Sempre più spesso sociologi e storici sottolineano la portata culturale della pratica culinaria e invitano a leggere il complesso mondo dell'alimentazione senza lasciarsi fuorviare dall'aura di banalità che lo circonda. In realtà proprio quelle caratteristiche di quotidianità e di ordinarietà che per tanto tempo hanno rappresentato una pregiudiziale allo studio costituiscono il cuore e la ragione d'essere di questo aspetto così importante della vita sociale. Nella loro materialità, infatti, le pratiche alimentari rappresentano da sempre un'importante risorsa culturale a disposizione di individui e collettività per la costruzione di identità, memoria e appartenenze sociali. Attraverso il processo di preparazione e consumazione del cibo si radica il proprio vissuto alimentare in un preciso contesto storico-geografico, riattualizzando ogni volta (o viceversa modificando) proprio nella prassi regole e credenze sociali che parlano certo degli alimenti, ma anche di chi può o deve cucinarli, venderli, donarli, mangiarli e quali sono le modalità appropriate per farlo.
Come in ogni altro campo del sapere, la comunicazione gioca un ruolo fondamentale in questo processo e contribuisce in modo decisivo alla trasformazione di un insieme di gesti in un insieme di pratiche sociali. La parola si inserisce, opera prima di tutto nel momento della trasmissione e dell'apprendimento delle conoscenze culinarie, momento cruciale per la formazione di un'effettiva condivisione. Infatti, se si esclude l'osservazione diretta, le conoscenze relative ai metodi di composizione e preparazione degli ingredienti possono essere tramandate – e quindi “socializzate” – solo grazie al passaggio orale o scritto di informazioni. Certamente l'adozione di uno o dell'altro dei due criteri di trasmissione ha un'influenza profonda sulla cultura culinaria di ogni raggruppamento sociale. Come sostiene Montanari, «con la costruzione di una memoria scritta della cucina, che rende possibile l’accrescimento cumulativo delle conoscenze, si realizza un vero e proprio sapere costituito, cosa che non si riscontra, almeno in forma materiale e tangibile, nelle società con tradizione orale»[1]. L’abitudine a riportare in forma scritta le consuetudini e le innovazioni in cucina influenza anche la riflessione sul culinario, che viene ampliata e potenziata. Si rendono disponibili confronti e simmetrie tra modi di intendere il commestibile (o ciò che è sano, appropriato alle varie circostanze, ecc.) in diversi momenti storici, e di conseguenza si rafforza la possibilità di comprendere la relazione tra la cucina e i tanti aspetti sociali che la influenzano.
La comunicazione della cucina: i ricettari
La forma di comunicazione scritta della cucina più antica e tuttora più diffusa è rappresentata dai ricettari [2]. La loro identità nei secoli si è evoluta e differenziata da essenziale raccolta di ricette a prodotto librario o periodico, ma indipendentemente dalla veste adottata questi prodotti editoriali costituiscono un oggetto d'analisi molto interessante, come manifestazioni di una società in un'epoca. I ricettari, infatti, nel parlare di cucina (ingredienti, tempi, procedimenti) parlano anche della società che li produce e della sua evoluzione; parlano del gusto dominante e delle alternative ad esso, delle tradizioni, dell'interpretazione dell'atto del consumo, del modo di intendere la convivialità, per fare alcuni esempi. La loro potenzialità esplicativa a proposito delle regole e delle variabili sociali che sottendono il culinario è quindi forte, sia a livello micro (l’individuo, il nucleo familiare) che macro (la regione, la nazione, le dinamiche globali che investono la sfera dell’alimentazione). Come riassume Appadurai, «i ricettari riflettono i mutamenti nei confini del commestibile, le proprietà del processo culinario, la logica dei pasti, le esigenze del bilancio familiare, le fluttuazioni del mercato e la struttura dell’ideologia familiare»[3].
Da alcuni autori è stata anche sottolineata l'utilità di una lettura in chiave di genere dei ricettari, veri e propri «barometri delle trasformazioni nei ruoli» [4]. Infatti, l’evoluzione della manualistica di cucina, del suo linguaggio e dei suoi destinatari è strettamente connessa non solo alla «ideologia familiare» di cui parla Appadurai, ma anche alla visione, più in generale, del ruolo e delle mansioni della donna nella società e del tipo di rapporto che la donna può/deve avere con l’atto del nutrire se stessa e gli altri. I ricettari, infatti, come organizzazione testuale del culinario, non sono solo paradigmi del gusto in un certo momento storico, ma anche indicatori delle convenzioni sociali associate ai fornelli: chi deve cucinare, per chi, con quali obiettivi. Dal momento che, come sostiene Muzzarelli, «dare cibo, procurare cibo, servire cibo, godere del cibo sono alcune funzioni in cui la donna è infinitamente presente sulla scena sociale in qualsiasi fase della storia, in forme diverse a seconda dei tempi storici e delle necessità» [5], la manualistica di cucina fornisce inevitabilmente anche informazioni sui ruoli ricoperti dalle donne fuori e dentro la casa e sulla considerazione riservata ad essi. Nell'evoluzione dei ricettari, della loro presentazione editoriale e del loro pubblico, è allora possibile leggere una storia delle trasformazioni alimentari conosciute dal nostro paese e individuare i riflessi sociali di queste trasformazioni sulla nostra cultura culinaria, ma allo stesso tempo è possibile anche individuare tracce significative per un'analisi di genere.
