Nel deserto del reale
Le categorie di eccezione ed emergenza svolgono un ruolo importante negli sforzi di comprensione critica delle contemporanee democrazie liberali. Tuttavia, benché tra loro contigue, esse operano entro orizzonti concettuali distinti, ordinati in quadri disciplinari differenti e tra loro in potenziale tensione. Queste categorie consentono comunque di problematizzare la relazione tra la sovranità e il governo, di comprendere il porsi dello Stato e della sua ragione nella globalizzazione, di cogliere aspetti rilevanti del governare nei sistemi democratici. Del resto, se la fine della contrapposizione tra democrazie liberali e stati socialisti è apparsa come un punto di svolta epocale, come una promessa di “spoliticizzazione” e di “neutralizzazione/tecnicizzazione” della politica, il nuovo millennio non ha tardato nel presentare il conto delle contraddizioni che tale fine aveva covato e sollecitato: il moltiplicarsi delle cosiddette “nuove guerre” e il ritorno delle “guerre totali” (Kaldor 2002, Kaldor 2014; Galli 2002; Karlin 2024), il disseminarsi dei conflitti locali e l’esplosione dei terrorismi, il susseguirsi sempre più rapido di crisi economiche e finanziarie. Dopo l’ottimismo globalista degli ultimi decenni del Novecento, l’11 settembre, col suo seguito di attentati e guerre, ha riportato l’Occidente “nel deserto del reale” (Žižek 2022) mostrando che, se anche vi fosse stata una ragione e una misura nella globalizzazione, questa sembra essersi dissolta (Schiera 2010; Colombo 2009; e su un piano differente: Bello 2002). Col nuovo millennio si è affermato un clima di dilaganti insicurezza e vulnerabilità, accompagnato dall’inflazione di parole quali crisi, eccezione ed emergenza in una spirale narrativa in cui il richiamo coattivo alla sicurezza si è costantemente ribaltato nel susseguirsi continuo delle emergenze. Come osservato da Alessandro Colombo in un recente volume sul governo mondiale dell’emergenza: “L’emergenza è diventata, per usare un altro termine inflazionato negli ultimi due decenni, una condizione doppiamente infinita” (Colombo 2022, ix); doppiamente perché, sul piano temporale, ogni emergenza è sembrata sciogliersi nella successiva “senza soluzione di continuità”, e perché, sul piano spaziale, queste emergenze appaiono “comuni”, ossia in una qualche misura condivise se non globali. Non desta allora sorpresa che dal settembre 2001 a oggi i termini eccezione ed emergenza abbiano caratterizzato tanto la riflessione politica quanto quella giuridica, assumendo un valore quasi paradigmatico nell’interpretare la logica di governo degli ordinamenti democratici nella fase storica dell’egemonia “neo-liberale” (Harvey 2007).
In questo prevalere dell’emergenza/eccezione non vi è nulla di inedito, dal momento che queste categorie, come quelle di necessità e di crisi, hanno accompagnato lungo tutto il Novecento gli sforzi di comprensione e di analisi dello Stato e del suo nucleo più intimo, la sovranità. Se è vero che oggi viviamo tempi nuovi, propriamente “poli-critici” perché segnati dall’interdipendenza strutturale delle emergenze (Proietti 2024; Koselleck 1972, Koselleck 1982; Tooze 2022), è altrettanto vero che tali categorie costituiscono luoghi e momenti concettuali “classici”, coi quali si è pensato e prodotto il moderno (Benigno e Scuccimarra 2007). Certamente la riflessione sul legame tra eccezione e democrazia si è data con prospettive metodologiche e linguaggi differenti, seppure per molti rispetti ibridi e in parziale sovrapposizione. Se la politologia e la scienza politica hanno prevalentemente interrogato la democrazia costituzionale alla luce delle questioni dei poteri di emergenza e del bilanciamento tra le istanze di sicurezza e quelle di libertà, la filosofia politica e la storia del pensiero politico hanno privilegiato le analisi delle dimensioni specifiche della necessità e della crisi, nonché la comprensione genealogica di concetti, categorie e istituzioni dell’emergenza e dell’eccezione. In ultimo, la prospettiva giuridica ha tentato di normativizzare l’eccezione per ricomprenderla nel quadro costituzionale e dello stato di diritto, a partire da una prospettiva di conservazione degli ordinamenti. Tutti questi linguaggi e queste discipline sono stati messi alla prova dalle situazioni straordinarie, se si vuole critiche, nonché plurali e diffuse, che hanno dato corpo al nuovo millennio. Si tratta di emergenze multiple: dalle rivolte nelle periferie e nelle banlieue del mondo nei primi anni Novanta ai sommovimenti politici e sociali dei primi anni Duemila; dagli attentati terroristici alle guerre che hanno attraversato il globo dopo l’11 settembre 2001; dalle crisi dei debiti sovrani e dalle emergenze economico-finanziarie, col loro carico di eccezionalismo tecnocratico e finanziario e le loro retoriche sul debito-colpa, alle drammatiche crisi migratorie. A queste sono seguite le più tipiche tra le condizioni eccezionali, la pandemia da Covid19, la guerra determinata dall’invasione russa dell’Ucraina, la recrudescenza del conflitto israelo-palestinese allargatosi oggi al Libano e alla Siria. Un indice certamente limitato a quegli eventi che più toccano l’opinione pubblica occidentale, ma che non esaurisce la serie delle guerre, dei conflitti, delle crisi umanitarie in corso. Sullo sfondo, le contraddizioni e le paure suscitate dalle crisi ambientali, da una progressiva crescita delle diseguaglianze e delle povertà, da una condizione di indebolimento della democrazia liberale e delle istituzioni internazionali multilaterali, dalle sfide poste da potenze globali emergenti, dalle spinte autoritarie e autocratiche dentro e fuori i sistemi democratici.
