Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

Contando i martiri in Cina. La controversia sul martirio in uno spazio missionario globale

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Abstract

It was not difficult for a foreigner in China to get killed. China was the country that resembled Ancient Pagan Europe most closely and thus it was the perfect place for martyrs. Nevertheless, among the many Jesuits who suffered persecution, tribulation, imprisonment and torture, few of them suffered death for hatred of their religion. Such an absence became a matter for disputation among the religious orders over the Chinese Rites. If bloodshed was a requisite for the spread of Christianity, the lack of martyrs of the Society of Jesus was proof that the type of Christianity they preached in China was not the true faith, but an adapted and compromised version. Among the first observers of this peculiar absence of Jesuit martyrs in China was Bishop Juan de Palafox y Mendoza (1600-1659), one of the main opponents of the Jesuit method adopted in China. In his writings, the absence of Jesuit martyrs became the confirmation that the adaptation practised by the Jesuits had denied the Christian message its most subversive power and witness to the faith.

1. Nel “vocabolario politico” della Cina, scriveva Daniello Bartoli nel suo La geografia trasportata alla morale, «Forastiero e Nemico, sono voci d’un medesimo significato, tal che ogni europeo che v’entri (e sol veduto per le sì diverse fattezze, ravvisasi forestiero) si porta in faccia spiegato il processo della sua condannazione, reo di morir nella Cina sol perché non vi è nato» (Bartoli 1664, 43). La Cina era terra dalle molte e mortali insidie, ma anche spazio ideale e idealizzato dell’evangelizzazione. L’immagine del grande impero della Cina costruita sui racconti missionari era quella di un mondo ben governato, popolato da gente gentile e virtuosa, depositario di un antichissimo sapere; in ragione di tutte queste e altre positive caratteristiche, la Cina era in grado non solo di sollecitare il fascino per l’esotico o la sete di avventura e di nuove conoscenze, ma anche il desiderio di andarvi per rivivere l’esperienza della chiesa primitiva, del primo cristianesimo e degli apostoli, quella di Paolo di Tarso nell’Aeropago del dio ignoto e dei primi cristiani martirizzati (Uçerler 2016). Da questo punto di vista la Cina, anche se meno del Giappone, costituì un ideale missionario in forza del suo essere più perfetta e autentica secondo i canoni martiriali, perché più somigliante allo spazio dei martiri dell’antichità (Cañeque 2016, 39; Colombo 2019). Era solo ed esclusivamente per questo Oriente civilizzato che José de Acosta rivendicava l’uso del metodo apostolico. Nel suo De procuranda indorum salute, infatti, egli teorizzava due metodi esattamente speculari di evangelizzazione a seconda che il missionario si trovasse nelle Indie orientali o in quelle occidentali, e riservava solo all’Oriente l’uso del metodo apostolico, quello usato e istituito dagli apostoli, basato sull’aiuto divino e privo dell’uso della forza; un metodo che, se applicato nelle Americhe, si sarebbe rivelato solo un’inutile perdita della vita [1]. Un principio, quello di conquistare la Cina con un metodo dolce contrassegnato dall’adattamento, che Acosta avrebbe espresso nuovamente qualche anno dopo, nel 1587, nel suo primo parere sopra la proposta, avanzata dal confratello Alonso Sánchez (1545-1593) presso la corte spagnola, di fare guerra alla Cina (Catto 2009).

La Compagnia di Gesù rivendicava i grandi risultati raggiunti in Cina, su cui vantava una primogenitura di ingresso e di presenza stabile, disegnava le difficoltà incontrate, le persecuzioni e i tormenti subiti, ma anche i successi, che facevano apparire la sua attività «operatione di Dio somigliante a miracolo» che andava preservata attraverso una strategia di costante equilibrio, con il tenere

l’un occhio inteso al lavoro presente, et l’altro al pericolo avvenire; il qual pericolo era d’apparecchiar rovine in vece di fabriche peroché la Cina non è paese da farvi romori, molto meno schiamazzi di spirito e ’l farne pure un dì, in un sol luogo, per imprudenza di zelo più cupido che consigliato, havrebbe tratto seco non solamente il distruggere in un dì tutto l’operato in molti anni, ma quel tanto giustamente temuto quanto irreparabil danno, dell’esserne ricacciati (Bartoli 1663, 1151-2) [2].

La cautela dell’operare indicata da Daniello Bartoli come pratica adottata da Matteo Ricci per evitare «romori» e «rovine», evitando «imprudenza di zelo», potrebbe essere un tentativo di accennare, senza esplicitarlo, una straordinaria incongruenza: la Cina era terra di martirio, ma paradossalmente l’ordine religioso che poteva rivendicare la primogenitura di una presenza missionaria stabile e delle prime conversioni non aveva alcun martire da proporre al pubblico dei devoti europei. I gesuiti in Cina erano certamente tormentati, tribolati, perseguitati, incarcerati [3], ma nessuno, o quasi, era stato ucciso in odium fidei [4].

