Storicamente. Laboratorio di storia

Comunicare storia

L'insegnamento della storia

Quando vengo chiamato a discutere sul tema "a che cosa serve la storia" sono percorso da un brivido, per il semplice fatto che, avendo attraversato almeno cinquant'anni della mia vita occupandomi a vario titolo (da studente, ricercatore, studioso, professore, accademico, divulgatore) di storia, a questa domanda non so dare nessuna risposta. O meglio: non so dare una risposta convincente. Per quanto mi riguarda, quindi, vi darò frammenti di risposta che sono ovviamente desunti da una riflessione storiografica che su questo tema ha visto impegnate le menti dei più grandi storici da duemila anni circa.

Non a caso, la collega Giuffredi ha citato forse lo storico che più di tutti nel Novecento si è posto questa domanda. Tra l'altro non bisogna dimenticare che l’Apologia della storia - una delle pietre miliari della riflessione degli storici, non soltanto ma soprattutto sulla storiografia, come recita appunto il suo sottotitolo - Bloch la scrisse mentre era impegnato in una cosa ben lontana dalla ricerca storica, ma forse meno dal suo mestiere di storico: militava infatti nella Resistenza francese al nazismo. Era impegnato in una lotta che si sarebbe conclusa nel modo più tragico, con la sua morte nei campi di concentramento dopo il suo arresto nel '44. Torturato e ucciso sia in quanto ebreo - anche se lui ci teneva a dire di non essere un ebreo osservante, non tanto per salvare la sua vita quanto per dar senso alla seconda parte della sua succinta biografia in cui diceva "Io non sono ebreo ma a tutti gli effetti sono francese" - sia in quanto francese. Questo intellettuale, mentre rifletteva sul mestiere dello storico, sapeva benissimo di essere impegnato in una battaglia che si poteva concludere con la morte. Non scriveva questo testo come prolusione a un corso accademico, non scriveva questo testo come insieme di lezioni rivolte a un corpo di giovani studenti francesi a metà del secolo scorso. No, lo scriveva mentre era impegnato nella lotta contro l'invasore tedesco della Francia, impegnato nella scelta di combattere la resistenza con i francs-tireurs, con i socialisti e con i comunisti. Combatte in quella formazione ben lontana dalla sua ideologia e dal suo modo di pensare, perché nulla nel suo profilo intellettuale ha niente a che vedere né col socialismo né tantomeno con il comunismo. Eppure quando combatte, lui combatte con i francs-tireurs e questa battaglia lo porterà a morire. Anche per questo l'Apologia ha una forza enorme. Infatti la domanda "a che cosa serve la storia?", Bloch se la pone in un frangente terribile della sua esistenza a dimostrazione dell'urgenza che per lui aveva rispondere ad essa. Ovviamente non tanto “a cosa serve?" quanto piuttosto "che cos'è?": Se infatti ci concentriamo su questo secondo quesito la risposta forse possiamo cominciare a trovarla.

Ma rimanendo alla prima domanda “a cosa serve?", noi sappiamo per certo a che cosa la storia non serva: a "insegnare" qualcosa che riguardi il futuro prendendolo dal passato, perché se noi dovessimo ipotizzare questo utilizzo saremmo costretti a ritenere di vivere nel mondo della perfezione. Sono circa cinquemila anni che noi dovremmo imparare dal passato per non riprodurne gli errori, invece non solo siamo vittime di una coazione a ripetere, ma spesso facciamo molto peggio di come avevano fatto i nostri avi. Quindi è chiaro che la storia non è magistra vitae. Certamente la storia è anche un insieme di grandi biografie illustri. Può essere in qualche modo pensata come un luogo in cui il racconto del passato individua delle esperienze esemplari di uomini e di donne, che hanno segnato con la loro biografia, con la loro esperienza e con i loro discorsi il progresso e l'evoluzione della comunità umana, sapendo però che quest'ultima in molte occasioni non ha seguito questi meravigliosi messaggi più o meno scritti in bottiglie che dovevano arrivare a noi. Sono arrivati, ma noi non ce ne siamo serviti e la storia ci dice anche perché noi non lo abbiamo fatto.

