Intorno all’804, presso la foce del fiume Risano, nel territorio di Capodistria, si riunì un’assemblea che ebbe un peso significativo sui locali equilibri di potere. I missi dell’imperatore Carlo Magno e del re Pipino, i conti Cadalo e Aio e il presbitero Izzo, imbastirono un’inquisitio per risolvere le tensioni che erano sorte in Istria, territorio annesso al regno franco sul finire dell’VIII secolo [1]. Di fronte a loro, si recarono a testimoniare 172 homines capitanei eletti “de singulis civitatibus seu castellis” della provincia istriana: le accuse erano rivolte contro il patriarca Fortunato di Grado, cinque vescovi dell’Istria, e Giovanni duca, il rappresentante locale del nuovo dominio franco.
Il placito di Risano è un documento famoso [2] ed eccezionale, perché è una delle rare fonti disponibili sull’Istria e sulla società bizantina nell’Adriatico settentrionale durante i secoli dell’alto medioevo. Infatti, sebbene sia stato redatto all’indomani dell’occupazione carolingia dell’Istria, il testo del documento è costruito proprio sul contrasto tra gli antichi usi e consuetudini, quelli dei greci, e il nuovo corso imposto dai conquistatori franchi e offre una gran quantità di informazioni sulla situazione politica, sociale ed economica dell’Istria al principio del IX secolo. In effetti, il placito è stato spesso al centro dell’attenzione degli storici del medioevo occidentale, che se ne sono serviti soprattutto per ricostruire la storia dell’Istria, talvolta in un’ottica comparativa rispetto al contesto veneziano, talvolta concentrandosi sulla sola penisola come terra di incontro tra i due imperi [3]. In misura minore, ma non marginale, la medievistica ha posto l’attenzione anche sul carattere esemplare di questo placito per lo studio dell’esercizio della giustizia nella prima età carolingia e, nello specifico, del rapporto tra il modello ideologico di giustizia regia elaborato dai capitolari e la sua applicazione concreta, nelle realtà locali [4]. In ambito bizantinistico, invece, è sorprendente notare come un’analisi accurata e ancora molto valida del placito sia stata svolta solo da André Guillou (1969), anche se nella produzione scientifica non mancano riferimenti a singoli passaggi del testo [5].
In questo vasto panorama storiografico, un aspetto rimasto in secondo piano, ma che a mio avviso rappresenta il cuore della controversia, riguarda le trasformazioni nell’accesso e nella redistribuzione delle risorse pubbliche provocate dalla transizione dell’Istria all’impero carolingio [6]. Sebbene una certa sensibilità al tema fosse già presente nella riflessione di Guillou (1969), soltanto Stephan Esders lo ha trattato a fondo, in un articolo del 1999 corredato del testo e della traduzione tedesca del placito e contenuto in una miscellanea di storia del diritto, curata dallo stesso Esders e da Thomas Scharff (1999). Un altro elemento importante messo in luce da Esders sono i numerosi livelli di significato del documento, che non può essere letto banalmente come un intervento per comporre il conflitto che era sorto in Istria: attraverso lo strumento della testimonianza giurata delle parti, l’inquisitio dei messi del re veicola una speciale ‘rappresentazione’ della realtà precedente all’avvento del dominio franco in Istria, agendo su di essa per canonizzarla, in un contesto di contrattazione per l’istituzione di nuove regole e nuovi rapporti di potere nel governo della penisola [7]. Le considerazioni di Esders costituiscono un riferimento fondamentale per il mio lavoro, che intende fornire un’analisi del placito attenta a valorizzare il problema della gestione del publicum e il ‘valore performativo’ di questa scrittura [8]. In questa analisi, per ragioni tematiche e di spazio, non mi soffermerò invece sul tema, pure centrale, dell’interazione politica tra comunità locali e giustizia regia in età carolingia [9].
La necessità di affrontare nuovamente la lettura di una fonte così nota e riprendere la riflessione già sviluppata da Esders origina dalle ricerche recenti sulle basi materiali del potere politico nell’alto medioevo, che, nell’ultimo decennio, hanno catalizzato l’interesse di una parte della medievistica italiana ed europea e hanno portato a una revisione profonda delle precedenti acquisizioni in materia [10]. La prima parte dell’articolo delinea i quadri contestuali necessari a orientarsi nell’analisi del documento [11]; seguirà la ‘lettura fiscale’ del placito, che sarà organizzata secondo la sua struttura interna e istituirà un dialogo con altre situazioni sovrapponibili che sono registrate da documenti coevi relativi al regno italico. Dal punto di vista metodologico, infatti, mi è sembrato preferibile impiegare documenti prodotti nel regno italico e di area latina, e non bizantina, come termini di confronto con i quali commentare i diversi passi del placito: sebbene rimasta provincia bizantina fino alle soglie del IX secolo, l’Istria era distante dal cuore dell’impero, e non solo geograficamente. Come emergerà nel corso dell’analisi, la penisola mostra situazioni spesso assimilabili a quelle riscontrate in altri territori affacciati sull’Adriatico, come l’area esarcale e venetica, ma in generale anche in tutti i territori di tradizione bizantina che, nella penisola italica, avevano subito un’influenza più o meno diretta da parte della cultura longobarda.
1. Il contesto politico. L’Istria tra due imperi
Fino al termine dell’VIII secolo, l’Istria rientrava tra i residui dell’impero bizantino affacciati sul mare Adriatico, sebbene avesse acquisito una autonomia notevole nel corso dei secoli. In queste province occidentali, l’intensità del controllo imperiale variava dall’amministrazione diretta a una supervisione quasi simbolica e l’unico legame tra esse era costituito dal mare, vero strumento di controllo sui territori (Prigent 2008, 393). Il Chronicon Salernitanum, opera scritta alla fine del X secolo, attribuisce la conquista della penisola istriana al re longobardo Astolfo, quindi alla metà dell’VIII secolo. Tuttavia, una lettera di Giovanni vescovo di Grado a papa Stefano III, datata tra il 768 e il 772, attesta che, circa vent’anni più tardi, la presenza longobarda in Istria era simile a una forma di occupazione militare e non aveva spezzato il dominio e le istituzioni bizantine, che il placito di Risano mostra ancora in funzione all’inizio del IX secolo [12]. Il terminus ante quem per collocare la conquista franca si ricava invece dalla celebre lettera di Carlo Magno alla moglie Fastrada, composta in occasione della prima campagna militare contro gli avari del 791, in cui il re riferisce di alcuni suoi fideles alla guida delle truppe italiche. Il testo, giunto nelle Formulae di St. Denis, ha subito l’espunzione di tutti i dettagli identificativi, con un’unica eccezione: la menzione di un “dux de Histria”, che consente di datare l’inizio del dominio franco in Istria agli anni immediatamente precedenti al 791 [13]. Questa annessione doveva essere molto importante per i franchi alla fine dell’VIII secolo, sia per interessi strategici sia per ragioni economiche e militari – in primo luogo, per foraggiare gli eserciti, necessità piuttosto urgente in un periodo di frequenti campagne militari ma afflitto dalle carestie (Devroey 2019, 239-240). Infatti, l’Istria era un punto chiave delle connessioni tra Oriente e Occidente ed era una terra ricca, anzitutto per le attività di navigazione e i commerci con l’Oriente che fecero la fortuna di alcuni dei centri costieri (Borri 2008). Non si può escludere, inoltre, che la penisola avesse una florida produzione agricola, anche se l’assenza di fonti impedisce di proiettare la vocazione agraria del territorio attestata per l’età romana oltre la tarda antichità [14]. Tuttavia, l’assimilazione della penisola nell’impero carolingio non fu un processo lineare, perché il conflitto tra franchi e bizantini per il controllo dell’arco altoadriatico si protrasse ancora per alcuni anni ed ebbe fine soltanto con la pace di Aquisgrana dell’812. In base agli accordi raggiunti, Venezia e la Dalmazia rimasero province dell’impero d’Oriente, mentre l’Istria fu inglobata nell’impero franco (Azzara 1994, 121-135; Ančić 2018).
Pur essendo dotata di duces propri, sembra che la penisola istriana fosse subordinata al duca del Friuli nell’ambito della medesima marca, che costituiva un cruciale territorio di passaggio tra il cuore del regno italico, la costa adriatica e l’Europa continentale (Gasparri 2021). Questo almeno fino all’828, quando l’originaria ed estesissima marca friulana fu divisa in quattro parti. Per i duchi Giovanni e Unfrido I [15], in carica prima dell’828, il titolo di dux dell’Istria potrebbe essere interpretato quindi in maniera elastica, per indicare il massimo funzionario locale, che, però, rimaneva soggetto al duca friulano responsabile dell’intera marca (Gasparri 2001, 9-10). Il duca Giovanni fu uno degli imputati dell’inquisitio imbastita in Istria per volontà di re Pipino e dell’imperatore Carlo Magno. Le denunce degli istriani contro il duca Giovanni riferiscono di una spaccatura nel tessuto sociale e di nuove regole contrarie ai costumi tradizionali degli abitanti della provincia: come vedremo, l’insofferenza verso il nuovo ‘modello franco’ di governo sembra originare da un contrasto con il duca che, se in parte colpevole di avere approfittato del proprio privilegio, era soprattutto il rappresentante di una mentalità e di un sistema politico differente e inviso agli istriani [16]. Questo elemento può suggerire che Giovanni fosse un duca straniero, imposto dai nuovi dominatori franchi, ma la sua identità resta incerta e dibattuta tra gli studiosi: senza entrare nei dettagli, rimandiamo all’appendice del testo per le principali tesi sul tema e per brevi profili biografici sui membri del collegio giudicante.