L’eccezione permanente e la guerra civile globale
Questo susseguirsi ininterrotto di crisi, emergenze e conflitti della più diversa natura sembra confermare quanto osservava Vittorio Dini ad apertura di una raccolta di contributi pubblicata nel 2006 dedicato al tema dell’eccezione: “Viviamo ormai, dal 11 settembre 2001, permanentemente nell’eccezione. […] l’eccezione è la regola” (Dini 2006, 7). Presupposto di questa affermazione era il rilievo assunto dal volume di Giorgio Agamben Stato di Eccezione che nel 2003, après Guantanamo, e riprendendo nel nuovo quadro politico le tesi articolate in Homo sacer (1995), aveva denunciato l’imporsi di una logica della decisione sovrana che istituiva e sospendeva la regola costituzionale attraverso la costante produzione di eccezioni. Nel presentare la sua tesi, Agamben affermava che “nell’urgenza dello stato di eccezione ‘in cui viviamo’ ” era necessario:
portare alla luce la finzione che governa questo arcanum imperii per eccellenza del nostro tempo. Ciò che l’‘arca’ del potere contiene al suo centro è lo stato di eccezione – ma questo è essenzialmente uno spazio vuoto, in cui un’azione umana senza rapporto col diritto ha di fronte una norma senza rapporto con la vita (Agamben 2003, 110).
La dimensione arcana del potere mostra un vuoto, l’eccezione appunto, che rende possibile sia un agire svincolato da norme (l’arbitrio politico), sia il prodursi di giuridicità formale che mette in forma questo agire. Peraltro, la condizione di permanente emergenza che riveste questo arcano ha una portata tanto radicale da permettere il dominio della “nuda vita” ed esercitare il controllo sul vivente in quanto tale: condizione palesatasi nelle strutture di detenzione statunitensi di Guantanamo o di Abu Ghraib. Agamben denunciava, in tal modo, una profonda solidarietà tra la democrazia e il totalitarismo basata su un comune e intimo nucleo del potere rappresentato dalla decisione che pertiene al sovrano sull’eccezione. Negli ordinamenti democratici, è questo nucleo a garantire la messa in opera di una soglia di indistinzione tra inclusione ed esclusione. L’eccezionalismo delle politiche democratiche non costituisce, allora, l’esito di un processo corruttivo, una deriva o uno sviamento della forma democratica, ma il dispiegarsi di una sua dimensione recondita. In un passo molto citato, e che merita di essere riportato per intero, Agamben rifletteva su quanto interpretato alla luce delle disposizioni prese da Hitler attraverso il Decreto per la protezione del popolo e dello Stato del 28 febbraio 1933:
Il totalitarismo moderno può essere definito […] come l’istaurazione, attraverso lo stato di eccezione, di una guerra civile legale, che permette l’eliminazione fisica non solo degli avversari politici, ma di intere categorie di cittadini che per qualche ragione risultino non integrabili nel sistema politico. Da allora, la creazione volontaria di uno stato di emergenza permanente (anche se eventualmente non dichiarato in senso tecnico) è divenuta una delle pratiche essenziali degli Stati contemporanei, anche di quelli cosiddetti democratici (Agamben 2003, 11).
La prospettiva agambeniana consolidava e approfondiva percorsi di riflessione che, prima nel contesto filosofico-politico italiano, poi in quello anglosassone, erano stati presentati da autori come Carl Schmitt e Walter Benjamin attraverso strumenti concettuali mutuati dalle opere di Michel Foucault e di Jacques Derrida [1]. In essa l’emergenza si presenta a valle di uno spostamento del piano dell’analisi dalla dimensione giuridica dell’eccezione al piano filosofico e politico della decisione sovrana sui contesti emergenziali. In tal senso, lungi dal costituire due categorie distinte, l’emergenza si presenta come il prodotto dell’eccezione intesa come l’esito della decisione sovrana circa la necessità e la sussistenza dello stato di eccezione. Una condizione descritta, infatti, come la “progressiva erosione dei poteri legislativi del parlamento, che si limita oggi spesso a ratificare provvedimenti emanati dall’esecutivo con decreti aventi forza-di-legge” (Agamben 2003, 17). Nell’orizzonte concettuale agambeniano, eccezione ed emergenza non costituiscono quindi percorsi distinti e in contrapposizione: l’eccezione è logica politica che governa le emergenze, ed entrambe hanno il loro nucleo comune – l’arcano, il fondamento mistico – nel venire poste dalla “decisione”. Il sovrano è tale, e permane in quanto tale, perché dichiara l’emergenza/eccezione, e in tal modo esso attesta, conferma se stesso in quanto sovrano. In tal senso, l’emergenza non preesiste alla decisione, essa non costituisce un fatto indipendente che si imporrebbe sul sovrano obbligandolo, in forza di necessità, a sospendere la propria configurazione ordinaria. Piuttosto essa si costituisce solo attraverso e nella decisione che per prima la istituisce. Ecco perché il vero e più delicato punto di attivazione dello stato di eccezione secondo Agamben, quello in cui esso esprime tutta la sua potenza, non è nei casi di minacce all’ordine politico che giungono dall’esterno (lo Stato di Guerra), ma nei casi in cui la minaccia è interna (lo Stato d’Urgenza): ossia in tutte quelle condizioni in cui è la possibilità della guerra civile a palesarsi (Agamben 2019). A partire da ciò è possibile intendere perché, in questa prospettiva, si dia la “prevalenza logica e politica della norma sull’eccezione” (Galli 2005, 252). Ed essendo la norma logicamente antecedente l’eccezione, questa consente sia che il sovrano attivi una funzione conservativa o restaurativa dell’ordine, sia che egli dia corpo a un processo “costituente” e trasformativo.
L’eccezione, pertanto, è l’espressione di una “potenza originaria della crisi” che è implicata nella dimensione stessa della decisione, quest’ultima intesa come la “rischiosa apertura dell’ordine sul conflitto” (Galli 2005, 253). Nell’opera di Agamben viene allora riordinata la distinzione schmittiana tra dittatura commissaria e dittatura costituente (Schmitt 1975), riconducendo (o forse riducendo) la prima alla seconda. Di qui il legame tra la prospettiva di analisi articolata in Homo Sacer, dedicata alla questione della “nuda vita”, e le categorie foucaultiane di governamentalità e di biopolitica. A ben guardare, attraverso l’eccezione il potere sovrano produce innanzitutto “forma politica”: “La prestazione fondamentale del sovrano è la produzione della nuda vita come elemento politico originale e come soglia di articolazione fra natura e cultura, tra zoé e bíos” (Agamben 2004, 203) [2]. Portando alle conseguenze più estreme le tesi foucaultiane sulla biopolitica – in particolare quella secondo cui, col passaggio dalla vecchia sovranità moderna alla governamentalità liberale, “al vecchio diritto di far morire o di lasciar vivere si è sostituito un potere di far vivere o di respingere nella morte” (Foucault 2013, 122) – nell’attuale “guerra civile mondiale” l’eccezione si afferma come il paradigma dominante di un governare essenzialmente biopolitico [3].