Da questo punto di vista la storia serve a dimostrare non solo perché l'analisi del passato non insegna come dovrebbe o come spesso gli storici si sono illusi che avrebbe potuto fare, ma ci insegna anche perché questa presunta pedagogia non sia andata a buon fine. Anzi, per molti aspetti il suo lavoro è molto più fruttuoso, analiticamente parlando, proprio in rapporto al fatto che la storia non ci insegna e quindi il passato non è un libro dentro il quale trovare delle ricette per viver bene collettivamente: è piuttosto il racconto di questa eterna impossibilità e eterna incapacità degli uomini e delle donne a trasformare gli impulsi etici, morali e civili in lezioni che valgano per tutti e che vengano accolte da tutti, diventando appunto il libro attraverso cui impariamo a vivere.

La storia ci ha insegnato e continua a insegnarci che non impariamo a vivere così, ma in altri modi, guidati da altri impulsi che riguardano fattori diversi: ci insegna ad esempio perché un paese come la Germania, che per secoli ha dato i natali a pensatori che hanno avuto un ruolo fondamentale dell'incivilimento umano, sia stato il luogo che ha prodotto Auschwitz, cioè l'emblema universale non solo del tragico ma anche dell'orribile, del non umano. Questa grande straordinaria e terribile aporia è per molti aspetti uno dei più significativi campi di indagine degli storici.

In questa parte destruens del mio ragionamento su che cosa la storia non insegna, vi è da sottolineare anche l'idea errata che il passato sia un racconto definito, una narrazione certa, in cui possiamo trovare tutti gli elementi di ammaestramento per la vita. Gli storici invece sanno che non esiste un racconto univoco di quel passato, ma esistono solo molteplici possibilità di costruire il racconto del passato: la storia infatti non è una narrazione ma un insieme di questioni interpretative che riguardano il nostro passato.

Paradossalmente sono le società nelle quali sono stati compiuti tragici errori e orrori che hanno prodotto una narrazione del passato sempre rivolta al bene. Così mentre i grandi storici dal Seicento all’Ottocento, in questa Europa che costruiva la sua egemonia mondiale, producevano un racconto e una visione della storia come un insieme di eventi, di personaggi e di fenomeni che andavano a irrobustire questa visione del passato come emporio del bene, queste stesse società rimuovevano da quel racconto l’orrore prodotto dalle guerre di conquista, dalla sottomissione di popoli ignari, dalle lotte politiche tra fazioni. Rimuovevano da questo racconto le pagine cupe di quella stessa storia, intendendola come racconto di un irreversibile processo di incivilimento, e, appunto, come magistra vitae, nella misura in cui gli storici erano interessati a produrre tale convinzione, mentre nella storia nessun elemento la giustificava.

Il bene non sta nel passato, bensì nella ricostruzione che certi storici fanno scegliendo in quel passato tutto ciò che serve a sostenere una narrazione della storia che la renda potenziale magistra vitae. Altri storici, invece, hanno imparato a lavorare al contrario, a smontare e a decostruire questo racconto. Noi sappiamo che la storia è un repertorio di fatti e di fenomeni che vengono ricostruiti, che lo storico ricostruisce avendo lui stesso diverse finalità, che attengono tutte alla sua cultura, ai suoi interessi di scienziato sociale, alle sue passioni di cittadino.

Questo elemento costitutivo del mestiere di storico lo ha messo in evidenza Bloch, ma prima di lui Benedetto Croce. Lo storico è un essere umano fortemente ancorato al suo presente ed e da lì che guarda al passato, altrimenti sarebbe un erudito o un archeologo. Lo storico non fa un'operazione di restituzione dei resti del passato, che è un'attività propria di altre discipline. Al centro del suo lavoro sta l'interpretazione, il modo in cui egli ricostruisce il passato che non c’è o non c'è più: è un tempo morto. Non c'è più la Rivoluzione francese, non c'è più la caduta dell'Impero romano e non ci sono più nemmeno il fascismo e il nazismo; sono appunto storia. Stanno in un tempo che non è un tempo biologico, non è il tempo della vita, anche se a noi, che viviamo pezzi sempre più estesi di vita man mano che la nostra esistenza si allunga, questi tratti del passato paiono tempo di vita sebbene siano tempo storico.

