Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

La “Grande Trasformazione” del XII secolo

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Abstract

Questo saggio mette in luce alcune novità emerse grazie al volume di Lorenzo Tabarrini, Estate Management around Florence and Lucca 1000-1250. I processi economici subirono un’importante accelerazione nel periodo compreso tra il 1180 e il 1230: in Toscana questa accelerazione fu il risultato di una gestione razionale della terra. Tale gestione impiegava sia i nuovi strumenti offerti dalla signoria territoriale, sia quelli ereditati dal sistema curtense. Come avvenne il cambiamento? Perché è tanto difficile osservarlo? Perché avvenne proprio in questo periodo? Quale fu il ruolo dei mercati urbani o semi-urbani? Partiremo dalle scoperte di Tabarrini e proporremo alcune piste per la ricerca futura. 

This essay discusses the new findings in Lorenzo Tabarrini’s book, Estate Management around Florence and Lucca, 1000-1250. The period between c. 1180 and c. 1230 witnessed a remarkable acceleration in the overall economic development of Tuscany; this acceleration was the result of rationalised land management, which was based on both the new tools offered by rural lordship and those inherited from the manorial system. How did this change take place? Why is it so difficult to observe it in the extant documentary record? Why did it happen at that particular time? What was the role played by urban or semi-urban markets? Tabarrini’s findings will be employed as a starting point to indicate some directions for further research.

Qualche anno fa, dopo parecchio tempo, tornavo nella sala di consultazione della mia biblioteca universitaria. Mi colpì un numero di Quaderni Storici lasciato incustodito su un tavolo. Sempre pronto a recepire gli inviti del caso, mi misi a sfogliarlo. Mi imbattei così in uno dei primi lavori di Tabarrini (Tabarrini 2016). Il tema medievale non sarebbe bastato di per sé a indurmi alla lettura. Però quel saggio incrociava un argomento e delle fonti che avevo trattato anni prima: i contratti agrari e le pergamene di Passignano (Faini 2009; Faini 2010). Lo confesso, cominciai la lettura con sguardo sussiegoso e sufficiente: l’ipotesi che avevo elaborato mi era costata anni di lavoro. Via via che procedevo, però, ricevevo un insegnamento tanto utile quanto amaro: avevo studiato i documenti sbagliati! C’era tutta una categoria di fonti alla quale non avevo riservato la necessaria attenzione: le fonti gestionali della signoria rurale. Dalla scoperta di Tabarrini derivava una ricostruzione innovativa, capace di sovvertire la mia.

L’articolo di Tabarrini risale al 2016 e il volume di cui vogliamo parlare qui è uscito nel 2023 (Tabarrini 2023). Sette anni di ricerche hanno dato modo all’autore di passare dalle ipotesi a un vero e proprio modello, ricco e persuasivo. In questi sette anni, però, mi pare che il panorama storiografico sia divenuto più ricettivo nei confronti degli studi sull’economia agraria italiana tra il XII e il XIII secolo. Le ricerche di Sandro Carocci hanno rimesso al centro dell’interesse anche il valore economico della signoria rurale nell’Italia del tardo Medioevo (Carocci 2022). Paolo Cammarosano e Chris Wickham (con accenti diversi) hanno poi stravolto quella che consideravamo la traiettoria provvidenziale dell’economia e della società italiana: dalla rivoluzione commerciale alla libertà comunale (Cammarosano 2020; Wickham 2023). Nella loro ricostruzione il motore della trasformazione non sarebbe più il commercio internazionale, i cui proventi sarebbero stati massicciamente investiti nella terra, ma una più efficiente estrazione del surplus, originata, in ultima analisi, dallo sviluppo demografico (Cammarosano) e dallo sviluppo della signoria rurale (Wickham). Per tale via viene anche ridimensionato il protagonismo delle città, a vantaggio degli attori rurali e della loro capacità progettuale: dai grandi possessori laici e religiosi alle comunità contadine. Sebbene questa rinnovata prospettiva abbia suscitato qualche perplessità (Tognetti 2023), essa permette di inserire il caso italiano nei più rodati modelli di indagine economica sulla signoria, elaborati per il resto dell’Europa occidentale (un brillante e recente esempio è Paganelli 2021).