Sulla base di tali presupposti si può forse comprendere perché il Covid, l’emergenza “inventata” secondo Agamben [4], costituirebbe per il filosofo il punto ultimo di questo dominio. La pandemia e la sua gestione mostrerebbero, infatti, come a partire dall’imposizione del vaccino, e più in generale la nuova potenza biotecnologica, le politiche sanitarie sanciscono la presa del sovrano sulle determinazioni socio-biologiche dell’umano. Ancora, le politiche di contenimento e di limitazione della mobilità/socialità che la gestione della pandemia ha promosso diventano un elemento di disciplinamento alla vita a distanza. Questa spinta “digitalizzante”, attraverso l’imposizione di forme di riorganizzazione della vita associata, propone un progetto di smaterializzazione e virtualizzazione della vita, oltre che di accumulazione di dati e informazioni. In questa prospettiva la pandemia si rivela una costruzione politica, ossia l’esito di una decisione biopolitica essenziale che costituisce e impone un nuovo ordine [5].
La tesi dell’affermarsi di uno stato di eccezione permanente seguito agli eventi drammatici del nuovo millennio è certamente controversa, e ha prodotto una profonda polarizzazione tra i fautori di una prospettiva eccezionalista e i suoi critici [6]. Una contrapposizione che si è andata amplificando con i posizionamenti polemici assunti durante il Covid da alcuni tra i teorici dell’eccezione, tra questi innanzitutto Agamben, che si sono spinti a sostenere l’inconsistenza sanitaria del virus e la sua unica sussistenza quale produzione “biopolitica”. Tra le più recenti letture critiche a un tale approccio vi è quella di Mariano Croce e Andrea Salvatore (2021), i quali hanno sia sostenuto l’inefficacia dell’intera impalcatura concettuale dell’eccezione, sia messo in evidenza quelli che ritengono essere i limiti e le “forzature” dell’interpretazione agambeniana di Carl Schmitt. In particolare, questi due studiosi ritengono che l’eccezione sia qualcosa di politicamente e giuridicamente diverso dalle emergenze, e che, come fattispecie politica e giuridica, essa non esprima in una maniera significativa una qualità propria ed esclusiva della politica democratica contemporanea. Ancora, essi affermano che l’impianto teologico politico che la caratterizza non permette di cogliere la “forza istituente” – nel senso dell’apertura radicalmente alternativa all’esistente – che pure si presenta nelle crisi e nelle emergenze. Attraverso il ricorso alla categoria di eccezione si descrive, a loro giudizio, un presente politico tanto apocalittico e totalitario, quanto indistinto e indifferenziato. Similmente, e partendo da uno studio delle condizioni di possibilità del discorso e della ragione eccezionalisti, anche Massimiliano Guareschi e Federico Rahola hanno invece osservato come
il ricorso all’eccezione rappresenta il ricorso a una scorciatoia teorica rispetto alla necessità di rendere conto di una geografia del presente irriducibile ai criteri ordinativi della società internazionale e delle sue opposizioni costitutive (interno/esterno, militare/civile, guerra/pace) (2011, 16).
La principale obiezione che questi rivolgono alle tesi eccezionaliste è di aver risolto ogni emergenza in eccezione, prima sostanzializzando le emergenze (al plurale) nella questione dell’emergenza (al singolare), poi ontologizzando l’emergenza in eccezione.
Certamente, nel riflettere intorno alla dimensione permanentemente emergenziale della politica contemporanea Agamben esalta la continuità logica e istituzionale tra gli istituti dell’emergenza e lo stato di eccezione. Se assumiamo questa prospettiva, l’osservazione per cui le democrazie fanno ricorso solo in maniera limitata agli istituti dell’eccezione giuridica perché possono fare più utilmente ricorso a una pluralità di dispositivi differenti non risponde alla tesi agambeniana secondo cui anche nei dispositivi di emergenza (dai pieni poteri ai poteri di emergenza) si ritrova una sorta di sospensione dell’ordine costituzionale. Infatti, l’indeterminatezza concettuale e terminologica dell’eccezione, se intesa in senso filosofico e non giuridico, esprime una “soglia di indeterminazione” tra l’esercizio democratico (e costituzionale) del potere e la sua declinazione assolutistica (o totalitaria). Più convincente, a parere di chi scrive, è l’osservazione per cui è proprio il gesto filosofico che riconduce l’emergenza all’eccezione, operazione che si basa sulla chiusura della politica intorno al momento della decisione sovrana, a costituire la debolezza della prospettiva agambeniana. E questo per due ragioni. La prima ragione concerne il piano dell’analisi politica e costituzionale, perché una simile posizione attesta l’ordine costituzionale e politico come rigidamente monista e sostanzialmente indiviso. La seconda ragione riguarda il piano dell’interpretazione critica della società, poiché in essa il pluralismo sociale e politico delle nostre società viene ridotto a elemento secondario e accessorio di un centro decisivo e indistinto, lo Stato, che della società sarebbe il cuore. In tal modo, viene affermandosi una prospettiva secondo cui, a fronte di quella soglia di indistinzione che caratterizza il “politico”, la totale e rigida distinzione tra questo politico e la “politica” sembra intesa come espressione viva del pluralismo sociale. Al tutto pieno del Politico diviene possibile opporre solo un gesto assoluto – assolutamente negativo – che esaurisce, e svuota, ogni possibile politica pratica.
