondenze dai luoghi del terremoto e sulla patriottica opportunità di non svalutare con tali pubblicazioni nella pubblica opinione dentro e fuori d’Italia l’opera di soccorso apprestata dal governo [31].

Il richiamo formale arriva direttamente dalla Presidenza del Consiglio e invita ad agire in modo che non si facciano pervenire resoconti “esagerati”, i quali potrebbero comportare una messa in discussione dello stesso status quo.

Tutto questo si rintraccia anche in un opuscolo, ideato per le comunità di migranti italiani negli Stati Uniti, dal titolo: L’orrendo terremoto del 13 gennaio 1915 con illustrazioni originali e la lista dei morti e feriti che, oltre a informare, plaude all’opera di soccorso del governo: “le Autorità facevano del loro meglio per diffondere una relativa calma, sorvegliare le case abbandonate e provvedere all’opera di soccorso e salvataggio” (Fumo 1915, 5). Si trova nelle ultime pagine di questo libretto un telegramma, già pubblicato nel numero del 22 gennaio 1915 de Il Progresso Italo-Americano di New York, che recita: “di diecimila vittime del terremoto nei vari punti colpiti si conosce il nome di pochi. In molto casi è ignoto il nome dei paesi a cui esse appartengono. La stampa ha obbedito agli ordini del governo di sopprimere i nomi dei feriti inviati ai giornali e costituenti lunghe liste complete” (Fumo 1915, 27-28). Questa iniziativa governativa avrebbe la funzione di non deteriorare lo spirito nazionale, altrimenti pericolosamente indebolito e dannoso per l’ordine interno.

È sentita come cogente la questione di ordine pubblico non solo da parte istituzionale, ma anche da coloro che soccorrono. Si ritrova nei racconti degli irredentisti e nazionalisti, che accorrono in numero non esiguo tra i soccorritori. Per esempio, il testo di Giovanni Giuriati, nazionalista e con una lunga stagione da fascista (più volte ministro, presidente della Camera e anche segretario del Partito nazionale fascista), ci propone uno sguardo su quanto accade in quel territorio. L’accoglienza, che viene accordata a questo gruppo di irredentisti, fornisce una descrizione di coloro che si trovano a vivere in quella drammatica condizione: “a Cerchio [comune tra i più colpiti] trovammo la stazione invasa da una folla in tumulto […]. Appena si notano i miei legionari e si diffonde la voce che son triestini, il clamore raddoppia: ‘Ah, volete la guerra? Noi l’abbiamo già la guerra! Questa, questa è la guerra!’” (Giuriati 1929, 210). Si può ritrovare in queste parole la disperazione e la paura di essere condotti al disastro, benché la “guerra” si sia già manifestata su quel territorio.

Si può sottolineare, una volta di più, come terremoto e ostilità internazionale si intersecano tra loro, attraverso le violente parole di Francesco Coppola, nazionalista della prima ora: “Il terremoto che ieri ha devastato l’Abruzzo ed il Lazio non arresterà l’Italia sulla soglia della guerra nazionale che il destino improrogabilmente le impone. Se così non fosse, essa rivelerebbe veramente una tenue anime di femmina sbigottita, dannata irrimediabilmente alle lacrime ed alla servitù”; e continua, quasi aizzando le folle: “Essi sapranno soccorrere i loro fratelli sventurati, strapparli alla morte, lenirne i dolori, confrontarne la miseria; ma non dimenticheranno per questo che altri fratelli attendono da cinquanta anni di là dalla frontiera, nello strazio diuturno non della vita materiale, che poco importa, ma della loro anima nazionale” (Coppola 1916, 53-54). A questa sofferenza si connetterebbe la guerra attesa e liberatrice per gli italiani. Insomma, la pena nazionale avrebbe una funzione rivelatrice:

ad Avezzano ed a Sora, ci hanno riferito i nostri inviati, tra la rovina e il dolore, si parla ugualmente del terremoto e della guerra, della prossima guerra italiana. […] ribalena così […] tra la morte e la vita, la volontà primordiale della vita, nella sua forma e nel suo contenuto veramente umani di vita nazionale (Coppola 1916, 56).