Sia chiaro: questo non sminuisce l’originalità del lavoro di Tabarrini; e non soltanto perché il ruolo dell’economia agraria e della signoria è stato rivalutato mentre Tabarrini svolgeva le sue ricerche (e talvolta proprio grazie a esse). C’è anche un oggettivo cono d’ombra storiografico che questo libro permette finalmente di illuminare. La Toscana – studiata in questo volume – è stata infatti fino a una trentina d’anni fa il luogo privilegiato delle ricerche sulla trasformazione del paesaggio agrario in relazione all’affermarsi della mezzadria poderale, a partire dai lavori di Elio Conti (Conti 1965; Muzzi, Pinto, Pirillo e Piccinni 1987-1992; recentissima la ripresa degli studi: Borghero 2024). Possediamo, quindi, una vasta mole di dati e di ricostruzioni che possiamo, tuttavia, dividere in due grandi blocchi: quello dedicato al sistema curtense e alla sua dissoluzione nel corso del secolo XI da una parte, e quello sull’espansione della mezzadria classica tra XIV e XV secolo dall’altra. Meno sistematico è stato l’interesse sulla decisiva fase di trasformazione a cavallo tra i secoli XII e XIII (Jones 1968; Cammarosano 1979; Salvestrini 2000): non credo sia un caso.

Vengo qui a una parola che ritorna più volte nel lavoro di Tabarrini: complessità. Tener conto della multicausalità e valutare positivamente la complessità delle soluzioni sono, tutto sommato, delle novità in campo storiografico. Trenta o quarant’anni fa si preferivano ricostruzioni più lineari. Forse proprio l’aver compreso la problematicità della possibile interpretazione indusse Elio Conti alla prudenza: dopo aver studiato la fine della curtis, egli si spostò sull’indagine a tappeto sul Catasto del 1427-1429, anche se, poco prima della sua prematura scomparsa, descrisse alcune dinamiche della fase intermedia in un lavoro tanto breve quanto brillante (Conti 1985). Tabarrini non elude le difficoltà. La luce gettata nel cono d’ombra delle incompiute ricerche di Conti mostra dunque un quadro ricco, dal quale emergono, nitide, tutte le sfaccettature, le differenze, le sfumature. Ciò dimostra che la luce gettata da Tabarrini è di grande intensità.

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L’architettura del volume è chiara, snella, funzionale al problema indagato. Dopo un’introduzione sulla crescita economica e sulle trasformazioni politiche nella Toscana dei secoli XI-XIII, Tabarrini, nel primo capitolo, mette sul piatto i problemi che si trova davanti: sistema curtense, mutamento signorile, servaggio. Sebbene l’arco cronologico coinvolto nella narrazione sia molto esteso (dall’alto Medioevo al 1250), l’accelerazione che la trasformazione economica conosce tra 1180 e 1230 porta l’autore a concentrare la propria attenzione su questa fase e, più in generale, sui cambiamenti avvenuti nel corso del secolo XII. Ebbene, dal punto di vista del sistema curtense l’autore chiarisce che nel corso del secolo esso si trasforma in area lucchese e in area fiorentina, ma in maniera diversa. Mentre per l’area lucchese si può dire che sia scomparso entro il secolo XII, nell’area fiorentina si riconoscono spazi nei quali è ancora presente la gestione diretta; inoltre, qui il sistema ha offerto ai proprietari la possibilità di sviluppare una forma di controllo più stringente sui dipendenti. In questo senso, la trasformazione del sistema curtense è legata anche alla svolta signorile, per la quale Tabarrini accetta la proposta di Fiore e di Cortese, collocandola tra 1080 e 1130 (Fiore 2017; Cortese 2017). Anche per questo aspetto, però, si osservano delle differenze: il Fiorentino appare più diffusamente signorilizzato e con forme di dominio più forti rispetto alla Lucchesia. In ogni caso, nelle due aree indagate le forme di dipendenza divengono via via più formalizzate nel corso del XII secolo. Manentes nell’area lucchese e coloni del Fiorentino sono definizioni giuridiche che inquadrano una dipendenza non legata a uno stato propriamente servile, piuttosto alla gestione di un preciso spazio rurale e a una serie di obblighi connessi con la signoria. Coloni e manentes non sono servi e non sono neppure necessariamente dei lavoratori agricoli: il loro status può risultare anche relativamente elevato, indice di una certa autonomia gestionale e, più in generale, di opportunità di arricchimento nel mondo rurale.