L’eccezione liberale tra ordinario e straordinario
Come abbiamo visto al centro di una riflessione sul rapporto tra eccezione ed emergenza, quando non si accolga il continuismo agambeniano, vi è innanzitutto una questione epistemica che concerne i rispettivi statuti. In questo confronto gioca un ruolo cruciale l’assenza di definizioni univoche di eccezione. Assenza resa evidente dalla pluralità dei dispositivi politici e istituzionali che vengono solitamente ricompresi nell’eccezione: lo Stato di Guerra, lo Stato d’Assedio, lo Stato d’Urgenza, la Legge marziale, i Pieni poteri. In effetti, né l’eccezione ha una chiara caratterizzazione epistemologica (essa si configura in quanto tale in relazione a una norma che essa sospende o altera radicalmente), né lo stato di eccezione esprime una dimensione in senso stretto giuridica o istituzionale, rappresentando piuttosto una categoria filosofico-politica che mira a portare a sintesi e a razionalizzare (entro una logica di sovranità) l’insieme degli istituti giuridici e dei poteri di emergenza di cui gli ordinamenti sono dotati. Una definizione molto generale è quella secondo cui con stato di eccezione si intendono tutte quelle situazioni nelle quali lo Stato, per garantire la propria autoconservazione, deve far ricorso a strumenti o mezzi straordinari che scavalcano o sospendono il quadro ordinario della sua azione (Kervégan 1996, Galli 2005, Lazar 2020). Questa definizione descrive un percorso secondo cui, da una condizione di grave crisi, ne deriva una reazione straordinaria finalizzata alla salvaguardia e alla conservazione dell’ordine politico. Questa definizione però non qualifica il tipo di intervento emergenziale o eccezionale che lo Stato, o il suo governante, dovrebbe assumere, ma si limita a sancire che, per la salvezza dello Stato e della sicurezza dei suoi cittadini, “anything shall be held necessary, and legal by necessity” (Parker 1640, 7).
Nella prospettiva giuridica liberale l’eccezione implica, invece, la sospensione più o meno prolungata della condizione politica ordinaria. A questa sospensione segue l’alterazione momentanea dello stato di diritto e/o della divisione dei poteri, nonché il ricorso a deroghe alle leggi ordinarie. Lo stato di eccezione è però vincolato al ripristino dell’ordine e non dovrebbe intaccare in via permanente lo stato di diritto o la legittimità democratica dell’ordinamento. In altri termini, esso non comporta la permanenza sine die dell’istituto eccezionale o il mantenimento di una condizione di indistinzione tra il dentro e il fuori del diritto. L’eccezione liberale è interpretabile per questo come la forma moderna dello stato di necessità romano, nello specifico dell’istituto della dittatura, e di questo ne assume i tratti della temporaneità (Saint-Bonnet 2001, Portinaro 2019) [7]. La ragione è che l’eccezione si giustifica alla luce di una separazione netta tra ordinario e straordinario ed esprime una funzione eminentemente conservativa o, se si vuole, restaurativa dell’ordine. I sistemi costituzionali dell’eccezione di matrice liberale sono, per questo, sistemi rigidi, tesi a governare ciò che Giuseppe Marazzita ha descritto come crisi costituzionali conservative (2003, 149-155). Nei contemporanei sistemi democratici questi istituti sono riconosciuti, in via procedurale, all’interno dell’architettura costituzionale e restano dormienti, ma potenzialmente attivabili, in caso di necessità. Come abbiamo premesso, essi si basano sul presupposto della necessità di istituire due regimi distinti, uno ordinario e uno straordinario, spesso attribuendo ad attori istituzionali differenti, ma interni all’ordinamento, la prevalenza dell’azione nell’uno e nell’altro caso, secondo una procedura che è rigidamente fissata ex ante. Ciò però implica che negli ordini politici cosiddetti monocratici, quelli per esempio a prevalenza parlamentare o quelli a carattere dispotico, e in generale tutti quelli che non hanno uno specifico regime di emergenza, la logica dell’eccezione perda il proprio senso costituzionale. In questi casi il governo ordinario e quello straordinario si distinguono piuttosto per “grado” che per “sostanza”.
Se entriamo nel merito della pluralità degli strumenti che questi regimi possono attivare nei casi di necessità è facile rendersi conto che non vi sono solo gli istituti che seguono la logica della deroga, ma vi è anche quell’insieme di poteri che si attiva in casi particolari, e poteri che possono essere descritti genericamente come “di emergenza”. Essi hanno quali loro radici storiche quelle prerogative che nei sistemi politici di antico regime erano attribuite al re, o ai magistrati politici, nell’esercizio di un governo discrezionale secondo “necessità”. La lunga storia del costituzionalismo moderno ha prima contrastato, poi inglobato nelle forme del governo legittimo, sia le prerogative che i diversi sistemi politici o politico-giuridici attribuivano ai monarchi e ai più importanti magistrati politici, sia le diverse istanze del governo prudenziale espresse dalla prerogativa assoluta dei re, offrendo a esse una forma di legalità. È opportuno notare che in questa tipologia possono forse rientrare anche quei poteri emergenziali definiti da Carl Schmitt come commissari che, al pari dei poteri d’emergenza o regolamentari,
surrogano le norme ordinarie (nel significato specifico di subrogare, fare eleggere qualcuno al posto di un altro nei comizi legislativi e giudiziari dell’antica Roma) e depotenziano il potere legislativo (Borrelli 2006, 17).