Nel corso di questo articolo ci occuperemo di entrambi gli approcci editoriali al culinario – libri e periodici –, legati anche storicamente da un rapporto di stretta familiarità [6]: come illustreremo più in dettaglio tra breve, i periodici hanno infatti conosciuto, con uno scarto di alcuni anni, le stesse trasformazioni a livello testuale e di ricezione conosciute dai libri di cucina. Per quanto riguarda il secondo dopoguerra, tuttavia, abbandoneremo il panorama librario per occuparci più da vicino dei periodici, veri moltiplicatori della comunicazione scritta sul culinario. Le riviste di cucina, infatti, proprio per la loro concezione editoriale e per i canali di vendita adottati, raggiungono in Italia livelli di diffusione molto alti, di gran lunga superiori a quelli dei libri sul medesimo argomento, e diventano prodotti capaci di influire non solo sulla cultura di chi cucina, ma sul mercato stesso e sull'andamento dei consumi [7].
Gli uomini, le ricette, le donne
La tradizione gastronomica del nostro paese si è evoluta storicamente su un doppio registro. Da una parte si possono seguire i percorsi di una cucina raffinata, ricercata, nobile (sia per i suoi destinatari che per le occasioni di presentazione che per gli ingredienti impiegati), dall'altra quelli di una cucina quotidiana, economica e semplice, plasmata sull'arte dell'arrangiarsi. La gerarchia sociale si è infatti sempre riflessa su quella alimentare, sia dei consumi che della qualità dei prodotti, influenzando direttamente anche le tecniche di cucina e la preparazione dei cibi. Si sono così delineati due universi culturali e culinari diametralmente opposti, che hanno però entrambi segnato l'immaginario alimentare e i “riti” culinari dell'Italia contemporanea [8].
Questa distinzione è legata, d'altra parte, all'esistenza di un secondo doppio registro, stavolta di genere. La cucina popolare, nella sua quotidianità, è infatti storicamente “affidata” alle donne, siano esse a servizio, e quindi impegnate direttamente ai fornelli, o padrone di casa, e in questo caso esentate dalla necessità di cucinare ma non dai compiti di supervisore e direttore domestico. La cucina, in questa dimensione ordinaria, è essenzialmente un mestiere, una pratica ingegnosa e misurata, che ha l'obiettivo di nutrire in modo vario senza dispendio. Ben distinto da questo modo di fare cucina è invece quello, storicamente in mani maschili, che la valorizza in ogni suo aspetto come un'arte, un'attitudine alla creazione. Il cuoco, avendo a disposizione una ricca tavolozza di ingredienti, mette a punto un'opera culinaria che intende essere un'esperienza sensoriale piena, sia dal punto di vista del gusto che da quello della presentazione scenografica del piatto. Come riassume Tarozzi, quindi, «le donne sono sempre state 'cuciniere' più o meno esperte, ma mai cuoche di prim'ordine. Alle mani femminili si deve la risposta alla necessità quotidiana dell'alimentazione, il di più, la raffinatezza dei cibi, lo studio di piatti originali viene da mani maschili» [9].
Questa distinzione tra uomini e donne per responsabilità, rango e competenze riconosciute risulta evidente anche nella storia della comunicazione scritta della cucina. Non solo perché «la cucina popolare, lentissimo e sapientissimo prodotto di mani femminili nelle case, non ha avuto storici che la raccontassero” mentre “la gastronomia dotta, di impronta maschile, è stata raccontata attraverso le figure dei suoi principali interpreti» [10], ma anche perché la scrittura stessa della didattica culinaria si è evoluta in funzione della diversa considerazione che di volta in volta è stata attribuita alla cucina delle donne. Oggi si tende infatti ad associare questo genere editoriale a un pubblico femminile e in alcune nazioni, come gli Stati Uniti, le donne sono state fin dall’inizio destinatarie pressoché esclusive di questi testi, orientati prima di tutto ad una dimensione domestica del fare cucina [11]. Tuttavia, nel nostro paese l’evoluzione della manualistica culinaria in relazione ai generi è più complessa. Fin dalla loro comparsa, infatti, i ricettari originano da competenze professionali e si rivolgono a chi per mestiere (i cuochi, appunto) necessita di informazioni tecniche e spunti creativi. La tradizione culinaria femminile rimarrà per lungo tempo orale, tramandata di madre in figlia e solo più raramente affidata a manoscritti, siano essi quaderni di casa o semplici appunti.
L'editoria culinaria fino al secondo dopoguerra
La nascita della manualistica per le famiglie
Questa situazione è destinata a modificarsi solo nella seconda metà dell’Ottocento, con le nuove regole che la rivoluzione borghese detta per la tavola e per tutti i processi che ruotano attorno ad essa, dalla preparazione dei piatti all’organizzazione domestica. Infatti, parallelamente all'affermazione sociale di questo ceto si consolida un nuovo sistema culinario, che articola ogni aspetto della preparazione e della consumazione degli alimenti secondo valori propri, lontani dall'opulenza francesizzante dell'aristocrazia [12]. Il momento dei pasti si deve accordare con un sistema di vita e un’ideologia familiare esplicitamente improntati alla sobrietà, al risparmio, all’industriosità, alla temperanza. Di conseguenza la tavola borghese, come sintetizza perfettamente Camporesi,
si raccomanda per il temperato buon gusto, con il fondamentale principio di non mangiare oltre il bisogno, e non conosce sprechi, splendori insoliti e stravaganze. Una filosofia gastronomica che in nome dell’igiene, della fisiologia e della buona salute combatte gli eccessi e il principio del piacere su cui si fondava la cucina dei secoli precedenti [13].
A questo codice alimentare, che esige sobrietà sia dal punto di vista nutritivo che da quello economico, si associa una nuova centralità della dimensione domestica: il valore sociale conferito al cibo rimane alto, ma quello che prima era essenzialmente un fatto ostentativo (ricevere gli ospiti e offrire loro qualcosa in grado di stupirli) diventa sempre più spesso una condivisione tra pochi intimi dei piaceri della tavola, che esigono giudizio e sensibilità e si trasformano in un'arte. Ne consegue un'attenzione assolutamente nuova per chi nelle case si occupa quotidianamente della cucina, cioè le donne.
