apolidi
Il tema degli apolidi era stato trattato dalla Arendt più volte sulle colonne di «Aufbau», e definito come il fenomeno più recente della storia moderna, non riducibile ad alcuna delle categorie
del XIX secolo e non risolvibile entro la vecchia organizzazione nazionale dei popoli; esso assume un ruolo di rilevo in Le origini del totalitarismo, come ulteriore fattore di
disgregazione dello Stato-nazione. Infatti l’ascesa dell’imperialismo e i pan-movimenti avevano minato la stabilità delle strutture politiche europee, e la disintegrazione interna degli Stati
nazionali cominciò appunto dopo la prima guerra mondiale: centinaia di migliaia di persone tra la prima e la seconda guerra mondiale, in seguito al dissolvimento degli imperi russo e
austro-ungarico, ai trattati di pace postbellici e alle rivoluzioni dell’Europa dell’Est, si ritrovarono sprovvisti della protezione di un governo statale, raccolti in minoranze nazionali
allogene rispetto agli Stati d’appartenenza o abbandonati a se stessi; le prime conseguenze dell’afflusso di centinaia di migliaia di profughi furono il venir meno del diritto di asilo, che si
era sempre indirizzato solo ai singoli e non teneva bene in conto le migrazioni dei popoli, e il fallimento delle politiche di assimilazione e naturalizzazione, previste solo come caso limite
negli Stati che non si fondano sull’immigrazione [10]. Gli apolidi e le minoranze, non godendo della protezione da parte di un governo, erano costretti a
vivere sotto la legge eccezionale dei trattati sulle minoranze o fuori di qualsiasi legge. La questione dei profughi venne pertanto affrontata dai paesi europei esclusivamente in termini di
ordine pubblico, nel senso che a un certo punto venne affidato alla polizia il compito di occuparsi dei rifugiati e di disporre direttamente delle persone.
L’inadeguatezza dei trattati di pace come strumenti per la creazione di nuovi Stati nazionali stava innanzitutto nel fatto che essi riguardavano soltanto quelle nazionalità che disponevano di una
notevole forza numerica e trascuravano tutte le altre: raggruppati più popoli in uno Stato, i trattati affidavano il governo a uno di essi e formavano poi arbitrariamente un altro gruppo di
nazionalità definite “minoranze”. Era perciò inevitabile che i popoli che avevano ottenuto la sovranità nazionale si trovassero fin dal principio a svolgere il ruolo di oppressori, e che le altre
nazionalità, alle quali non era stata concessa la dignità di Stato, considerassero i trattati come un mezzo illegittimo che assegnava il governo ad alcuni e una condizione di servitù agli altri.
Spiega la Arendt:
I trattati sulle minoranze dicevano a chiare lettere quel che fino ad allora era stato implicito nel sistema degli stati nazionali, cioè che soltanto l’appartenenza alla nazione dominante dava veramente diritto alla cittadinanza e alla protezione giuridica, che i gruppi allogeni dovevano accontentarsi delle leggi eccezionali finché non erano completamente assimilati e non avevano fatto dimenticare la loro origine etnica [11].
Essi ammettevano la trasformazione dello Stato da strumento giuridico in strumento nazionale, vale a dire “la conquista dello stato da parte della nazione”, il sopravvento degli interessi
nazionali sul diritto.
Si delinea così nelle pagine arendtiane la figura dello Heimatlose, colui che è al tempo stesso privo di una patria, di un posto nel mondo, di cittadinanza e del diritto ad avere
diritti. Fra gli Heimatlose si trovava il più vecchio gruppo di apolidi, quelli prodotti appunto dai trattati di pace del 1919, dal dissolvimento dell’Austria-Ungheria e dalla creazione
degli Stati baltici. Di questa categoria entrarono a far parte milioni di russi, centinaia di migliaia di armeni, migliaia di ungheresi, centinaia di migliaia di tedeschi e oltre mezzo milione di
spagnoli, perché va ricordato «che quasi tutti i paesi del continente adottarono nel periodo fra le due guerre una legislazione formulata in modo da consentire l’espulsione dei cittadini sgraditi
al momento opportuno» [12]. Conseguenza dell’afflusso di centinaia di migliaia di persone senza patria fu l’annullamento, da parte di tutti i paesi, delle
naturalizzazioni già accordate, nonché un certo regresso nell’assimilazione dei vecchi immigrati; gli apolidi, privi del diritto di residenza e del diritto al lavoro, si trovavano a questo punto
al di fuori di tutte le leggi ed erano passibili di pene detentive senza aver commesso alcun delitto; poiché non erano contemplati dalle leggi, potevano normalizzarsi solo commettendo
un’infrazione a una norma che fosse contemplata, cioè un delitto,
perché allora un reato diventa il modo migliore per riacquistare una specie di eguaglianza umana, sia pure come eccezione riconosciuta alla norma. […] Come delinquente l’apolide non sarà trattato peggio di un altro delinquente, cioè sarà trattato alla stregua di qualsiasi altra persona. Solo come violatore della legge egli può ottenere protezione da essa [13].
La condizione dello Heimatlose, che è innocente da ogni punto di vista, è peggiore di quella del criminale, che ha comunque diritto a un processo e rimane comunque dotato della sua personalità giuridica: l’apolide, che non può appellarsi ad alcun diritto, può essere arbitrariamente espulso o recluso, e sperimenta quel senso di irrealtà e di perdita del mondo proprio a partire dalla non corrispondenza tra il delitto commesso (sarebbe meglio dire non commesso) e la punizione che ne deriva. Questo corto circuito che si instaura fra il reato e la pena sarà caratteristico dei Lager, la cui popolazione sarà costituita quasi completamente da persone innocenti.
[10] Cfr. H. Arendt, I diseredati e gli umiliati, «Aufbau», 15 dicembre 1944, in Antisemitismo e identità ebraica. Scritti 1941-1945, a c. di M. L. Knott, Edizioni di Comunità, Torino 2002.
[11] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 382.
[12] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 387.
[13] H. Arendt, Le origini del totalitarismo, cit., p. 397.