Tracciato il quadro generale, l’autore affronta alcuni casi di studio collocati in zone circoscritte e bene individuate: per il Fiorentino l’area prossima a Firenze a valle dell’Arno e il Chianti; per la Lucchesia una zona finitima alla città, entro le Sei Miglia (Massa Macinaia), e un’area più remota, vicina alla costa (Massarosa).

Uno degli elementi scatenanti della trasformazione del secolo XII è costituito dall’inflazione. Essa fu il prodotto delle accresciute esigenze finanziarie dei poteri (Impero, governi urbani) e della conseguente crescita della pressione fiscale nella seconda metà del secolo XII (Collavini e Carocci 2012). L’erosione delle rendite monetizzate (proprio a causa dell’inflazione) spinse i grandi possessori fondiari ad accrescere il prelievo in natura. Questa maggiore pressione sui conduttori fu, naturalmente, negoziata, e avvenne, specie nel Fiorentino, attraverso la trasformazione degli obblighi di giornate lavorative in quote fisse di prodotti, soprattutto grano.

Nel corso del cinquantennio che va dal 1180 al 1230 – il cuore della ricerca di Tabarrini – si assiste a un ulteriore mutamento. Nel Fiorentino si affermò l’esazione di quote parziarie: la cessione al proprietario di una parte della produzione dell’unità agricola, un quarto, un terzo, la metà; peraltro, la quota parziaria non si limitava ai cereali, ma comprendeva anche altri prodotti, come il vino e l’olio, il che presuppone una vasta diffusione della coltura promiscua. Si affermò, dunque, qualcosa che somiglia alla successiva mezzadria. Fu un cambiamento non innocuo per il proprietario, perché comportava la necessità di un attento controllo sulla produzione nei diversi momenti dei raccolti: l’estate per le messi, l’autunno per uva, castagne e olive.

Questo sistema non era quindi un puro e semplice vantaggio per il proprietario. Tabarrini osserva che le cose sarebbero andate diversamente se i contadini fossero stati disponibili al credito e, generalmente, solvibili: in questo caso il proprietario avrebbe rinunciato alla quota parziaria a vantaggio delle quote fisse, che gli avrebbero richiesto un impegno molto minore; negli anni di carestia, qualora i contadini non avessero potuto pagare, egli avrebbe potuto elargire dei prestiti che sarebbero poi stati restituiti in natura, sotto forma di ulteriore surplus. Se le cose non andarono così, fu perché i contadini non davano garanzie di restituzione. Tornerò su questo punto, perché la mia ricostruzione divergeva in parte.

Per Tabarrini l’affermazione della proto-mezzadria non fu dovuta solo all’indisponibilità dei contadini al credito. Osservando che questi contratti proto-mezzadrili si affermarono più nel Fiorentino che in Lucchesia, l’autore offre un ulteriore elemento causale: la produzione agricola nell’ambiente del Chianti – più secco, climaticamente più estremo, più collinare e montano delle aree lucchesi indagate – era soggetta a una variabilità maggiore. Ecco perché si tendeva ad applicare un prelievo differenziato che presupponeva la coltura promiscua: per minimizzare gli effetti di un calo di produzione relativo a uno dei prodotti, i cereali, l’olio, il vino. Questa necessità era evidentemente meno avvertita in area lucchese, ove il prelievo continuò a riguardare prevalentemente il frumento.