Si prepara così quella rivoluzione della comunicazione culinaria che segnerà tutto il Novecento, cioè la nascita e la rapida diffusione della didattica di cucina familiare [14] e – dal momento che i due fatti sono profondamente legati – femminile. Nell’Italia della seconda metà dell’Ottocento, infatti, si assiste a una vera e propria esplosione dell’editoria gastronomica, per la prima volta indirizzata non più ai cuochi professionisti ma alle donne di casa e alla servitù, sempre più spesso urbana e alfabetizzata, delle classi medie. Non a caso proprio in questi anni si diffonde l’uso di richiamare una “idea di femminilità” a partire dal frontespizio stesso del manuale, nel titolo o nell’indicazione dell’autore. In genere, infatti, quest’ultimo è ancora tradizionalmente maschile, ma, a testimonianza del nascente interesse per un’autorialità femminile in cucina, non disdegna l’impiego di espedienti accattivanti, come l’adozione di pseudonimi femminili dietro cui celare la propria identità [15]. La prassi di codificare in parole scritte i saperi relativi alla preparazione del cibo subisce quindi una profonda trasformazione: un'editoria che era appannaggio maschile in modo pressoché assoluto si “femminilizza” (inizialmente solo per quanto riguarda i suoi destinatari e poi anche nella possibilità per le donne di accedere al rango di autrici) e sotto queste nuove vesti allarga notevolmente il suo mercato.
Cambiando i destinatari cambiano anche i contenuti (gastronomici e non) e lo stile dei nuovi ricettari. Il criterio che guida la scelta delle ricette da introdurre nei volumi è esplicitamente quello della cucina borghese – sobria, parsimoniosa, igienica –, e anche la scrittura vera e propria della ricetta si conforma al nuovo destinatario: a padrone e serve interessa un computo rigoroso del costo e dei tempi, da cui la specificazione di dosi e modalità di cottura. Un altro aspetto della comunicazione culinaria che viene influenzato dalla trasformazione del destinatario è il linguaggio dell'autore (e, di conseguenza, lo stile complessivo di presentazione). Nei nuovi manuali esso tende ad essere più esplicitamente scolastico nei contenuti – abbiamo appena sottolineato come le ricette siano più dettagliate – ma allo stesso tempo più discorsivo e meno pedante; si intensifica il rapporto di familiarità e la comunicazione si fa diretta, intima. Come ricorda Capatti,
lo chef e la cuoca non preparano le stesse vivande né designano la loro opera nel medesimo modo. [...] La lingua femminile e domestica, prevalentemente orale, intrattiene un rapporto di osmosi segreta, difficile da valutare, con l’altra usata dai professionisti [16].
Con l’emergere di una didattica marcatamente femminile (sia per impronta autoriale che per destinatario), questa lingua femminile trova finalmente posto nei manuali: la terminologia impiegata si fa più semplice, familiare, allusiva a un mondo cognitivamente già disponibile alla lettrice. Allo stesso tempo il tono, sul modello profondamente innovatore di Artusi, diventa colloquiale, garbato, si arricchisce di divagazioni personali e spunti autobiografici. Ne consegue uno stile di scrittura narrativo – in contrapposizione a quello normativo tradizionale – che favorisce l'instaurarsi col lettore di un dialogo confidenziale e ravvicinato.
La nuova editoria si caratterizza fin da subito non soltanto per queste fondamentali innovazioni stilistiche, ma anche per un “allargamento tematico” che rimarrà un dato costante per buona parte della manualistica femminile fino agli anni Ottanta. Infatti la didattica culinaria è spesso abbinata, in questi volumi, a una didattica familiare e domestica in senso più generale, si inserisce in quel progetto di “educazione alla domesticità” che in quegli anni vede coinvolti tutti i livelli dell'istruzione al femminile: dagli istitutori privati alle scuole pubbliche, dall'educazione familiare alla pubblicistica, non solo femminile. Sulla base della morale borghese che indicava nella donna il fulcro della casa e che valorizza come funzioni primarie per la donna quelle di madre e sposa, si orienta e si sviluppa l'editoria didattica femminile: è l'epoca in cui la figura della massaia, della “brava padrona di casa” riceve una continua e forte attenzione sociale, e proprio su questo terreno la giovane editoria di massa testa timidamente la propria capacità di creare modelli di comportamento.
Sulla scia di questa tendenza editoriale, la manualistica culinaria femminile non può pertanto limitarsi a insegnare l'arte della preparazione dei pasti, bensì deve inserire questo aspetto all'interno di una più generale istruzione alla gestione domestica e alla “buona condotta” delle donne. A causa di questo allargamento – quasi sconfinamento – tematico i ricettari finiscono per essere costruiti sul modello dei testi di “buone maniere” e affrontano, accanto all’arte del cucinare, temi molto diversi tra loro, come la puericultura, l’arredamento, la salute, il galateo. Nella manualistica culinaria femminile, quindi, contraddistinta da una morale domestica e da un forte senso dell’economia,
le prescrizioni relative ad alimenti e piatti non sono testimonianze fruibili nel solo ambito della didattica, rispecchiano una educazione, uno stile ‘perbene’ dalle forti connotazioni sociali e ideologiche e permettono di violare l’intimità delle cure e degli affetti [17].
La casa come scienza
La produzione editoriale dedicata al culinario conosce quindi un primo cambiamento di direzione con la graduale affermazione della manualistica femminile, più colloquiale e domestica di quella tradizionale maschile. Col tempo questo tono si fa via via più complice, femminile in un senso quasi esclusivo del termine: «un messaggio che aveva come destinatario un cosmo di spose e fidanzate, affidato a un codice linguistico fruibile esclusivamente da donne» [18].