Questo cosa vuol dire? Se questa è storia ed è parte integrante cioè di un tempo che non c'è ma che al contempo è del passato, presente nella nostra esperienza personale e nelle tradizioni culturali che ci formano, il nostro lavoro, proprio come diceva Bloch, è animato dallo sforzo dell'orco di inseguire questo straordinario impasto di vite umane trascorse che è la storia. II lavoro dello storico si muove su un doppio binario: da un lato il suo centro è il tempo, cioè mettere in fila i fatti nel tempo e dall'altro, come diceva Pirenne - "padre" di Bloch -, "la vita nel tempo”.

Che cosa deve ricostruire lo storico? Deve ricostruire la dinamica pulsante delle relazioni umane, sociali, civili e culturali di un'epoca che non c'è e che non c'è più e che noi possiamo conoscere solo perché questa epoca, in virtù di una serie di fenomeni, ha lasciato resti più o meno significativi, resti che abbiamo scoperto nel tempo e che non abbiamo messo in un museo ma costituiscono la base indispensabile per l'operazione interpretativa. Ma anche questi resti sono un fenomeno dinamico: siamo noi contemporanei a crearli e a sceglierli.

Per esempio Bloch, nel libro più famoso che ha scritto, ci ha insegnato ad usare una fonte che prima di lui non aveva usato nessuno: il paesaggio rurale. Ha guardato al paesaggio rurale di oggi come alla fonte in cui ricercare le dinamiche evolutive della società rurale nel Medioevo. Prima di lui non l'aveva fatto nessuno, a dimostrazione del fatto che questo andare a cercare la vita e darle un ordine nel tempo è un lavoro infinito, per il semplice fatto che lo sguardo dello storico continuamente sottopone la sua lettura del passato a cambiamenti di prospettiva, di dinamica culturale, di sensibilità morale, civile e anche di passione, perché lo storico non è solamente un erudito. Può sembrare incredibile che Bloch, mentre scoppiava il mondo, si mettesse a stendere appunti sul mestiere dello storico, ma in realtà è vero il contrario: mentre entrava nel presente, usava il suo mestiere, nella sua interezza, per cercare di spiegare, a sé stesso per primo, cosa stava accadendo.

Questo guardare il passato cosa comporta? Che il passato è costantemente ricostruito. Noi non abbiamo un solo passato, abbiamo una sequenza di passati possibili, altrimenti sarebbe ridicolo continuare a studiare le stesse cose. E pur vero che il passato, come già segnalato da Pirenne, è un insieme di fatti irripetibili, e che nessun fatto della storia si ripete uguale agli altri e che quindi non possiamo, come fanno le scienze sperimentali, riprodurre il passato in laboratorio, non possiamo rifare cento volte la Rivoluzione francese per vedere come va a finire. Certo, possiamo fare tentativi controfattuali del tipo "che cosa sarebbe successo del mondo se i sanculotti non avessero preso la Bastiglia?" o "se Napoleone avesse vinto la guerra contro la Russia?". Ma questa operazione erudita non interessa a nessuno, la sostanza è che noi continuiamo a scrivere della Rivoluzione francese non solo perché troviamo altri documenti, ma perché ci “inventiamo” altri documenti. Ad esempio negli ultimi vent'anni uno dei filoni di studi sulla Rivoluzione francese è stato l'urbanistica dei quartieri di Parigi, che ha tentato di cercare dentro l'organizzazione delle strade e delle vie le risposte a interrogativi sulle dinamiche effettive della rivoluzione. Nessuno storico ci aveva pensato prima, lo ha fatto una nuova generazione. A partire da qui abbiamo forse un'altra Rivoluzione francese? No, ovviamente. Si tratta di una Rivoluzione francese più o meno vera di quella di prima? Non è né più vera né più falsa, è un'altra. Aggiungiamo un'altra conoscenza del passato non per costruire un museo che aggiunga un'altra stanza a quelle precedenti ma per riattualizzare costantemente questo passato affinché sia dentro di noi, sia figlio nostro. Non siamo più gli uomini dell'800, non siamo più francesi sulle barricate del '48, non siamo più i francesi di Bloch. Perché continuiamo a leggere quella storia? Perché il passato è così rilevante nella nostra cultura? Non in tutte le civiltà ha funzionato allo stesso modo: è la cultura europea e occidentale, classica, derivante dal mondo greco, che ha attribuito al racconto del passato una centralità identitaria. Cioè noi sappiamo di essere quello che siamo perché ci portiamo il fardello dell'uomo bianco, che non è il colonialismo di cui parla Kipling, ma è la gerla della storia che ci portiamo sulla schiena nell'attraversare il presente. La società se la porta dietro per una serie di ragioni che gli storici hanno analizzato: per il fatto che sappiamo che in quel passato possiamo riconoscere delle dinamiche storiche, civili e sociali che hanno ancora una straordinaria attualità. 