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Dopo aver presentato, a grandi linee, gli sviluppi divergenti del Fiorentino e della Lucchesia, mi soffermerò su alcuni dati che emergono dall’indagine di Tabarrini sull’area che conosco meglio, quella fiorentina.

La prima cosa che vorrei discutere riguarda una zona specifica del Fiorentino, peraltro un po’ eccentrica rispetto al Chianti, sul quale si è maggiormente concentrato l’autore. Si tratta di un’area di bassa pianura, sulle rive dell’Arno, a valle della città. Nello specifico, l’area di Tigliano, ove il monastero cistercense di S. Salvatore a Settimo nei primi anni del 1200 possedeva delle terre. Qui Tabarrini riesce a intercettare lo strato sociale dei coltivatori, ed è una rarità per la documentazione di questa fase storica. I primi affidatari delle terre monastiche, infatti, sono quasi sempre dei livellari, ma la loro condizione è spesso molto distante da quella dei veri e propri contadini: sebbene il contratto obblighi il livellario alla coltivazione e al miglioramento della terra, di fatto egli si rivela un possidente che – a propria volta – affiderà i beni ricevuti al coltivatore vero e proprio tramite un altro contratto.

Che tipo di contratto? Ecco, questo è il vero problema, perché questi affidamenti di terra ai coltivatori sono poco attestati. Tigliano è, in questo senso, una felice eccezione: nell’anno 1200, infatti, per una serie di circostanze connesse, forse, con l’indebitamento del monastero, emerge il tipo di contratto che legava i coltivatori locali direttamente all’abbazia. Non è detto che questo contratto fosse tradizionale: può anche darsi che si trattasse di una novità. Il punto, però, è che i contadini di Tigliano dovevano dare annualmente all’abate di Settimo fino a quattro staia di frumento per ogni staio seminato. Anche presupponendo una resa molto alta per gli standard toscani, dell’1:5 per esempio (torneremo su questo punto), è evidente che i coltivatori di Tigliano erano sottoposti a un prelievo molto superiore a quello che evinciamo dai contratti di livello, ovvero la stragrande maggioranza della contrattualistica agraria per questa fase storica.

La scoperta di Tabarrini è importante, ma non solo dal punto di vista della trouvaille: la questione determinante è il metodo attraverso il quale egli è riuscito a ipotizzare le rese degli appezzamenti. Tabarrini ha infatti coraggiosamente assunto che le staiora – unità di misura delle superfici – fossero equivalenti alle staia: unità di misura di capacità impiegata per i solidi, come il frumento. Io in passato – sulla base della tradizione di studi inaugurata da Conti – avevo sempre escluso una relazione tra le due unità di misura (Conti 1965: 98-102). Ora, però, non trovo più così stringenti le argomentazioni di Conti: non voglio escludere che, in altri contesti, lo staio come misura di superfice potesse divergere dallo staio-quantità (le stesse fonti fiorentine alludono a due diverse unità di superficie: staioro “a corda” e staioro “a seme”); ma in questo specifico contesto nulla lascia credere che le due parole (per la superficie e per il canone) avessero un significato differente. Le parole sono assolutamente identiche (starium/staria), l’ho verificato personalmente, tranne la specificazione ad rectum starium Florentinum per il canone da versare. Ne deriva che l’unità di superficie potrebbe essere quella sulla quale si distende (circa) uno staio di semi e, quindi, che la possibilità di calcolare (almeno approssimativamente) le rese per altre aree del Fiorentino, ed è un’ipotesi di altissimo valore euristico.