In realtà, all'inizio del Novecento il radicamento sociale dell'economia domestica imporrà un secondo cambiamento, altrettanto cruciale, alla comunicazione della cucina. Proprio in quegli anni si vanno diffondendo in Italia, anche su ispirazione del modello americano [19], le scuole per insegnare alle donne “la scienza e l'arte” domestiche. A partire già da fine Ottocento, infatti, il numero dei domestici nelle case borghesi si riduce, rilanciando la collaborazione di serva e padrona e costringendo progressivamente la donna di casa [20] ad assumere su di sé le incombenze precedentemente svolte dalla servitù, tra cui quella della preparazione quotidiana del pasto.
L’influenza di questa disciplina, che inquadra la cucina in un’ottica di tempi e parcellizzazione efficiente delle operazioni, è riscontrabile sia a livello di scelta dei piatti da inserire nel ricettari che a livello di scrittura della ricetta. Per quanto riguarda il primo aspetto, la diffusione dell’economia domestica comporta una focalizzazione più accentuata sui criteri della facilità e della rapidità d’esecuzione che le autrici, manifestando di nuovo un senso di solidarietà e complicità femminili, riconoscono essere i parametri di valutazione fondamentali per una lettrice indaffarata in tante incombenze domestiche e, sempre più spesso, in un lavoro fuori casa. Per quanto riguarda la scrittura, invece, viene rafforzata la tendenza, già presente nella manualistica femminile, domestica, a rendere esplicitamente didascalica e comprensibile ad ogni destinatario la descrizione del procedimento. A differenza delle ricette scritte da cuochi, che lasciavano implicite e quindi discrezionali ad arte del lettore molti particolari della ricetta, sotto l’influenza della nuova “scienza domestica” ogni passaggio deve essere chiaro e non fraintendibile. Il destinatario (la massaia, per la precisione) è concepito non come un’artista ma come un esecutore, le cui abilità culinarie non possono essere mai date per scontate. Lo scopo è quello di istruire, anche a costo di essere inutilmente pedanti, come succede ne Il talismano della felicità del 1925, che precisa di «tagliare il pezzo di carne con un coltello».[21] Nei nuovi manuali non sono rigorosamente indicate solo le operazioni, ma anche i tempi, in modo da ottenere il duplice risultato di non alterare il risultato culinario programmato dalla ricetta e di razionalizzare la procedura per non sprecare tempo. Fino a fine Ottocento quasi ignorato, quello del tempo diventa pertanto un criterio fondamentale nella scrittura come nella selezione delle ricette e sancisce l'ingresso della modernità nell'editoria culinaria. Questo cambiamento si manifesta anche nel fatto che i nuovi volumi, indirizzati a una casalinga-consumatrice, non disdegnano l'utilizzo di preparati alimentari e talvolta li introducono direttamente nella lista degli ingredienti, anticipando una prassi pubblicitaria molto diffusa nel secondo dopoguerra.
I periodici di cucina
L'editoria periodica italiana inizia ad occuparsi di cucina in modo specializzato e con esiti numerici degni di nota nei primi anni del Novecento. I centri propulsori sono Roma e, soprattutto, Milano, dove l'alfabetizzazione è maggiore. Il pubblico di queste riviste è di estrazione medio-alta, non pratica necessariamente la cucina per professione ma allo stesso tempo non ha un interesse prosaicamente quotidiano. Si tratta di progetti editoriali sorti in quel clima culturale di rivalutazione borghese della buona tavola di cui abbiamo parlato. In questo contesto l'opera mediatrice della scrittura culinaria è inquadrata come un ulteriore strumento a disposizione dei cuochi ma anche dei gastronomi borghesi, i quali, in contrapposizione alla prassi aristocratica, si dichiarano interessati alla cucina più come ambito conoscitivo ed esperienziale che come fatto sociale ostentativo. Esattamente come è avvenuto nel settore dell'editoria libraria, quindi, le prime testate di cucina sono scritte da penne maschili, in genere cuochi di professione, per un pubblico egualmente composto perlopiù da professionisti.
Nell'arco di pochi anni, tuttavia, il mercato si allarga alla cucina domestica e alle sue artefici e a questa prima evoluzione editoriale si accompagna quella trasformazione lessicale e di tono che abbiamo visto essere la marca comunicativa del passaggio a un destinatario femminile: l'approccio con cui queste testate si rivolgono alle lettrici è diretto, semplice e allo stesso tempo più esplicitamente didattico di quanto non avvenisse nei periodici tradizionali, per cuochi e gastronomi. Il processo di “femminilizzazione” delle testate di cucina si accompagna anche ad uno slittamento nei contenuti, oltre che nei toni: il focus tematico rimane la cucina, ma inquadrata nell'ambito più generale della vita domestica – e non solo – femminile, secondo quel progetto di “educazione alla domesticità” illustrato in precedenza. Le rubriche di posta – per instaurare un dialogo diretto e il più possibile intimo con le lettrici –, un'attenzione puntuale e completa per ogni aspetto della vita domestica, un tono sempre più complice, basato sul vissuto e sulla condivisione di genere sono le caratteristiche di questo nuovo modello di riviste e sanciscono definitivamente l'ingresso dei periodici di cucina nella stampa rivolta ad un pubblico di donne.
I periodici culinari di consumo, cioè non dedicati esclusivamente al mondo della ristorazione, vivono quindi in un arco di tempo più ristretto gli stessi cambiamenti, a livello prima di destinatari e poi di autori, che avevano gradualmente investito l'editoria libraria del settore a partire dalla seconda metà dell'Ottocento. L'esito di questo processo si manifesta sul piano della ideazione e della scrittura delle testate, e rende progressivamente plausibile uno slittamento di queste ultime dal punto di vista del genere editoriale di appartenenza: i periodici di cucina iniziano ad essere inquadrabili sempre meno come testate specializzate e si avvicinano, viceversa, al grande mercato dei femminili.
