Storicamente. Laboratorio di storia

Dibattiti

Apparentemente periferica. Prostituzione e regolamentazione della morale sessuale in età moderna

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Abstract

Prostitution has been traditionally treated as a phenomenon related to marginality, both by scholars and by observers contemporary to the periods considered in the volume. As Marzio Barbagli shows, however, it is central, intertwined with the organisation of communities. This essay reads the history of prostitution and the history of marriage from a comparative perspective, highlighting unexpected connections. Marriage is the institution that legitimises sexuality, making it decent and productive. Prostitution, too, with the various forms of regulation produced over a centuries-long history, has been the object of an economy of money and morality that incardinates social organisation.

Uno dei molti aspetti che colpiscono dell’ultimo lavoro di Marzio Barbagli è la vastità. Non solo della ricerca, confluita in un volume corposo che attraversa un arco temporale di almeno nove secoli spaziando fra Italia ed Europa, con incursioni nel Nord America, ma anche delle implicazioni di un “fenomeno” che a lungo è stato relegato nella marginalità, tanto dagli osservatori contemporanei alle epoche considerate nel volume, quanto dagli studiosi. Come emerge da questo studio, la prostituzione è invece centrale, e intrecciata con ambiti cruciali per l’organizzazione delle comunità. Lo è perché come attività di mercato occupa il cuore degli spazi urbani, di quelle città che nel corso del Duecento conoscono una fioritura senza precedenti arrivando presto a consacrare al meretricio luoghi specifici di esercizio. E lo è perché si direbbe costituire una sorta di architettura fondamentale dell’organizzazione sociale. Si tratta di un’economia non solo di denaro ma anche di costumi, sulla quale si è retta per secoli l’istituzione cardine degli equilibri comunitari, luogo della sessualità accettabile e decorosa: il matrimonio. A lungo il mercato matrimoniale ha avuto come oggetto di scambio il corpo di future spose da consegnare intatte a futuri sposi già esperti grazie all’iniziazione ricevuta per lo più cimentandosi con prostitute, donne dalla fama guastata dalla professione, quindi utilizzabili ad libitum, senza violare i codici d’onore familiare. Nessun padre, nessun fratello, nessun marito avrebbe potuto pretendere risarcimento per la profanazione di un corpo potenzialmente di tutti, il cui valore non si stima sul piano simbolico della virtù, ma su quello materiale del denaro o dell’oggetto consegnato come forma di retribuzione1. E poi, su chi altri potevano infierire soldati impegnati sul campo di battaglia, alle prese con una quotidianità disumanizzante, sradicati dalle loro comunità, e in preda al bollore del sangue che, come le nozioni biologiche diffuse all’epoca portavano a pensare - è reso particolarmente intenso dall’esercizio costante della forza? E con chi si sarebbero placate le esuberanze degli studenti, giovani maschi in mezzo ai maschi (così è stata per secoli la comunità accademica), lontani dalle famiglie d’origine, nel pieno del rigoglio della virilità? E dove si sarebbero ristorati i mercanti nei lunghi e faticosi viaggi, i diplomatici, i membri del clero, senza guastare i corpi delle donne onorate, e – questi ultimi – senza dare scandalo spargendo nella civitas il seme della lussuria che tutti corrompe (e anche quello generativo, con il conseguente onere di pretese di mantenimento e riconoscimento)? Con le donne pubbliche, nei bordelli: questa sarebbe stata a lungo la risposta delle autorità secolari e religiose che nei secoli si sono cimentate in vari modi con la gestione della prostituzione2. Cosa senza dubbio da riprovare – e la retorica della riprovazione e del disprezzo, con un pullulare di formule che poche altre aree semantiche conoscono, è elemento costante di questo paesaggio come vedremo – ma che non si può fare a meno di accettare come un male necessario, una zona oscura che preserva però da ben peggiori oscurità: lo stupro di vergini religiose e secolari, l’adulterio e la sodomia, tanto orrenda da essere coperta da nefandum, impossibile a dirsi (ma anche il sesso fra uomini fu soggetto a compravendita, e, non a caso, mai sottoposto a regolamentazione, se non di tipo integralmente repressivo).