D’altra parte, non vorrei lasciar cadere un altro elemento che emerge dall’analisi di Tabarrini. Rese dell’1:5 mi paiono notevoli per gli standard dell’Europa medievale, l’ho già detto. È impensabile che fossero le stesse di altre aree del Fiorentino e Tabarrini mostra bene come la frequente opzione per la coltura promiscua nel Chianti fosse anche un modo per minimizzare il rischio dei cattivi raccolti. Dunque, le terre più redditizie erano quelle collocate nella piana più vicina all’Arno, spesso considerata invece poco produttiva e paludosa anche per via del fatto che compare poche volte nella documentazione. Tabarrini ci fa capire che la scarsa visibilità documentaria non ha nulla a che fare con la scarsa produttività, anzi, potrebbe indicare l’esatto contrario: le terre gestite direttamente dagli enti religiosi a causa della loro fertilità – magari tramite modalità consuetudinarie e per grandi blocchi uniti – non avevano nessuna necessità di essere scambiate tramite documenti notarili. Tornerò su come sta mutando il rapporto della ricerca medievistica con la documentazione scritta, anche grazie a studi come questo.

Qualche parola sul ruolo del credito nello sviluppo della proto-mezzadria. Come ho già annunciato, la mia ricostruzione su questo punto divergeva da quella di Tabarrini: per me fu il credito elargito dai proprietari a causare un progressivo aumento del prelievo, all’inizio sotto forma di pagamento degli interessi (Faini 2010, 107). Da questo deriverebbe la scadenza dei contratti proto-mezzadrili (qualche anno), molto ravvicinata, assai di più rispetto al tradizionale set di contratti di conduzione (livelli ed enfiteusi, che valevano per intere generazioni), ma in linea con le cessioni della rendita degli appezzamenti di terreno. Questi contratti di cessione delle rendite erano in realtà un modo per contrattualizzare il pagamento degli interessi con garanzia su un capitale fondiario; essi sono una novità del secolo XII, riconosciuta e studiata da Emmanuel Huertas (Huertas 2009). Per Tabarrini, invece, il credito ha un ruolo del tutto opposto: fu la scarsa propensione al credito dei contadini e la loro solvibilità pressoché nulla che portò i proprietari a sviluppare un controllo più stringente sulla conduzione e sulla produzione, tramite la proto-mezzadria. Se è vero che i proprietari erano quasi sempre creditori nei confronti dei conduttori, è la funzione del credito che è diversa nelle nostre due ricostruzioni: mentre per me si trattava di un credito d’investimento, in una certa misura speculativo (il conduttore chiede denaro per migliorare la sua condizione o la produttività della terra), per Tabarrini si trattava di un credito elargito per necessità (cibo negli anni di crisi per i dipendenti, anticipo di liquidità per la fiscalità urbana nel caso di coltivatori liberi).

Dico subito che le argomentazioni di Tabarrini mi hanno convinto. Soprattutto mi è parso decisivo il confronto con la Lucchesia: la proto-mezzadria è una soluzione di emergenza, impiegata per luoghi nei quali la produzione non è così certa e abbondante; ecco perché in Lucchesia è poco attestata. Diventa quindi difficile immaginare – come avevo fatto io – che essa fosse il risultato di un’euforia finanziaria, di un ottimismo per il quale i contadini investivano e chiedevano prestiti, e i proprietari erano ben felici di anticipare liquidità. Qui, però, devo assumere un ruolo almeno in minima parte contrastivo e farò dunque l’avvocato del diavolo.

