Introduzione
Poiché in questa sede sarebbe inutile ripercorrere tutte le fasi della cattedrale reggiana, e sarebbe ugualmente pleonastico dare conto della bibliografia specifica relativa al complesso vescovile di Reggio Emilia, il riferimento ancora una volta corre obbligatoriamente ai saggi e al puntuale resoconto storiografico del volume del 2014 [Morisco 2014]. Mi concentrerò piuttosto sulla fabbrica del duomo limitatamente alla fase medievale, e in particolare quella romanica, fase importante perché coincide di fatto, come vedremo, con l’impianto planivolumetrico attuale, tenuto conto delle numerose addizioni o modifiche che tra poco individueremo. In tempi recentissimi, peraltro, sono stati pubblicati contributi volti a offrire un quadro di sintesi dell’architettura romanica italiana [Tosco 2016] e in particolare del Settentrione [Lomartire 2016; Vergnolle, Tosco 2016] utili per una contestualizzazione storicamente e storiograficamente aggiornata; ad essi dobbiamo rimandare per l’Emilia Romagna in generale [Calzona, Milanesi 2016] e per i rapporti architettura/committenza canusina [Piva 2011; Mancassola 2016].
La struttura della cattedrale
Va detto che chiunque si sia avviato allo studio del duomo reggiano è incappato in un enorme e per ora inesorabile ostacolo: contrariamente ad alcune delle cattedrali di epoca romanica geograficamente e cronologicamente più vicine, penso per esempio a Modena, a Cremona, a Piacenza, a Ferrara, a Verona, a Pisa, a Bergamo, nessuna tipologia di fonte scritta consente il benché minimo appoggio documentario. Persino la cattedrale di Parma [Luchterhandt 2009; 2016], che pure non ha conservato atti di fondazione o materiali analoghi, ha tuttavia alcuni appigli su cui fare, per quanto cautamente, leva, vuoi la consacrazione di papa Pasquale II in viaggio al nord Italia nel 1106 ricordata da Donizone nel De principibus Canusinis, vuoi le notizie, seppur trecentesche, relative al terremoto del 1117. Per Reggio Emilia non conosciamo al momento nulla di paragonabile e pertanto solo la analisi stilistica delle parti medievali ancora esistenti in alzato e dell’apparato scultoreo e musivo consentono di formulare alcune ipotesi. La difficoltà maggiore nella lettura del corpo di fabbrica della cattedrale di Reggio Emilia deriva dalle continue superfetazioni che nel corso dei secoli si sono susseguite, diciamo fino al XVIII secolo.
Per tale motivo, al fine di rendere apprezzabile e comprensibile la lettura, è quindi forse utile compiere il primo passo procedendo per sottrazione degli elementi avulsi dalla fabbrica di epoca romanica: ecco dunque che tutte le cappelle laterali risultano essere di epoca moderna, così come l’allungamento e l’allargamento della zona presbiteriale effettuati a partire dal XV secolo.
Il cleristorio e il transetto settentrionale (fig. 6), osservabili direttamente da una finestra al piano alto del Palazzo Vescovile, offrono una problematica lettura a causa di ancor più numerosi addossamenti e rifacimenti. Siamo in grado di osservare dall’esterno direttamente solo il setto occidentale dell’incrocio tra cleristorio nord e la fronte occidentale del relativo transetto. Dati decisamente importanti si ricavano invece da una perlustrazione diretta dei sottotetti, cui si accede dal lato meridionale, dal piano sopraelevato del Broletto.
Percorrendo le scale moderne di accesso al sottotetto, realizzate in aderenza tra lo spigolo della testata orientale e quella meridionale del transetto antico e il tamburo di contenimento della cupola che sormonta la Cappella Rangona realizzata sul fianco meridionale del presbiterio, si notano alcune riseghe verticali e orizzontali che devono essere messe in relazione alle grandi specchiature che descrivono i setti murari medievali del transetto meridionale visibile dall’esterno. Ne ricaviamo dunque che i perimetrali esterni del transetto medievale sono rintracciabili con sufficiente precisione verso ovest e sud (visibili dall’esterno) ma anche verso est benché celati dai sottotetti delle strutture aggiunte. A questo si somma un altro elemento importante, osservabile a livello del piano di calpestio del sottotetto del transetto meridionale.