La storia interessa perché è attuale, non perché è il passato. Il compito degli storici è quello di riattualizzare costantemente il passato, di rinnovare il contenuto della gerla che deve essere portata di generazione in generazione, perché quel passato, che non insegna niente a nessuno, è però fondamentale per sapere chi siamo. Non per avere un insegnamento, ma per sapere chi siamo.

È fondamentale per sapere chi siamo ora, qui e adesso, perché noi non saremmo chi siamo se non avessimo dietro questa storia. Ripeto, non è una narrazione definita, non è come una sorta di armadio pieno di antichi abiti che per passione ci portiamo dietro: è piuttosto una sartoria nella quale quegli abiti vengono costantemente disfatti e ricuciti. È vita vissuta dai nostri avi, dalle generazioni che ci hanno preceduto e che conosciamo come nostri simili in virtù del fatto che quel racconto ci interessa. Ci interessa culturalmente perché non c'è dubbio che in quel racconto troviamo una parte viva delle nostre conoscenze, del nostro sapere collettivo. 

Chi fa il mestiere del filosofo lo sa, da Talete in poi, che questo passato serve. Questo passato è storicizzato a tal punto che noi continuiamo a considerarlo presente. E a tal punto presente che dialogare con Platone nel 2021 ha ancora senso. Oppure noi sappiamo che non saremmo quello che siamo se non avessimo avuto Leonardo, Giotto, l’arte greca, la cultura romana, Giulio Cesare. Tutto questo passato è come se fosse un immenso emporio che però siamo noi a manipolare. Ogni civiltà, ogni società manipola questo passato, lo riutilizza. E questa riutilizzazione costituisce una grande questione storica perché l'operazione di revisione e riuso si presta a grandissime manipolazioni. La storia, fin dal tempo degli antichi greci è un'arma del potere ed è stata scritta appositamente per esserlo. Se io leggo Giulio Cesare so che è un messaggio che Giulio Cesare ha pensato perché arrivi ai posteri e per utilizzarlo culturalmente e politicamente nel suo ruolo di grande figura politica dell'antica Roma in vista del suo disegno imperiale. Allora è chiaro che questa manipolazione del passato è un altro oggetto del lavoro storiografico: può esserlo fino al punto da prestarsi a far pensare che Giulio Cesare e Augusto siano gli antenati di Mussolini. Il fascismo nel '37 fece una grande mostra sulla storia di Roma che si concluse con l'esposizione della statua di Augusto ritrovata proprio nei grandi scavi promossi dal regime in vista di quell'evento. Roma, e in particolare la Roma imperiale, è proposta in questa rilettura politica operata dal fascismo non solo come origine del regime ma anche come mito identitario della nazione fascistizzata. Nello scavare gli archeologi trovarono la famosissima statua di Augusto Imperatore che venne posta nella medesima stanza di fianco alla statua di Mussolini, eretta per suggerire una sintesi ideologico-politica. In questo caso, per Mussolini, la storia doveva essere davvero magistra vitae, insegnare cioè ai cittadini che il fascismo era l'esito della storia nazionale fin dall'antica Roma, l'esito di un lungo cammino degli italici, poi diventati italiani, che a partire dal tempo di Roma avevano raggiunto l'omega del loro itinerario di destino nella dittatura fascista.

Noi sappiamo che la costruzione di questa manipolazione del passato non riguarda solo i regimi totalitari: è sempre in agguato perché la storia è stata da sempre, come abbiamo detto, un'arma del potere interessato a piegare la narrazione del passato per creare identità e consenso, con il fervido aiuto degli storici che nei secoli sono dedicati a questa operazione ideologica. Ciò accade perché lo storico, come figlio del suo tempo, può piegare la propria competenza a un'opera di regime, a un'opera politica, e questo vale per gli storici fascisti, per gli storici sovietici, ma anche per tanti storici che tra il 1840 e il 1870 hanno dipinto il Risorgimento come un'altra omega di una storia che era cominciata già nell'antichità. Per fortuna la Repubblica democratica non si è posta come omega di una storia alla perenne ricerca dei suoi momenti alfa, anche se sul rapporto dell'Italia repubblicana con il suo passato si registra una riflessione storiografica anche essa densa di ideologismi, di manipolazioni strumentali, di errori e di negazione della verità.