2. Nonostante la più antica presenza della Compagnia di Gesù in Cina e l’esclusività della missione detenuta sino al 1600 – quando il privilegio accordato da Gregorio XIII fu revocato da Clemente VIII – pochi dunque furono i martiri gesuiti in Cina o quelli che assursero, anche formalmente, a tale onore. La voce mártires, scritta a più mani, del Diccionario histórico de la Compañía de Jesús (2001) contiene una serie di sottoclassi tra cui annovera i martiri canadesi, dell’Etiopia, della Cassovia (Ungheria), della Rivoluzione francese, di Tepehuanes (Messico), del Brasile, del Paraguay, di Inghilterra, Galles e Scozia, della Micronesia e dell’Oriente, entro cui nomina i martiri di Salsete (con il caso esclusivo di Rodolfo Acquaviva), e in un più lungo e articolato paragrafo i martiri o vittime della fede in Giappone; nessun accenno è dedicato alla Cina. Alla Compagnia di Gesù non appartiene neppure il protomartire, il domenicano Francisco Fernández de Capillas (1607-1648), canonizzato da Giovanni Paolo II nell’ottobre del 2000 quando, in occasione del Giubileo, riunificò una serie di cause aperte e procedette alla canonizzazione dei 120 martiri cinesi. Nel gruppo di Agostino Zhao Rong e i 119 compagni (tutti compresi tra il 1648 e il 1930) vi sono anche quattro gesuiti francesi (Modeste Andlauer, Remi Isoré, Léon Ignace Mangin e Paul Denn) martirizzati rispettivamente nel giugno e nel luglio del 1900, durante la rivolta dei Boxer (Clark 2011). Nella letteratura martirologica dei gesuiti di età moderna troviamo un’analoga assenza. Tra le molte immagini di gesuiti nella fossa, trafitti dalla spada o col capo mozzato dalla scimitarra in ogni parte del globo terrestre contenuti nella monumentale Societatis Iesu usque ad sanguinis et vitae profusionem militans in Europa, Africa, Asia e America contra Gentiles, Mahometanos, Judaeos, haereticos, impios, pro Deo Fide di Mathias Tanner (Praga 1675) nessuna sembra appartenere alla geografia cinese e solo uno, il cinese Francisco Martines, è presente nella ricca Mortes illustres et gestarum Societatis Iesu di Philippi Alegambe (Roma 1659). Nonostante la centralità rivestita dal martirio e dalla santità nell’ordine gesuitico (Motta e Rai 2022; Fabre 2022) e le periodiche persecuzioni cui i gesuiti furono soggetti nel contesto di una missione instabile da un punto di vista politico, martiri e santi non sono un dato appartenente al mondo cinese.

Redatto a scopo storico, il Répertoire des jésuites de Chine de 1552 à 1800 di Joseph Dehergne (1903-1990), pubblicato nel 1973, è ancora uno strumento unico per reperire informazioni biografiche sui numerosi gesuiti che giunsero in Cina [5]. Sfogliando le migliaia di brevi ritratti troviamo alcune indicazioni di “martiri” e “martirizzati” (intendendo con questo la condanna al carcere, l’infliggimento di torture, sofferenze, patimenti, ma non della morte) per mano dei cinesi non cristiani. Sottraendo i gesuiti che passarono per la Cina – ma che furono martirizzati in Giappone – i numeri sono ancora molto bassi, anche se in grado di far emergere il contributo dei gesuiti cinesi ai martirizzati della Compagnia di Gesù con i patimenti, tormenti e tribolazioni che i gesuiti raccontavano incessantemente di soffrire in Cina per Cristo, parallelamente alla narrazione dello straordinario successo che li vedeva accolti alla corte imperiale, così carico di promesse per la futura conversione dei cinesi. Torturati e imprigionati per motivi di fede furono Sébastien Fernandes Tchoung [6], il coadiutore Jean Fernandes Tchoung [7]; il coadiutore e catechista Ignace [8]; Paul Lieou Hyacinthe [9], Jean François Xavier Regis Tch’en [10], Jacques (Diego) Madeira Pao [11], e, infine, Denis Li Thang, catechista, morto prima di entrare in noviziato per le torture subite durante una persecuzione nel 1696 (Dehergne 1973, 467).

Numeri e dati su questi gesuiti cinesi sono scarsi e incerti. Generalmente, però, la lettura delle relazioni dei gesuiti in Cina (una cui parte era sempre riservata a raccontare le meravigliose gesta dei compagni) e delle lettere scritte dai missionari ai loro superiori o ai loro devoti fanno ritenere non solo che i cinesi accolti a vario titolo nella Compagnia furono ingranaggi molto importanti nell’opera di evangelizzazione, ma anche che essi, al pari dei cinesi convertiti, fossero più spesso oggetto di maltrattamenti, torture e terribili punizioni in forza della loro nazionalità. L’esito classico delle “persecuzioni” che funzionari e mandarini, quasi periodicamente, esercitavano sui religiosi in Cina era l’espulsione e il ritorno a Macao nel caso del gesuita europeo, mentre il religioso cinese veniva punito secondo le leggi in vigore in Cina, che prevedevano anche marchiature e segni di infamia perpetui, sino alla riduzione in schiavitù. Al di là della morte o delle torture subite, i cinesi convertiti sembrano in molti casi vivere in una condizione più complicata a causa della nuova fede abbracciata, sottoposti a continue tentazioni e punizioni allo scopo di allontanarli dal cristianesimo, come accadde a Pietro Fan, schiavo di un mandarino tartaro il quale usò tutti i modi possibili – carezze, promesse, minacce e crudeltà – per ricondurlo agli atti superstiziosi del culto degli idoli [12]. Una tenacia nella perseveranza della fede (entro uno spazio geografico caratterizzato dalla convivenza religiosa) che li rende modelli di fede e ispirazione per ulteriori conversioni. Pietro Fan, ad esempio, morì durante un terremoto e non a causa dei tormenti subiti, eppure la sua morte – alla luce dell’eroicità della sua vita – fu fonte di alcune importanti conversioni. Un aspetto quest’ultimo che va contestualizzato, forse, all’interno della tendenza, di età moderna, ad ampliare il significato del concetto di martirio (Colombo 2019, 57), estendendolo alle fatiche, agli ostacoli e alle tribolazioni della fede e non necessariamente – e in maniera esclusiva – alla morte per il proprio credo.

