Pariah
Il pariah viene descritto dalla Arendt, e prima ancora da Bernard Lazare, come un individuo che vive un'esclusione politica e sociale senza per questo essere degradato dal punto di vista morale, ed essendo lontano dalle gerarchie sociali, ha uno spiccato senso della libertà e della giustizia. Al pariah si contrappone il parvenu, che, scambiando l'eguaglianza dei diritti con i privilegi personali, ha perso la possibilità di comprendere ciò che non riguarda la propria ascesa sociale:
Tutte le vantate qualità ebraiche - il cuore ebraico, l'umanità, lo humor, l'intelligenza disinteressata - sono qualità del pariah. Tutti i difetti ebraici - la mancanza di tatto, la stupidità politica, i complessi d'inferiorità e l'avidità di denaro - sono caratteristiche dei nuovi ricchi. Ci sono sempre stati ebrei convinti che non valesse la pena scambiare la loro identità e la loro innata capacità di comprendere la realtà con la grettezza dello spirito di casta e con l'utopia delle transazioni finanziarie [1].
Affine in questo senso alla dicotomia pariah/ parvenu è la distinzione sartriana, a proposito dell'uomo inteso come "libertà in situazione", tra libertà autentica e non autentica: «L'autenticità, va da sé, consiste nel prendere una coscienza lucida e veridica della situazione, nell'assumere le responsabilità e i rischi che tale situazione comporta, nel rivendicarla nella fierezza o nell'umiliazione, a volte nell'orrore e nell'odio» [2]. L'ebreo, secondo Sartre, non sfugge a questa regola: l'autenticità, per lui, consiste nel vivere fino in fondo la sua condizione di ebreo, mentre la non autenticità nel negarla o nel cercare di eluderla; ed è proprio ispirandosi ai comportamenti degli ebrei non autentici che gli antisemiti hanno costruito la «mitologia dell'ebreo» in generale: «In una parola, gli ebrei non autentici sono uomini che gli altri uomini considerano ebrei e che hanno scelto di fuggire da questa situazione insopportabile» [3]. Possiamo perciò affermare che l'ebreo autentico si identifica col pariah che rivendica se stesso nel disprezzo che gli si porta, che si sceglie come ebreo e realizza la propria condizione ebraica; che, in altre parole, «sa di essere a parte, intoccabile, maledetto, proscritto, ed è come tale che si rivendica» [4]. La Arendt pertanto invita a riflettere sulle biografie di alcuni intellettuali ebrei vissuti tra il XIX e il XX secolo - Heine, Kafka, Chaplin, Benjamin - che sono riusciti a sviluppare il concetto di pariah in una nuova idea di uomo e che hanno difeso la loro identità dalle lusinghe dell'assimilazione, dalla tentazione di diventare parvenu [5].
[1] H. Arendt, Noi profughi, «The Menorah Journal», XXXI, gennaio 1943, ora in G. Bettini (ed.), Ebraismo e modernità, Feltrinelli, Milano, 2001, 48.
[2] J. P. Sartre, L'antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Mondadori, Milano, 1990, 79.
[3] Sartre, L'antisemitismo, cit., 81.
[4] J. P. Sartre, L'antisemitismo. Riflessioni sulla questione ebraica, Mondadori, Milano, 1990, 112.
[5] Cfr. H. Arendt, Men in Dark Times, Harcourt Brace Jovanovich, San Diego 1968 (tr. it. parziale in Il Futuro alle spalle, a c. di L. R. Santini, Il Mulino, Bologna 1995).