Le riviste del secondo dopoguerra
La cucina e l'editoria femminile
Durante gli anni di guerra i ricettari si trasformano in strumenti autarchicamente volonterosi nell'affrontare le restrizioni alimentari e l'economicità diventa criterio e fondamento per ogni ricetta. Se si esclude questa parentesi, quelle sopra descritte rimangono le caratteristiche fondamentali dell'editoria di cucina anche del secondo dopoguerra. Infatti, anche durante il Boom e la recessione degli anni Settanta i ricettari continueranno a essere distinti per pubblico e scopi in due categorie: da una parte quelli professionali, con le caratteristiche di sintesi e interpretabilità sopra descritte, e dall'altra quelli destinati a un pubblico "profano", composto essenzialmente di donne, in cui continueranno a manifestarsi quei caratteri di domesticità, praticità, efficienza che contrassegnano l'editoria femminile della prima metà del Novecento. Nel secondo dopoguerra si consolida quindi il riposizionamento editoriale della cucina, che diventa uno tra i tanti argomenti pratici che una rivista per donne deve toccare per essere effettivamente utile nella vita quotidiana delle lettrici. Si tratta perciò di una trasformazione sociale – nella cultura del cibo e del ruolo delle donne in relazione ad esso – che si riverbera sul piano editoriale.
La ricetta di tutti i femminili [22] è data da una compresenza di utilità pratica, insegnamento e divertimento, calibrate in modi diversi a seconda delle lettrici che l'editore intende raggiungere, ma sono soprattutto i femminili di servizio che sviluppano la componente di utilità pratica. Infatti, nel momento in cui la stampa femminile si sostituisce quasi completamente all'editoria specializzata per quanto riguarda la trattazione del culinario, sono soprattutto le testate di servizio a farsi carico dell'argomento, e lo fanno muovendosi in sintonia con quell'approccio tradizionalista al rapporto donna-cucina che ha caratterizzato l'editoria femminile fin dalle sue origini.
Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta i femminili faticano ad inquadrare le trasformazioni nel ruolo extra-domestico della donna, e non riescono a conciliare sul piano simbolico le molte identità (di madre, moglie, lavoratrice, donna di casa) che iniziano a gravare su di essa. Pertanto, davanti a questo conflitto ideologico, la scelta di gran parte delle testate di servizio, in genere tradizionaliste, è quella di rafforzare e valorizzare la figura della casalinga, «forza nutrice, guida spirituale e morale, fonte di conforto» [23]. L'accento posto sull'importanza di una conoscenza sistematica al fine di svolgere correttamente le attività domestiche – una eredità degli anni Trenta – e il ruolo di educatore assunto dalle riviste confermano infatti la casalinga in uno status riconosciuto e positivo. All'interno dei femminili di servizio viene quindi rafforzata e stabilizzata l'idea di una professionalizzazione della gestione domestica, equiparabile per entità e competenze richieste a un vero e proprio lavoro fuori casa. Dal momento che nella mentalità diffusa – e quindi nelle aspettative di genere – l'attività quotidiana di preparare i pasti corrisponde sul piano simbolico a quella di (ri)produrre la casa e la famiglia [24], la sfera dell'alimentazione è fortemente implicata nel progetto di difesa dei ruoli tradizionali di genere, fuori e dentro la casa, che le riviste femminili sostengono nel secondo dopoguerra. Le rubriche di cucina, nella loro prosaicità e "tecnicità", svolgono allora un ruolo importante, anche se non palesato, sul piano ideologico, dal momento che «il cucinare costituisce l'indicatore più fedele dell'abilità e dello status di una donna come padrona di casa» [25].
I femminili di servizio svolgono una funzione fondamentale anche a livello di rappresentazione simbolica del cibo, contribuendo all'adeguamento dell'immaginario culinario alla nuova società industriale che si sviluppa a partire dal Boom. In quegli anni, infatti, la congiuntura favorevole che vede aumentare la disponibilità economica dei lettori e il fatturato delle aziende viene cavalcata dalla stampa femminile. In particolare, la rubrica di cucina diventa il luogo di intermediazione tra le aziende e i lettori: si consolida l'abitudine di creare ricette che utilizzano determinati prodotti, siano essi l'attrezzatura per cucinare e gli elettrodomestici tanto in voga negli anni Sessanta [26] o quei preparati alimentari (lattine, basi, surgelati) che l'Italia, entrata da poco in una realtà pienamente industriale, fatica ancora ad accettare. Questi periodici si propongono, quindi, come punto di contatto tra l'industria alimentare e l'universo dei lettori, e proprio il loro status di esperti affidabili e di guide (sia pratiche che morali) autorevoli fa sì che la stampa femminile di questi anni si faccia ambasciatrice presso il pubblico della visione allo stesso tempo forte e poco assimilata sostenuta dalle industrie, cioè quella del cibo come merce.
La rinascita dell'editoria specializzata
A partire dagli anni Ottanta il mercato dei periodici di consumo dedicati alla cucina conosce un'improvvisa rinascita che si conferma e consolida nel boom dei due decenni successivi: negli ultimi venticinque anni hanno visto la luce sessantaquattro testate. Si tratta di un fenomeno interessante, che dimostra come un argomento che sembrava destinato da una parte a rimanere appannaggio della stampa specializzata per professionisti e dall'altra ad essere "divulgato" come una delle tante sfere di competenza dei femminili, abbia invece conosciuto una profonda trasformazione dal punto di vista editoriale. A partire dagli anni Ottanta, infatti, la sfera del culinario inizia ad essere concepita dalle case editrici come un tema autonomo, a cui può essere dedicata un'intera rivista, e allo stesso tempo di sicuro interesse per il grande pubblico.