Questi poteri, la cui natura è discrezionale, rivelano uno dei punti di maggiore tensione degli ordinamenti democratici magistralmente individuato, per l’Italia, da Norberto Bobbio. Infatti, quale esito di una lunga riflessione sull’esperienza politica italiana, così segnata dal ricorso ai poteri di emergenza, dai terrorismi e dalle politiche occulte, questi osservava come “Tra le promesse non mantenute dalla democrazia […] la più grave, e più rovinosa, e, a quanto sembra, anche la più irrimediabile, è proprio quella della trasparenza del potere” (Bobbio 2009, 363). Secondo Bobbio sebbene la democrazia si debba caratterizzare per la sua visibilità anche quando è necessitata a fare ricorso a politiche secretive e di sicurezza (Bobbio 1980, Bobbio 2011), essa è inevitabilmente segnata da momenti in cui il governo si rende invisibile, irriconoscibile e incontrollabile. In questi casi, la differenza sostanziale tra regimi democratici e regimi autocratici consiste nel fatto che nei primi l’uso di strumenti eccezionali – anche dei cosiddetti arcana imperii – è un’anomalia regolata da leggi, e sottoposta al permanente disoccultamento della libera critica, laddove nei regimi autocratici non è posto limite, né controllo all’esercizio del governo. Significativo è allora quanto lo stesso Bobbio osserva introducendo un’opera che rappresenta una delle critiche più rilevanti alla analisi schmittiana sulla dittatura e sullo stato di eccezione, almeno in quella che ne è la sua concreta realizzazione storica. Questa critica si trova nel testo del 1947 di Ernst Fraenkel intitolato il Doppio Stato (1983) che interpreta il nucleo politico dello stato nazional-socialista come l’intreccio tra Stato normativo e Stato discrezionale. Con la prima espressione, Fraenkel intendeva “un sistema ordinario di governo” (Fraenkel 1983, 13). Con la seconda, egli descriveva, invece, un “sistema di dominio dell’arbitrio assoluto e della violenza che non conosce limite in alcuna garanzia giuridica” (Fraenkel 1983, 13). La caratteristica specifica del regime politico nazista, nella complessa relazione tra Stato e Partito, è nella loro profonda (seppur conflittuale) interdipendenza. Questa interdipendenza segnerebbe, peraltro, il passaggio nel contesto weimariano da una dittatura commissaria a una dittatura sovrana. Nell’introduzione all’edizione italiana di questo testo, Norberto Bobbio argomentava che l’analisi di Fraenkel non costituiva solo una teoria dello Stato totalitario ma rappresentava una vera e propria analisi dello Stato moderno. Nel far questo egli ipotizzava che Fraenkel rivelasse “due facce dello Stato, una coperta dal diritto, l’altra aperta all’esercizio del potere puro, due facce dello stato che si ritrovano in diversa misura e in diverso grado in ogni sistema politico” (Bobbio 1983, xxiii). Alla luce di queste osservazioni, egli sosteneva che l’intreccio tra governo democratico e arcana imperii non costituisse una patologia politica o l’indice di un insuccesso democratico, ma avesse le sue inestirpabili radici in quella discrezionalità che è propria dell’operato politico, del governare.
Deroga, prerogativa e poteri di emergenza
La differenza tra la logica della deroga e quella della prerogativa è forse chiara sul piano della configurazione teorica, lo è molto meno nell’articolazione concreta degli istituti in cui esse si realizzano, e in come queste logiche si esprimono nei diversi contesti costituzionali o nelle differenti tradizioni giuridiche e politiche. Nel governare i molteplici fattori di crisi che le investono, anche laddove esista una chiara separazione costituzionale tra un regime ordinario e un regime d’eccezione, le democrazie hanno fatto ricorso in grande prevalenza a strumenti diversi e plurali di natura emergenziale [8]. Questi strumenti vivono di una separazione “labile” tra normale e straordinario e, oltre a offrire una maggiore flessibilità d’intervento e un più ampio spazio di manovra, comportano un costo politico minore rispetto all’attivazione degli istituti dell’eccezione. Infatti, la garanzia della legittimazione democratica dell’operato del governo, e la difesa del pluralismo sociale e istituzionale, rendono politicamente oneroso il ricorso agli strumenti eccezionali. Eppure, anche l’adozione di dispositivi emergenziali può produrre profonde e strutturali distorsioni negli equilibri democratici. Tra gli autori che con maggiore chiarezza hanno individuato questo rischio vi è il politologo statunitense Clinton Rossiter che, nel contesto dell’emergere della contrapposizione tra blocco occidentale e blocco sovietico, poneva il problema di come conciliare i principi di fondo del governo democratico e l’adozione di politiche straordinarie necessarie alla sua tutela (Rossiter 1948). Questi dava avvio alla sua analisi dallo studio delle procedure e dei poteri eccezionali propri del costituzionalismo liberale e democratico: da un lato quelli propri della “dittatura esecutiva” (Stato d’Assedio, Legge marziale) e del governo militare, dall’altro quelli della “dittatura legislativa”. Le differenze e le rispettive funzioni di quei dispositivi potevano essere interpretate distinguendo interventi emergenziali di natura esecutiva (prevalentemente espressione di speciali prerogative attribuite ai governi) e interventi emergenziali di natura legislativa, risultato della delega di poteri speciali all’esecutivo da parte del legislativo. Nella sua analisi, lo studioso statunitense sottolineava come questi ultimi sembrassero più adatti a rispondere a crisi di natura economica e sociale. Tuttavia, egli metteva sull’avviso dei rischi di dispositivi istituzionali che potevano sbilanciare la relazione tra legislativo ed esecutivo. Sulla stessa questione, e negli stessi anni, rifletteva Carl Friedrich segnalando nel suo Constitutional Government and Democracy (1950) come i sistemi politici democratici sviluppassero una gamma di approcci nuovi al tema della sicurezza basati sulla delega crescente di competenze legislative all’esecutivo. Anche secondo Friedrich se la logica “costituzionale” era basata sulla necessità di gestire condizioni di emergenza e di preservare il ruolo di “custode della costituzione” del parlamento, questi strumenti potevano avere come esito la distorsione permanente nei rapporti tra i poteri dello Stato. Nei successivi Constitutional Reason of State (Friedrich 1957) e nel capitolo Constitutional Crisis del suo Limited Government (Friedrich 1974), egli delineava i principi di una ragione di Stato costituzionale convinto che il problema delle democrazie liberali non fosse tanto di saper governare l’eccezione, quanto di dotarsi di dispositivi politici e istituzionali capaci di offrire l’efficace gestione delle emergenze senza con ciò indebolire le libertà politiche e civili e le istituzioni che le garantiscono.
