Moti del caro-pane
Per descrivere il ’700 inglese, Thompson introduce il termine di economia morale. La «[...] visione tradizionale degli obblighi e delle norme sociali, delle corrette funzioni economiche delle rispettive parti all’interno della comunità [...], nel loro insieme, costituivano l’economia morale del povero» (Società patrizia e cultura plebea, 60). Tramite questa categoria vuole analizzare un sistema dove tutti gli aspetti della vita sociale, compreso quello economico, erano subordinati a particolari principi e valori morali.E non è affatto semplice, per noi, concepire che possa esserci stato un tempo in cui, in una comunità più piccola ma più integrata, sembrava innaturale che qualcuno potesse trarre profitto dai bisogni degli altri e in cui si dava per scontato che, nei periodi di carestia, i prezzi dei beni di prima necessità dovessero rimanere al livello normale nonostante la scarsità (Ibid., 116).
La società del XVIII secolo era caratterizzata da forti legami tra le classi privilegiate e quelle lavoratrici. Le prime agivano all’interno di una tradizione paternalistica, accettata dai poveri, i quali si sentivano parte di questo sistema, in cui i diritti fondamentali - come la sussistenza ed il lavoro - venivano loro garantiti. Il popolo provava gratitudine verso il padrone, che era considerato come garante della sopravvivenza. Vigeva una sorta di compromesso.
In un certo senso governanti e folla avevano bisogno gli uni dell’altra, si sorvegliavano a vicenda, recitavano reciprocamente teatri e contro-teatri di cui erano spettatori a vicenda, moderavano reciprocamente il proprio comportamento politico [...] i governanti inglesi mostravano in pratica un sorprendente grado di permissività nei confronti della turbolenza della folla (Ibid., 303).
La concezione della società del ’700 «trovava conforto nella tradizione paternalistica propria delle autorità e che il popolo, a sua volta, rielaborava con tale determinazione che le autorità
finivano col restare, in qualche misura, prigioniere del popolo stesso» (Ibid., 60).
Successivamente, l’economia di mercato inizia a smantellare una serie di tradizioni. La nuova società conferisce piena libertà al commercio e fa derivare i prezzi dal «naturale esplicarsi della
domanda e dell’offerta [che] avrebbe massimizzato la soddisfazione di tutte le parti e fondato il bene comune» (Ibid., 71).
Thompson analizza tutte le forme di lotta che si opposero a questo processo. La precedente storiografia aveva considerato i tumulti alimentari come reazioni istintive alla fame: essi venivano
liquidati tramite un grafico che rappresentava la tensione sociale. Quest’ultimo mostrava come tutte le rivolte del ’700 coincidevano con periodi di carestia e disoccupazione. Queste
interpretazioni, secondo Thompson, erano forvianti: «[...] se continuiamo a guardare il secolo XVIIIe solo attraverso la lente del movimento dei lavoratori del XIXe, vi leggeremo solo
l’immaturità, la prepoliticità, l'infantilismo di classe» (Ibid., 297). Thompson rileva che:
In quasi tutte le azioni di piazza del secolo XVIII è possibile individuare delle nozioni di legittimità: con nozione di legittimità intendo che il comportamento degli uomini e delle donne della folla era guidato dalla comune convinzione di difendere, in tal modo, diritti e costumi tradizionali; e più in generale, dalla convinzione di godere della più ampia approvazione della comunità (Ibid., 59).
Quelle forme di lotta erano dettate da una particolare cultura, vi erano radicate pretese più complesse. «Questa cultura plebea non era, si può essere certi, né una cultura rivoluzionaria né proto-rivoluzionaria (nel senso di favorire ulteriori obiettivi che chiamassero in causa l’ordine sociale), ma non la si potrebbe neppure descrivere come una cultura deferente» (Ibid., 297).