Il grande affresco restituito da Marzio Barbagli è attraversato da una tensione costante tra queste due forze: quella dell’aspirazione alla cancellazione del meretricio, o meglio, delle donne che lo esercitano più che degli utenti a pagamento, per lo più sulla base dell’argomento della loro indecorosità; e quella della sua accettazione obtorto collo, a condizione che si applichino forme di regolamentazione, ancora una volta dei comportamenti dei soggetti che si situano sul versante dell’offerta, non della domanda.

L’indagine è costruita su un’ampia ricognizione della letteratura esistente, oltre che sul ricorso a documentazione di prima mano (in primis letteraria e precettistica a stampa, con incursioni archivistiche a Bologna, Arezzo e Lodi). Inoltre – e questo è un elemento di metodo che caratterizza l’intera impostazione – è particolarmente attenta alla dimensione quantitativa anche nell’occuparsi delle cronologie più risalenti, per le quali il dato è difficilmente reperibile salvo non si disponga di documentazione seriale, funzionale alle necessità dei soggetti che la producono. Si avrà quindi per il Medioevo e l’età moderna un’idea dell’entità del fenomeno giocoforza sbilanciata sulle istanze delle istituzioni (e si saprà dunque, in primis, di donne che esercitano il meretricio monitorate dalle comunità, come vedremo), più che sui vissuti dei soggetti, come accade invece per l’età contemporanea. Barbagli parte infatti dall’osservazione di un passato molto prossimo compiuta quando, insieme a un gruppo di colleghi di disciplina, all’inizio degli anni Duemila conduceva una ricerca sulla sessualità degli italiani, dalla quale emergeva che solo il 15% degli allora intervistati avrebbe almeno una volta nella vita pagato per avere prestazioni. La cifra era apparsa relativamente bassa, se confrontata con le percentuali stimate negli anni Sessanta del Novecento. Allora, mediando tra le regioni del Centro-Nord e quelle di Sud e Isole, ci si situava intorno al 70% (dati riportati in Appendice al volume). Cosa era cambiato nel mercato del sesso? Quali fattori erano intervenuti, in tempi recenti, a provocare un mutamento di abitudini così drastico? E quando può dirsi aver avuto inizio un mercato del sesso regolamentato e strutturato?

La ricostruzione parte dal XIII secolo europeo, come si è già osservato momento di massima espansione delle città medievali, nelle quali l’afflusso di persone spinte da ragioni di sussistenza e di studio genera una tensione di domanda e offerta che dà vita a un imponente giro d’affari. In quel quadro fortemente caratterizzato dalla mobilità, sia dal lato della domanda sia dal lato dell’offerta di sesso a pagamento3, prendono nitidezza figure presenti costantemente sulla scena del sesso mercenario: insieme alle donne prostituite per loro o, molto più spesso, per altrui volontà, i lenoni, la cui attività viene per la prima volta regolamentata nelle Siete partidas di Alfonso X el Sabio, e varie figure di mediazione, deputate al reclutamento, che potevano contare fra le proprie fila anche donne. Nella più parte dei casi erano forestieri, parte di quella massa di diseredati e sradicati che affolla le città del tardo Medioevo, provocando azioni di protesta negli invece radicati “onesti” cittadini, fruitori dei servizi offerti dalle donne in vendita e disturbati dal degrado che il giro portava con sé (anche nelle città di oggi non mancano le azioni di comitati di cittadini che protestano chiedendo tutela per il pubblico decoro, come rilevato da Giulia Garofalo Geymonat in questo dibattito). La prima iniziativa repressiva di ampio raggio viene intrapresa in Francia nel quadro dei provvedimenti della Grande Ordinanza di Luigi IX (1254), che, dopo un fallimentare tentativo di riconquista della Terrasanta, mira a riformare la morale di gerarchie e sudditi del regno, con gravi sanzioni per tutti gli attori in campo (prostitute, lenoni e clienti) ma colpendo – una costante nei secoli – con maggior severità le donne, ordinandone l’espulsione da ogni luogo. Il provvedimento abolizionista più ambizioso dell’età medievale non sortirà gli effetti sperati, ma contribuirà alla presa di controllo da parte delle istituzioni di un fenomeno nato come iniziativa di privati e che tenderà, nel corso del secolo successivo, a divenire sempre più oggetto di regolamentazione pubblica, per lo più da parte delle autorità cittadine, con una sorta di pattern comportamentale ricorrente che dalla tentata repressione totale finisce col tollerare lo “spregevole” commercio, purché si eserciti in zone specifiche, previa registrazione, tassazione e adozione di segni distintivi da parte delle donne. A loro sarebbe stato chiesto – desiderio delle autorità acutizzatosi poi nei Paesi dell’Europa cattolica – di sottoporsi a una regolare ritualità penitenziale, spurgando il sovrappiù di lordure di cui le loro anime venivano gravate in cambio dell’equilibrio della comunità, e di stare nella comunità dei devoti senza tuttavia mischiarsi, evitando, per esempio, di mostrarsi a determinate funzioni religiose. Bisogna esserci, perché nessun’anima perduta, specie se la sua corruzione è utile alla preservazione di altre, può essere del tutto respinta, privata della possibilità di tornare al gregge; ma senza mostrarsi, perché l’occhio, assai sensibile, può trascinare chi guarda nel cattivo esempio. A Siena nessuna donna del postribolo doveva portare il nome di Maria. Durante la settimana santa, le donne pubbliche potevano essere internate in convento per evitare che la città fornicasse, nel timore di un Dio iroso pronto a colpire ferocemente tutta la collettività, nel caso una parte di essa qualcuno abusasse della carne.