3. I gesuiti europei martiri, seppure non in senso canonico, sono ugualmente pochi e tutti collocabili in contesti storico-politici precisi, ossia nel periodo di avvento della dinastia Manciù o, più in generale, di passaggio dalla dinastia Ming ai Qing, e in quello delle cicliche persecuzioni dei cristiani messe in atto per volontà del singolo funzionario o per editto imperiale. Dopo il regno dell’imperatore Kangxi, che tante speranze aveva acceso sulla conversione della Cina, la presenza dei missionari in Cina divenne davvero difficile. Durante il periodo dell’imperatore Yongzheg (1623-1735), che aveva assistito per anni alle diatribe tra i missionari circa la natura dei riti cinesi (ne era ben informato dal suo tutore in musica occidentale, il lazzarista di Propaganda Teodorico Pedrini) e alla conversione di alcuni principi della casa imperiale avversi alla fazione del nuovo imperatore, il cattolicesimo venne ridimensionato: nel 1724 fu dato ordine di espulsione a tutti i missionari eccetto quelli a servizio a corte con mansioni tecniche e artistiche. E ciò avvenne anche con il successore Qianlong (1736-1799), durante il cui regno furono applicate, in particolare tra 1746 e 1748, misure ancora più aspre e sette missionari europei, episodio su cui torneremo, vennero giustiziati in Fujian e Jiangnan.

Nella pur scarna lista di martirizzati tratta dal Répertoire des jésuites, inoltre, va notato che si tratta perlopiù di gesuiti che non vissero a corte, anche se “persecuzioni” furono attuate anche nei confronti dei gesuiti di corte, come il caso del matematico e astronomo Joann Adam Schall van Bell, imprigionato nel 1664 durante la conquista mancese e salvato dalla condanna a morte da Kangxi (Dehergne 1973, 747), o di Gabriel Magalhães, 1610-1677 (ivi, 506), anch’egli coinvolto nelle lotte per il controllo dell’Ufficio astronomico imperiale (Pih 1979, 253-369; Mungello 1989, 91-102). Di quest’ultimo si conserva un compendio biografico (Buglio 1689) scritto dal gesuita siciliano Ludovico Buglio (1606-1682), suo compagno, che riporta le innumerevoli persecuzioni subite, dapprima per opera dei bonzi, poi, durante il periodo di passaggio della dinastia Ming ai Qing, quando vide trasformare la propria posizione di missionario ben inserito a corte in quella di condannato per strangolamento, accusato di aver corrotto un mandarino, salvato dai quattro reggenti, e poi nuovamente incriminato e inviato in esilio in Tartaria. Alla fine, quella di Magalhães fu una buona morte, seguita addirittura da un elogio dell’imperatore Kangxi, ma Buglio ne ricorda, come in un lungo calvario, tutte le precedenti sofferenze. Racconti simili sono numerosi, ricordo qui la lunga narrazione di Prospero Intorcetta in cui la vicenda di Schall e l’imprigionamento dei missionari, non solo gesuiti, è scandita da terremoti, meteoriti, oscuramenti del cielo e simboli della passione di Cristo (Catto 2022). Per i gesuiti che vissero a corte i patimenti, o anche la morte, sono dunque legati alla politica interna. Una morte violenta è quella dell’austriaco Andrew Xavier (noto come Andrew Wolfgang) Koffler (nato a Krems, Austria, 1603), compagno di Michel Boym, ucciso dai mancesi durante l’invasione il 12 dicembre 1651. Una morte preceduta da torture, ma connessa alle operazioni militari cui partecipò, non alla fede religiosa [13].