Dal sottotetto del transetto meridionale attraversiamo il sottotetto del presbiterio in aderenza alla parte esterna del tiburio che insiste sull’incrocio, e giungiamo nel sottotetto del transetto settentrionale: qui non siamo in grado, a causa dei massicci rifacimenti, di individuare con precisione brani risalenti alla fabbrica romanica. Individuiamo tuttavia alcuni elementi di epoca tardo medievale (un capitello e alcuni archetti molto pronunciati diversi dagli archetti ciechi del sottotetto meridionale) che aprono alla possibilità di verificare la presenza di un grande cantiere di aggiornamento in coerenza con le parti di XIII secolo del settore occidentale cui abbiamo fatto cenno poco fa. Abbiamo conferma di tale cantiere duecentesco anche analizzando il paramento murario del sottotetto della navata maggiore per quasi tutta la sua lunghezza. In questa zona infatti si può osservare un setto continuo realizzato con le stesse archeggiature che abbiamo visto nel sottotetto del transetto settentrionale (fig. 8), archeggiature che ad una attenta analisi risultano soltanto addossate al perimetrale.
La prova che tale arco traverso appartenga alla fase precedente all’aggiunta delle grandi archeggiature sui cleristori interni della navata maggiore è data dalla loro interruzione in corrispondenza dell’attacco dell’arco stesso e confermata al contempo dalla decorazione pittorica, decorazione pittorica su dominanti bianco e rossa che è una cifra caratteristica dell’intero cantiere tardomedievale del XIII secolo dal momento che la si ritrova qui, nella torre/tiburio di facciata e qua e là sui muri interni delle navate e della cripta liberati dalle superfetazioni moderne [Autenrieth 2012; Lomartire 2014].
Nonostante alcuni tentativi di riconoscere tracce di cripte antiche, dagli scavi effettuati non si è in grado in realtà di affermare con certezza se fosse esistita una confessione anteriormente ai decenni a cavaliere del XII e XIII secolo. Tale possibile cronologia deriva in questo caso da un seppur labile appiglio documentario rappresentato dalla comparsa nei documenti a partire dal 1211 di una «Ecclesia Sancti Grisanthi de Domo», documento che è stato collegato al rilancio del culto dei santi cittadini avvenuto a fine XII-inizio XIII secolo, [2] e soprattutto alla presenza della prima cripta della cattedrale. A questa campagna di lavori della zona presbiteriale relativi al 1211 deve essere logicamente e cronologicamente connesso per via stilistica l’apparato scultoreo proveniente dalla recinzione presbiteriale ora diviso tra il Museo Diocesano di Reggio Emilia e istituzioni museali statunitensi [Vescovi 2008a] e a questa stessa fase devono appartenere anche i leoni stilofori di cultura antelamica ora in posizione spuria sul portale del perimetrale meridionale [Vescovi 2008b]. Oltre ai pezzi che compongono la recinzione presbiteriale databili alla fine del XII-inizio XIII secolo, negli ultimi decenni sono venuti alla luce anche altri brani che appartenevano all’arredo liturgico: la lastra con il Pantocratore e i simboli evangelici e una frammentaria Madonna con Bambino [Vescovi 2008c; Vescovi 2008d] le cui cronologie vanno portate almeno al secondo quarto del XIII secolo. In questa situazione complessa, per comprendere ciò che accade nel settore presbiteriale della cattedrale di Reggio Emilia occorre tenere presente un ultimo dato, di natura documentaria inconfutabile. All’anno 1223 (o 1228) le cronache reggiane registrano il crollo della torre, presumibilmente di facciata, che obbliga a intervenire seriamente sulla fabbrica [Milanesi 2014]. Alla fine del secolo XII dunque, in concomitanza con il rilancio del culto dei santi cittadini, si decide di realizzare una cripta (attestata appunto nel 1211), probabilmente solo in corrispondenza della navata centrale. A questa fase appartengono i leoni stilofori del fianco meridionale e le lastre con i santi della recinzione presbiteriale. Il crollo della torre poco più di dieci anni dopo, evidentemente non prevedibile, comporta l’apertura di un nuovo cantiere, questa volta di grandi dimensioni e non limitato al presbiterio che, durante i lunghi episcopati di Niccolò de’ Maltraversi (1211-1243) e Guglielmo da Fogliano (1243-1281), conduce a un generale aggiornamento che culminerà con l’allungamento di una campata per la realizzazione dell’attuale torre di facciata (documentata dal 1269) e relativi affreschi ancora in parte conservati, con l’inserimento delle archeggiature del settore più elevato della navata centrale ed infine con una decorazione pittorica omogenea su dominanti bianche e rosse dell’interno e con l’implementazione dell’arredo liturgico presbiteriale di cui si sono conservati la lastra con il Pantocratore e la frammentaria Madonna con Bambino cui aggiungere la lastra con i Re Magi [Vescovi 2008e] molto probabilmente collocata sulla nuova facciata duecentesca.