Le questioni poste da Rossiter e Friedrich, e reiterate nei decenni che ci conducono alla fine del millennio, non hanno trovato una risposta univoca, e sono rimaste sostanzialmente confinate nell’alveo della riflessione giuridica e politica, pur riemergendo carsicamente nei contesti più “caldi” della cosiddetta Guerra fredda. Gli attacchi terroristi di matrice islamista dei primi anni 2000 hanno riportato nel dibattito pubblico la necessità di ripensare e adattare alle necessità del momento gli strumenti a disposizione dei governi democratici per fronteggiare condizioni straordinarie e minacce esistenziali. Tra le proposte più discusse di riforma degli assetti costituzionali, che accoglievano le preoccupazioni per la tenuta dello stato di diritto suscitate dagli interventi straordinari adottati, vi è quella del costituzionalista Bruce Ackerman, il quale ha tentato di articolare un vero e proprio modello di “costituzione di emergenza” (2004) capace di attivare uno stato emergenziale provvisorio, sufficientemente flessibile e reiterabile, ma legittimato da maggioranze parlamentari crescenti a ogni riconferma. Il modello è chiaramente ispirato all’istituto della dittatura romana e alla costituzione della Repubblica del Sudafrica, che egli ritiene particolarmente avanzata in materia di gestione delle crisi. Ritenendo necessari strumenti propriamente costituzionali per l’attivazione di politiche emergenziali, egli credeva opportuno che tali procedure concedessero ampi poteri al governo nel brevissimo periodo, ma che fossero rigidamente limitate dalla necessità di reiterare il consenso all’esecutivo da parte del parlamento attraverso maggioranze qualificate crescenti. Oltre alla collaborazione tra maggioranza e minoranza, col fine di sostenere le iniziative del governo attraverso la promozione del consenso generale della cittadinanza via i partiti, Ackerman affermava anche la necessità di sistemi compensativi giurisdizionali ex post per mitigare i costi e le ricadute delle scelte fatte dall’esecutivo.
La costituzione di emergenza proposta da Bruce Ackerman ha sollevato un ampio dibattito e suscitato un vivo interesse, ma resta comunque legata alla esigenza di normare costituzionalmente gli interventi eccezionali in quelle che possono apparire crisi gravi e immediate. Tuttavia, gli eventi degli ultimi trent’anni mostrano una pluralità di momenti critici nei quali l’emergenza si presenta come persistente, diffusa, con vari livelli di intensità. Quindi non tale da comportare l’attivazione dei dispositivi costituzionali dell’eccezione. A partire da una analisi tipologica dei poteri di emergenza, John Ferejohn e Pasquale Pasquino hanno messo in risalto come una teoria dei poteri d’eccezione si giustifica solo all’interno di un sistema costituzionale di distribuzione del potere, e che essa modifica sempre e inevitabilmente i rapporti tra i cittadini e il governo (cfr. Pasquino e Ferejohn 2006; Ferejohn e Pasquino 2006; Pasquino e Manin 2000). In caso di urgenza, le costituzioni pluraliste permettono la delega di poteri al presidente o a una qualche altra istituzione che possa sospendere o ridurre l’esercizio di diritti o libertà al fine di preservare l’ordine esistente. A differenza del modello costituzionale della dittatura romana, nella quale a essere investito del potere era un soggetto esterno all’architettura istituzionale, nelle esperienze democratiche contemporanee vi è sempre un istituto o una carica interna all’ordinamento che viene investita di poteri eccezionali, al fine di garantire la continuità del mandato popolare e democratico. Anche nelle esperienze differenti – quella monocratico-parlamentare britannica e quella presidenziale statunitense – il perno intorno cui ruotano le procedure di attivazione delle politiche eccezionali o emergenziali è sempre la garanzia di una qualche continuità nel processo di legittimazione democratica. Per questa ragione i regimi democratico-rappresentativi non possono che far ricorso a strumenti legislativi di gestione delle emergenze che autorizzano la cessione temporanea di poteri speciali all’esecutivo, così da garantire a quest’ultimo quella legittimità democratica (rappresentativa) che costituisce un elemento imprescindibile delle contemporanee democrazie liberali. Allo stesso modo, essa deve predisporre strumenti di natura giuridica che controllino ex post (adjudication) l’operato del governo e dei suoi attori, rinviando quindi al giudizio alle corti. In tal modo, è possibile dare l’ultima parola agli elettori e al giudizio espresso da costoro attraverso il voto (Pasquino e Ferejohn 2004, 2016).
La risposta “giurisdizionale” dei due studiosi è significativa, e muove il confronto dal problema delle relazioni tra esecutivo e legislativo al ruolo specifico del potere giudiziario. Tuttavia, essa sposta ex post il controllo sull’operato dei governi, assumendo quali presupposti l’autonomia e indipendenza del giudiziario (al di qua, quindi di scenari orbaniani o trumpisti), e l’efficacia del voto quale strumento di giudizio sull’operato dei governi (al netto della crescente disaffezione democratica e dello scetticismo dei potenziali elettori). Certo è che le difficoltà che i sistemi democratici incontrano a fronte di emergenze diffuse, più che di crisi costituzionali conservative, pone il problema della tenuta dei sistemi democratici in una fase storica di concentrazione del potere esecutivo, di spinte alla governabilità, di pulsioni populiste, tecnocratiche e autoritarie. Non che gli strumenti propriamente eccezionali scompaiano, come mostra il ricorso all’état d’urgence in Francia anche per la gestione dell’ordine pubblico. Ma poiché le minacce più gravi appaiono forse meno evidenti e pressanti di quelle che potevano apparire all’orizzonte della politica internazionale novecentesca, le risposte degli ordinamenti democratici non assumono la forma eccezionale della deroga assoluta (la sospensione dell’ordinamento), rimanendo prevalentemente all’interno del sistema delle politiche pubbliche e delle procedure istituzionali ordinarie. In contesti in cui la linea di demarcazione tra il normale e l’eccezionale sembra confondersi, sia perché è più complesso dichiarare l’eccezione, sia perché le capacità di reazione e di resistenza delle nostre società appare tale da non rendere le situazioni di emergenza mai veramente “esistenziali”, diviene decisiva la capacità dei cittadini di discernere quando l’equilibrio tra i poteri dello Stato, e le relazioni tra lo Stato e la cittadinanza, scivolano lungo un crinale pericoloso.