La separatezza necessaria è un elemento costante in questa storia che passa in rassegna decine di città europee, fra capoluoghi e capitali e centri minori, e porta una particolare attenzione alla dimensione spaziale. L’adozione di misure volte a delineare i luoghi del meretricio si verifica pressoché ovunque nel corso del Quattrocento, mediante il monitoraggio di bordelli diffusi, o l’accentramento (verrebbe da dire, concentramento) in un luogo precisamente circoscritto, come il Pobla di Valencia, una cittadella nella città, dove fino alla chiusura a metà del Seicento migliaia di presenze pullulavano in un quadro di perdizione organizzata e sotto sorveglianza: guardie all’ingresso, luci sempre accese, medici a ispezionare settimanalmente le donne impiegate (una pratica che si accentuerà nel tardo Ottocento, come osserva Matteo Loconsole in questo dibattito). Se le città sono il principale teatro della prostituzione e l’organismo in qualche modo a essa connaturato, perché senza la loro espansione non si sarebbe mai sviluppato un mercato che ancora oggi ci è familiare, in tempi di virtualizzazione delle relazioni, anche di quelle sessuali a pagamento (la più parte dell’offerta, complice la pandemia, si è spostata dalla strada alla rete), vi furono altri fattori che contribuirono al fenomeno in oggetto. Fra questi, lo strutturarsi, a partire dalla metà del XIV secolo e con crescente sistematicità nei due secoli seguenti con la militarizzazione degli Stati moderni, di eserciti mercenari, al cui seguito si contava un numero elevato di donne utilizzate per il sesso, pari quasi al personale combattente. Anche dalle comunità transitorie dei soldati le autorità tentarono, per lo più senza riuscirvi, di espellerle, ripiegando poi pragmaticamente sul loro controllo. E pure sul mobile campo di battaglia, come nelle città, si applicò dunque la distinzione, rigorosamente suddividendo le presenze femminili sulla base del loro status e della loro onorabilità, fra spose e prostitute. Su queste, a partire dalla fine del Quattrocento, graverà il sospetto che siano le principali portatrici della sifilide, malattia presto associata alla pratica sessuale che avrebbe sconvolto l’Europa della prima età moderna. Ma non a tal punto da incoraggiare le autorità a una decisa regolamentazione in senso abolizionista, o all’attuazione di politiche igieniche.