I lavori di restauro di questi ultimi anni hanno dunque avuto il grande merito di porre all’attenzione degli studiosi una serie di elementi su cui ragionare per ipotizzare una cronologia della fabbrica anteriore ai grandi lavori duecenteschi. Partiamo dai setti murari più antichi che abbiamo individuato nel sottotetto della navata maggiore e nei transetti e compariamoli con altre fabbriche padane. L’uso insistito di materiale di reimpiego frammentato e frammisto a materiale lapideo con alti letti di malta e stilature marcate trova confronto nella Valle del Po con i cleristori e con i setti murari meno restaurati della parte occidentale del Sant’Antonino di Piacenza [Segagni 2009], ascrivibile al primo quarto circa del secolo XI, oppure con le coeve cortine murarie della basilica di Santa Maria Maggiore di Lomello, e più significativamente con alcuni campanili ravennati del principio del secolo XI circa, o, in modo decisamente più puntuale, con le absidi di San Michele Arcangelo a Nonantola [Milanesi 2012; Gelichi 2013], edificio questo avvicinato già da Roberto Salvini al campanile dell’abbaziale di Pomposa che una ben nota epigrafe consente di datare con certezza al 1063 [Russo 2012].
Tenuto conto della difficoltà e delle relative necessarie cautele che devono accompagnare il raffronto formale tra elementi di decorazione architettonica, alla seconda metà del secolo XI in particolare conducono anche gli accostamenti che è possibile proporre per gli archetti ciechi esterni. A Reggio la difficoltà è doppia dal momento che esistono differenze formali tra gli archetti del cleristorio e quelli del transetto. La composizione degli archetti del cleristorio è più regolare (fig. 10), con peducci a mensola e piccoli laterizi curvi realizzati ad hoc in fornace; gli archetti del transetto mostrano maggior irregolarità compositiva, i peducci hanno la forma di una goccia e la curvatura non è data da laterizi sagomati per lo scopo, ma da piccoli frammenti posti di taglio.
La fase romanica
Si trattava di un edificio a tre navate con transetto continuo alto desinente in un coro absidato, con copertura a capriate, con arco traverso mediano e un sistema di sostegni con scansione di tipo ottoniana o “dattilica” (due pilastri deboli e un pilastro forte, in sequenza). Non siamo ancora in grado di stabilire con certezza come fosse la fronte occidentale in alzato, sappiamo con sicurezza, come abbiamo anticipato, che era arretrata di una campata e che con tutta probabilità mostrava una struttura circolare sul modello delle chiese a doppio coro o absidi opposte oppure con Westbau circolare [Piva 2013; Calzona 2014]. A questo proposito, nonostante la consistente massa di dati raccolti, è ancora difficile propendere per una soluzione o l’altra, anche in relazione ai problematici rapporti tra la fase romanica e quella tardocarolingia. L’esistenza della cripta a est non è dimostrabile per l'XI secolo, si è invece certi per via archeologica di una struttura ipogea sottostante il corpo occidentale preposta con molta probabilità alle sepolture privilegiate. Infine, i setti murari del cleristorio sopra le arcate di passaggio tra nave maggiore e navi minori erano alleggerite da matronei, anzi, poiché non è dimostrata nessuna copertura delle navatelle e quindi nessun piano di calpestio, erano piuttosto caratterizzati da pseudo-matronei non calpestabili sul modello del San Ciriaco a Gernrode (960 circa), in Italia per la prima volta probabilmente realizzati sul cantiere della Ss. Trinità di Milano (poi San Sepolcro [Schiavi 2005]). Da quanto detto, emerge insomma l’esistenza a Reggio Emilia di una chiesa i cui modelli di riferimento possono essere rintracciati in area imperiale ottoniana e salica.
Naturalmente si tratta di una conclusione che può forse meravigliare dal momento che sappiamo che Reggio Emilia, con il vicino castello di Canossa costituiva il cuore dei territori canossiani. Ma da questo dato occorre ora ripartire per cercare di comprendere in che modo un edificio come quello che abbiamo descritto si inserisca nel rapporto vescovi/Canossa. Non abbiamo, come si è visto, una data precisa; dobbiamo limitarci a ipotizzare una forbice cronologica in cui muoversi, forbice che, cautamente, è opportuno tenere larga tra il 1060 e il 1080 circa.