4. Contando i martiri in Cina indicati nel Répertoire des jésuites di Dehergne, solo tre sono i gesuiti morti in odium fidei. Il primo martire in Cina della Compagnia di Gesù è il cinese Francisco Martines (1568-1606, Huang Mingsha), morto a Canton nel 1606 (Dehergne 1973, 522). La narrazione della sua vita e morte è raccolta da Alegambe nel suo Mortes Illustres (Alegambe 1659, 249-351), forse perché Martines non fu solo il protomartire della Compagnia in Cina ma anche il primo cinese, insieme a Sebastião Fernandes (1562-1621, Zhong Mingren), a essere ammesso nella Compagnia di Gesù [14]. Ripercorrendo rapidamente la sua vicenda emergono alcuni elementi tipici dello spazio martiriale cinese. Chiamato da Macao a Canton con il compito di accompagnare Alessandro Valignano nella visita alla missione, la morte improvvisa di quest’ultimo blocca Francisco Martines a Canton in attesa di nuove disposizioni, fermo e risoluto anche davanti al clima di ostilità presente in città verso i cristiani. Viene tradito da un «christiano rinegato» che lo vende per soldi come «uno spione della Città di Macao, della Casa de’ Padri forastieri». Portato a palazzo fu immediatamente messo «a tormento, che è con doi stanghe stringere il tallone de’ piedi con grande dolore, del che alcuni restano stroppiati per dar sopra le stanghe con mazzi», durante il quale rimase «con tanta patientia e silentio che fece stupire a tutti», consolando gli altri e «rammentandoli che erano Christiani e non avevano di dire falsità nessuna per paura de’ tormenti, che Iddio gli agiutarebbe». Nonostante la sua presenza a Canton fosse legale – era munito di regolari lettere patenti – l’uso di uno stratagemma “diabolico” ne permette la condanna. Nella lingua cinese il carattere yao può significare sia “medicina” che “polvere da sparo”, e le medicine acquistate divennero, diabolicamente, archibugi comprati per essere inviati a Macao. La scoperta della sua fede cristiana, testimoniata dalla presenza di una «chierica piccola, che egli portava tra i capelli lunghi» (Ricci 2000, 500), degli indumenti alla portoghese e dei libri occidentali confermarono la sua natura di spia. Incarcerato, privato dell’acqua (come presunto negromante, con l’acqua avrebbe potuto farsi invisibile), battuto «al modo della Cina» con tavole dietro alle cosce e infine condannato a morte. Aveva trent’anni, di cui quindici trascorsi dentro la Compagnia e, aggiunge Ricci, era uomo così devoto che «si deve confidare che Iddio gli diede questo atroce travaglio per entrar poi più puro nel Cielo». Sepolto come una spia, ancora con le manette e i ferri ai piedi, le sue spoglie vennero recuperate e seppellite in luogo sacro.

Gli altri due martiri, insieme torturati e condannati a morte per strangolamento a Suzhou il 12 settembre 1748, sono il portoghese António José Henriques (nato il 13 giugno 1707), superiore della missione di Nanchino (Sebes 2001), e Tristano Attimis [15], italiano. Entrambi furono catturati nel 1747, quando, sebbene la presenza di alcuni gesuiti a corte, il cristianesimo era fuorilegge in Cina. Gli eventi del martirio, pubblicati a stampa in portoghese, spagnolo e infine in italiano con il titolo di Compendiosa relazione della prigionia, de tormenti e della gloriosa morte de’ due padri Antonio Joseph portoghese e Tristano d’Attimis italiano della Compagnia di Gesù (Venezia 1752), sono strettamente connessi a motivi politici. Le prime accuse avanzate durante gli interrogatori cui furono sottoposti i due gesuiti – insieme ad alcuni discepoli cinesi – sono infatti di sovvertimento politico, di ribellione e rivolta, di complotto contro lo stato e il governo. Solo in un secondo momento – come abbiamo visto avvenire per il cinese Francisco Martines – affiora la piega mortale dell’accusa di predicare il cristianesimo in violazione degli editti imperiali che lo avevano proibito. L’eroicità nel sopportare le catene e le torture, i quaranta schiaffi, le martellate alle ginocchia sofferte «con generosa inalterabile pazienza» [16] è accompagnata dai tipici segni nefasti e prodigiosi: una croce appare in cielo a coprire la luna, cinque fasce nere si manifestano in cielo, piove sangue, scoppia un’epidemia (ivi, 45). Per la loro salvezza si muovono anche i gesuiti di corte, e particolarmente Giuseppe Castiglione che, in forza del suo essere il pittore dell’imperatore e della sua famiglia, ha la possibilità di condurre personalmente la sua supplica, ma la condanna giunge inesorabile:

legarono loro le mani di dietro, ed avendoli fermati, e come fasciati ad un palo, cominciarono a metter loro fogli di carta bagnati sul volto e così coprivan loro, e chiudevano e occhi e orecchie, e narici e bocca, dovevano moltiplicar tanto i fogli, altri sopra altri aggiungendone che turato a poco ogni esito del fiato, restasse loro finalmente del tutto impedita e tolta la respirazione (ivi, 43-4).

5. Che la fede potesse essere diffusa senza sofferenze e persecuzioni era impossibile. Anche in condizioni di favore dell’imperatore e «sicurezza della fede Christiana», scriveva il gesuita Philippe Couplet (1622-1692), anche in Cina «non […] mancarono le sue persecutioni, le quali apena in alcun tempo, ò luogo possono mancare nella Chiesa Cattolica» (Gatta 1998, 65) [17]. Mancavano però i martiri, gli uomini che ufficialmente potevano essere affidati alla devozione. Una questione, quella dell’assenza di gesuiti martiri in Cina, che si intrecciava saldamente con il metodo che la Compagnia di Gesù aveva adottato nell’evangelizzazione dei cinesi, quella sua accommodatio agli usi e costumi che fu lungamente contestata nel mondo cattolico e che costituì la base della lunga controversia sui riti cinesi (Minamiki 1985; Mungello 1994).