È importante notarlo perché tra i compiti degli storici deve sempre trovar posto il disvelamento di quelle manipolazioni e di questi usi pubblici del passato che si ripetono incessantemente e poi si trasferiscono nella storia insegnata nelle scuole e nelle Università. Svelare la manipolazione affermando però, blochianamente, la grandiosità dell'operazione di ricostruzione del passato e confrontandosi con l'ambivalenza insita nel mestiere è un'operazione grandiosa, ma segnata al contempo dalle ambivalenze dello storico, che è appunto figlio del suo tempo. Perché la storia, come ho detto prima, è sempre storia contemporanea, e quindi il passato viene guardato da occhi che sono alimentati dalle passioni e dagli interessi del tempo presente. Nessuno storico può dire di essere estraneo ad essi, e se lo dicesse mentirebbe, e i suoi lettori dovrebbero stare molto attenti a chi afferma di essere estraneo agli impulsi collettivi che hanno caratterizzato il suo tempo. È vero che la storia è ambigua e ambivalente e quindi va costruita, va continuamente arricchita di conoscenze e al contempo deve essere costantemente decostruita. Quindi lo storico che va alla ricerca della vita, come l'orco della carne umana, sa che la vita di ognuno di noi ha una sostanziale ambivalenza. Nessuno di noi è perfettamente libero da ideologismi, interessi, passioni strumentali e menzogne. 

Nessuno è perfetto e se nessuno è perfetto, tantomeno potrà esserlo la ricerca storica, che qualcuno ha prodotto. La storia è imperfetta perché imperfetto è il soggetto che l'ha prodotta.

Noi non facciamo la nostra storia: è questo il punto, nessuno di noi è fautore di storia consapevole mentre vive, perché la costruzione storica è un'operazione intellettuale che si fa ex post attraverso gli strumenti metodologici di una disciplina scientifica che è la storiografia. Il passato è restituito solo dalla storiografia. Poi ci sono le memorie divise da questa storia. Sono passati pochi giorni dalla giornata del ricordo delle foibe e dell'esodo istriano e nonostante siano passati settant'anni da quegli eventi e di essi abbiamo ora conoscenze articolate, l'opinione pubblica si divide esattamente come se fossimo negli anni ‘50, Con le stesse contrapposizioni, a dimostrazione che le memorie sono irriducibili una verità condivisa. E la storia che può costruire un racconto del passato condiviso, ma le memorie no. Se io avessi partecipato da una parte dello schieramento ad eventi radicali come la Seconda Guerra Mondiale o ad altre pagine della storia recente, sarebbe difficile convincermi che quando avevo vent'anni avevo proprio sbagliato tutto, e quindi direi che avevo ragione a comportarmi così, o per lo meno che le mie ragioni erano legittime come quelle degli altri. Alcuni mentono sapendo di mentire, ma gli esseri umani che non hanno avuto ruoli apicali, sono convinti di aver ragione onestamente. L'anno scorso sono andato a Trieste per un bellissimo dibattito sulle foibe e lì c'erano degli anziani signori che avevano vissuto quei fatti, italiani che vivevano in Istria e che poi nel ‘47-‘48 hanno abbandonato l'Istria perché non volevano vivere sotto il regime comunista di Tito. Il loro vissuto è straordinariamente denso di interrogativi: questi uomini e queste donne erano scappati da una terra che loro consideravano Italia - ma che non era più Italia in quanto la sconfitta della guerra fascista l'aveva trasformata in una provincia jugoslava - mentre in Italia non vennero accolti con entusiasmo e neppure con pietà. Queste ambiguità e contrapposizioni avevano alimentato la convinzione di una patria che li aveva abbandonati anziché difenderli, e questo sentimento permaneva nonostante la patria non potesse difenderli, avendo perso la guerra e avesse comunque fatto il possibile in loro difesa istituendo intorno a Trieste la zona A e la zona B, mentre stando alle richieste di Tito i confini del nuovo stato comunista sarebbero dovuti arrivare fino a Monfalcone. Eppure essi avevano questa percezione dell'abbandono da parte della loro patria. Pesava inoltre il fatto che erano arrivati in una terra ostile che non era la loro ma un’Italia– da Istria a Trieste ci sono 50 chilometri - che li accoglieva come esuli, come persone ambigue il cui passato era da mettere sotto osservazione, perché una vulgata voleva che tutti coloro che erano scappati fossero fascisti – cosa falsa perché molti non sapevano nemmeno dove stare e quale ideologia assumere. Tutto questo vissuto è memoria e questa memoria non la puoi coartare dicendo "un pezzo della tua memoria è vero e un altro è falso". Queste persone moriranno convinte di questo, e allora noi storici dobbiamo spiegare a questi cittadini, come agli altri che credono l'opposto, che le loro memorie hanno cittadinanza nell'Italia democratica perché le memorie sono loro, sono private. Ma bisogna spiegare che c'è una cosa pubblica: il racconto storico di quegli eventi, che non può dirsi vero, ma è un racconto che consente a tutti, se è fatto con coerenza scientifica, di riconoscersi, perché la storia non giudica chi aveva torto o ragione, la storia interpreta e spiega i fenomeni. La storia spiega la contraddittorietà di questi fatti in cui non c'è mai né bianco né nero.