Più della paura della malattia poté, invece, la religione. Il cristianesimo aveva conosciuto posizioni rigoriste che erano state tuttavia relativizzate dal peso autoritativo di Agostino d’Ippona e Tommaso d’Aquino, ai quali si deve la formulazione e fissazione del cosiddetto principio del male minore. «Togli le prostitute dalla società e ogni cosa verrà sconvolta dalla libidine», recitava il De ordine dell’Ipponate, posizione che recepirà anche la letteratura moralistica di età moderna, pur deprecando sempre il commercio sessuale a pagamento. Lo stesso matrimonio, in virtù della sua carnalità inevitabile, era stato posto, per eredità paolina, sotto un velo di opacità («è meglio sposarsi che ardere», I Cor. 7). Nella gerarchia degli status era al gradino inferiore, un male minore da accogliere come dispositivo di contenimento dell’anarchia pulsionale propria del genere umano. In cima, la condizione di celibato e nubilato, cosa però per pochi. L’accettazione del matrimonio come rimedio necessario ai deboli, che sono la maggioranza, era stata regolamentata in diritto canonico e teologia morale di pari passo con il rafforzamento della superiorità sacerdotale dei pochi, basata su una separatezza dalla carnalità del mondo destinata a rimanere per lo più sulla carta. La frequentazione di prostitute e il concubinato erano prassi ricorrenti e spesso manifeste, e altrettanto ricorrente – coperta invece da un’omertosa complicità di casta – la sodomia e la violenza sessuale sui minori (Benadusi e Lagioia 2021). Come ricorda Marzio Barbagli, Lutero avrebbe respinto la visione gerarchica degli status portando il matrimonio – cosa sacra e santa ma non sacramentale, quindi non sottoposta a giurisdizione ecclesiastica – nella posizione superiore. Alla base, una visione intrinsecamente pessimista della natura umana, corrotta irrimediabilmente dal peccato dei progenitori, di cui la concupiscenza è il segno più eclatante (forse troppo gioiosa e solare la visione luterana della sessualità restituita dall’autore). Fuori dal dispositivo del matrimonio, il disordine certo, la rovina dell’individuo e della comunità. Questa antropologia, più che una visione conciliata della sessualità, contribuì alla rivalutazione della condizione coniugale. E per questo i bordelli, rifugio di celibi laici e religiosi, di mariti insoddisfatti dal composto, onesto, noioso commercio coniugale, di giovani scalpitanti in attesa di moglie, sarebbero stati da abolire. Così fu nella Germania luterana, a partire da quello di Wittenberg, nel convergere dell’azione di autorità cittadine e predicatori impegnati in un’intensa attività di moralizzazione. Il mercato del sesso diminuì drasticamente nelle città, venne meno nella tradizionale forma istituzionalizzata, ma sopravvisse in clandestinità, e le guerre che lacerarono l’Europa nei decenni a seguire videro la presenza costante di donne al seguito di eserciti a scopo di prostituzione. Non scomparve nemmeno in Francia, quando a partire dalla seconda metà del Cinquecento la monarchia prese provvedimenti repressivi verso bordelli e forze in essi impiegate, che si fecero più sistematici nella seconda metà del secolo successivo arrivando a sanzionare anche i loro frequentatori, specie se preti. E nemmeno in Spagna, quando nel 1623 la Prammatica di Filippo IV sancì la chiusura dei bordelli, fra accorate proteste delle comunità locali.