Non a caso, tra i primi osservatori della particolare situazione per cui i gesuiti non potevano vantare martiri in Cina fu il vescovo Juan de Palafox y Mendoza (1600-1659), uno dei principali avversari del metodo gesuitico adottato in Cina [18]. Dalla sua posizione messicana, la più vicina alla Cina, egli scriveva a papa Innocenzo X del sospetto in lui suscitato dalla situazione di estrema tranquillità in cui si trovava il cristianesimo in Cina e giudicava deplorevole «questa profonda pace tra gl’Idolatri e i Cristiani» che forse aveva origine dalla «sgraziata politica adoperata per istabilirvi la Fede» [19]. Solo allora, dopo 40 anni dall’entrata del cristianesimo in Cina, cominciavano a giungere i primi racconti – che avevano provocato una grande consolazione e nutrito le speranze circa la conversione della Cina – in cui i religiosi di San Domenico e di San Francesco narravano di essere «carcerati, battuti e banditi». Scriveva:

In quale parte della terra si è mai veduto che sia stata fondata la Chiesa senza che prima sia stata impinguata e fecondata col sangue de’ Martiri, e piantata sui tormenti che hanno sofferto come su tante pietre angolari, ornate ed arricchite colla croce di Cristo (Nove lettere, 266).

Ovunque, da Roma alla Spagna, dalla Francia alla Germania, in Africa, in Asia e in Giappone gli esempi erano numerosissimi. Per Palafox le persecuzioni e il martirio dei missionari erano le uniche garanzie di un profondo, fedele e sincero lavoro di propagazione della fede, nonché l’unico modo per accrescere il numero dei convertiti: così come «Gesù Cristo con la morte santissima ha dato la vita alla Chiesa, così il sangue dei martiri in virtù dei suoi meriti accrescerà il numero de’ Cristiani» (ivi, 270).

Palafox però faceva notare al papa una grande assenza: «Ma dove sono i Martiri Gesuiti che sieno stati veduti nella Cina, allorché incominciarono a piantarvi la Fede, ch’è il tempo in cui la persecuzione suol essere più crudele? Dove sono i morti, i tormenti, le carceri, gli esilii?». La spiegazione dei mancanti martiri della Compagnia di Gesù era presto fatta, ricondotta totalmente al metodo missionario adottato, alle concessioni e ai compromessi fatti. La Cina non aveva «sofferta la Croce delle persecuzioni» perché non era stata «abbastanza istruita dalla Croce del Salvatore» e non aveva avuto martiri «per non essere stata fecondata colla vera parola di Dio e col sangue del Divino Redentore». I cinesi, scriveva Palafox, erano stati «più ingannati che guadagnati, acciecati che illuminati, pervertiti che convertiti», perché era stata loro nascosta la verità, non era stata loro predicata una «religione nella quale si digiuni, si pianga, si faccia penitenza, una Religione aspra alla Natura, nimica della Carne, che non ha per sua eredità se non la Croce, i patimenti, la morte» (ibid.). E qui giungono le consuete accuse ai gesuiti in Cina: non aver predicato o aver celato la croce e la Passione di Cristo, aver costruito un Gesù “alla cinese”. L’assenza di martiri in Cina era il segno tangibile della tradizionale disobbedienza della Compagnia di Gesù che il papa doveva condannare, punire e riformare attraverso l’imposizione di regole più severe, l’obbligo a officiare il coro e a osservare una più stretta clausura, l’adeguamento del voto della professione gesuitica agli usi degli altri ordini, ordinando mortificazione e penitenze o, se tutto questo non avesse portato agli esiti sperati, sopprimendo l’ordine e incorporando tutti i gesuiti nel clero secolare [20].

La lettera di Palafox era stata scritta da Angelopoli l’8 gennaio 1649, a pochi anni dalla condanna dei riti cinesi da parte di Innocenzo X (1645), e venne ripubblicata nel 1760, poco più di un decennio dopo la nuova condanna dei riti cinesi da parte di Benedetto XIV (1742), in un clima di preparazione all’espulsione – e poi soppressione – della Compagnia di Gesù dalla cristianità. Non si trattava di una semplice riedizione, come è dimostrato dalla presenza di alcune note al testo in cui l’anonimo curatore ne aggiornava contenuti e fatti al suo presente. Una nota veniva aggiunta a commentare l’assenza di martiri gesuiti in Cina. Il curatore dell’edizione del 1760 annotava come

in questi ultimi anni essendo stati nella Cina per Fede uccisi cinque Domenicani (...) i Gesuiti hanno dato fuori il Martirio di Tristano d’Attimis ed Antonio de Lisbona. Lasciando però le relazioni che si sono ricevute da parte sicura, non pare che a Roma sia stata riconosciuta la verità di questo fatto, ond’è ch’è stato posto in silenzio, né più si è udito parlare (ivi, 267) [21].