Ma allora la storia è un immenso grigio? In realtà la storia è fatta di bianco e di nero e la sintesi non è il grigio, ma è la conoscenza compiuta delle sue polarità, che come tali vanno restituite alla comunità. È vero che forse quelle persone ottantenni di cui ho parlato moriranno nelle loro convinzioni, ma forse i loro figli no, i loro nipoti no. Allora c'è una speranza che quel passato diviso venga non tanto obliato in un discorso ufficiale di Stato a cui si debba credere, ma in una ricostruzione storica che consenta a tutti di capire dove e come si stava e quali sono le ragioni e quali i torti e che cosa si può costruire intorno a questa ambivalenza del passato. Solo così è possibile una condivisione del fatto che siamo cittadini dello stesso posto e quindi abbiamo dentro la nostra storia fatti che ci dividono, ma molti altri fatti che ci uniscono e l’unità è data dalla nostra capacità di ricostruire quel passato che ci portiamo dentro. La storia non è maestra di vita e non ha verità.

Nessuno storico potrà dire che il suo lavoro è vero, se lo dice è un ideologo, è un manipolatore. Il “giuramento di Ippocrate” che ogni storico dovrebbe fare con la propria coscienza deve portare lontano dall'affermazione che quanto lo storico studia sia vero. Allora ciò che studia e produce è falso? Neanche questo ha senso. Lo storico cerca la verità, ma non può sottrarsi a una aporia insolubile: mentre cerca l'approssimazione sempre più credibile e puntuale, quindi tendenzialmente sempre più vera a quel passato che studia, sa che questa verità è irraggiungibile. Ci sarà un altro storico che farà il suo mestiere, che cambierà, smentirà e ricostruirà quello che lui ha detto. Quindi il lavoro dello storico è animato da un doppio imperativo: il massimo dell'attenzione e della competenza nell'utilizzazione delle fonti e della capacità blochiana di costruirne delle nuove, ma al contempo la consapevolezza che questa massima serietà scientifica e deontologica non ci porta a verità e nemmeno a parziali verità. Ci porta a contribuire alla conoscenza di quel passato che ci portiamo nella gerla.