Gli altri personaggi coinvolti nel processo dell’803 furono il patriarca Fortunato II di Grado e cinque vescovi istriani suoi suffraganei. Infatti, la giurisdizione ecclesiastica dell’Istria ricadeva da tempo sotto l’autorità del patriarca di Grado. Sin dal VI secolo, nel contesto dell’invasione longobarda della penisola italica e del quasi contestuale Scisma dei Tre Capitoli, la provincia ecclesiastica della Venetia et Histria si divise in due, con la costituzione di un arcivescovado sdoppiato, e rimase così scissa per tutto il medioevo. Le due sedi di Aquileia e Grado continuarono a contendersi il titolo di chiesa metropolita, schierandosi su fronti politici contrapposti: se il patriarcato di Aquileia si associò subito al regno dei longobardi e poi al potere franco, la sua gemmazione gradese si era viceversa proposta come rappresentante della fascia costiera rimasta nell’orbita bizantina, cioè delle sedi diocesane dell’Istria e della laguna di Venezia, città alla quale si legò via via nei secoli (Cammarosano 1988, 32-37; Cosentino 2008, 31-32). Nella seconda metà dell’VIII secolo, l’Istria divenne un punto focale della competizione politica tra le sedi episcopali di Aquileia e Grado. Approfittando della penetrazione longobarda in Istria, infatti, i vescovi locali avevano tentato di liberarsi dall’autorità del patriarca di Grado, autoproclamandosi ordinati [17]. Nella già citata lettera inviata a papa Stefano III, Giovanni di Grado lamentava uno stato di prostrazione profonda della sua chiesa, costretta a subire numerose prevaricazioni a seguito dell’occupazione longobarda della provincia d’Istria: la perfida gens dei Longobardi aveva invaso l’eredità della chiesa di Grado, richiedeva collectas regolari ed esagerate che si sovrapponevano a quelle dovute all’impero, mentre alcuni vescovi si erano ribellati alla dipendenza dalla diocesi gradese e si erano venduti agli invasori [18]. Sebbene il dominio bizantino in Istria non paia essere stato spezzato dalle operazioni militari dei longobardi, è invece possibile che queste avessero prodotto un indebolimento della chiesa gradese, che si sarebbe aggravato sul finire dell’VIII secolo con l’elezione di Paolino sul seggio di Aquileia. Paolino, “artis grammatice magistro”, apparteneva all’entourage di intellettuali che indirizzò la politica culturale di Carlo Magno e fu l’unico tra i vescovi italici a frequentare e intrattenere rapporti tanto stretti con la corte del re [19]. Nel 792, Paolino ottenne da Carlo Magno due generosi diplomi: tra le numerose concessioni per la chiesa di Aquileia, il re aveva stabilito anche l’esenzione dall’erbatico sul bestiame ecclesiastico per l’uso dei pascoli dell’Istria [20].
Nonostante il rapporto personale tra Paolino e l’imperatore, però, i poteri del patriarca di Grado non furono esautorati a seguito della conquista di Carlo Magno della penisola istriana. Al contrario, durante i primi anni del IX secolo, si assistette a un avvicinamento notevole del patriarca di Grado agli imperatori franchi, grazie all’azione di Fortunato, uno degli uomini più eminenti ad avere ricoperto la carica. Questo rivolgimento si colloca all’indomani della morte di Paolino di Aquileia, avvenuta nell’802, evento che parrebbe avere segnato un allentamento temporaneo dei rapporti tra la chiesa aquileiese e l’imperatore, almeno fino all’elezione del patriarca Massenzio nell’811 e all’inizio del regno di Ludovico il Pio, durante il quale Fortunato cadde in disgrazia [21]. Alla possibile data del placito di Risano nell’804, invece, Fortunato era stato insignito del pallio da Leone III da appena un anno ed era già riuscito a ottenere importanti concessioni da Carlo Magno [22]. Nell’agosto 803, il patriarca Fortunato si recò a Salz, una località sul fiume Saale, e ricevette da Carlo Magno la conferma dell’immunità in tutti i suoi possessi [23]. Secondo gli Annales regni Francorum e gli Annales Mettenses priores, la stessa estate 803, sempre a Salz, si tenne un incontro tra i messi dell’imperatore Niceforo e Carlo Magno, il cui esito fu forse una tregua del conflitto nell’Adriatico e al quale, per il secondo annalista, avrebbe partecipato anche Fortunato “patriarcha de Grecis” (Pertz 1895, 104; Simson 1905, 89-90). Come sottolineato da Esders (1999), l’intervento di Fortunato potrebbe indicare che l’assemblea di Salz si occupò anche della situazione politica ed ecclesiastica dell’Istria in bilico tra i due imperi, anticipando la contrattazione avvenuta a Risano (cfr. Štih 2018, 63-65). All’epoca, Fortunato si trovava in una situazione complessa perché, come metropolita di Grado, era responsabile di una diocesi divisa tra l’impero franco (Istria) e quello bizantino (Venezia). Infatti, da una lettera di risposta di papa Leone III a Carlo Magno, datata 806-810 [24], si apprende che l’imperatore dovette richiedere di trasferire Fortunato a Pola, a causa delle persecuzioni a lui inflitte da bizantini e venetici, che non vedevano di buon occhio il suo avvicinamento ai franchi e che lo avevano costretto ad abbandonare l’isola di Grado. In effetti, il favore dimostrato da Carlo Magno nei confronti del patriarca di Grado sembra doversi soprattutto a ragioni politico-diplomatiche, e cioè alla volontà di consolidare il dominio carolingio nell’alto Adriatico, in una fase in cui la ripartizione tra la sfera di influenza franca e quella bizantina era ancora oggetto di tensioni. Anche la richiesta di traslocare la residenza di Fortunato a Pola scaturiva forse da un interesse più ampio, quello di spostare fisicamente la sede patriarcale di Grado nell’orbita franca (così anche Rando 1997), e ciò avrebbe consentito di controllare per il suo tramite la parte della diocesi nella laguna veneziana rimasta sotto l’impero bizantino. È possibile che, in cambio del suo appoggio, l’imperatore avesse promesso a Fortunato di ammettere lo statuto metropolitano della chiesa di Grado: nel placito di Risano, che è stato datato variamente proprio tra l’801 e l’810 e che è pervenuto nella versione rogata per ordine del vescovo gradese, Fortunato è ripetutamente definito patriarca e capo di una chiesa metropolita mentre, nella parte delle sottoscrizioni, sembra rivendicare addirittura la titolarità della sede aquileiese attraverso la firma del notaio Pietro, “diaconus sanctȩ Aquileiensis metropolitanȩ Ecclesiȩ” [25]. Come che sia, il progetto non andò a buon fine, perché Leone III acconsentì a un soggiorno solo temporaneo del patriarca a Pola, mentre la successiva spedizione di Pipino contro Venezia dovette riportare Fortunato a Grado e si concluse in un nulla di fatto, poiché la pace di Aquisgrana ristabilì l’autorità bizantina sul ducato [26].
Insomma, tutti i personaggi convocati a Risano erano strettamente implicati nel governo dell’Istria, in un periodo ancora segnato dalle tensioni tra franchi e bizantini per il controllo della costa adriatica. A propria volta, anche i missi inviati in Istria erano figure ben informate sulla situazione nell’Adriatico, sia sul piano locale sia nel più ampio quadro delle relazioni politiche tra l’impero franco e quello bizantino [27]. Figure, quindi, in grado di valutare le istanze presentate dagli istriani nel contesto degli equilibri politici regionali e sovraregionali. In questo senso, è importante riflettere brevemente anche sulla scelta della procedura dell’inchiesta, ancora poco diffusa all’inizio del IX secolo. [28] Tale procedura comportava appunto l’apertura di un’inchiesta da parte del sovrano o dei suoi missi, che generava il giudizio finale e definitivo sulla controversia. Il carattere inappellabile della sentenza a conclusione dell’inquisitio è una prima differenza fondamentale rispetto alla forma classica del processo per prova testimoniale che, inoltre, prevedeva che fosse l’attore a citare in giudizio la controparte e richiedere di accedere al tribunale del re. Nella forma di placito detta inquisitio, i testimoni erano scelti dai giudici oppure dalle parti, generalmente dall’accusa, e la loro deposizione valeva immediatamente come prova: così, chi riusciva a ottenere l’apertura di un’inchiesta da parte del re poteva selezionare, nel dibattimento, i testimoni a sostegno della propria causa, le cui deposizioni favorevoli determinavano l’esito positivo del processo quasi in partenza. Nel suo articolo, Esders sostiene che, pur essendo prodotto negli ambienti della chiesa di Grado, il placito si può considerare un tipico esempio di “scrittura missatica” di età carolingia. L’inquisitio fu preparata sulla base di una struttura tematica elaborata dai missi in linea con lo schema indicato nei capitolari per la conduzione delle assemblee giudiziarie, oltre che su una possibile denuncia presentata dagli istriani [29]. Anche i testimoni giurati furono selezionati dai missi stessi tra l’élite locale [30]: la scelta della procedura dell’inquisitio risulta quindi particolarmente significativa, anzitutto perché riflette la concreta volontà della giustizia regia di accogliere e legittimare l’azione politica delle comunità istriane. In secondo luogo, l’adozione dell’inquisitio, con il carattere inappellabile della sentenza, rispondeva in modo efficace all’esigenza di definire le nuove consuetudini per il governo dell’Istria e soprattutto le modalità di gestione delle risorse fiscali. Infatti, almeno in linea teorica, la procedura era riservata alle controversie relative al patrimonio fiscale [31], e l’oggetto del placito rientrava pienamente in questa categoria. In questo modo, l’inquisitio offriva una cornice giuridica funzionale a stabilire un nuovo equilibrio nella gestione delle risorse pubbliche e nei rapporti di potere nel territorio istriano.