Se comparati sul piano dell’efficacia della lotta alla prostituzione, fra i Paesi che aderirono alla Riforma e quelli che accolsero i dettami del Concilio di Trento, non vi è dubbio che fu nei primi che il mercato del sesso uscì dai luoghi dell’ufficialità, avendo generalmente vita più difficile. Nei secondi prevalse una politica di accettazione e al contempo di moralizzazione, indirizzata in primis verso le prostitute come principali responsabili della corruzione dei costumi. A loro vennero rivolte, in tutta l’Europa cattolica, accorate omilie volte a farle pentire e cambiare vita («o sorda, et addormentata dunque, e tu, ch’ogni giorno pecchi, perché non ti punirà Iddio?» dovevano sentirsi dire le prostitute romane sotto Pio IV e Pio V; Nobile Mattei 2020, 26); per loro vennero creati istituti religiosi che, previa conferma della loro decisione a mutare stato, escluse le troppo giovani e troppo belle, o quelle che conservavano tracce di amore di sé, restituivano la fama perduta destinandole a onesto matrimonio o a vita claustrale. Ma, senz’altro, in area italiana, l’esistenza di luoghi dove esercitare il male minore, e la necessità del male minore in sé, non venne mai messa in discussione. A poco, segnala Barbagli, servì aver sanzionato la trasgressione sessuale del clero rendendo, dagli anni Venti del Seicento, un crimine perseguibile dal Sant’Uffizio la molestia sessuale in confessionale. Non servì perché, va aggiunto, non si puniva così la scorrettezza della condotta morale ma la profanazione di un sacramento (e questo contribuisce a spiegare, come mostra una ricerca recente, l’impunità di altri comportamenti sessuali abusanti come la pedofilia; Benigno e Lavenia 2021). E, possiamo aggiungere oggi, non servì perché ovunque il bersaglio delle campagne di edificazione rimasero sempre le donne.

In questa immensa e intricata vicenda, l’angolo cieco è l’acquirente, vero motore del mercato, senza cui non vi sarebbe offerta, ma verso il quale non si dispiega la stessa infaticabile attività di contenimento e mortificazione che le autorità (ecclesiastiche, civili, poi mediche) mettono per secoli in atto verso le donne che esercitano la prostituzione. Nessuna ispezione all’apparato riproduttore maschile per verificare la presenza di una malattia venerea che il cliente porterà alla donna da cui otterrà prestazioni sessuali a pagamento; nessuna omilia in occasione della festa di un inesistente santo protettore degli ex frequentatori di bordelli, magari un antico cliente pentito dopo una vita di ripetute cadute nel peccato di lussuria acquistata col denaro, corrispettivo maschile della Maddalena; relativamente pochi provvedimenti sanzionatori, in proporzione, nei confronti di cittadini vaganti per le strade del tardo Medioevo per cercare piacere fuori dalle zone consentite. E anche oggi, in regime di tolleranza della prostituzione (che in Italia è legale, mentre illegale è lo sfruttamento a essa connesso) nel dibattito pubblico l’oggetto del contendere è spesso dove e come farla esercitare, in quali zone della città concentrarla (in strade periferiche lontano dalla vista, per non turbare il decoro urbano? Riaprire le case chiuse “per farle almeno stare al caldo”, o “perché siano tutelate sul piano sanitario”) senza considerare il peso degli altri soggetti in gioco, che, con un termine generico e senza alcuna connotazione sessuale, vengono semplicemente detti “clienti”.


Bibliografia

  • Benadusi, Lorenzo, e Vincenzo Lagioia, a cura di. 2022. In segreto. Crimini sessuali e clero tra età moderna e contemporanea. Milano-Udine: Mimesis.
  • Benigno, Francesco, e Vincenzo Lavenia. 2021. Peccato o crimine. La Chiesa di fronte alla pedofilia. Bari-Roma: Laterza.
  • Lagioia, Vincenzo, Maria Pia Paoli, e Rossella Rinaldi, a cura di. 2020. La fama delle donne. Pratiche femminili e società tra Medioevo ed Età moderna. Roma: Viella.
  • Nobile Mattei, Gustavo Adolfo. 2020. «Ad meliorem frugem redire». Le meretrici tra emenda e recupero (secc. XVI-XVII). Roma: Historia et Ius.
  • Schettini, Laura. 2019. Turpi traffici. Prostituzione e migrazioni globali. 1890-1940. Roma: Biblink (nuova edizione 2023, Roma: Viella).
  • Testuzza, Maria Sole. 2021. “Vita meretricia e mercato del proprio corpo. Dal cuore del Medioevo, un capitolo di storia della soggettività giuridica.” In La sessualità nel basso Medioevo, Atti dei convegni del Centro italiano di studi sul basso medioevo (Accademia tudertina, NS 34), 343-374. Spoleto: Fondazione Centro Studi sull’Alto Medioevo.