In molti casi possiamo anche complicare la vita dei nostri concittadini perché li obblighiamo a dire: "non è proprio così", "state attenti a dire...", ecc. Queste affermazioni ormai sono discusse nei media, dove ogni mattina ci sono almeno un milione di persone che espongono la loro verità, e su Facebook ci rendiamo conto di come ognuna di queste persone si ritenga poco meno del padre eterno. Il compito dello storico è dire che non ci sono verità, anzi il suo compito è smontare le verità di questa società basata sulla conoscenza dei media, i quali incoraggiano assai più che in passato questo fenomeno del sentirsi competenti senza esserlo. Il passato ci può servire a decostruire non solo le fake news ma anche le narrazioni di comodo degli stati, dei partiti, dei movimenti e dei gruppi di interesse che continuano a produrre e che stanno anche esse nella gerla. Noi sappiamo che al suo interno c'è roba buona che possiamo usare. Per esempio, quando noi leggiamo sui giornali che sono aumentate le disuguaglianze e viviamo in un mondo diseguale, che non è mai stato così diseguale, io porto sempre l'esempio del PIL pro capite della Cina per dimostrare quanto ciò sia poco credibile. Quando nei primi anni '50 il prodotto interno lordo pro capite dell'America era circa 15.000 dollari l'anno (ora viaggia oltre i 60.000) quello della Cina era di appena 400 dollari: un quarantesimo. Oggi i cinesi sono un miliardo e settecento milioni e hanno un reddito pro capite medio di 13000 dollari, cioè un sesto di quello degli Stati Uniti. Se guardiamo il mondo da questo osservatorio è difficile dire che il mondo è più diseguale di cinquant'anni fa, perché quei poveri hanno accelerato la corsa per arrivare ai vertici. Allora quando studiamo la disuguaglianza dobbiamo mettere in campo altre competenze, non per negare che ci siano disuguaglianze, ma senza ricorrere a quel paradigma (redditi e prodotto interno lordo) perché non è lì che sta la disuguaglianza, non è così che si coglie il meccanismo che l’alimenta nel XXI secolo. Perché anche nella bidonville del più sperduto villaggio della Thailandia c'è la televisione e c'è internet. Se tornassimo indietro di cento anni a guardare l'Italia, i contadini poveri dell'Italia rispetto al centro del loro paese avevano una distanza molto superiore rispetto a quella di quei cittadini del terzo mondo, che sono poveri ma che hanno internet e la televisione e conoscono il mondo molto meglio di quanto non lo conoscessero i contadini poveri dell'Europa che a quel tempo era il centro del mondo. Quindi la storia ci serve, non tanto a demitizzare, ma a dare una prospettiva diversa per guardare a fondo.

Per concludere ritorniamo al tema della verità. Noi non abbiamo nessuna verità in tasca e lo storico non ha nessuna verità. Però non c'è dubbio che questo non deve autorizzare a pensare che quello che fa lo storico sia una favola, una narrazione o un racconto o sia una mera opinione. La sua “verità" è il risultato un processo interpretativo che si fonda su un lavoro di ricerca simile, dal punto di vista epistemologico, a quello di uno scienziato sperimentale, salvo il fatto che gli storici lavorano con una materia costituita da eventi che non si riproducono in laboratorio: le cause della Prima guerra mondiale non possono certo essere vagliate con un’operazione sperimentale. Ma all'interno di questa ricerca che non pretende di individuare "leggi" e che non può uscire dai limiti dell'unicità di ogni fatto storico, gli sforzi scientifici degli storici non sono irrilevanti perché il processo di incremento delle conoscenze del passato negli ultimi cento anni è stato notevolissimo. Non abbiamo raggiunto la verità, ma abbiamo più conoscenze e il nostro passato è meno misterioso.

Proprio per questo la storia non può emettere sentenze, non può giudicare come se fosse un tribunale, perché lo storico alla fine di un percorso interpretativo che ha molti caratteri "indiziari" simili a quelli su cui lavora il magistrato, non è chiamato a dire chi è colpevole e chi no e non deve comminare pene. Lo storico deve invece cercare di capire e spiegare, per quanto sia possibile, perché gli attori storici abbiano fatto certe scelte e perché i fatti abbiano seguito una determinata concatenazione. Ciò non significa che nel lavoro dello storico siano assenti giudizi di valore o punti di osservazione scelti in base a opzioni etiche. Quando faccio un corso sul fascismo o sulla Resistenza i miei studenti sanno benissimo che io sono antifascista e che non ho nessuna complicità o simpatia ne confronti del totalitarismo; ciò nonostante si aspettano che il mio compito resti quello di capire e far capire cosa sia accaduto, non di definire di quali colpe si sia macchiato il fascismo o l'occupante tedesco. Da questo punto di vista il mestiere dello storico, complesso e appassionante, ha una funzione civile: fornisce strumenti che hanno la forza di proiettare la conoscenza del passato nel futuro. Ci serve per trasformare quella gerla caricata sulle nostre spalle in una lanterna di Diogene che può consentire a una società di muoversi nel futuro consapevolmente.

 

Lezione pubblica tenuta a Parma il 17 febbraio 2020 in occasione delle celebrazioni per Parma Capitale della Cultura 

Questo intervento è stato pubblicato per la prima volta su Essere persone colte, a cura di Francesco Andolfi, Diabasis, 2021.