I medesimi gesuiti “martiri” – Attimis e Henriques – sono citati in una lettera pubblicata nelle Lettres édifiantes et curieuses e indirizzata a un non meglio specificato “M” (Lettres édifiantes 1877, IV, 34-6). Scritta da Pechino nel 1750, essa risponde ad alcune osservazioni sulla missione cinese e alle critiche sulla condotta dei gesuiti in Cina che, dal tono polemico della lettera, non dovevano essere state di tenore molto diverso da quanto espresso da Palafox. Davvero in Europa si pensava che i gesuiti avessero attraversato i mari e i suoi mille pericoli per dipingere – l’allusione qui è a Giuseppe Castiglione – un principe infedele e per istruirlo in fisica, matematica, astronomia, ecc.? Non ci si rendeva conto che il metodo che i gesuiti aveva deciso di adottare in Cina era analogo a quello di san Paolo [22], e che la pittura e le scienze non erano che mezzi per essere ammessi alla presenza dell’imperatore e poter così celebrare nella capitale del vasto impero le cerimonie cristiane? I gesuiti alla corte cinese erano paragonati ai preti cattolici in Inghilterra, che certamente non cercavano di imporre il cattolicesimo, non aggredivano il re e i suoi ministri per atti contrari alla religione cattolica e non chiedevano la soppressione degli altri culti e la restaurazione della religione cattolica come unica e autentica. Perché si voleva che ciò avvenisse in Cina? Le osservazioni critiche giungevano inoltre, scriveva l’anonimo, in un momento di grande difficoltà, in cui la persecuzione in atto era valsa «la palme du martyre à monseigneur Sans, éveque de Mauricastre et aux père dominicains ses compagnons» [23], e la morte, «glorieux sort», a Tristano d’Attimis e António José Henriques. La presenza, nonostante l’ostilità mostrata dall’imperatore al cristianesimo, dei gesuiti a corte andava dunque tributata a Dio poiché manteneva viva la speranza del ritorno in un futuro, forse non troppo lontano, della libertà di predicazione che un tempo era stata concessa da Kangxi.

All’interno della letteratura antigesuitica e filogiansenista, le figure di Attimis e Henriques ricomparivano nel 1767 a Venezia nelle Riflessioni storico-critiche sul discacciamento dei Gesuiti dai Regni delle Spagne. Nelle quali si troveranno distintamente e cronologicamente disposte tutte le Scritture, documenti, relazioni, decreti e carte autentiche ecc., in cui l’anonimo autore ricordava come i gesuiti fossero particolarmente impegnati a proteggersi anche con il diffondere «che hanno avuti Santi. E purché lo dicano, onde appagar la gente loro divota, non si curano di vestir anche da Santi dei Ladri» (Riflessioni storico-critiche 1767, LXI ). In un contesto politico internazionale in cui la Compagnia di Gesù veniva espulsa dagli Stati si era scoperto, infatti, che i gesuiti avevano da poco dato alle stampe la già citata Compendiosa Relazione della prigionia, dei tormenti e della gloriosa morte de’ due padri Antonio Joseph portoghese, e Tristano de Attimis italiano della Compagnia di Gesù, da un sacerdote della medesima Compagnia composta in Macao poco dopo seguito il fatto, poi stampata e pubblicata in Lisbona l’anno 1751 e novellamente dal portoghese nell’italiano (prima edizione Bettinelli 1752) con un piccolo e significativo mutamento: nella nuova edizione «si riferisce il martirio di due Gesuiti, come se succeduto fosse ai 27 novembre 1766» e non il 13 settembre 1748 [24]. Secondo l’anonimo autore delle Riflessioni storico-critiche la ripubblicazione dell’opera e la diversità della data erano la risposta alla da poco edita relazione sui martiri domenicani in Cina – quelli del vescovo Sans [25] –; essa aveva suscitato l’invidia dei gesuiti, che non potevano «sofferire [sic] che i Domenicani fossero anche martiri mentre essi non erano che confessori» (Riflessioni storico-critiche 1767, LXII ), e in tutta fretta avevano approntato una ristampa del libretto che già nel 1752 aveva fatto molto discutere la Congregazione di Propaganda Fide [26] e ancora di più, aggiunta maligna, presso il fratello di Attimis, abate, che sapeva «che suo fratello morto alla China era stato tutt’altro che martire» (ibid.). Rimesso mano ai documenti di Propaganda, infatti, si trovò che i due gesuiti morti a Macao «erano stati due ladri, i quali entrati in un’ortaglia dei cinesi per rubbarvi i verzotti o altro tale prodotto, erano stati dai padroni dell’orto accoppati, onde non erano martiri in niun conto o al più se volevano dirsi martiri, convenia aggiugnervi Martiri dei cavoli» (ivi, LXIII ). La vicenda di Attimis e Henriques, gli unici due gesuiti che potevano davvero aspirare alla canonizzazione, entrò quindi nel contesto antigesuitico, diventando l’oggetto di una seppur piccola guerra di scritture, di una competizione tra i due ordini: proposti dai gesuiti come modelli di devozione e figure eroiche della propria attività missionaria in Cina, denigrati da coloro che interpretavano l’assenza di martiri gesuitici in Cina come l’evidenza della loro evangelizzazione di facciata, più interessata agli onori della corte imperiale e dei mandarini che alla diffusione del vero messaggio evangelico.