Ho già detto sopra che la fase tra 1180 e 1230 è identificata da Tabarrini come un momento di accelerazione nel cambiamento economico. Mi pare – tra l’altro – che questa periodizzazione sia perfettamente in linea con i risultati più recenti della ricerca e non solo per il Fiorentino (Poloni 2011; Fiore e Poloni 2024). Chiamerei questa fase storica “grande trasformazione”: è un modo per renderla più chiara e leggibile dal punto di vista dell’impatto storiografico. Si tratta, naturalmente, di un riferimento al celebre volume The Great Transformation di Karl Polanyi (Polanyi 1944). Sono infatti del tutto persuaso che in quella fase si generalizzarono in ambito italiano alcuni processi che coinvolgevano il rapporto città/campagna. Tali processi condussero al diffondersi anche nelle campagne toscane di logiche che potremmo definire “di mercato” (pionieristico in questo senso: Wickham 1987). Il primo elemento su cui riflettere è il fatto che la prima fase della grande trasformazione del 1180-1230 è caratterizzata dalla commutazione delle giornate lavorative in canoni fissi in natura. Queste commutazioni assumono la forma di carte di liberazione. Personalmente ho riconsiderato di recente l’area del Mugello e le carte del monastero camaldolese femminile di Luco. La liberazione avviene con l’esborso di una certa quota di denaro da parte dei vecchi dipendenti. La trasformazione sembra quindi innescata da due fattori convergenti: da una parte l’accresciuta disponibilità economica dei contadini (fatta anche di liquidità), dall’altra le difficoltà finanziarie degli enti religiosi (acclarate in molti casi dalla stessa ricerca dell’autore). A questa fase favorevole ai contadini, nella ricostruzione di Tabarrini ne sarebbe succeduta un’altra, nella quale gli stessi si sarebbero sottoposti a un regime contrattuale più stringente. Questo si potrebbe capire se all’inizio del Duecento i raccolti fossero stati spesso scarsi: allora i contadini avrebbero ricercato il pagamento parziario, avvertito come più equo. Ma tutto lascia credere che la produzione abbia continuato a crescere in questa fase. Il vantaggio del proprietario nell’imporre un prelievo parziario in questo contesto è evidente. Dunque, come avrebbe potuto essere superata la resistenza dei conduttori? La soluzione che avevo proposto io – l’anticipo di capitali da parte dei proprietari e il pagamento degli interessi con quote crescenti del surplus – è probabilmente frettolosa e sbagliata. Essa presuppone, tra l’altro, proprietari in crisi di liquidità al momento della “liberazione dei coloni”, divenuti generosi anticipatori di capitali pochi decenni dopo. Inoltre, non è affatto detto che i “liberati” nel primo Duecento appartenessero allo stesso strato sociale dei coltivatori poi sottoposti ai contratti di proto-mezzadria. Il punto è proprio questo, e Tabarrini ce lo mostra con chiarezza: i “liberati” non sono necessariamente i coltivatori, potrebbero essere uno strato intermedio tra i proprietari e i coltivatori. Tuttavia, mi resta una curiosità: vorrei capire meglio come reagirono i coltivatori all’imposizione di un controllo sempre più stringente sul loro lavoro. Credo che occorra un’indagine sulle comunità contadine e le loro forme di resistenza agli inizi del XIII secolo. Il materiale per una simile ricerca nel Fiorentino non manca. Il volume sulla signoria vescovile di George Dameron, per esempio, ha messo in evidenza, per i primi del Duecento, una situazione di insofferenza diffusa: in qualche caso vere e proprie rivolte sfociate nella negoziazione di autonomia per numerose comunità rurali (Dameron 1991).

C’è un’altra questione sulla quale sento di dover esprimere qualche perplessità. Questo – si badi – non riguarda il volume che presentiamo oggi, riguarda piuttosto l’orizzonte storiografico nel quale si colloca. Mi riferisco alla proposta dell’ultimo volume di Chris Wickham (Wickham 2023): un libro profondo, generoso e suggestivo, la cui lettura ha contribuito non poco a sprovincializzarmi. A me pare che la cronologia della crescita cittadina – crescita in primo luogo demografica – diverga dalla cronologia della grande trasformazione agraria riconosciuta, persuasivamente, da Tabarrini. Se la grande trasformazione risale ai decenni a cavallo del 1200, la crescita demografica di molti centri urbani italici può essere collocata al 1130, se non prima (e Wickham non è d’accordo su questo). Non parlo delle città di mare – come Pisa o Genova – sulla cui precocità siamo tutti concordi. Parlo piuttosto di città toscane dell’interno, come Firenze (Faini 2010, 41), Pistoia (Rauty 1988, 340-343), Siena (Bruttini 2023, 39-49), Arezzo (Delumeau 2012, 82-84). Queste concentrazioni di “consumatori” presuppongono forme di trasformazione dei prodotti, giacché non possiamo immaginare la crescita dei centri urbani come dovuta unicamente all’immigrazione di percettori di rendita. L’ampliamento delle mura avviene nel corso del XII secolo (talvolta già entro la metà del secolo XII), ma esso è solo l’atto finale di un lunghissimo processo di negoziazione della cittadinanza: decidersi a includere coloro che sono rimasti esclusi dalla difesa militare. La nascita dei borghi è precedente, ovviamente. La mia domanda è molto semplice: cosa veniva a fare in città tutta questa gente?