2. Il publicum tra Oriente e Occidente. Il finanziamento dello ‘Stato’ nell’alto Medioevo
Prima di affrontare l’analisi del placito, sarà necessaria un’ulteriore premessa, sulle caratteristiche del publicum negli imperi bizantino e franco. Infatti, nella riflessione teorica sulla forma dello ‘Stato’ e sui modi di finanziamento delle istituzioni e della politica altomedievale, l’impero bizantino e i regna romano-barbarici rappresentano modelli e sistemi di produzione contrapposti. Senza entrare nel dettaglio di un dibattito complesso e che ha prodotto sintesi recenti e di ottima qualità [32], sarà sufficiente sapere che, come l’impero romano, la sua evoluzione bizantina è ricondotta a una tipologia di ‘Stato forte’, alimentato dal prelievo di imposte definite secondo la legge e richieste alle persone che vivevano nel suo territorio. Nel cosiddetto tax-based state, il prelievo è gestito da un apparato burocratico pagato dallo Stato, che si occupa anche del mantenimento dell’esercito: il fisco, dunque, conferisce una dimensione indipendente al potere politico perché marca una separazione tra governatori e governanti, tra Stato ed élite. Al contrario, le istituzioni politiche dell’Occidente altomedievale non ricorsero a un sistema di imposte capillare e generalizzato a tutti i sudditi: queste istituzioni possono essere definite land-based state perché la base economica del potere politico è la terra con le sue rendite, cui si aggiungevano, ma in via supplementare, tributi leggeri richiesti per il godimento delle risorse pubbliche. La pratica della redistribuzione della terra in cambio di servizi di varia natura, tra cui il servizio armato, comporta un’assimilazione strutturale tra sovrani e aristocrazia nei regna romano-barbarici che, per tale ragione, sono stati tradizionalmente considerati come organismi politici deboli e soggetti al rischio costante della disgregazione [33]. Quest’ultimo assunto è stato profondamente messo in discussione dalle ricerche recenti sui beni del fisco regio nell’alto medioevo occidentale [34]. In generale, i modelli teorici che abbiamo qui riassunto e semplificato possono essere sempre rivisti e tuttavia, se non sono considerati uno specchio fedele della realtà, hanno un’effettiva utilità euristica (cfr. Carocci e Collavini 2012), perché mettono bene in evidenza le differenze costitutive tra l’impero bizantino e i regni occidentali, la più importante delle quali riguardava il sistema di tassazione. Perciò, sarà importante spendere qualche altra parola sulla pratica del finanziamento dell’impero bizantino e del regno longobardo poi assimilato nell’impero carolingio, cioè dei due modelli che si sovrapposero in Istria, posto che le poche fonti sopravvissute ostacolano una conoscenza approfondita in entrambi i casi.
2.1 Il fisco bizantino
A seguito dei profondi e traumatici cambiamenti che colpirono l’impero nel corso del VI secolo, venne meno la chiara tripartizione che, dalla fine del III, aveva caratterizzato il fisco romano, diviso in res privata, sacrae largitiones e praefectura praetoriana. Nel VII secolo, il fisco imperiale appare organizzato in due grandi ministeri, l’uno diretto dall’ufficiale responsabile del tesoro privato dell’imperatore, il sakellarios, l’altro dal logothetes tou genikou. È da quest’ultimo che era gestita l’imposizione del tributo, oltre che il reclutamento e, forse, le previsioni di spesa per il mantenimento dei soldati [35]. L’imposta di base era quella sulla terra, cui si aggiungevano le tasse sul bestiame e sulle persone fisiche, cioè sui mezzi di produzione posseduti. L’imposta fondiaria era considerata “le droit régalien par excellence”: secondo il diritto romano, la terra poteva appartenere in piena proprietà ai privati, a persone giuridiche, oppure allo Stato che, in linea di principio, conservava un diritto superiore sull’intera base fondiaria del proprio territorio, ma che, di fatto, era proprietario della terra che non apparteneva ai privati o alle istituzioni (Oikonomidès 1996, 46-47, cit. 46). Questi ultimi dovevano pagare l’imposta fondiaria allo Stato che, invece, dalle terre fiscali, cioè dalle terre di sua proprietà, estraeva una rendita, comprensiva dell’imposta. Analogamente, i grandi proprietari ed enfiteuti, se non godevano di qualche forma di esenzione, erano responsabili delle imposte proprie e dei propri lavoratori dipendenti, da cui estraevano una rendita comprensiva dell’imposta fondiaria e, eventualmente, le tasse gravanti sulle loro persone, che trasmettevano allo Stato (mantenendo per sé il resto della rendita) [36]. Sarebbe superfluo approfondire in questa sede la dibattuta questione della demonetizzazione e della conversione della leva fiscale in natura che avrebbe preso il sopravvento tra la metà del VII e la metà dell’VIII secolo e che divide la comunità degli specialisti del settore [37]. Basterà sapere che l’imposta fu versata, generalmente, in denaro e che, forse a partire dal VII secolo, divenne un’imposta ad valorem, proporzionale al valore del patrimonio di ogni contribuente. La proporzionalità della leva fiscale era bilanciata però da un altro principio, probabilmente sopravvissuto al precedente sistema della tassazione distributiva, cioè la solidarietà fiscale, che prevedeva l’obbligo di assunzione delle imposte del vicino insolvente [38]. Dopo il declino dei curiales e delle città come cellula di base del prelievo (Jones 1964; Delmaire 1996), a partire dal VII-VIII secolo, la responsabilità della leva si era ricalibrata su un diverso centro di raccolta, il ‘villaggio’ (χωρίον, chorion). Di fatto, però, i grandi proprietari terrieri con le loro tenute (πρόσωπα/προάστειον, prosopa/proasteion) costituivano unità fiscali a sé stanti, che affiancavano i distretti fiscali ‘ufficiali’ e il personale addetto alla raccolta delle imposte (Brandes e Haldon 2000; Prigent 2014a, 205-209). Nella legislazione fiscale del X secolo, questa fisionomia bipartita della leva fiscale è espressa dalla distinzione tra ‘persone’ e ‘villaggi’, che riflette la separazione sociale tra la grande proprietà fondiaria e i piccoli proprietari, una fascia di contribuenti più debole che faceva riferimento al villaggio come centro del prelievo. Soprattutto in questo secondo circuito di prelievo era applicato il principio della solidarietà fiscale, che consentiva di riassorbire l’eventuale ammanco di una quota attraverso il contributo solidale della comunità e assicurare la regolarità delle imposte (Oikonomidès 1996, 54). Pertanto, anche se l’imposizione delle tasse avveniva sulla base della valutazione e della registrazione trentennale del patrimonio personale di ogni contribuente nei catasti, a essere responsabili davanti allo Stato per il pagamento delle imposte erano i χωρία, i villaggi, e i πρόσωπα, le persone, cioè i grandi latifondisti, che però, a differenza dei piccoli coltivatori, riuscivano facilmente a guadagnare gradi diversi di esenzione. Questa era un’esenzione a carattere fiscale sulla proprietà fondiaria e non comportava la cessione di diritti amministrativi o giurisdizionali. Accanto all’imposta sulla terra, lo Stato richiedeva ai contribuenti tasse e prestazioni straordinarie, in denaro o in natura, di carattere civile, militare e paramilitare, che avevano un peso considerevole sull’insieme della tassazione. Queste obbligazioni straordinarie potevano essere annullate proprio grazie al privilegio dell’ ͐εξκουσεία (exkousseia), cioè l’esenzione speciale che era accordata generalmente dall’autorità imperiale e che meno spesso poteva essere applicata anche al pagamento dell’imposta fondiaria di base (Oikonomidès 1996, 153-224). Un noto documento relativo alla chiesa metropolita di Reggio, nel thema di Calabria, chiarisce il funzionamento di questo istituto alla metà dell’XI secolo, quando fu la grande proprietà fondiaria ad affermarsi come cellula del prelievo. Nell’inventario della chiesa (βρέβιον, brebion) sono indicati alcuni villaggi (choria), tenute comparabili ai fundi tardoantichi, di dimensioni medio-grandi (proasteia) e monasteri che ricadevano nelle proprietà ecclesiastiche e che erano stati esentati dall’imposta fondiaria: ciò non significa che non pagassero più l’imposta, ma che questa era versata non allo Stato, ma appunto alla chiesa di Reggio [39]. Ma chi era a possedere il capitale fondiario da cui l’impero bizantino ricavava l’imposta? Nell’ex impero d’Occidente, nel corso del VII secolo, proprio la Chiesa aveva sostituito il ceto senatorio nel controllo privilegiato della proprietà fondiaria, estremizzando gli esiti di un graduale processo di concentrazione delle terre nei patrimoni ecclesiastici che si era già avviato nel corso dei due secoli precedenti e che era stato promosso anche dall’autorità imperiale. Come gli altri grandi proprietari terrieri, la Chiesa pagava le tasse all’impero e poteva guadagnare l’esenzione. Le fonti sopravvissute consentono di individuare soprattutto nelle chiese di Roma e Ravenna le maggiori proprietarie di terre nell’Italia tardoantica; seppure su scala minore, non è escluso che anche il patriarcato di Aquileia/Grado avesse acquisito un patrimonio consistente e di carattere sovraregionale. Soprattutto per Grado la documentazione è gravemente carente, ma una prova a sostegno di quest’idea può essere riconosciuta nel fugace riferimento del diploma già citato di Carlo Magno dell’803 a un patrimonio gradese che non era ristretto all’angusta fascia costiera rimasta sotto controllo bizantino, ma che era sparso “in Istria, Romandiola seu in Longobardia” [40].