La Cina è assente dai martirologi gesuitici che in età moderna assumono una dimensione universale e davvero globale, anche in risposta alla negazione della santità dei protestanti. Una mancanza di martiri che i gesuiti sembrano voler celare dietro un uso-abuso, nelle loro relazioni dalla missione cinese, di parole quali “persecuzione” e “tormenti”, e che gli altri ordini religiosi, in particolare i domenicani, rimarcano per denunciare il metodo di evangelizzazione usato dai gesuiti in Cina. La propaganda degli ordini religiosi osserva il rapporto di causa effetto tra predicazione e martiri, e l’assenza di questi ultimi nelle file gesuitiche è una prova indiretta della debolezza e parzialità del cristianesimo predicato dai gesuiti in Cina, una conferma che l’adattamento del cristianesimo agli usi cinesi praticato dalla Compagnia di Gesù, con la sua flessibilità, ha privato il messaggio cristiano della sua forza più eversiva e di testimonianza della fede. La negazione del martirio dell’altro, intendendo con questo un altro ordine religioso, apparteneva già alla storia degli scontri tra gesuiti e domenicani che si erano affrontati lungamente intorno ai loro martiri giapponesi (Cañeque 2020, 200-71), ma nel caso cinese la negazione e l’affermazione superava i limiti dell’individuo e della sua eroicità. Non si trattava di una guerra tra chi era stato il più eroico e il più fedele, ma andava direttamente al cuore del tipo di cristianesimo predicato e al metodo missionario utilizzato. Il non spargimento del sangue gesuitico nella diffusione della fede si configurava così come un altro possibile anello della querelle sui riti cinesi: la controversia martiriale.

Fonti

  • Roma, Archivum Romanum Societatis Iesu (ARSI), Jap. Sin. 29, Koffler A.: ex Jacatra seu Batavia 5.12.1642, qua notitia refert patres iam comprehensos et torturae subiectos esse, cc. 255-6.

Bibliografia

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Note

1. Sul capitolo VIII del De procuranda (pubblicato nel 1589, ma redatto a Lima nel 1577), intitolato No se puede observar exactamente entre los barbaros la manera antigua y apostólica de predicar el evangelio, Mongini 2019, 42-5.

2. Sulla varie stesure di quest’opera, Wu 2014. Su Daniello Bartoli e l’Asia, Prosperi 2019.

3. Sul concetto di tribolazioni e persecuzioni della Compagnia di Gesù, Mongini 2016, 83-135; Chincilla Pawling 2020, 525-42.

4. L’osservazione delle diverse relazioni tra i martiri in Europa, uccisi dagli eretici, e quelli fuori dall’Europa, uccisi dai non cristiani (Gregory 1999, 252), e delle diverse implicazioni culturali e geografiche, è particolarmente interessante nel caso cinese. Se il concetto della santità buddista e taoista o dei miracoli è apparentemente comune, da un punto di vista della pratica, con quella del cristianesimo (si vedano i numerosi esempi in Gernet 1984, 90 ss.), il modello del martirio cristiano, il morire per diffondere e difendere la propria fede religiosa, era un concetto presente anche nella cultura cinese? Da notare che, nella Cina moderna, la santità non implica il martirio: Ownby, Goossaert, e Zhe 2017, 3. Sull’influenza dell’ideologia del martirio nel buddismo giapponese, Ward 2019, 34. Sulle problematiche legate alla traduzione di martirio e martiri in Asia, e particolarmente in Giappone, Omata Rappo 2017.

5. La consultazione di altri strumenti biografici relativi a cinesi convertiti, gesuiti o a ordini religiosi presenti in Cina (indicati in Standaert 2001, 246-57), non apporta significativi cambiamenti numerici. La trascrizione di nomi fonetici segue quella usata da Dehergne.

6. Torturato e imprigionato per motivi di fede tre volte dal 1596 e nel 1615, morto nel 1621 (Pfister 1932, 47-8; Dehergne 1973, 295).

7. Perseguito a Nankin nel 1616 (Pfister 1932, 121-3; Dehergne 1973, 291). Nel 1621 risulta dimesso dalla Compagnia.

8. Torturato per la fede tre volte e quindi ammesso nella Compagnia nel 1620 (Pfister 1932, 150-1; Dehergne 1973, 411).

9. Catturato nel 1784 a Huwang e condannato all’esilio perpetuo e alla schiavitù, con incisione sulla pelle. Morto a Pechino nel 1791 (Dehergne 1973, 469a).

10. Due volte catturato e torturato (1776; ivi, 673).

11. Arrestato a Tcao-kiang il 26 dicembre 1747, torturato, assolto dal reato di apostasia ma espulso dalla Compagnia (ivi, 503).

12. La vicenda, solo una fra le tante, è raccontata da P. D’Entrecolles in una lettera scritta da Pechino il 19 ottobre 1720: Lettres édifiantes et curieuses 1877, III, 291-2.

