Storicamente. Laboratorio di storia

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James R. Akermann (ed.), The Imperial Map: cartography and the mastery of Empire, Chicago and London, The University of Chicago Press, 2009, 367 pp.

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È una raccolta di saggi firmati da autori che si collocano esplicitamente nell’ambito della critica delle rappresentazioni imperiali in età moderna e contemporanea inaugurata dai due storici della cartografia Brian Harley e David Woodward. Le prime applicazioni di tale critica riguardavano i territori colonizzati dagli Europei; ora questi scritti dimostrano che il campo è stato ulteriormente ampliato.

Matthew H. Edney definisce l’Imperial Mapping come un sapere «ironico»: tale ironia risiede nel fatto che la popolazione dei territori cartografati rimane normalmente all’oscuro del fatto che un’altra popolazione, quella delle nazioni conquistatrici, venga messa in grado di conoscere la sua terra. L’autore, forte soprattutto delle argomentazioni espresse da Harley in The new nature of Maps, conclude individuando una corrispondenza biunivoca fra carta e Impero: l’Impero è tale dal momento in cui viene cartografato e la cartografia moderna nasce come costruzione dell’imperialismo.

Valerie A. Kivelson analizza una forma particolare di tale imperialismo: quello della Russia zarista. Il suo dominio, rivolto in direzione opposta a quello delle nazioni dell’Europa occidentale, si estende fra XVII e XIX secolo su enormi distese in Siberia e in Asia centrale. Kivelson analizza i caratteri peculiari di questo Impero da fonti cartografiche, in particolare gli atlanti di Semen Remezov, originale figura di cartografo ed erudito attivo in Siberia dal 1696 al 1720. Nelle sue rappresentazioni si fondono la missione politica e quella evangelizzatrice dell’espansione moscovita a est: i simboli dello zar e della religione ortodossa proteggono le città, simbolo a loro volta dell’insediamento dei coloni in territori ostili. La loro posizione è spesso raffigurata evidenziandone il valore «strategico» rispetto alla presenza di fiumi, naturali vie di espansione, e a quella di tribù o popolazioni potenzialmente pericolose.

Laura Hostetler analizza la cartografia della Cina dell’Impero Qing (1636-1911). Confrontando le carte della Cina prodotte dalle missioni gesuitiche con quelle locali, ed esaminando da fonti di archivio le sinergie esistenti fra autori stranieri e indigeni, l’autrice arriva a sfatare un luogo comune della storia della cartografia. Ossia che essa sia essenzialmente di importazione europea: in realtà la cultura cinese già possedeva un sapere cartografico, che i tecnici dell’Impero Qing integrano con le conoscenze di origine occidentale. È proprio grazie ai prodotti risultanti da tale sinergia, conclude Hostetler, che la Cina arriva a riconoscersi come territorio unitario: la carta anche in questo caso partecipa alla costruzione dell’Impero.

Neil Safier affronta il problema della definizione dei confini e dei «paesaggi etnici» nella cartografia dell’America latina. Già Alexander von Humboldt, nella sua celebre spedizione sull’Orinoco della primavera del 1800, notava come gli indigeni, peraltro «ottimi geografi», vedessero la loro concezione del territorio stravolta dall’instaurazione del confine ispano-portoghese. Questo rispondeva per sua stessa natura a una concezione europea, cioè cartografica ed estranea alla loro cultura. Analizzando carte e relazioni di viaggio dal XVI al XVIII secolo, Safier individua le diverse strategie di riempimento degli “spazi vuoti” nella carta geografica, che contemplano l’inclusione di etnie “amiche” o convertite al cattolicesimo, ma anche la completa rimozione di altre. In conclusione, sono le esigenze dell’Impero che spiegano il gap fra etno-grafia e geo-grafia in queste rappresentazioni.

D. Graham Burnett affronta il problema della «disciplina idrografica» nella Marina statunitense del XIX secolo, impegnata a costruire nel Pacifico un Empire of commerce and science per il quale le rilevazioni topografiche e idrografiche sono fondamentali. L’autore utilizza sia gli archivi della Marina sia fonti giudiziarie quali una controversia sulla lunghezza di un’isola che finisce davanti alla Corte Marziale. L’ufficiale sotto processo è accusato in sostanza di avere agito di testa propria, senza applicare alla lettera il protocollo previsto dagli ordini del superiore, indipendentemente da quale delle due misure fosse la più precisa. Da questi documenti emerge la pratica di una «cartografia armata» in cui ricognizioni del terreno e spedizioni militari contro indigeni colpevoli di avere un atteggiamento “non amichevole” vanno di pari passo. In questo modo, conclude l’a., si costituisce un «imperialismo idrografico» che applica alle operazioni conoscitive la stessa disciplina prevista per le azioni di guerra.

Michael Heffernan, infine, analizza diverse carte pubblicate da riviste popolari francesi e inglesi dal 1875 al 1925. In quella che molti storici chiamano «età degli imperi», anche l’illustrazione popolare fa la sua parte nel persuadere gli abitanti della madrepatria del carattere eroico delle esplorazioni, del diritto della propria nazione ad avere una parte della “torta” che bilanci quella delle potenze rivali, del carattere «infido» degli indigeni. In breve, di tutto l’armamentario ideologico dell’imperialismo europeo contemporaneo.