È possibile verificare se in quei decenni vi fossero condizioni opportune per la ricostruzione di una cattedrale su modelli imperiali un secolo dopo la fabbrica ottoniana rintracciata negli scavi [Calzona 2014]? Posta in questa modo, la risposta a tale interrogativo appare quasi scontata perché basta scorrere l’elenco dei vescovi a cavallo della metà del secolo XI per accorgersi facilmente che la Chiesa di Reggio Emilia era intimamente connessa al sistema della Reichskirkche [Giovanelli 2012; Cenini 2012]. Sigefredo, Conone, Adalberone, Wolmaro e Gandolfo sono vescovi perfettamente inseriti nei quadri imperiali, addirittura Adalberone (vescovo tra il 1053/54-1063) prima di assurgere alla cattedra reggiana, fu preposto tra i canonici di Zurigo [Schwartz 1993, 196-197]. Se parallelamente consideriamo cosa accadde, anche in modo superficiale, sul versante della famiglia più potente e influente della diocesi, ovviamente quella dei Canossa, potremmo trovare un’altra apparente facile spiegazione per la scelta di un modello imperiale per la cattedrale reggiana: come noto, la seconda moglie di Bonifacio di Canossa fu Beatrice, donna profondamente inserita nei quadri imperiali [Lazzari 2012]. Figlia di Federico duca di Lorena e Matilde, figlia del duca di Svevia, la giovane Beatrice fu allevata alla corte di Corrado II, la cui consorte in terze nozze, Gisella, era sua zia in quanto sorella del padre. Di fatto dunque Beatrice di Lorena, la madre di Matilde di Canossa, era nipote dell’imperatore Corrado II e divenne cugina di primo grado con il figlio di questi Enrico, il futuro imperatore Enrico III. Quando fu celebrato il matrimonio di Bonifacio con Beatrice nel 1037/38 (concluso nel 1052 con la morte di Bonifacio), la famiglia dei Canossa entrò a pieno titolo nella grande vassallità imperiale europea. Se aggiungiamo che i primi Canossa provenivano dalla vassallità episcopale reggiana, già inserita a quel tempo – ma non poteva essere diversamente –, nel Reichskirchensystem, potremmo trovare tutte le condizioni socio-politiche ideali per spiegare la scelta del modello di immagine per la cattedrale di Reggio Emilia.
Beatrice e Matilde di Canossa e le immagini della cattedrale
Ma la storia non procede attraverso fatti, date od avvenimenti contrapposti o connessi secondo una equazione differenziale. Come la più aggiornata storiografia suggerisce, le dinamiche sono sempre più complesse e il rapporto episcopato reggiano/Canossa è una cartina di tornasole in questo senso.
Basti pensare ai polittici delle malefatte riferiti a Bonifacio a danno della Chiesa reggiana, o alla interpretazione storiografica secondo la quale nell’XI secolo in area reggiana la città afferiva generalmente al vescovo e il contado afferiva ai Canossa, in particolare proprio negli anni di Bonifacio [Rinaldi 2001]. Tale schema è perfetto in un quadro totalmente sgombro da qualsivoglia attrito e contrasto. Ma le prevaricazioni di Bonifacio sono reali e documentate, pertanto quel quadro idilliaco nel quale si è inteso talvolta, ottimisticamente, dividere le aree di influenza dei vescovi reggiani e dei Canossa non ha mai funzionato [Cantarella 2012]. Quando muore Bonifacio, essendo i figli o morti o ancora troppo giovani – Matilde aveva solo sei anni – la gestione dell’immenso patrimonio canusino passa in toto nelle mani della moglie Beatrice, la quale, sulla scorta dei documenti che ci sono pervenuti sembra manifestare un certo disinteresse per la città di Reggio Emilia e per il suo episcopio perché focalizzata maggiormente sui territori toscani e dunque su Pisa. Dopo il 1052 si è conservato solo un documento e si tratta peraltro di una piccola donazione a San Prospero (nel 1072); non è certo possibile sulla scorta di questo dato collegare il modello ottoniano-salico della cattedrale di Reggio Emilia a eventuali intrusioni di Beatrice nelle dinamiche di committenza vescovile, dinamiche che viaggiano su vie indipendenti per la maggior parte dei casi e appaiono connesse soltanto alle specifiche esperienze e culture dei singoli protagonisti [Tosco 2011]. Il disinteresse di Beatrice per la città di Reggio Emilia è solo apparentemente banale e si palesa in modo ancora più emblematico semplicemente considerando che quando la madre