13. Witek 2001c, e ARSI, Jap. Sin. 29, cc. 255-256, Koffler A.: ex Jacatra seu Batavia 5.12.1642, qua notitia refert patres iam comprehensos et torturae subiectos esse.

14. Entrambi erano nati a Macao e furono ammessi tra i gesuiti non come coadiutori o scolastici ma con la particolare posizione di studenti di cinese, al fine di aiutare la catechesi dei missionari. Ottennero il sacerdozio nel 1593. Il nome di Francisco Martines compare frequentemente in Della Entrata della Compagnia di Giesù e della Christianità in Cina di Matteo Ricci per il ruolo attivo che ebbe nella missione cinese. Ricci ne ricorda in particolare l’ingresso (libro III, cap. 2, 200-2), e ne narra i tormenti: De’ Grandi travagli che patirno i nostri in Quantone e come in essi fu preso il fratello Francesco Martines nella Metropoli e moritte ne’ Tormenti [luglio 1605-aprile 1606]: Ricci 2000, 493-4, e, più in generale, ad indicem. Inoltre, Ricci 1949, I, 291 nota.

15. Tristano d’Attimis, nato a Cividale del Friuli il 28 luglio 1707. Entrò nella Compagnia di Gesù a Bologna nel 1725. Ordinato sacerdote nel 1736, professo di quattro voti a Piacenza nel febbraio del 1741. Nel 1743 il Generale Francesco Retz lo inviò in Cina, dove giunse il 13 settembre 1744. Morì strangolato nelle carceri per ordine dell’imperatore Qianlong a Suzhou (Sommervogel 1895, I; Massara 1908; Patriarca 1939; Witek 2001a). Ringrazio Carla Pederoda, bibliotecaria della Biblioteca del Seminario Arcivescovile di Udine, cara amica e cortese dispensatrice di informazioni contenute in testi irraggiungibili durante l’isolamento conseguente al Covid-19.

16. Compendiosa relazione 1752, 31: «per quanto tirassero e sforzassero le corde non s’udì mai dal Padre né pur un gemito».

17. Per alcune notizie sul missionario, Witek 2001b.

18. Enigmatico, a questo proposito, il titolo di un’opera di Antoine Arnauld: Histoire de dom Jean de Palafox, evêque d’Angelopolis, et depuis d’Osme, et des diferens qu’il a eus avec les PP. Jesuites, Paris, s.l. 1690. Sull’opposizione teologica e politica di Palafox ai gesuiti in Cina, Romano 2016, 263-90 e Romano 2020. È stato fatto notare come l’opposizione alla Cina gesuitica si sia manifestata anche nella costruzione in Nuova Spagna di un metodo missionario opposto a quello della Compagnia di Gesù: Shen 2000; Cervera e Martínez Esquivel 2018.

19. Nove lettere del Venerabile monsignor vescovo d’Angelopoli 1760, quinta lettera, Palafox a Innocenzo X, 266. L’opera fu raccolta in Delle cose del Portogallo. Rapporto a’ PP. Gesuiti. Raccolta settima, Lugano: nella stamperia privilegiata della Suprema Superiorità Elvetica nelle Prefetture Italiane, 1760. Su tali tipi di Raccolte, Venturi 1976, II, 3-4.

20. Una serie di rimedi che resero Palafox uno dei testi di riferimento nel dibattito del XVIII sulla soppressione della Compagnia di Gesù (Saint Clair Segurado 2000).

21. I riscontri tra la narrazione gesuitica dell’evento e le altre fonti dell’epoca hanno messo in luce alcune alterazioni e ritocchi nella narrazione degli avvenimenti da parte dei gesuiti su cui Krahl 1964, 52-7, in part. 55, nota 22.

22. Su analoghi richiami a difesa del proprio operato in Cina, Catto 2017, 508-13 e Catto 2018.

23. Lettres édifiantes 1877, IV, 35. Si tratta del vescovo spagnolo Pedro Sanz y Jordá (1680-1747), vicario apostolico del Fujian, morto in Cina per decapitazione. Dichiarato martire e beatificato nel 1893, è stato proclamato santo nel 2000 da Giovanni Paolo II. Sulla vicenda, analizzata attraverso fonti occidentali e cinesi, Omata Rappo 2009.

24. Riflessioni storico-critiche 1767, LXIII: «con sciocco anacronismo poiché dalla China in così poco tempo non avrebbe potuto pure giungere in Italia lettera o relazione di sorte».

25. Supra. Si tratta di Relazione del Martirio de’ Padri, Fr. Pietro Martire Sans, vescovo mauricastrense, F. Francesco Serrano, eletto vescovo Tipasitano, F. Giovanni Alcober, P. Giovacchino Royo, e F. Francesco Diaz dell’Ordine de’ Predicatori, accaduto nella Provincia del Fokien nell’Impero della Cina negli anni 1747 e 1748 stampata a Roma nella stamperia di Girolamo Mainardi nel 1752.

26. Sul ruolo di Propaganda Fide nella costruzione del concetto di martirio, Jiménez Pablo 2017; Pizzorusso 2019.