2.2 Il fisco longobardo-franco nel regno italico
Passando ora al regno longobardo, occorre premettere che non esistono fonti specifiche e dirette sui modi di gestione del patrimonio fiscale e sulla sua consistenza. Sulla base delle poche e problematiche informazioni ricavabili dall’Historia Langobardorum di Paolo Diacono e dall’Editto di Rotari, si può affermare che il regno longobardo realizzò velocemente “il passaggio dall’imposta alla rendita” che rappresenta la caratteristica precipua del funzionamento dei regna altomedievali: se anche un sistema di tassazione rimase attivo nella fase iniziale del regno, esso cadde ben presto in disuso; l’esercizio del potere e la vita delle strutture politiche si fondarono allora sul possesso della terra e sul suo sfruttamento [41]. La concezione del publicum nel regno longobardo era, però, più sofisticata di quanto non ci si potrebbe aspettare. In base all’Editto di Rotari, la titolarità dei beni pubblici e delle causae regales era pertinenza esclusiva del palatium e della curtis regia [42]. Tale suddivisione del pubblico tra curtis regia e palatium si ritrova anche nelle fonti documentarie, disponibili dall’VIII secolo: queste lasciano intravedere una differenza tra i beni del regno, che servivano al suo mantenimento, e beni a uso pubblico, ciò che sembra riprendere la distinzione concettuale tra beni del fisco e beni pubblici già messa a punto dai giuristi romani tra II e III secolo [43]. A quanto sembra, l’espressione curtis regia designava il fisco regio vero e proprio, inteso sia come patrimonio fiscale nella sua interezza sia come le singole unità amministrativo-territoriali del fisco sparse sul territorio. In quest’ultima accezione, almeno dall’VIII secolo, la curtis regia fu il centro organizzativo dei beni fiscali e anche dell’intero distretto territoriale entro il quale ricadeva (civitas, iudicaria, fines), solo quando, però, non fosse presente un duca oppure laddove esistesse una corte ducale separata dalla corte regia e impiegata per mantenere e foraggiare l’azione politica dei duchi, i massimi ufficiali pubblici del regno. Nel regno longobardo, la corte regia centrale corrispondeva al palatium di Pavia, una parola che, anche nelle fonti di età franca, non è impiegata soltanto per indicare la residenza fisica del sovrano, perché il palatium corrisponde altresì all’insieme delle risorse destinate direttamente al re, alla sua famiglia e alla corte. I beni pubblici, invece, erano le risorse associate a un uso collettivo, come le vie di comunicazione terrestri e fluviali, il mare, le selve, i pascoli e i prati. Rispetto agli incolti, la legislazione dell’Editto di Rotari sembra stabilire il principio che essi fossero aperti al godimento collettivo, fatti salvi i gai regi (le foreste regie riservate) e i casi in cui i titolari non interdicessero in maniera esclusiva e reiterata la fruizione di simili beni. Di fatto, l’accesso alle risorse naturali dovette avvenire in maniera piuttosto libera almeno fino all’VIII secolo, quando si diffuse una tendenza alla ‘fiscalizzazione’, diretta o indiretta, dei beni pubblici, marcata dall’obbligo via via più rigido al pagamento di tributi che si estendevano all’uso dell’incolto e delle altre risorse pubbliche [44]. Il sistema del regno si basava dunque anzitutto sulla rendita prodotta dalle terre fiscali, ma era continuamente alimentato attraverso tre canali ulteriori: le multe/composizioni, le confische/annessioni regolari previste per legge e i tributi. Questi tributi non erano limitati soltanto all’uso delle risorse fondiarie, ma erano più in generale legati ai beni considerati pubblici e al loro mantenimento da parte dell’autorità regia e delle sue emanazioni, essendo richiesti per esempio, per la pesca, per il pascolo sui prati, nei pascoli e nei boschi, ma anche per il transito sulle strade, sui fiumi, nei passi montani e vallivi, per il movimento commerciale e l’accesso ai porti e ai luoghi di mercato, o per provvedere alla sussistenza e all’ospitalità del re e della sua corte, e/o dei suoi eserciti (Bougard 2019; Gasparri 2004; Loré 2019; Rao e Salazar 2019).
Con il passaggio del regno italico alla dominazione franca, questa struttura rimase sostanzialmente invariata, con l’introduzione però di un nuovo strumento di governo che si applicava specificamente alla grande proprietà fondiaria, l’immunità. Questo privilegio poteva essere concesso soltanto dai sovrani e rendeva i suoi beneficiari o, meglio, le proprietà dei suoi beneficiari immuni dall’intervento degli ufficiali pubblici. Tale diritto straordinario fu accordato generalmente a enti ecclesiastici e religiosi che, in negativo, potevano esigere nelle proprie terre immuni le prestazioni e i tributi che sarebbero spettati ai funzionari locali, ma non quelli che sarebbero spettati al re (Lazzari 2019 e 2024b). Dalla seconda metà dell’VIII secolo questi enti erano divenuti gli interlocutori privilegiati dei sovrani nella gestione di quote del patrimonio fiscale, un fenomeno di portata molto ampia che costituì un’importante svolta rispetto alla precedente politica di gestione del pubblico. Il fulcro di questa politica consistette nella devoluzione di larghe quote fiscali a beneficio di alcuni tra gli enti monastici del regno, prevalentemente nuove fondazioni di rango regio, che assunsero così il ruolo di ‘forzieri’ di queste proprietà (Lazzari 2017). A seguito della conquista carolingia, le chiese affiancarono le fondazioni monastiche come destinatarie delle concessioni regie, pratica che le integrava, di fatto, nella struttura pubblica. La logica sottostante all’operazione sembra risiedere anzitutto nei vantaggi procurati dalla sottrazione del patrimonio ceduto ai normali circuiti di distribuzione: la donazione a favore degli enti ecclesiastici e religiosi consentiva, cioè, di preservare la natura inviolabile delle terre fiscali che confluivano nelle dotazioni, mentre il sovrano poteva assicurarsene un controllo più stringente, grazie al rapporto di alleanza che si instaurava con il beneficiario e al restringimento della base sociale coinvolta nella sua gestione. Come è stato dimostrato dai recenti studi sul tema, questo meccanismo di ‘eccettuazione’ non determinava una privatizzazione dei beni ceduti, che conservavano uno statuto speciale e rimanevano nella disponibilità del potere regio anche dopo l’alienazione [45]. Come vedremo, questo fenomeno si riscontra anche nell’Istria dell’IX secolo ed ebbe conseguenze radicali sulla struttura patrimoniale, ma anche politico-sociale della provincia.
3. Il processo
3.1 Le recriminazioni contro le chiese
Giungiamo finalmente all’analisi del placito di Risano, che si può dividere grossolanamente in tre sezioni. Nella prima parte, gli homines capitanei espongono le proprie lamentele contro il patriarca Fortunato e, soprattutto, contro i cinque vescovi suoi suffraganei, di cui è impossibile accertare la diocesi di riferimento ma che, forse, erano i rappresentanti delle sedi episcopali di alcuni dei centri dell’Istria coinvolti nella controversia. Nell’ultima parte, l’obiettivo polemico degli istriani è il duca Giovanni. Le due sezioni sono collegate da una ricognizione delle risorse fiscali a disposizione del duca: come abbiamo già accennato, la missione dei missi di Carlo e Pipino mirava non solo alla ricomposizione del conflitto, ma anche alla definizione delle risorse pubbliche e degli assetti di potere nella provincia di nuova conquista.
E infatti, la seduta giudiziaria si apre con l’esibizione alla giuria di “breves per singulas civitates vel castella”, composti al tempo dei magistri militum Constantino e Basilio, figure su cui non abbiamo altre notizie. Posto che il contenuto di questi brevia rimane ignoto, si può supporre che si trattasse di inventari delle entrate fiscali dovute per ogni territorio, civitas o castrum, proprio con una funzione ricognitiva delle proprietà e degli oneri dovuti al pubblico [46]. Nel testo del placito, inoltre, risulta centrale l’interesse a stabilire per iscritto i diritti cerimoniali e giurisdizionali di Fortunato quale arcivescovo responsabile delle chiese dell’Istria (Esders 1999, 69-74): infatti, la prima parte non contiene delle vere accuse, ma è dedicata al problema delle consuetudines che la madre chiesa di Grado vi possedeva. Il patriarca Fortunato incalza la testimonianza degli homines capitanei dichiarando di non essere certo che ci sia un intento ostile nei suoi confronti e ricordando che i diritti consuetudinari della sua chiesa erano stati recentemente abrogati dagli istriani, visto il suo impegno ad aiutare le comunità, “quod multas dationes vel missos in servitium domni imperatoris propter vos direxit”. La menzione dell’aiuto, diplomatico ed economico, prestato da Fortunato di fronte all’imperatore si può leggere come un’attività di mediazione svolta dal patriarca in favore della causa degli istriani, coronata dal suo intervento all’importante incontro che si era tenuto a Salz nell’estate dell’803. In cambio, le élite locali si dovettero impegnare a ridefinire i rapporti con la chiesa di Grado enunciando quali fossero i diritti e i doveri del patriarca di fronte agli inviati dell’imperatore Carlo. Questo chiarimento doveva essere vitale per il patriarca gradese che, con il passaggio della penisola all’impero franco, temeva forse un ridimensionamento della provincia ecclesiastica a vantaggio della concorrente chiesa di Aquileia, tanto più che i vescovi dell’Istria avevano già tentato di sottrarsi alla sua giurisdizione [47]. La risposta a Fortunato è riportata nella testimonianza del primas di Pola [48], che è l’unico notabile istriano a prendere la parola singolarmente. Pola era stata una colonia romana e forse anche il centro di coordinamento della provincia istriana (Krahwinkler 2006, 282-283, e nn. al testo), ma l’eccezionalità dell’intervento del primas si può spiegare non solo in considerazione dell’antico prestigio della città: ricordiamo che, di lì a poco, Carlo Magno avrebbe tentato di traslocare proprio a Pola la sede patriarcale di Fortunato che, se non era già arrivato in città, era prossimo allo spostamento [49]. Tra i privilegi che sono attribuiti a Fortunato, notevole risulta la facoltà di amministrare la giustizia nelle diocesi dell’Istria: dopo la consegna delle chiavi della cattedrale da parte del vescovo della città, per tre giorni “ipse (il patriarca) judicabat et disponebat”. Il breve intervento del primas di Pola si conclude con un’altra concessione a Fortunato ‘a carattere pubblico’, che riguarda il diritto all’accesso ai pascoli istriani, sgravato da tributi, accordato al bestiame del patriarca.