di Matilde muore nel 1076 si decide che venga seppellita a Pisa, lontano dalle sue terre natie lorenesi, lontano dai due mariti (Bonifacio sepolto a Mantova, Goffredo il Barbuto, sposato in seconde nozze nel 1054, morto e sepolto a Verdun nel 1069) e lontano anche dal castello di Canossa e dalla cattedrale cui faceva riferimento. Non potremo mai sapere se la scelta di essere seppellita nel complesso della cattedrale pisana fosse dettata da motivi esclusivamente di opportunità politica oppure anche da motivi legati al prestigio di un edificio che era non solo nuovo (fu fondato nel 1063) ma anche innovativo e rivoluzionario nel panorama del romanico europeo. Rimane il fatto che Beatrice, confermando quanto fece il primo marito Bonifacio e i suoi avi prima di lui, e come farà del resto sua figlia Matilde [Badini 2012], non ebbe rapporti idilliaci con la città di Reggio Emilia. D’altra parte, nel poema celebrativo della famiglia dei Canossa, a fronte per esempio delle notizie fornite sulla consacrazione della cattedrale di Parma, Donizone non fa nessun cenno per quella reggiana, anzi, in uno di quei rarissimi casi in cui si nomina la città l’accezione è o neutra o negativa (per esempio il ruolo di assistenza nei confronti di Corrado dopo la battaglia di Coviolo). Arrischiamoci a dire che se i Canossa avessero avuto un ruolo determinante nella costruzione della cattedrale reggiana, Donizone avrebbe avuto buon gioco, forse, nel ricordarlo. Proviamo invece a considerare un elemento finora passato sottotraccia che può forse rivelarsi utile per comprendere il quadro storico in cui collocare l’avvio e lo sviluppo del cantiere della cattedrale. Alla luce dei confronti che abbiamo proposto, se per la cattedrale possiamo ipotizzare un cantiere avviato nel terzo quarto del secolo XI, i vescovati di Adalberone (1053-1060), Volmaro (1062-1065) e Gandolfo (1065-1085) appaiono momenti possibili di committenza di un edificio basato su modelli cari alla Chiesa imperiale [Vescovi 2012]. Esiste però un altro personaggio, legato, anzi legatissimo alla Chiesa imperiale e che svolse un ruolo da protagonista assoluto nella seconda metà del secolo XI. L’arcivescovo Guiberto, noto soprattutto come Guiberto da Ravenna, in carica dal 1073 fino alla morte nel 1100, era al secolo Guiberto da Correggio, ovvero uno dei massimi esponenti delle grandi famiglie dell’area parmigiano-reggiana, imparentata peraltro con la famiglia dei Canossa. Guiberto è ricordato solitamente a partire dalla sinodo “enriciana” convocata a Bressanone nel 1080 durante la quale fu eletto (anti)papa e assunse il nome di Clemente III in opposizione dapprima a Gregorio VII, ma poi anche a Vittore III, Urbano II e Pasquale II. Un recente convegno romano [Longo, Yawn 2013] ne ha indagato i molteplici aspetti ma anche in tale occasione il ruolo di arcivescovo e ancora prima di cancelliere imperiale a partire dal 1058, è passato quasi totalmente sotto silenzio. Credo invece che il suo ruolo di metropolita della sede ravennate a partire dal 1073, non sia stato senza conseguenze, almeno indirette, nella sua area metropolitica, specialmente durante i suoi primi anni di reggenza e negli anni di più duro scontro con la parte riformata romana, anni coincidenti, come ormai la critica più aggiornata riconosce, solo con il pontificato di Gregorio VII fino all’esilio salernitano [Cantarella 2005]. Il ruolo di Guiberto è peraltro strettamente connesso a quello del suo predecessore Enrico, sulla cattedra arcivescovile ravennate fino al 1072, dopo aver ricevuto il pallio da Leone IX nel 1053 [Frison 1993; Zimmermann 2003]. La vita degli arcivescovi ravennati non doveva essere semplice: Enrico, che ebbe buoni rapporti con Pier Damiani e appoggiò apertamente Cadalo – l’(anti)papa parmigiano Onorio II –, fu scomunicato da Alessandro II ma ebbe anche seri attriti con la corte imperiale. Lo stesso Guiberto, come arcivescovo, cioè dal 1073 al 1080, dovette adottare una strategia accorta e attenta, da abile equilibrista politico, perché saliva sulla cattedra di una sede colpita da interdetto. Può dimostrarlo in controluce il tentativo iniziale di instaurare con lo stesso Gregorio VII un rapporto di reciproca collaborazione nelle faccende ecclesiastiche locali.