Su posizioni antitetiche si colloca l’Avanti che diffonde l’allarme e tra le pagine si palesa il fatto che il disastro tellurico non sembra aver allontanato le possibilità del conflitto:

i patrioti erano intenti a preparare la guerra, ed urlavano alto la nostra forza e facevano squillare tanto le loro fanfare e sventolavano al vento tutte le nostre bandiere e ostentavano superbi il loro entusiasmo e predicavano al popolo la necessità del grande sacrificio in nome di tante cose tutte grandi! Il terremoto improvviso s’abbatté su alcuni mucchi di case. Tutta la nostra grande preparazione, la nostra grande forza apparvero manifeste. Lo dissero tutti, d’accordo. Si lasciarono morire tanti disgraziati sotto le macerie per più di un giorno, per due giorni anche […]; si lasciarono soffrire tanti superstiti […]. I patrioti si trovarono smorzate le loro grida belliche nella strozza e le loro bocche urlanti si torsero in una smorfia di dispetto. Naturalmente ora, dopo un po’ di tregua, riprenderanno il loro canto […]. Noi siamo forti, non è vero? Dunque piccoli fatti come la distruzione di alcuni paesi, non devono farci dubitare un momento sulla via tracciata (Cerini 1915).

Come si è già potuto sottolineare in precedenza, le pubbliche calamità hanno un bisogno essenziale dell’intervento dello Stato: “coloro che sono colpiti dalla sventura, lungi dall’attaccare lo Stato, allo Stato chiedono aiuto. Se i servizi pubblici sono venuti meno, è facile riorganizzarli, mandando da altri luoghi pubblici ufficiali e mezzi necessari” (De Luca 1909, 132). Insomma, “si sente prepotente il bisogno di stringere e sempre più rafforzare i vincoli della umana solidarietà e di lasciare che tutte le energie individuali possano liberamente esplicarsi per opporre il più valido argine all’irrompente flagello della natura” (De Luca 1909, 133). Sebbene il giurista Francesco De Luca abbia di fronte la tragedia del terremoto messinese e il conseguente stato d’assedio, nella Marsica si assiste a condizioni non dissimili; pertanto, si opera già in un ambiente molto propenso e ben accetto nei confronti delle “inevitabili” disposizioni governative.

In particolare, sembra esaltarsi una peculiarità propria delle emergenze naturali e del terremoto in modo speciale: la capacità di essere “dissolvitrice della società civile” e “per naturale opposizione galvanizzazione del potere” (Bevilacqua 2000, 85). Quindi, se da una parte, come indica Cerini, in quel breve articolo del 21 gennaio 1915: “la rovina ha travolto tutto: ha accomunato nella sventura orribile ricchi e poveri, ha livellato le ingiustizie sociali, ha sepolto sotto montagne di macerie migliaia e migliaia di uomini e donne, di fanciulli, ha affratellato nella disperazione i superstiti” (Cerini 1915); dall’altra garantisce alle classi dominanti un potere di intervento e una libertà d’azione che non era goduta precedentemente (Bevilacqua 1981). Quello che si verifica, poi, nella Marsica è l’accavallarsi di occasioni emergenziali, le quali forniscono un ampio e molto dilatato spazio di manovra al governo nazionale.

Conclusioni

Le calamità, come già sottolineato, hanno una portata distruttiva non solo della vita delle persone e delle cose:

d’un colpo, la complessa normalità dei rapporti consolidati era spazzata via. Con una fulmineità temporale che a differenza di altre catastrofi non consentiva l’approntamento – socialmente differenziato – di possibili strategie difensive, il terremoto rovinava sull’intero edificio sociale. E così l’organizzazione familiare, i rapporti di proprietà, le gerarchie sociali e ideologiche, le forme del diritto, le consuetudini mai discusse, i quadri più statici della mentalità collettiva, venivano inesorabilmente travolti (Bevilacqua 1981, 186-187).

Ciò, come si è avuto modo di presentare, induce la macchina governativa e amministrativa a una serie di decisioni volte in gran parte alla garanzia dell’ordine pubblico. Questa è una pratica che ha una lunga tradizione nello Stato liberale italiano. Come sosteneva Oreste Ranelletti (1904, 1142), giurista liberal-conservatore: “alle volte si manifestano condizioni eccezionali, straordinarie, in cui le misure ordinarie appaiono insufficienti a difendere l’ordine giuridico esistente e lo Stato si vede posto in serio, attuale pericolo nella sua esistenza”, un’esistenza che deve essere garantita a qualunque costo per Ranelletti. Su questo tema, soprattutto connesso allo stato d’assedio, aveva trattato in occasione del terremoto del 1908 Santi Romano, il quale utilizza in modo assolutamente “nuovo” il concetto di stato di necessità (Romano 1909). Quello a cui si vuole fare riferimento non riguarda l’utilizzo dello stato d’assedio, quanto piuttosto come in occasioni straordinarie, si deve fare di tutto per rientrare nell’ordinario, non ammettere qualsiasi mezzo: “la necessità può fare uscire temporaneamente dalla legalità, ma nella legalità si deve ritornare quando l’impero della prima cessa. Senza questo freno e questi limiti […] non c’è più modo di distinguere necessità vera dall’arbitrio e dalla confusione anticostituzionale dei poteri” (Romano 1909, 267). Pertanto, conclude Romano: “la necessità deve essere urgente, e questa urgenza sarebbe negata dallo stesso governo col differirne l’esecuzione nel momento medesimo in cui lo delibera” (Romano 1909, 271).