In quegli anni, in realtà, il fenomeno della specializzazione investe tutti i settori dell'editoria periodica: le riviste iniziano a ripensarsi come veicoli pubblicitari più piccoli come dimensione ma allo stesso tempo più efficaci, proponendosi come il mezzo di comunicazione adatto ad un pubblico più specifico. Ne consegue un proliferare di testate pensate per rispondere agli interessi e ai bisogni più disparati, una trasformazione del mercato che investe in modo particolare le grandi testate "generaliste" come i femminili di servizio, che in un unico contenitore intendevano coprire tutti i campi di competenza e gli interessi domestici delle donne dalla cucina alla maternità, dalla vita di coppia al fai da te. Da questa scissione nascono, tra le altre, le riviste dedicate esclusivamente alla cucina, nella consapevolezza, acquisita grazie a nuove tecniche di marketing, che esista nella società italiana un interesse per questo argomento abbastanza consistente da sostenere una rivista interamente centrata sul cibo. La rapida crescita del settore negli anni successivi dimostra che questo bisogno effettivamente esisteva, anche da parte di una fiorente industria alimentare, desiderosa di pubblicizzare i propri prodotti in modo sicuro ed efficace, proponendoli cioè ad una nicchia motivata e competente. Esiste infatti un lettore che fino a quel momento non era stato interpellato dalle riviste di cucina, un lettore indifferentemente maschile o femminile, con una buona disponibilità economica, curioso e sperimentatore da un punto di vista culinario. Si tratta di un pubblico che considera la cucina una componente fondamentale del proprio stile di vita e un campo in cui acquisire (e mostrare) conoscenza, e che allo stesso tempo valuta il consumo in una prospettiva più esistenziale – di affermazione della propria individualità – che utilitaristica [27]. Questo target è estremamente interessante non solo per le case editrici, ma anche per l'industria alimentare, dal momento che, proprio per queste sue caratteristiche, non è ancora stato "toccato" dalle pubblicità alimentari, pensate per responsabili d'acquisto di fascia più popolare e non abituate ad investire consapevolmente il consumo di questo valore estetico e simbolico.
Il cibo, quindi, “rinasce” socialmente prima di tutto all'interno delle redazioni, attraverso l'opera di riqualificazione promossa da quegli intermediari culturali (direttori, giornalisti gastronomici, food stylists, pubblicitari) che per primi ne hanno inteso la valenza simbolica e identitaria al di là del gesto materiale. La conseguenza di questa profonda trasformazione è una segmentazione all'interno del settore cucina che dà vita, nell'ambito comunque delle riviste di consumo, a due sotto-generi distinti: da una parte testate "epicuree", assolutamente innovative nel panorama italiano e pensate per quel pubblico nuovo di cui abbiamo appena parlato, e dall'altra riviste familiari, per un pubblico più tradizionale. Queste ultime, portatrici di una visione più domestica e quotidiana della cucina, sono le eredi di quella tradizione che origina dalle riviste gastronomiche della prima metà del secolo e che in seguito si sviluppa nella stampa femminile del dopoguerra.
La differenziazione editoriale e la cultura gastronomica
I due filoni editoriali che si sviluppano a partire dagli anni Ottanta interpretano in modo peculiare la cucina – come pratica, come scrittura e come cultura – e il suo rapporto con la società, e questo dà vita a profonde differenze per quanto riguarda sia il contenuto gastronomico che il modo in cui quest'ultimo viene “raccontato”. La stessa ricetta può infatti essere presentata con un tono confidenziale e alla pari o piuttosto in modo distante e pedagogico, a seconda dell'idea che si ha delle competenze e degli interessi del lettore, e sulla base di queste differenze testuali cambia il rapporto che si stabilisce con il proprio pubblico.
Le riviste familiari, “funzionali” raccolgono e adattano ad un mercato specializzato l'eredità di quell'approccio tradizionale alla presentazione e alla narrazione della cucina che contraddistingue le riviste destinate a un pubblico femminile già dai primi del Novecento. Riprendendo quell'impostazione, infatti, questi periodici focalizzano i contenuti sulla dimensione ordinaria della pratica culinaria: la cucina rappresenta sempre un aspetto funzionale della vita quotidiana, sia sul piano fisiologico che su quello sociale ed è, tradizionalmente, un'incombenza femminile da affrontare tenendo presente le esigenze gustative e nutritive di tutti i membri familiari. Queste riviste propongono quindi una cucina del fare, orientata alla realizzazione, all'esito della ricetta e antepongono il livello pragmatico a quello cognitivo-esperienziale (sia della vista che del palato). Questa impostazione pratica, strumentale della divulgazione culinaria, funzionale ad un consumo conveniente e salutare prima ancora che percettivamente ricco per il palato, fa sì che la conoscenza gastronomica sia soprattutto un'informazione utile per muoversi tra le merci, e non un valore in sé. Pertanto l'intenzione non è sedurre il lettore e incuriosirlo, ponendosi come una fonte di stimoli per vista, fantasia ed – eventualmente – palato: l'obiettivo è piuttosto quello di insegnare, da una parte le tecniche culinarie e dall'altra una salutare conoscenza di ciò che si mangia.
Accanto a questa rappresentazione periodica della cucina e dei suoi artefici se ne sviluppa una seconda profondamente diversa, che abbiamo definita epicurea proprio per la sua accentuazione della dimensione edonistica del cibo, dal momento del consumo della rivista a quello eventuale della preparazione alimentare, fino al gesto nutritivo. Il piacere rappresenta in tutte queste testate l'aspetto centrale: il cibo è inquadrato come emozionante oggetto di passione e fonte di sensazioni, e diventa importante soprattutto per il suo valore simbolico, per la sua capacità di rivelare – attraverso le scelte di consumo – l'identità dell'individuo a se stesso e agli altri. L'edonismo è pertanto giustificato, valorizzato e promosso da queste testate, soprattutto attraverso una forte estetizzazione dei piatti proposti, come testimonia il fatto che le fotografie costituiscano il vero punto di forza di queste testate. Il cibo si fa quindi scenografia e rappresentazione, spettacolo per gli occhi che deve rendere in modo allettante quello, solo potenziale, del palato.