Torniamo alla cattedrale di Reggio Emilia. Nei decenni centrali della seconda metà del secolo XI abbiamo visto quanto poco fossero interessate Beatrice e Matilde al capoluogo della diocesi del loro castello di famiglia; abbiamo altresì visto quali erano i vescovi, tedeschi o comunque perfettamente inseriti nella Reichskirche. Infine, in linea con la tradizione ravennate dall’epoca ottoniana in poi, tanto l’arcivescovo Guiberto, quanto il predecessore Enrico furono esponenti della Chiesa dell’Impero. Da questo quadro emerge che il progetto di un edificio che tradisce modelli d’immagine ottoniano-protosalici è dunque ben comprensibile. Tuttavia credo che la riflessione vada portata un poco più oltre, anche alla luce di una tendenza di studi che sta avendo in Spagna e in Francia una certa risonanza [Franzé 2015]. Mi riferisco all’annoso problema delle scelte d’immagine connesse alla questione della cosiddetta Riforma gregoriana, secondo il quale gli esponenti della Chiesa e dell’Impero, tra la seconda metà del secolo XI e i primi decenni del secolo successivo, non si sono affrontati solo sui campi di battaglia o a colpi di libellistica retoricamente costruita, ma anche attraverso le immagini, come forma di propaganda e contropropaganda visiva. [3] Ma alla luce di questo paradigma, come spiegare la cattedrale di Reggio Emilia? Tra XI e XII secolo non furono presuli “imperiali” Eriberto (1085-1094) e Bonseniore (1098-1118) – per non citare lo stesso Anselmo da Lucca – che furono invece vicinissimi a Matilde e al papato romano negli anni immediatamente successivi, ragionevolmente, alla costruzione della cattedrale romanica che abbiamo cercato di delineare in questa sede. Se davvero la cattedrale era il segno del partito imperiale e dei vescovi scismatici che avevano giurato fedeltà ai due (anti)papi “emiliani” Onorio II e Clemente III, perché Eriberto o Bonseniore non sono intervenuti modificando o ricostruendo la cattedrale come d’altra parte era avvenuto a Modena e a Cremona? Eriberto, innanzitutto, visse per lo più a Canossa, protetto da Matilde, segno evidente della scarsa fiducia che riponeva nei suoi fedeli reggiani e soprattutto, forse, del clero cittadino; inoltre, al di là delle ambigue vicende che lo vedono coinvolto a Roma nel 1111 [Cantarella 2012, 540-541], nemmeno Bonseniore godeva di un rapporto felicissimo con la città [Lucioni 2011, 150-153]. Ma, al di là di questo, è ancora possibile porre la questione in questi termini, dopo le aperture recenti sul rapporto Modena/Nonantola al principio del secolo XII [Calzona 2011] o dopo le riflessioni sugli affreschi della chiesa inferiore di San Clemente a Roma [Wickham 2013, 408-417; D’Onofrio 2016, 35-41], il cui committente fu probabilmente proprio Clemente III (anti)papa, ovvero Guiberto da Correggio? Se si avrà conferma che gli affreschi di San Clemente, per decenni considerati un opera di grande importanza per individuare l’immagine della Riforma [Toubert 1990; Romano 2006], sono legati alla committenza di Guiberto da Correggio (anti)papa imperiale, credo che il problema delle scelte di immagine nella Valle del Po tra XI e XII secolo debba necessariamente essere rimesso in discussione attraverso nuovi parametri.
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Note
1. Cfr. Calzona 2006; Ghizzi 2008a; Ghizzi 2008b; Quintavalle 2008; Barral i Altet 2010.
2. Cfr. Saccani 1929, 103; Golinelli 1980, 149-151; Golinelli 2009, 138; Mussini 1969; Monducci, Nironi 1984, 43.
3. Cfr. Quintavalle 1964; Quintavalle 1991; Quintavalle 2006; Toubert 1990, anche per la bibliografia.