Questo dettaglio sembra individuare un’intenzione del potere regio di aprire i pascoli istriani al libero godimento delle chiese che, nell’area, erano in competizione per il rango metropolitano. In effetti, interpretando il placito come un mezzo per formalizzare diritti, vecchi e nuovi, la legittimazione del libero accesso ai pascoli d’Istria per il bestiame di Fortunato può essere letta nell’ambito della competizione politica tra Grado e Aquileia, una competizione che aveva a che fare anche con il controllo delle risorse pubbliche. Come abbiamo già visto, infatti, nel 792 anche il patriarca di Aquileia Paolino aveva ricevuto un privilegio simile da Carlo Magno, ovvero l’esenzione dal versamento dell’erbatico sul “peculio proprio ecclesiastico” per l’uso dei pascoli dell’Istria, all’interno di una serie più ampia di concessioni – la libertà per la chiesa aquileiese di eleggere il patriarca, l’esenzione dal pagamento in puplico della decima sull’annona e sul bestiame e dal mansionaticos (spese per l’ospitalità) e dal foedrum (tributo in mangime), fatta salva la circostanza che lo stesso Carlo o Pipino o comunque un esercito del re si trovasse costretto a transitare “propter impedimenta inimicorum” nel territorio del Friuli o nei fines Tarvisiani. Nella stessa data, Carlo Magno concedette a Paolino anche l’immunità: nel caso di Aquileia, quindi, l’esenzione dall’erbatico appare scorporata dall’immunità ed è addirittura contenuta in un diploma diverso, seppure emesso contestualmente dal re [50]. Una spiegazione possibile si riconosce nel fatto che, a questa data, la chiesa di Aquileia non aveva una base fondiaria in Istria, a differenza del patriarca di Grado che, almeno in teoria, era il metropolita della provincia. Pertanto, l’esenzione dal pagamento dell’erbatico andrebbe applicata all’accesso e al godimento dei pascoli pubblici dell’Istria, cioè a risorse che non erano state alienate e che non rientravano nel patrimonio immune della chiesa di Aquileia. In alternativa, si può pensare che l’erbatico richiesto per l’uso dei pascoli istriani non fosse destinato alla curtis regia, al fisco locale, ma fosse una spettanza del re; quindi, un obbligo verso il pubblico che la concessione dell’immunità non annullava. E in effetti, anche nel caso di Grado, l’immunità, conquistata da Fortunato con il diploma di Salz dell’803, fu corredata da un riconoscimento esplicito e separato del diritto di libero accesso ai pascoli dell’Istria, istituito appunto dal placito di Risano, attraverso il racconto delle antiche consuetudini della chiesa di Grado da parte del primas di Pola.
A questo punto, i notabili istriani espongono le lamentele rivolte contro i vescovi suffraganei di Fortunato: i vescovi hanno infranto la consuetudine di ospitare i missi imperii e di corrispondere loro la metà dei tributi, prima divisi equamente con il populus; i censi di erbatico e ghiandatico, per l’uso dei pascoli e dei boschi, sono estorti con la forza “inter vicora”, contro le antiche consuetudini; la pesca nel mare pubblico è ora interdetta, se non si vuole incorrere nelle bastonate e nella rottura delle reti. Le altre imputazioni, meno esplicitamente legate al controllo delle risorse pubbliche, riguardano un uso corruptus dei contratti di enfiteusi, di livello e le “non dolosas commutationes”, l’aumento del canone per l’uva, dal quarto al terzo sul raccolto, e le violenze esercitate dalla familia ecclesiae sugli uomini liberi, un affronto sopportato solo per timore del sovrano.
L’aumento degli oneri richiesti alle comunità istriane potrebbe essere una conseguenza della concessione alla chiesa di Grado dell’immunità [51]. Bisogna ammettere che, nel diploma dell’803, non si esplicita l’estensione dell’immunità alle chiese soggette a Grado, applicata genericamente a tutti i possessi del patriarca “in Istria, Romandiola seu in Longobardia”. Tuttavia, è possibile che il patriarca avesse trattato con il re un’estensione del privilegio dell’immunità alle sedi vescovili istriane e del riconoscimento formale della sua superiore autorità di metropolita. D’altra parte, l’immunità rendeva esenti dagli obblighi dovuti ai funzionari del fisco locale, e non al re e ai suoi rappresentanti. Sotto questo aspetto, come già visto con i diplomi per Paolino di Aquileia, non è scontato che l’immunità proteggesse automaticamente dall’esazione di erbatico e ghiandatico e consentisse ai suoi titolari, in negativo, di esigerli. Altrettanto problematica è l’interdizione all’accesso al “mare publico”, cioè, ancora una volta, a una risorsa di uso collettivo. Vero è che Fortunato ricevette, in data ignota, anche l’esenzione dal pagamento del teloneo per quattro sue navi e da una serie di tributi aggiuntivi, tutti relativi all’esercizio di attività commerciali [52]. Questa concessione è contenuta in un altro diploma di Carlo Magno, che è stato interpolato, ma che viene considerato autentico nella sostanza e che evidenzia un interesse del patriarca nel controllo sul mare, in linea con il resoconto degli homines capitanei. Tuttavia, sembra eccessivo dedurre da questo precetto un diritto al monopolio sul mare a favore delle chiese istriane, come potrebbe essere improprio collegare l’esazione di erbatico e ghiandatico a un’immunità concessa al patriarca di Grado. L’interpretazione di questi passaggi, relativi a risorse aperte a un uso collettivo, è infatti più complessa e vi torneremo in seguito. Nella stessa logica, anche il rifiuto dei vescovi di ospitare i messi dell’imperatore, quindi di assolvere a un’obbligazione dovuta al sovrano, sembra una vera e propria malversazione. Occorre comunque ammettere che la situazione documentaria della chiesa di Grado e delle diocesi istriane è molto compromessa e che i diritti che i vescovi istriani si erano arrogati potrebbero derivare da concessioni a loro vantaggio che non sono pervenute.
A ogni modo, le concessioni di Carlo Magno alla chiesa di Grado e, forse, ai vescovi dell’Istria si erano risolte in nuove dinamiche di potere, con esiti sfavorevoli per le élite locali. Il fenomeno potrebbe essere legato anche alla struttura della proprietà fondiaria e alle sue prassi di gestione, come lascia intendere la sezione che accenna a un uso distorto dei contratti di enfiteusi, livello e delle “non dolosas commutationes”. Secondo Esders, quest’ultima espressione sarebbe riferita a operazioni di scambio di beni tra privati laici e chiese: lo speciale status giuridico delle proprietà ecclesiastiche incoraggiava molti a donare i propri beni alla chiesa per poi riottenerne il domino utile grazie a una riallocazione (Esders 1999, 75-76). Un risultato che poteva essere ottenuto anche attraverso forme contrattuali analoghe, quali la precaria, il livello e l’enfiteusi. Il meccanismo era molto simile: un bene (di solito un bene fondiario) era ceduto a un ente ecclesiastico che, tramite queste tipologie contrattuali, lo trasferiva indietro a titolo provvisorio e oneroso all’ex proprietario, magari con aggiunte ulteriori o in una forma più compatta e meno frammentata, attivando per un canone modico un usufrutto e/o un affitto di fatto quasi perpetuo o quantomeno vitalizio (Feller 1999; Tomei 2017). Proprio l’enfiteusi, che nella tarda antichità fu impiegata soprattutto per la gestione delle tenute imperiali della res privata, divenne uno degli strumenti privilegiati con cui le chiese di Roma e Ravenna gestirono i propri vastissimi patrimoni fondiari e, al contempo, costruirono una rete stabile di relazioni con le élite locali. Questa tipologia contrattuale consentiva alle chiese di attirare attorno a sé una clientela potente e di rendere più produttive le proprietà, mentre per l’élite militare e civile era un modo vantaggioso di ampliare la propria base fondiaria in cambio di obblighi contrattuali molto leggeri; tant’è che, nell’VIII-IX secolo, le fondamenta della ricchezza fondiaria dell’aristocrazia locale paiono costituite per la gran parte da terre ricevute in enfiteusi dalle chiese o dai monasteri (Cosentino 2008, 183-196; Guillou 1969, 190-192). A Lucca, invece, fu il livello a essere utilizzato dai vescovi per alimentare la rete di fedeltà propria e, a monte, dei marchesi di Tuscia. Come dimostrato da Paolo Tomei (2012 e 2017), i livelli conservati nell’Archivio Storico Diocesano di Lucca furono prevalentemente diretti non a contadini e coltivatori, ma a una media élite di potentes, e potevano sovrapporsi o comprendere beneficia, con i relativi censi, e, nel X secolo, addirittura le decime delle pievi (cfr. Ghignoli 2009). Più in generale, infatti, queste tipologie contrattuali potevano essere impiegate per cristallizzare in forma scritta, spendibile in giudizio e a lunga durata, transazioni di beni che avrebbero dovuto rimanere oggetto di allocazioni orali, a breve termine o comunque revocabili dal concedente. Quei beni venivano così alienati per un censo in denaro, che, se corrisposto, aveva un valore prettamente simbolico, e in forme sostanzialmente definitive, perché l’enfiteusi aveva una durata pressoché perpetua e i livelli, ventinovennali, potevano essere rinnovati a più generazioni. Anche per il proprietario i vantaggi erano notevoli, sia sotto il profilo politico, perché servivano ad alimentare e allargare le proprie reti di alleanza, sia sotto il profilo economico, a scopi di lucro personale. Lo sappiamo grazie ad alcuni capitolari che tentarono di disciplinare il problema rappresentato dalle alienazioni ad tempus rilasciate dagli enti ecclesiastici (Feller 2009; Tomei 2017).
Anche se è difficile mettere a fuoco il problema denunciato dagli istriani, è possibile che l’evocazione dell’uso corrotto di questi contratti riguardasse proprio simili pratiche, forse percepite tanto più illecite in un contesto con tradizioni e consuetudini giuridiche differenti. Nello specifico, si può pensare che i vescovi utilizzassero permute, enfiteusi e livelli per nutrire nuovi rapporti di dipendenza e clientela personale più vantaggiosi nel mutato contesto politico, che escludevano le élite istriane dall’accesso alle risorse fondiarie e alle fonti del potere. Si può anche sospettare che fosse invalsa la pratica di revocare o rinnovare i contratti già in vigore, non tanto o non solo per aumentare i canoni di affitto o introdurre prestazioni aggiuntive e contrarie alle condizioni contrattuali (Esders 1999, 76), ma proprio per stipulare un altro atto: infatti, sembra che il guadagno economico del proprietario risiedesse nel pesante costo di avvio pagato dal concessionario e forse valutato in base ai redditi che avrebbe ricavato dalla proprietà ceduta (Ghignoli 2009, 29-30; Tomei 2017, 266). Oltretutto, il valore normativo che dovette ricoprire il placito e la sua importanza in un’ottica di governo della provincia istriana induce a credere che l’uso distorto di permute, enfiteusi e livelli avesse ricadute negative non solo sulle élite istriane, ma anche sul patrimonio e i diritti che il fisco carolingio rivendicava a sé e che voleva proteggere. Infatti, poiché tali forme contrattuali si prestavano bene ad aggirare i limiti imposti alla privatizzazione di fatto delle proprietà inalienabili, esse furono utilizzate anche per trasferire stabilmente i beni di origine fiscale che si trovavano nei patrimoni ecclesiastici, danneggiando in tal caso le basi materiali del potere regio. Il Capitulare Ticinense de prediis ecclesiarum, promulgato da Ottone III al sinodo di Pavia nel contesto della cosiddetta renovatio imperii nel 998, è molto eloquente su questo punto: i vescovi e gli abati abusavano dei beni ecclesiastici e li alienavano per scripta, a fini personali e non per l’utilità della chiesa, e in questo modo ledevano non soltanto la proprietà ecclesiastica, ma anche l’imperialis maiestas, i diritti regi [53]. Da ciò conseguiva, infatti, che il sovrano fosse impossibilitato a riscuotere le esazioni pubbliche dalle proprietà che erano state alienate dagli enti ecclesiastici ai privati, causando inoltre un’erosione del fisco regio [54]. Anche se non sappiamo in quale misura il patrimonio delle chiese istriane fosse, o meno, considerato a ‘partecipazione pubblica’, è plausibile che quegli scambi fossero usati per alterare la gestione ordinaria dei beni fiscali a vantaggio dei vescovi, una pratica che il potere regio potrebbe aver cercato di contenere attraverso lo strumento del placito.