Lo scenario del sisma marsicano, che vede messa in atto una macchina governativa straordinaria, si inserisce in un contesto molto più grande che è quello del conflitto mondiale e in cui l’Italia risente delle difficoltà economiche e sociali.

In conclusione, il terremoto del 13 gennaio 1915 rappresenta un momento di passaggio molto rilevante, perché le scelte operate si devono leggere su più livelli e provare a comprendere le ragioni per cui si è agito in una certa modalità. Come si è tentato di mostrare, pare che le disposizioni adoperate per rispondere al sisma abbiano avuto un significato più profondo: attraverso lo stato di emergenza contingente si è agito per intervenire più profondamente nel sistema nazionale. Le decisioni hanno avuto il ruolo di tamponare momentaneamente un’esperienza drammatica e di serrare le fila nazionali, in modo da garantire un fronte interno, per fare sì che il paese fosse “pronto” all’intervento bellico. Si è imposto un “piccolo stato d’assedio”, dove i militari hanno avuto “solo”, almeno a prima vista, una funzione sussidiaria, rispetto al ruolo civile. Allo stesso tempo si è garantito il fatto che le popolazioni rimanessero nelle zone colpite e lì venissero costruiti alloggi, affinché gli sfollati non andassero a causare “problemi” e a deprimere lo spirito nazionale: “qui [Roma] comincia ad essere preoccupante arrivo profughi anche non feriti – molti potrebbero essere attratti dalla notizia che qui sono alloggiati alla meglio e nutriti. Mentre conviene fare ogni sforzo affinché popolazione superstite resti nei paesi non distrutti comunque danneggiati e riprendersi a poco a poco” [32].

In fondo, tutto viene eseguito per assicurare un bene comune superiore, che ha determinato la creazione effettiva di un “piccolo” spazio straordinario in un’occasione disastrosa. Quello che si può notare è che in queste occasioni, più ancora che in altri contesti, si agisce non in maniera standardizzata, ma i provvedimenti che vengono adottati mutano di volta in volta e divengono sempre più penetranti.

Infine, il terremoto viene descritto come uno spazio provvisorio e di caos che opera per sconvolgere una realtà quasi idilliaca, di normalità e ordine (Dickie e Foot 2002). Ma come rammenta Ignazio Silone, testimone diretto del sisma marsicano, l’emergenza si va a sommare a una ordinarietà, troppo spesso straordinaria:

nel 1915 un violento terremoto aveva distrutto buona parte del nostro circondario e in trenta secondi ucciso circa trentamila persone. Quel che più mi sorprese fu di osservare con quanta naturalezza i paesani accettassero la tremenda catastrofe. In una contrada come la nostra, in cui tante ingiustizie rimanevano impunite, la frequenza dei terremoti appariva un fatto talmente plausibile da non richiedere ulteriori spiegazioni. C’era anzi da stupirsi che i terremoti non capitassero più spesso (Silone 2021, 59-60).

Bibliografia

Abbreviazioni

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    • Comm. Commissario
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    • MI Ministero dell’Interno
    • Min. Ministero
    • PCdM Presidente del Consiglio dei ministri
    • R.D. Regio Decreto
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  • Trozzi, Mario. 1915. “La responsabilità del Governo. Una nuova gravissima conferma.” Avanti, 20 gennaio 1915.

Note

1. In particolare, sul terremoto del 28 dicembre 1908 si richiama un’ampia letteratura: Mercadante 2003; Boatti 2004; Di Paola 2005; Dickie 2008; Manica 2021.

2. A questo riguardo si accenna ad alcuni volumi: Saletta 1971; Marra e Ferri 1997; Castenetto e Galadini 1999; Botta 2013; Galadini e Varagnoli 2016; Tarquinio 2016; Barbini 2021.