Questo approccio estetizzato all'ambito gastronomico modifica l'intreccio, sempre esistito, tra apparenza e concupiscenza, tra piacere degli occhi e gratificazione del palato, tanto che, secondo i critici, «la visione del cibo non ha più una funzione stimolante e aperitiva, ma finisce per anteporre l'emozione al gusto, l'estetica alla tecnica» [28]. Questa trasformazione delle testate di cucina incide certamente sul rapporto sguardo-palato e sulla rappresentazione del cibo a livello di immaginario culinario non solo individuale. Inoltre l'accentuazione della dimensione estetica ed edonistica, della fantasia e del desiderio fanno sì che questi stessi criteri diventino per il lettore non solo i motori dell'approccio ai periodici, ma anche gli elementi che ne circoscrivono ed esauriscono il consumo. Nasce così una nuova forma di consumo gastronomico, che può essere realizzato semplicemente attraverso l'organo della vista.
D'altra parte, il piacere gustativo è allo stesso tempo sollecitato e formato da questa tipologia di riviste: nel loro ruolo di intermediari culturali, si propongono come convitati più esperti che educano il lettore prima nella capacità di riconoscere e comprendere l'esperienza sensoriale e poi, fornendogli un lessico appropriato, in quella di esprimerla verbalmente. Le testate epicuree esercitano cioè il ruolo di esperto riconosciuto da sempre alle rivista, ma lo fanno con l'obiettivo di acculturare il piacere. La dimensione della conoscenza – come momento fondamentale di formazione di una cultura non superficiale del cibo che andrà poi ad orientare la prassi – è quindi fortemente presente in queste testate, ma è una conoscenza centrata sulla sensorialità, sull'avventurosa esperienza gustativa e non sulle caratteristiche nutrizionali degli alimenti, tanto importanti per le riviste più tradizionali: nelle riviste epicuree il sapere riguarda (ed è sempre subordinato a) le sfere del gusto e del piacere. Il compito di queste testate diventa pertanto quello di dare ai lettori suggerimenti per affinare il loro gusto, spunti estetici prima che tecnici e proprio per questa ragione viene proposta una cucina del sapere, dello scoprire, del viaggiare e del conoscere che presuppone, oltre che un interesse, una vivacità e un'autonomia ricettive.
L'accentuazione della dimensione edonistica delle testate epicuree modifica anche l'orizzonte pratico e domestico delle riviste tradizionali e la rappresentazione dell'atto culinario storicamente veicolato da questi ultimi: la pratica culinaria, nell'ambito di uno stile di vita estetizzante e orientato al piacere, cessa di essere un'incombenza routinaria e si trasforma in un hobby, da curare con calma nel tempo libero. Diventa un'attività creativa in cui il soggetto può esprimere la sua personalità e il suo gusto, trasformando un pasto in un "evento speciale", sia per i suoi sensi, privatamente, che per i suoi ospiti. Cucinare rimane perciò anche in queste riviste un atto profondamente sociale, ma in modo nuovo: non è più un obbligo da esercitare nei confronti della propria famiglia e della società, ma una pratica piacevole e conviviale in cui mettere in mostra le proprie abilità. In linea di massima, su queste pagine la cucina si trasforma allora da pratica ordinaria a occasione speciale-esibizione e da incombenza pressoché esclusivamente femminile a sfera d'azione ludica, loisir domestico per entrambi i sessi.
La riconcettualizzazione operata dalla seconda tipologia di testata è quindi complessiva e riguarda l'immaginario alimentare in tutti i suoi aspetti: chi è socialmente legittimato ad avventurarsi ai fornelli ma anche secondo quali criteri pratici, cognitivi, esperienziali può (o deve) interpretare il cibo che prepara. A cambiare sono, di conseguenza, anche i significati e le connotazioni stesse dei concetti di piacere, gusto, conoscenza culinaria che emergono dai periodici di cucina.
Note
[1] M. Montanari, Il cibo come cultura, Roma-Bari, Laterza, 2004, 42.
[2] I primi esempi manoscritti in Italia risalgono agli inizi del XV secolo (si veda A. Capatti, M. Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, Roma-Bari, Laterza, 1999).
[3] Cfr. A. Appadurai, How to make a National Cuisine: Cookbooks in Contemporary India, «Comparative Studies in Society and History», 30 (1988), 3.
[4] Si veda S.A. Inness, Dinner Roles: American Women and Culinary Culture, Iowa City, University of Iowa Press, 2001, 10.
[5] M.G. Muzzarelli, F. Tarozzi, Donne e cibo. Una relazione nella storia, Milano, Bruno Mondadori, 2003, 101.
[6] Familiarità rafforzata dal fatto che a partire dall'inizio del Novecento l'editoria libraria di cucina inizia a ridurre formato e foliazione dei volumi, abbassandone il costo e di conseguenza aumentando le tirature. In questo modo si passa da singoli volumi a collane, dispense e fascicoletti, che finiscono per assimilare i manuali sull'argomento ai periodici.
[7] Le riviste di cucina rappresentano oggi un segmento significativo dell'editoria periodica in Italia: solo nel nord del paese vengono distribuiti più di sessanta titoli, per un totale di copie vendute che nel 1999 superava i tre milioni ogni mese. Negli anni successivi tutto il mercato della carta stampata ha conosciuto un momento di stagnazione, dovuta a congiunture esterne e interne, che ha raggiunto il suo culmine nel 2002. Tuttavia, a conferma dell'importanza di questo settore editoriale nel nostro paese, questa delicata fase non ha impedito ai mensili dedicati alla gastronomia di rimanere tra i consumi di carta stampata più comuni in Italia, con una diffusione complessiva di oltre un milione e duecentomila copie, secondo i dati FIEG 2003.