Dall’eccezione alla conservazione
“Public emergency situations involve both derogations from normally available constitutional rights and alterations in the distribution of functions and power among the different organs of the State” (CDL-STD 1995, 3): così erano definite le condizioni di emergenzialità pubblica in un importante documento della Venice Commission europea. La separazione rigida tra governo straordinario e governo ordinario dell’emergenza non consente però di cogliere le complessità connessa alla conservazione del potere politico statuale e di gestione delle crisi. La possibilità dell’alterazione dei bilanciamenti tra i poteri dello Stato e della sospensione dello stato di diritto e di parte degli ordini costituzionali è compresente nei regimi democratico-costituzionali pluralisti. Il ricorso alla deroga costituzionale o l’attribuzione all’esecutivo di poteri emergenziali e di funzioni legislative, al pari degli spazi di discrezionalità esecutiva, amministrativa e tecnica s’inscrivono in una più complessiva gestione della sicurezza, che allarga gli orizzonti e le politiche della conservazione politica.
Nell’analisi di ciò che si è variamente inteso facendo ricorso alla categoria di eccezione, questo allargamento richiama alla necessità di non far precipitare l’analisi delle situazioni critiche alla sola dimensione giuridica, ma anche di porre l’attenzione sulle dimensioni articolate e plurali del governare e di allargare lo sguardo ai percorsi dell’esercizio di poteri discrezionali nel contesto democratico [9]. A tal fine è opportuno riflettere sulle differenze tra le pratiche e i dispositivi istituzionali nel mondo politico antico (exceptio, equitas, provocatio, senatus consultum ultimum…) o medievale e moderno (deroga, prerogativa, prudenza), e tener conto di quelle forme paradigmatiche della politica moderna non riducibili alla sovranità ma alle arti prudenziali di governo e della conservazione politica (Borrelli 2007; Arienzo e Borrelli 2011). A parere di chi scrive, è di questa pluralità che vive l’irrigidimento conservativo delle contemporanee democrazie. Ed è questo complesso intreccio che si scorge al fondo del permanente governare l’emergenza.
In effetti, oggi gli elementi di crisi del sistema democratico si sommano a quelli più complessivi concernenti le trasformazioni della sovranità politica, ma anche di riorganizzazioni del ruolo e della funzione dello Stato in un più complessivo riassetto dei poteri su scala globale. In questo contesto, il riferimento continuo alle emergenze e alle crisi può essere interpretato come una reazione alle crisi diffuse prodotte dalla globalizzazione, oppure come “l’impuissance autoritaire de l’État à l’époque du libéralisme” (Goupy 2016). Una diversa ipotesi è che esso costituisca il perno di un’opera di conservazione politica che integra strumenti manageriali, amministrativi, tecnocratici e comunicativi con i più tradizionali poteri di emergenza. In tal modo, la conservazione politica fa proprio un principio di complessità. Attraverso “il ricorso al disordine controllato dell’emergenza” vediamo quindi all’opera sia gli sforzi di preservare gli ordinamenti democratico-liberali, sia le spinte al blocco conservativo della vita democratica:
le oligarchie nell’affrontare i temi “duri” della politica ricorrono alla più tradizionale Ragion di Stato; non a caso avanza di nuovo la dimensione non-democratica del segreto – dell’algoritmo, dell’emergenza, della guerra. L’instabilità dell’epoca si realizza poi al grado più alto nel perseguimento di logiche apertamente di potenza da parte di una politica che decide in ultima istanza di impegnarsi nella lotta per l’egemonia: per la guerra (Galli 2023, 100).
Ecco perché è forse poco utile rivisitare le categorie schmittiane di eccezione e stato d’eccezione per argomentare le condizioni complessive di difficoltà oggi vissute dalle democrazie. Piuttosto, sarebbe utile chiedersi:
se tali emergenze costituiscano una caratteristica propria dell’ultima fase della modernizzazione politica, o piuttosto si debba prendere atto del ritorno periodico di rischi di azzeramento degli sviluppi pure conseguiti da parte di modelli di government così ampiamente diffusi (Borrelli 2006, 20).
L’attuale contesto internazionale ha messo in chiaro la precarietà degli equilibri tra stato di diritto, garanzie di libertà e sicurezza anche nei sistemi democratici più consolidati. Gli scenari internazionali mostrano ormai quanto su alcuni aspetti cruciali di ciò che comunemente è considerato state security, e che costituiscono alcune tra le principali emergenze democratiche – il controllo dei flussi migratori, la gestione dei processi di globalizzazione economica e finanziaria, lo sfruttamento delle risorse energetiche ed ambientali, la minaccia terroristica, la crisi ambientale –, lo Stato non è più l’unico, talvolta neppure il più rilevante, attore politico. Del resto, la stessa nozione di “sicurezza” ha con sé due accezioni diverse che la lingua italiana non permette di distinguere con chiarezza. La prima, che in inglese si traduce con safety, ha un senso di immediata autoconservazione. Essa esprime quindi la più comune riflessione sulla difesa dello Stato e dei suoi interessi vitali, la difesa della nazione e dell’ordine politico-istituzionale dal nemico esterno e interno. La seconda, più precisamente espressa tradotta dal termine security, restituisce un’idea di sicurezza che opera come tutela, promozione e sviluppo. Le emergenze del presente, nella loro complessità, pongono in relazione questi due diversi significati e i rispettivi campi politici e istituzionali (Arienzo 2008). Forse è a partire da questa polarità che possiamo intendere in che modo le democrazie contemporanee diventano democrazie dell’emergenza: ossia, si trasformano in in regimi politici che, pur nel quadro dei vincoli dello stato di diritto e degli ordinamenti costituzionali, modificano in maniera sostanziale i rapporti tra poteri a favore dei momenti esecutivi e amministrativi, tendono a ridurre gli spazi della mediazione rappresentativa a favore dei percorsi della governabilità e dello sviluppo economico e pongono la gestione delle molteplici crisi ed emergenze ai diversi livelli locali, nazionali e internazionali come il fine prevalente del loro operato. In questo quadro, si assiste a un particolarissimo ritorno di una ragion di Stato che assume le forme della concentrazione del potere politico e la manipolazione e gestione/produzione di paura/incertezza attraverso la cura dell’opinione pubblica. Paure, quindi, mediatizzate e rese strumenti di cattura delle angosce reali dei singoli alle quali la politica risponde con l’esaltazione della leadership individuale e delle strutture dei nuovi partiti personali. Un fenomeno fortemente regressivo che assume le forme dell’autoritarismo e del populismo (Ingimundarson e Jóhannesson 2021). Tutto ciò avviene in un contesto in cui è una pluralità di soggetti a concorrere alla gestione delle emergenze, in una frammentata, quanto pervasiva, security governance globale. Il moltiplicarsi delle fratture e degli elementi di crisi politica, economica, sociale, per lo meno nei paesi con una tradizione democratica e liberale più solida, sembra piuttosto scorrere, nel lungo periodo, verso le forme di una governance dell’emergenza che scavalca, sul piano della politica interna, le forme della mediazione giuridico-politica per aprirsi a politiche emergenziali plurali e diffuse (Arienzo e Borrelli 2011).