3.2.1 La successione fiscale: il fisco istriano
L’elenco delle accuse contro il duca è preceduto da un capitulo con una funzione di ponte tra le due parti del documento, intitolato “de iustitiis dominorum nostrorum” e che contiene una sorta di ricognizione delle risorse fiscali trasmesse dal governo precedente all’amministrazione carolingia incarnata da Giovanni. Il passaggio fa riferimento a una forma di tassazione che, al tempo dei Greci, era dovuta al palatium: dalla civitas di Pola 66 soldi mancosi d’oro, da Rovigno 40, da Parenzo 66, dal numerus tergestinus 60 mancosi, da Albona 30, da Pedena 20, da Montona 30, da Pinguente 20, dal cancellarius di Cittanova 12, per un totale di 344 mancosi d’oro. Il duca Giovanni aveva però deviato la destinazione di questa somma che, invece di essere trasmessa al palazzo, rimaneva a finanziare la sua attività politica. Inoltre, il duca deteneva il casale Orcionis con i suoi molti uliveti, una parte di quello di Petriolo con vigne, terre e oliveti, una parte delle terre a vigne e ulivi di Ioanni Cancianico, insieme con la casa dove sono ospitati i torcoli, la grande proprietà di Arbe e quella in Priatello, con le terre, gli ulivi e le vigne, la casa Zerontiaca, e altre quattro proprietà che erano state gestite da due magistri militum, Stefano e Basilio, e dagli ypati Maurizio e Teodoro [55]. Inoltre, a Cittanova “habet fischo publico”, con i suoi 200 coloni, dentro e fuori le mura della città, e tutte le rendite a colture specializzate in olio, vino, grano e castagne ricavate dalle terre da essi lavorate e, si suppone, ugualmente spettanti al fisco [56]. Al duca competeva anche un godimento privilegiato delle peschiere, da cui gli derivavano 50 soldi mancosi e inoltre quanto necessario a sfamare la sua mensa a sazietà. Il capitolo si chiude con la ripetizione del reato compiuto dal duca: “Omnia ista dux ad suam tenet manum, exceptis illis 344 solidos, sicut supra scriptum est, quod in pallatio debent ambulare”.
Solitamente, sulla base di questo lungo passaggio, Pola, Parenzo, Trieste, Rovigno, Albona, Montona, Pedena, Pinguente, Cittanova sono fatte corrispondere alle civitates e castella da cui erano stati eletti i notabili istriani e di cui riferiscono, usando la stessa locuzione, i breves ostensi alla giuria. Con tutta probabilità, infatti, la ricognizione si basò sugli inventari cui si fa riferimento in apertura del placito e che ritraevano la situazione al tempo dei magistri militum Costantino e Basilio, vale a dire di due governatori della provincia istriana quando questa era ancora parte dell’impero d’Oriente. In effetti, come è già stato notato, gli homines capitanei sono presenti forse non casualmente in numero dimezzato rispetto all’ammontare delle imposte dovute, 172 su 344 mancosi (Krahwinkler 2006, 282 e n. 174). Ciò spinge a ipotizzare che la selezione dei capitanei fosse avvenuta proprio in base al peso fiscale indicato negli inventari “per singulas civitates vel castella”, che sarebbero state le unità di riferimento per la riscossione. Nell’introduzione, però, abbiamo visto che, almeno a partire dall’VIII secolo, fu il χωρίον (chorion), il ‘villaggio’, ad affermarsi come cellula di base per il calcolo dell’imposta fondiaria nei territori dell’impero bizantino. Ma allora in che modo avveniva il prelievo nella provincia istriana? E che tipo di prelievo documenta questo passaggio? Cercare di rispondere a simili domande non è affatto semplice, tanto più che la ricognizione delle risorse fiscali si inserisce in un contesto di trasformazione dell’apparato pubblico dalla precedente alla nuova organizzazione.
Anzitutto, vi sono i 344 mancosi d’oro, un prelievo fiscale, in teoria spettante al palatium, che il duca Giovanni aveva però usurpato. Questa somma è ripartita con precisione per ciascun territorio e può ricordare l’imposta fondiaria che, calcolata teoricamente in modo proporzionale, rimaneva di fatto una somma abbastanza fissa da corrispondere allo Stato [57]. D’altra parte, l’ammontare restituito dalla lontana provincia istriana pare tutto sommato contenuto, e potrebbe anche equivalere a una cifra forfettaria (così, Brown 1984, 115; Prigent 2008, 413) versata come segno di appartenenza all’impero bizantino, più che in base a un contributo reale e proporzionale dei contribuenti, ma su questo torneremo tra poco. Alla definizione dei diritti del palazzo sui mancosi d’oro, si giustappone il riepilogo del patrimonio controllato dal duca, che consiste invece di beni fondiari e redditi generati da risorse diversificate in natura (tenute e terre a produzione specializzata, il fischo publico di Cittanova con i 200 coloni e una rendita speciale dalle peschiere). Per comprendere meglio i diversi livelli del prelievo e la logica della denuncia contro Giovanni presentata in questa sezione del documento, è necessario richiamare la distinzione concettuale interna al publicum che è stata illustrata nell’introduzione. Abbiamo detto che Giovanni poteva disporre in maniera lecita del patrimonio fondiario descritto, ma non dei 344 mancosi usurpati alla iustitia palatii. L’insistenza del testo su questo punto induce a credere che il prelievo dei mancosi dalla provincia istriana fosse ancora previsto e che fosse rimasto una spettanza imperiale, non più, però, del sovrano bizantino, ma di quello franco. Infatti, se il placito pare costruito sul contrasto tra ‘il tempo dei Greci’ e il mondo franco, il documento seleziona gli aspetti di quel passato che erano accolti anche dai nuovi governanti della provincia. In altre parole, attraverso la testimonianza degli istriani, il placito segnala qui una violazione che continuava a essere ritenuta tale o, meglio, una destinazione dei 344 mancosi che si intendeva inalterata, dovuta alla iustitia palatii dell’impero franco. Sfortunatamente, non esiste modo per verificare l’interpretazione, sia per assenza di riscontri esterni sia perché la sentenza finale dei missi risolve in maniera generica le prime due parti del placito [58]; e tuttavia, il fatto che il testo contenga questa ricognizione precisa e ripeta due volte che la somma era dovuta al palatium è un indizio di per sé molto significativo a suo favore. Così, si può ipotizzare che la panoramica delle risorse gestite da Giovanni non riguardasse il fisco pubblico locale nella sua interezza, ma soltanto quei beni e quei redditi che, secondo la ripartizione concettuale di cui sopra, gli erano stati affidati ‘eccezionalmente’ e che ricadevano nei diversi territori elencati – una forma di tassazione dovuta alla iustitia palatii, un diritto privilegiato sulle peschiere e forse terre confiscate e/o grandi tenute del patrimonio imperiale bizantino (οἶκοι/oikoi) amministrate localmente da κουράτορες (kouratores), cioè i beni i cui redditi erano riservati all’imperatore [59]. In particolare, non mi sembra da scartare l’idea che i beni fondiari a produzione specializzata che sono descritti in questa sezione costituissero parte del complesso fondiario a disposizione della ex res privata, quelle porzioni del patrimonio imperiale bizantino che erano gestite sul posto e che fornivano una rendita destinata al mantenimento della famiglia imperiale e, talvolta, investita per sostenere la spesa pubblica (Cosentino 2008, 157-158, e 2010; Kaplan 1992, 137). A tale proposito, può essere interessante ricordare la menzione, all’inizio del placito, non di registri catastali, detti κώδικες (kodikes), ma di brevia, cioè di inventari, un tipo di fonte usato per mettere a fuoco non gli oneri fiscali dei contribuenti, ma il patrimonio fondiario pubblico e le sue rendite o le dazioni a esso connesse [60]. E infatti, l’impiego di brevia è documentato anche nei regna, non solo in contesti ecclesiastico-religiosi, ma specificamente per la gestione delle proprietà fiscali: sia Carlo Magno sia, prima di lui, il re longobardo Liutprando avevano ordinato di realizzare nei loro regni brevia, cioè inventari delle corti regie, delle loro dipendenze e delle loro rendite [61]. Ma poiché nell’impero carolingio non esisteva la res privata, è probabile che i beni fondiari di pertinenza imperiale bizantina fossero stati incamerati dal fisco in sede locale, cioè dal duca Giovanni. Questi poteva detenere legittimamente le ex tenute dell’imperatore bizantino e la loro rendita in natura, pur dovendo continuare a corrispondere una cifra al palatium franco calcolata in denaro.