3. AP, Senato, Discussioni, Legislatura XXIV, 1ª sessione, 1913-15, 10 marzo 1915.

4. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Estratto dai resoconti dei giornali, b. 305.

5. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Trascrizione telegramma, b.1, f. 2.

6. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Telegramma dell’ispettore Di Domenico, 13 gennaio 1915, ore 23, b. 1, f. 2.

7. Per un breve ricostruzione della biografia di Baratta si rinvia a: Gliozzi 1963 consultabile all’url: https://www.treccani.it/enciclopedia/mario-baratta_(Dizionario-Biografico)/. Inoltre, per uno dei primi e più sistematici lavori sui terremoti bisogna prendere in considerazione Baratta [1901] 1979.

8. AP, Camera dei deputati, Documenti, Relazione sommaria dei provvedimenti urgenti adottati dal governo per il terremoto del 13 gennaio 1915, Legislatura XXIV, sessione 1913-15, seduta 1ª dicembre 1915, p. 3. Per una maggiore accuratezza nei numeri si rimanda a: https://ingvterremoti.com/2014/01/13/speciale-99-anni-fa-il-terremoto-del-fucino/.

9. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Telegramma prefetto dell’Aquila Scamoni, 13 gennaio 1915, ore 15.30, b. 3, f. 6.

10. ACS, MI, Gabinetto, UC, Telegrammi in arrivo 1915, Telegramma del viceprefetto di Caserta Carbone, 13 gennaio 1915.

11. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Telegramma prefetto Scamoni, 16 gennaio 1915, b.1, f.1.

12. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Telegramma presidente della Deputazione provinciale dell’Aquila Gentile, 19 gennaio 1915, ore 14.30, b.1, f.1.

13. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Telegramma del Sottosegretario Visocchi, 15 gennaio, ore 16.20, b. 17, f. 34.

14. Per la rassegna completa delle disposizioni si rimanda a: AP, Camera dei deputati, Documenti, Relazione sommaria dei provvedimenti urgenti adottati dal governo per il terremoto del 13 gennaio 1915, Legislatura XXIV, sessione 1913-15, seduta 1° dicembre 1915.

15. Deputato dal 1909 al 1913, dopo la Grande guerra sarà senatore e presidente della Croce Rossa italiana: si veda Caravale 1981 consultabile all’url: https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-ciraolo_(Dizionario-Biografico)/.

16. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Truppe, Telegramma del PCdM Salandra, 25 gennaio 1915, b. 15, f. 44.

17. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Truppe, Nota colonnello Ferrari, 6 febbraio 1915, b. 15, f. 44.

18. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Truppe, Missiva Min. Guerra al MI, 12 febbraio 1915, b. 15, f. 44.

19. ASAq, Prefettura, Atti terremoto, Relazione delegato della prefettura dell’Aquila Continenza, b. 6, f. 53.

20. ASAq, Prefettura, Atti terremoto, Relazione delegato della prefettura dell’Aquila Continenza, b. 6, f. 53.

21. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Minuta del sindaco di Cappadocia, b. 1, f.3.

22. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Telegramma del generale Angelotti, 23 gennaio 1915, ore 13, b.1, f. 3.

23. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Truppe, Lettera MI al IX° Corpo d’Armata, 19 marzo 1915, b. 15, f. 44.

24. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Truppe, Missiva IX° Corpo d’Armata al MI, 24 marzo 1915, b. 15, f. 44.

25. La stessa notizia viene riportata in modo molto similare anche da: De Magistris 1915, 7-8.

26. ACS, MI, Gabinetto, UC, Telegrammi in arrivo 1915, Telegramma del viceprefetto di Caserta Carbone, 14 gennaio 1915.

27. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica, Telegramma del Sottosegretario Visocchi, 15 gennaio 1915, ore 16.20, b. 17, f. 34.

28. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Telegramma Comm. Dezza, 14 marzo 1915, ore 19, b.3, f. 6.

29. ACS, MI, DG AC, USS, Terremoto della Marsica 1915, Telegramma del PCdM Salandra, 20 gennaio 1915, b.3, f.6.

30. ACS, MI, Gabinetto, UC, Telegrammi in partenza 1915, Telegramma del PCdM Salandra, 16 gennaio 1915.

31. ACS, MI, Gabinetto, UC, Telegrammi in partenza 1915, Telegramma segretario particolare D’Atri, 16 gennaio 1915; già citato in Botta 2013, 520.

32. ACS, MI, Gabinetto, UC, Telegrammi in partenza 1915, Telegramma PCdM Salandra, 16 gennaio 1915.