In conclusione, nel comprendere come gli attuali sistemi democratici rispondano o producano le emergenze è necessario evitare una duplice errore. Il primo è di ridurre ogni emergenza all’eccezione, sulla base del principio che ogni emergenza o crisi deriva pur sempre da una decisione sovrana originaria. Una simile prospettiva non distingue ciò che è necessario per salvaguardare una comunità democratica da ciò che invece è utilizzato per dominarla. Il secondo è di fermarsi alla verifica della costituzionalità formale, o della correttezza procedurale, nel ricorso ai dispositivi politici e istituzionali emergenziali. Una tale analisi non coglie i rischi insiti nel ricorso a tali dispositivi in un contesto di democrazia indebolita. Si tratta, invece, di comprendere e verificare i fini e gli obiettivi politici che di volta in volta muovono le politiche di emergenza (e/o di eccezione) e intendere – oltre ogni riduzione essenzialista – la pluralità degli strumenti, dei saperi, delle tecniche a disposizione di chi voglia “preservare” o “conservare” lo Stato, il benessere dei cittadini, le proprie posizioni di potere, le relazioni economico-sociali esistenti. Si tratta di “abbandonare l’illusione che l’emergenza sia una specie di «fatto» e accettare che […] gli organi politicamente responsabili dovranno necessariamente emettere un giudizio epistemico sull’esistenza o meno di un’emergenza” (Pasquino e Ferejohn 2006, 103). Ma anche di comprendere che è compito della politica giocare con l’ambiguità dell’espressione “emergenze democratiche”: discernere, da un lato, ciò che opera al fine della conservazione – talvolta autoritaria – dell’esistente; dall’altro lato, la possibilità della trasformazione da ciò che l’emergenza lascia “emergere” e rivela. In tal senso, le emergenze sono sempre critiche, perché sempre ci pongono di fronte alla decisione: scegliere l’imperio della necessità, e operare a garanzia della salvaguardia o della conservazione di ciò che è, oppure tentare di sfruttare ciò che emerge e che sconvolge il nostro ordine per farne occasione e opportunità di innovazioni e di trasformazione dell’esistente. Tuttavia, questo, più che del Politico e della sua eccezione, è lo spazio della politica.
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Note
1. In particolare, Schmitt 1972, 1975, 2007; Benjamin 1999; Foucault 1997 e 2004; e Derrida 2003, 2009.
2. È necessario sottolineare che nella tesi di Agamben c’è un terzo elemento decisivo, il “campo”, quale paradigma biopolitico dell’occidente. Ossia, quel luogo – il campo di concentramento o di lavoro forzato – in cui la presa del potere sovrano si esercita innanzitutto sul “semplice fatto di vivere”, e solo in subordine su quelle qualificazioni specifiche che appartengono al bíos, ossia: “la forma o la maniera di vivere propria di un singolo o di un gruppo” (Agamben 2004, 3).
3. Nella sterminata letteratura sull’argomento mi limito a indicare: Ruocco 2004; Bazzicalupo 2010.
4. Agamben 2020. In questo intervento, la cui tesi non è mai stata ritrattata anche alla luce degli eventi successivi, Agamben afferma che: “Si direbbe che esaurito il terrorismo come causa di provvedimenti d’eccezione, l’invenzione di un’epidemia possa offrire il pretesto ideale per ampliarli oltre ogni limite. L’altro fattore, non meno inquietante, è lo stato di paura che in questi anni si è evidentemente diffuso nelle coscienze degli individui e che si traduce in un vero e proprio bisogno di stati di panico collettivo, al quale l’epidemia offre ancora una volta il pretesto ideale. Così, in un perverso circolo vizioso, la limitazione della libertà imposta dai governi viene accettata in nome di un desiderio di sicurezza che è stato indotto dagli stessi governi che ora intervengono per soddisfarlo”.
5. Una critica alla posizione agambeniana, che pure si muove a partire da alcuni riferimenti filosofici comuni, è Esposito 2022. Cfr. anche: Tabet 2021; Sciara 2023.
6. Tra le molte posizioni critiche mi limito a segnalare: Guareschi e Rahola 2011; Croce e Salvatore 2021. Entrambi i volumi offrono peraltro ampi riferimenti bibliografici sul tema.
7. Non però di quel diverso, e più controverso, istituto rappresentato dal Senatus consultum ultimum (von Unger-Sternberg 2004; Buongiorno 2020). In questo caso, la dichiarazione di emergenza fatta dal Senato rende possibile l’intervento immediato e diretto dei Consoli, senza una delega limitata di poteri come invece accade con la dittatura. Su questo istituto si sofferma Agamben 2003, in particolare nel capitolo Auctoritas e Potestas.
8. Per un’analisi dettagliata delle tipologie esistenti dei poteri di emergenza, oltre a Ferejohn e Pasquino 2006, si vedano anche Marazzita 2003 e Bonetti 2006. Sul rapporto tra poteri di emergenza e democrazie nel contesto del dibattito post 11 settembre, cfr. Scheppele 2004, Dyzenhaus 2006, Gross e Ní Aoláin 2006, Fatovic 2009, Honig 2009, Lazar 2009, Alford 2017. Ulteriori utili indicazioni bibliografiche sono anche nei volumi di Dini 2004, Guareschi e Rahola 2011 e Croce e Salvatore 2023.
9. Un saggio di riferimento su questo tema è quello di Borrelli 2006, cui si rinvia sia per le osservazioni di metodo proposte, sia per l’articolazione di una prospettiva insieme genealogica sugli strumenti politici dell’emergenza, sia per lo sforzo di collocare l’analisi in un quadro integrato che tiene conto dei diversi livelli politici (nazionale, internazionale e globale) in cui il tema dell’emergenze deve essere collocato.