Boom economico
Il Boom degli anni Sessanta ha significato per gli italiani un fortissimo cambiamento dal punto di vista delle abitudini alimentari: quella per il cibo rimane ovviamente una spesa necessaria, ma la rottura del rapporto stretto tra consumi e bisogni essenziali che si determina in quegli anni agisce anche su questo aspetto della vita individuale e familiare, dal momento che sotto la voce "alimentazione" iniziano a essere considerati anche beni superflui, di lusso, prima appannaggio di una parte limitata della popolazione. È l'inizio di quella trasformazione alimentare, ma anche (soprattutto) culturale, che Vercelloni chiama «modernità alimentare»: «era della sovrabbondanza e moltiplicatrice di disponibilità» (La modernità alimentare, in: Capatti, De Bernardi, Varni (eds.), Storia d'Italia. Annali 13. L’alimentazione, Torino, Einaudi, 1998, 953), caratterizzata prima di tutto dalla democratizzazione della prosperità alimentare e di conseguenza dalla conversione «dai cibi tradizionali ai simboli dell'opulenza commestibile, da un regime di frugalità all'incetta di gratificazioni orali» (ibidem). Questo spiega il piacere per tutto ciò che è nuovo, moderno, e quindi industriale: è il trionfo delle merendine per l'infanzia, dei formaggini, delle patatine, dei crackers, della margarina e delle bibite analcoliche.Ma ciò che è nuovo genera anche timori e resistenze: il paese, fondato ancora prevalentemente sull'autoconsumo, non era preparato a questa delega di funzioni (culinarie, ma anche nutritive, e quindi di cura di sé e delle altre persone che ricevono il pasto) nei confronti dell'industria alimentare. Quelli del Boom sono allora anche gli anni della pedagogia del consumo di Carosello e di tante pubblicità che cercano di costruire una marca, garante a priori della qualità e della sicurezza di ciò che si acquista: la fiducia va conquistata, spiegando e rassicurando. Soprattutto, però, sono gli anni dell'evoluzione del packaging, da una funzione essenzialmente protettiva e contenitiva a una sempre più comunicativa. Ci si rende infatti conto in questo periodo della necessità di «coniugare due mondi apparentemente antitetici: quello alimentare, in cui la ritualità, la tradizione, l'impronta artigianale sembrano essere caratteri irrinunciabili, e quello industriale, in cui la tecnologia [...] e quindi la progressiva riduzione dell'intervento dell'uomo rappresentano invece il primo presupposto» (Anceschi, Bucchetti, Il packaging dei prodotti alimentari, in: Capatti, De Bernardi, Varni (eds.), Storia d'Italia. Annali 13. L’alimentazione, Torino, Einaudi, 1998, 851). Perciò la confezione deve dichiarare il valore del prodotto-alimento, rassicurare su ciò che non è direttamente visibile. L'Italia diventa quindi, negli anni del miracolo economico, un paese alimentarmente avanzato: l'industria inventa e promuove, mentre la popolazione impara ad inscrivere il cibo industriale in una struttura e in una gerarchia personale dei beni, apprezzandone la regolarità e la comodità d'uso, con profonde conseguenze anche a livello di cultura alimentare e culinaria.