3.2.2 La successione fiscale: le forme del prelievo e le circoscrizioni rurali
La persistenza di una forma di tassazione, però, pone un problema di non poco conto, perché abbiamo visto che nei regna occidentali non era prevista l’imposta fondiaria. Se le fonti documentarie relative all’impero bizantino sono pressoché assenti, e la nostra conoscenza del fisco imperiale si fonda principalmente su testi a carattere normativo [62], nemmeno i documenti di area occidentale sono d’aiuto per comprendere il significato dei 344 mancosi che i franchi continuarono a esigere dopo la conquista della provincia. In effetti, il tema delle forme di esazione richieste dai regni post-romani non è stato trattato in modo sistematico dalla recente stagione di studi sul patrimonio fiscale, con poche eccezioni. Di certo, tanto la legislazione quanto la documentazione dei regna offrono indicazioni scarse e abbastanza generiche e, pertanto, è complesso costruire un repertorio completo e dettagliato delle entrate del fisco derivate da tributi, multe o composizioni e destinate al palazzo e/o alla corte regia. Esistono, però, per il regno italico, alcune famose testimonianze relative a tassazioni straordinarie, dal significato che rimane ancora oscuro e che sono già state esaminate in passato, soprattutto in rapporto al problema della sopravvivenza dell’imposta fondiaria (Gasparri 2004 e 2011). Senza riportarle tutte, citerò qui un caso famoso, che mette a fuoco alcune somiglianze con il passaggio del placito di Risano e forse consente di inquadrarlo un po’ meglio, con le dovute differenze.
Nel 781, Carlo Magno emise per il monastero friulano di S. Maria di Sesto un diploma di conferma di alcune precedenti donazioni di Adelchi: tra le concessioni, il diploma menziona quanto prelevato, secondo la consuetudine, dal vicus di Sacco, e cioè 100 staia di segale e 50 maiali, che erano corrisposti “in palacio nostro seu in curte ducali nostra Tarvisana.” Il significato di questo passaggio è stato discusso a lungo e interpretato variamente. Senza entrare nel dettaglio, basterà sapere che il territorio di Sacco corrispondeva a un’area pubblica molto estesa, dalla quale il fisco ricavava rendite di diversa natura, che sono in parte note attraverso le concessioni effettuate a favore di enti ecclesiastici e religiosi della regione nordorientale del regno italico tra VIII e XI secolo [63]. Il fisco di Sacco non era un territorio spazialmente compatto e non è chiaro se il villaggio vero e proprio ricadesse o meno all’interno delle proprietà fiscali: già a partire dalla documentazione della seconda metà del IX secolo, una grossa corte oscura il vicus del 781 come il maggiore centro di coordinamento del territorio. Un territorio dove però esisteva almeno un altro punto di raccolta per le rendite pubbliche: infatti, in un successivo diploma dell’853, conservato dal monastero di S. Zeno a Verona, risulta che anche una chiesa dedicata a S. Maria e S. Toma, “constructa in fisco nostro Sacco”, rendeva al palatium una libbra d’argento annuale [64]. Il governo carolingio introdusse quindi alcune modifiche nell’organizzazione del fisco a livello locale; tuttavia, almeno nelle fasi iniziali della dominazione, nel 781, le modalità di prelievo sembrano ancora riflettere la prassi longobarda e sono associate a un vicus, un termine che potrebbe riferirsi qui a una realtà territoriale connessa con l’esercizio di poteri pubblici. Questo esempio attesta un uso fiscale non troppo distante da quello immortalato dal placito di Risano, sia dal punto di vista contenutistico sia cronologico e geografico, dato che riguarda un’area posta immediatamente a ridosso della costa adriatica bizantina.
Sia nel caso del diploma per Sesto sia in quello successivo per S. Zeno, le concessioni in natura e in denaro sembrano riguardare non una forma di tassazione sugli abitanti del villaggio, ma una percentuale ricavata dalle rendite e/o le esazioni che il fisco richiedeva per i beni di Sacco e che dovevano essere destinate in parte alla corte ducale di Treviso, in parte proprio al palatium. Inoltre, nel caso del diploma per il monastero di Sesto, il versamento era associato a un territorio specifico, non una civitas o un castrum come nel placito, ma un vicus. Come abbiamo detto sopra, non siamo certi che i 344 mancosi d’oro rappresentassero l’ammontare dell’imposta fondiaria prevista dall’impero bizantino: se davvero era questa la cifra che le “civitates vel castella” corrispondevano all’imperatore d’Oriente, è probabile che si trattasse già di una forma di tassazione fissa. A partire dall’esempio di Sacco, si potrebbe ipotizzare che, in alternativa, i 344 mancosi rappresentassero una percentuale della rendita delle terre fiscali. In base a testi normativi dei secoli X-XII, gli storici bizantinisti stimano generalmente che l’imposta fondiaria annua equivalesse a circa 1/24 del valore del bene tassato (1 nomisma, cioè 1 solido d’oro, per 1 moggio di terra di prima qualità, per 2 moggi di seconda qualità, e così via); sembra invece che, per le terre fiscali, la rendita – corrispondente, nell’impero bizantino, al canone di affitto e comprensiva dell’imposta – fosse fissata al doppio, cioè a 1/12 del valore (Oikonomidès 1992, 317-320; 1996, 45-56). Senza ricostruire qui i passaggi del calcolo, è sufficiente osservare che la rigida applicazione di questi parametri all’ammontare dei 344 mancosi induce a escludere che questa somma corrispondesse al totale del reddito ricavato dal patrimonio imperiale in Istria, perché allora tale patrimonio risulterebbe pressoché inesistente [65]. Dall’altro lato, questo metodo di calcolo non mi sembra trasferibile in modo meccanico alla realtà istriana dell’inizio del IX secolo, anzitutto perché la legislazione non può essere considerata come uno specchio della reale prassi amministrativa, sia in termini generali sia nel caso particolare di una provincia periferica dell’impero come l’Istria. Secondariamente, i dati normativi su cui si basa questa stima si riferiscono a un periodo successivo e diverso, quando, tra X e XI secolo, il fisco bizantino cominciò a gestire direttamente le proprie terre, in sostituzione del precedente modello di gestione indiretta, caratterizzato da forme di concessione in cambio di contributi piuttosto contenuti. In definitiva, in assenza di documentazione specifica, sia in Istria sia nel resto dell’impero, risulta molto difficile determinare con certezza la natura e l’origine di tale imposizione. L’unica ipotesi che si può avanzare, sia pur con la dovuta cautela, è che l’origine dei 344 mancosi affondasse in forme di tassazione di origine bizantina che potrebbero essere state assimilate a tributi analoghi presenti anche nell’impero franco, per esempio le imposizioni fiscali gravanti sugli animali da pascolo e sullo sfruttamento delle terre incolte, simili all’erbatico e ghiandatico citati due volte nel testo che, infatti, erano riscossi dai nuovi governanti della penisola [66].
C’è infine un altro dettaglio che il caso di Sacco mette in evidenza e che occorre considerare prima di procedere oltre con l’analisi, cioè la base del prelievo. Come abbiamo visto, nel diploma a favore del monastero di Sesto, il versamento in natura dovuto al palatium e alla corte ducale di Treviso veniva estratto da un vicus: ma il prelievo, come già osservato, non sembra indicare la tassazione di un villaggio in senso fisico, bensì una parte dei redditi ricavati da una realtà rurale dotata di una propria dimensione giurisdizionale. Considerata l’estrema prossimità di Sacco ai territori bizantini, non si può escludere che questa forma di organizzazione territoriale, successivamente superata con l’affermazione della curtis omonima, possa aver risentito dell’influenza di modelli bizantini o, piuttosto, della persistenza di tradizioni romane – quindi, non tanto di un’introduzione del chorion impiegato nell’impero d’Oriente per il prelievo fiscale, quanto di una continuità locale di assetti amministrativi riconducibili al pagus romano. In Istria, il prelievo dei mancosi è riferito invece alle “civitates vel castella”, una formula che lascia ipotizzare la mancata introduzione del chorion fiscale nella penisola. Le informazioni a nostra disposizione su questo punto sono estremamente scarse e provengono quasi esclusivamente dal placito di Risano. Unico elemento complementare è il passo già citato, in cui si riferisce che i vescovi riscuotevano erbatico e ghiandatico “inter vicora”, cioè tra i villaggi. Pur in assenza di prove dirette circa l’adozione del chorion fiscale in ambito istriano, una riflessione sugli usi semantici del placito, e in particolare dell’endiadi sopra richiamata, può forse offrire qualche indizio utile per chiarire, almeno in parte, quale fosse la base del prelievo.
Pochi dubbi vi sono sul significato di civitas: si tratta di un centro urbano che ordina un territorio e che svolge funzioni politico-amministrative, l’unità fondamentale della struttura dell’impero romano fino al VI secolo. Tuttavia, nel placito di Risano, soltanto Pola è definita civitas, mentre per le altre località non vi è alcuna specifica, se non per il numerus tergestinus [67]. Inoltre, sebbene tutti i toponimi siano stati identificati, non disponiamo di notizie esterne che permettano di stabilire la corrispondenza, per il IX secolo, tra una delle località menzionate e un centro cittadino o una struttura difensiva. In effetti, la quasi totalità delle scarsissime attestazioni sono citazioni di vescovi [68], ma questo non è un indicatore sufficiente a dedurre la presenza di una civitas in modo automatico, come vedremo meglio tra poche righe. Più difficile da inquadrare il termine castella, variante di castra, cioè della traslitterazione latina di κάστρα (kastra), parola che ricorre nelle fonti narrative e geografico-amministrative greche tra VI e IX secolo. Sulle possibili accezioni del termine κάστρον/castrum ha lavorato Tiziana Lazzari (2009), all’interno di una riflessione più ampia sull’organizzazione del territorio e la distrettuazione civile nella penisola italica tra VI e X secolo. Secondo Lazzari, κάστρον/castrum non sempre equivale a un punto topografico, magari fortificato, e a capo di un territorio da esso coordinato, ma “può anche indicare un territorio giurisdizionalmente significativo non necessariamente provvisto di un unico centro ordinatore”, un termine, quindi, con contenuto semantico simile a quello di pagus [69]. Se pensiamo in questo modo, non esiste gerarchia né dicotomia tra civitas e castrum: e infatti, il castrum poteva anche essere sede di un vescovo, com’era proprio nel caso di Grado che, fino all’XI secolo, è sempre così definita dalle fonti [70]. Una griglia interpretativa che mi sembra calzare alla perfezione anche alla locuzione “civitates vel castella” e alla lista toponimica del placito di Risano. È soprattutto il contesto generale, la materia trattata dall’assemblea, a suggerire la corretta lettura: ciò che interessava i missi di Carlo Magno non era la lista delle città e dei castelli della provincia, ma dei territori giurisdizionalmente e fiscalmente rilevanti.