[8] Per un approfondimento sulla storia della cucina in Italia rimandiamo in particolare a A. Capatti, A. De Bernardi, A. Varni (eds.), Storia d'Italia. Annali 13. L’alimentazione, Torino, Einaudi, 1998; Capatti, Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, cit.; G. Marchesi, L. Vercelloni, La tavola imbandita. Storia estetica della cucina, Roma-Bari, Laterza, 2001; M. Montanari, Nuovo convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola nell'età moderna, Roma-Bari, Laterza, 1991.
[9] Tratto da F. Tarozzi, Padrona di casa, buona massaia, cuoca, casalinga, consumatrice. Donne e alimentazione tra pubblico e privato, in: Capatti, De Bernardi, Varni (eds), Storia d'Italia. Annali 13. L’alimentazione, cit., 675.
[10] Ibid., 676.
[11] Il primo manuale di cucina stampato negli Stati Uniti risale al 1742 ed è intitolato significativamente The Compleat Housewife (si veda Inness, Dinner Roles: American Women and Culinary Culture, cit.).
[12] Per tutto l'Ottocento l'aristocrazia adotta infatti la cucina d'oltralpe, i cui tratti distintivi sono un largo impiego di ingredienti ricercati e antieconomici (amalgamati attraverso un largo impiego di salse) e la predilezione per preparazioni complesse, accostamenti sofisticati e presentazioni scenografiche.
[13] Si veda P. Camporesi, La terra e la luna. Alimentazione, folclore, società, Milano, il Saggiatore, 1989, 108.
[14] Da questo punto di vista è esemplare il fatto che La scienza in cucina di Artusi, il più importante ricettario dell'epoca nonché modello di riferimento per la didattica culinaria in Italia fino al secondo Novecento, sia sottotitolato Manuale pratico per le famiglie.
[15] Tuttavia il primo libro di cucina italiana scritto e firmato da una donna viene pubblicato solo nel 1900, a Milano (si veda M.P. Moroni Salvatori, Ragguaglio bibliografico sui ricettari del primo Novecento, in: Capatti, De Bernardi, Varni (eds.), Storia d'Italia. Annali 13. L'alimentazione, cit.).
[16] Si veda Capatti, Montanari, La cucina italiana. Storia di una cultura, cit., 222.
[17] Tratto da Moroni Salvatori, Ragguaglio bibliografico sui ricettari del primo Novecento, cit., 889.
[18] Cfr. Camporesi, La terra e la luna. Alimentazione, folclore, società, cit., 258.
[19] Nel 1893 nasce negli Stati Uniti il movimento delle donne di Home Economics. Per un riferimento più dettagliato si vedano H. Levenstein, Paradox of Plenty. A Social History of Eating in Modern America, New York, Oxford University Press, 1993 e L. Shapiro, Perfection Salad: Women and Cooking at the Turn of the Century, New York, Random House, 1986.
[20] Nasce così la figura, che nel secondo dopoguerra diventerà uno stereotipo, della casalinga, della donna che nella versione propagandistica della precettistica del tempo è capace di ridare valore alle emozioni e agli affetti, e che in realtà trova nella casa la giustificazione e lo scopo della propria esistenza sociale. È nella casa, infatti, che secondo l’opinione diffusa del tempo si devono affermare le qualità della casalinga, cioè pulizia, ordine e serenità: qualità del comportamento che devono essere allenate o, in molti casi, apprese nei rudimenti e proprio a queste lacune intendono supplire i corsi di economia domestica.
[21] Citato in Moroni Salvatori, Ragguaglio bibliografico sui ricettari del primo Novecento, cit., 907.
[22] Per quanto riguarda l'editoria femminile alcuni testi fondamentali su cui ci siamo basati per la nostra analisi sono J. Hermes, Reading Women's Magazines. An Analysis of Everyday Media Use, Cambridge, Polity Press, 1995; K. Keller, Mothers and Work in Popular American Magazines, Westport-London, Greenwood, 1994; L. Lilli, La stampa femminile, in: V. Castronovo, N. Tranfaglia (eds.), La stampa italiana nell'età della TV: dagli anni Settanta a oggi, Roma-Bari, Laterza, 2002; J. Williamson, Consuming Passions. The Dynamics of Popular Culture, London, Marion Boyars, 1986; J. Winship, Inside Women’s Magazine, London, Pandora Press, 1981.
[23] Cfr. Keller, Mothers and Work in Popular American Magazines, cit., 147.
[24] Si veda a questo proposito M. DeVault, Feeding the Family: the Social Organization of Caring as a Gendered Work, Chicago, University of Chicago Press, 1991.
[25] Cfr. N. Walker, Shaping Our Mothers’ World: American Women’s Magazines, Jackson, University Press of Mississippi, 2000, 177.
[26] Si incoraggia cioè l'acquisto di questi apparecchi suggerendo in modo esplicito un legame tra performance culinaria e attrezzatura, un messaggio particolarmente efficace in un epoca di forti aspirazioni di status. Per un'analisi della “normalizzazione” della tecnologia domestica e del ruolo ricoperto dai discorsi dei ricettari in questo processo si veda E. Shove, D. Southerton, Defrosting the freezer: from novelty to convenience, «Journal of Material Culture», 2000/5, 301-20.
[27] Per un approfondimento sul tema dell'estetizzazione del consumo si consigliano in particolare M. Featherstone, Cultura del consumo e postmodernismo, Roma, Edizioni Seam, 1991 (ed. orig.: Consumer Culture and Postmodernism, London, Sage, 1990); A. Giddens, Modernity and Self-Identity, Cambridge, Polity Press, 1991. Per inquadrare l'argomento in una prospettiva più generale sull'evoluzione e sul significato delle pratiche di consumo, si veda R. Sassatelli, Consumo, cultura e società, Bologna, il Mulino, 2004.
[28] Cfr. L. Vercelloni, La modernità alimentare, in: Capatti, De Bernardi, Varni (eds), Storia d'Italia. Annali 13. L’alimentazione, cit., 82.
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