Aggiungo che l’imponente crescita di centri abitati non urbani (solo nei dintorni di Firenze: Poggibonsi, San Gimignano, Colle, Montevarchi, Prato, Empoli, Semifonte), una crescita tradizionalmente connessa a fenomeni di concentrazione insediativa d’impulso signorile (Pirillo 2004), andrebbe riletta con un’attenzione alla qualità umana degli abitanti. E si torna all’urgenza di un lavoro sulle comunità rurali. Credo comunque che su questo punto potremo confrontarci più avanti e, come si vede, questa mia convinzione nulla toglie all’eccezionale potere suggestivo del saggio di Tabarrini, anzi lo conferma.

L’ultima cosa che noto l’ho già annunciata all’inizio: in alcune zone del Fiorentino la gestione diretta fondata sulle giornate lavorative dovute dai coloni non era un fenomeno residuale nel secolo XII, ma è ancora ben attestata agli inizi del XIII. Fu proprio la conversione di queste forme forti di dipendenza in canoni fissi (e poi in quote parziarie) a determinare la grande trasformazione del 1180-1230. A questa scoperta, come ho annunciato, Tabarrini è giunto grazie all’indagine su documenti non redatti da scrittori professionisti (notai) e dunque non datati. Questi documenti sono spesso denominati “inventari” e sono stati valorizzati soprattutto dalle indagini sull’economia europea dell’alto e del pieno-medioevo. In questo caso, dunque, l’indagine si colloca nel solco di una tradizione storiografica già matura. Tuttavia, Tabarrini è stato molto acuto nel comprendere come la narrazione che ha privilegiato la documentazione notarile ordinaria abbia condotto prima Conti (e poi, si parva licet, me) a una sottovalutazione del fenomeno alla vigilia della grande trasformazione. Le forme di dipendenza semi-servile sono infatti obliterate nella documentazione notarile, ed emergono soltanto al momento della commutazione in quote fisse di prodotto nella forma di “liberazioni individuali”.

Ora, prendo lo spunto da questo per una considerazione più generale: il rinnovato interesse per le fonti gestionali, come gli inventari, va connesso al mutamento di punto di vista sulla documentazione a cui sta portando l’analisi dei beni fiscali per una fase cronologicamente non troppo anteriore. Sta emergendo come i documenti notarili possano distorcere la nostra visione del passato. Quando i beni fiscali entrano in massa nella documentazione notarile – ovvero, ancora una volta, nel corso del secolo XII – essi hanno alle spalle secoli di gestione ordinata, ma fuori dalla sfera delle scritture (Collavini e Tomei 2017; Bernardi e Internullo 2024).

Da questi due elementi traggo una morale: la documentazione notarile datata – quella sulla quale abbiamo appuntato maggiormente l’attenzione noi storici, proprio a causa dell’ancoraggio a un riferimento cronologico – è un modo tra gli altri di descrivere le cose. Probabilmente non il più diffuso, né il più utile fino al XII secolo inoltrato. Anche grazie a lavori accurati e innovativi come quello che presentiamo, possiamo immaginare nuove narrazioni del nostro passato, disancorate dalle dimensioni di spazio e di tempo a noi più familiari.

Le Operae e i giorni. La colta citazione usata da Tabarrini come titolo di uno dei suoi primi saggi aveva in nuce un potenziale ermeneutico che oggi cominciamo a comprendere.

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