La lettura estensiva di civitates e castella mi sembra compatibile sia con quanto esposto rispetto al valore di unità fiscale del ‘villaggio’ nell’impero bizantino di VIII secolo, sia con l’associazione tra il prelievo di erbatico e ghiandatico e i vicora, sia, addirittura, con il riferimento al vicus di Sacco come dimensione ideale del prelievo dovuto al palatium e alla corte ducale di Treviso. Infatti, sebbene χωρίον sia generalmente tradotto con ‘villaggio’ dagli storici bizantinisti, questo termine ha in greco una valenza molto più ricca, che è anzitutto amministrativa e fiscale, ma non solo. Jean Marie Martìn e Ghislaine Noyé (1989, 564-565), esperti della documentazione del Sud Italia, hanno sottolineato come le carte latine fatichino a tradurre i vocaboli bizantini relativi alle realtà rurali [71]. Per esempio, nelle carte pugliesi di epoca longobarda (VIII-IX secolo), il termine χωρίον è tradotto con quello, estremamente vago, di locus, meno spesso con vicus: di solito la parola locus corrisponde a un centro abitato, talvolta circondato da fortificazioni di età bizantina, mentre altre volte non vi sono tracce di insediamento. Tant’è che: “Entre les plus importants loci et les civitates, la différence n’est pas insurmontable; un certain nombre de loci sont choisis pour devenir évêchés” (Martìn e Noyè 1989, 568-569). Il loro territorio variava in misura notevole a seconda delle regioni dell’impero: se nella Calabria del IX secolo si tratta di dimensioni modeste, nella Macedonia e nella Puglia del X secolo sono stati stimati territori di 15-20 km² e persino di 50-100 km², rispettivamente (Laiou 2005, 43-44; Martìn e Noyè 2005, 149-164). Senza assumere conclusioni da questi pochi dati e da un confronto tra fonti e contesti territoriali molto differenti e, nel caso dell’Istria, pressoché sconosciuti, mi sembra che comunque esso ponga in luce alcune interessanti somiglianze tra χωρίον, pagus e castrum o, in generale, tra queste speciali realtà ‘rurali’ dotate di una dimensione amministrativo-giurisdizionale. Naturalmente, non sarebbe corretto ridurre a un unico significato concetti espressi con termini differenti, che riflettevano situazioni diverse, anche perché non esistono evidenze dell’introduzione del chorion fiscale in Istria. Tuttavia, non dobbiamo dimenticare che la testimonianza degli homines capitanei ci è giunta attraverso il filtro dei missi che condussero l’inchiesta e redassero il verbale e della chiesa di Grado che conservò il documento: pertanto, non pare impossibile che le difficoltà nella resa di concetti in latino abbiano prodotto un’oscillazione onomastica tra vicora e castella, anche perché di solito il termine vicus non si presta a sottolineare la rilevanza giurisdizionale di un territorio (e, infatti, il diploma del 781 in cui è menzionato il vicus di Sacco deve considerarsi un’eccezione in questo senso).
3.3.1 Il duca Giovanni e gli incolti: un contrasto ideologico e materiale
Si apre finalmente la terza parte del documento, con le violazioni compiute dal duca Giovanni. Nel primo capitolo di accusa, si legge che Giovanni ha sottratto i diritti sui boschi e il “casale inferiore”, da cui un tempo i parentes dei maggiorenti istriani ricavavano erbatico e ghiandatico e su cui il duca ha insediato gli slavi. Questi coltivano le terre e i runcoras, falciano i prati e vi pascolano i loro animali, in cambio di una pensio che pagano a Giovanni: e così, gli istriani sono rimasti senza buoi e cavalli e sono anche ridotti al silenzio dietro minaccia di morte. Infine, il duca ha abolito i confini ordinati secondo le antiche consuetudini. Nel secondo capitolo, si dice poi che Giovanni ha privato i maggiorenti istriani di ogni carica e dignità pubblica, escludendoli dalla vita politica e dal rapporto con il potere regio: ha sostituito i funzionari bizantini con i “centarchi” [72] e ha diviso il popolo tra i propri figli e figlie e suo genero. Il duca ha sottratto alle élite il tribunato e ogni segno di distinzione sociale [73], ha tolto loro il diritto di avere alle proprie dipendenze liberi, liberti, stranieri ed excusati [74] e, addirittura, manda in guerra i maggiorenti insieme con i loro servi. Il duca esige il fodro, nuove e pesanti prestazioni d’opera e collectas di prodotti agricoli e di ovini, di pecore e agnelli; porta i giovani in guerra, in posizione di sottoposti; sfrutta le capacità nautiche degli istriani per condurre navi verso Venezia, Ravenna e la Dalmazia, anche attraverso i fiumi, “quod numquam fecimus”; requisisce i cavalli, che invia “in Francia” o che distribuisce tra i suoi uomini; raccoglie i donativi per l’imperatore tra le élite istriane, salvo poi non coinvolgerle nella consegna, in modo da ottenere visibilità solo personale e privilegi per sé e per la sua famiglia. Inoltre, per tre anni, le decime sono state pagate non alle chiese, ma agli slavi pagani che il duca ha fatto insediare sulle terre della chiesa e del popolo.
Il conflitto d’interesse sull’erbatico e il ghiandatico che gli istriani ricavavano dalle selve e dal “casale inferiore” a mio parere deve essere interpretato alla luce delle accuse rivolte ai vescovi, che, in violazione delle consuetudini, imponevano il pagamento dell’erbatico e del ghiandatico “inter vicora” con la forza – perché, evidentemente, questa imposizione non era loro dovuta e avveniva in modo diverso. L’erbatico e il ghiandatico sono tributi propri dei regna barbarici, attestati però anche in altre realtà influenzate dall’incontro con i longobardi, quali i territori del Sud Italia [75]. Tuttavia, è improbabile che la breve penetrazione longobarda nella provincia istriana avesse portato con sé l’introduzione di nuove forme tributarie di cui, per altro, erano state le élite autoctone a impadronirsi; piuttosto, la lettura comparata dei due passaggi sembra suggerire che il documento si riferisca a un prelievo di origine bizantina, che era legato in qualche modo alla circoscrizione del ‘villaggio’ e che, nel nuovo sistema franco, era stato assimilato ai tributi di herbaticum e glandaticum.
Non è poi semplice comprendere a che tipo di tassazione faccia riferimento il testo né a quale titolo gli istriani riscuotessero erbatico e ghiandatico nei boschi e, forse più in generale, negli incolti (interpretiamo così il criptico accenno al “casale inferiore”, forse frutto di un errore di trascrizione) [76]. Molto dipende, in effetti, dalla categoria fiscale cui queste risorse appartenevano, elemento che non è semplice da determinare perché lo statuto delle terre incolte nell’impero bizantino è malnoto. Sembra che le terre incolte fossero abitualmente sfruttate per il pascolo e, quindi, l’allevamento degli animali, anzitutto montoni e porci, ma anche bovini (Kaplan 1992, 189-190; Martìn e Noyé 1989, 580-583), dato del tutto in linea con la citazione di erbatico e ghiandatico. Nei registri catastali, però, non esisteva una voce o un trattamento specifico per gli incolti, cioè per le terre non direttamente produttive, che potevano sia rientrare tra le proprietà dei privati, sia delle comunità rurali. Soprattutto in questo secondo scenario, si trattava più di un possesso di fatto che di un diritto di proprietà collettivo, sebbene i choria avessero personalità morale e possedessero beni comuni: i pascoli e i boschi non appartenevano ad alcun proprietario legittimo e si trovavano di solito ai margini del territorio del chorion, dove i confini degli uni potevano confondersi con quelli degli altri e dove chi disponeva di un consistente capitale in bestiame poteva occupare queste aree a detrimento dei choria confinanti (Kaplan 1992, 189-191; Laiou 2005, 46-47). In effetti, l’economia della comunità di villaggio bizantina era organizzata per la gran parte a livello individuale, ma le attività di pascolo e allevamento negli incolti erano svolte e, a seconda del luogo, anche remunerate su scala comunitaria, il che naturalmente implica una capacità di raccolta e gestione di fondi da parte del chorion (Kaplan 1992, 185-218). Due testimonianze provenienti dalla Puglia dell’XI secolo, per esempio, sembrano fare riferimento a un’imposta pagata per le attività di pascolo e percepita da alcune comunità di villaggio (νομίστρον, nomistron) (Martìn e Noyè 1989, 581; Cosentino 2008, 164). Tuttavia, nell’impero bizantino esistevano anche tasse che gravavano sul bestiame in quanto mezzo di produzione e che il proprietario doveva versare all’amministrazione fiscale per l’uso dei pascoli (ἐννόμιον, ennomion); quest’ultima calcolata in base a un rapporto tra estensione della terra idealmente utilizzata e animali posseduti da ciascun individuo [77].
La vaga definizione dello statuto degli incolti e la molteplicità di casistiche attestate rende difficile stabilire a quale appartenesse quella immortalata nel placito di Risano: forse le élite istriane raccoglievano erbatico e ghiandatico quali rappresentanti delle istituzioni pubbliche locali oppure in qualità di grandi proprietari terrieri che avevano ottenuto l’esenzione e che quindi potevano riscuotere i tributi per l’uso degli incolti dai propri excusati (cioè i soggetti esenti, che sono richiamati in questa parte del placito) [78] e/o tra i vicora che rientravano nel loro patrimonio; viceversa, il passaggio potrebbe fare riferimento a forme di prelievo esercitate dai piccoli proprietari, verso gli esterni, nel contesto territoriale del chorion. Ciò risulterebbe in linea con la descrizione del chorion fornita dalla Legge agraria (testo databile alla metà dell’VIII secolo): il territorio del chorion appare dotato di confini e comprende sia terreni arabili e vigne sia incolti – appunto, foreste e pascoli aperti all’uso collettivo, terreni boschivi che potevano essere bonificati e coltivati (probabilmente i runcoras del placito), e che così diventavano proprietà privata dei membri del villaggio [79]. Anche la denuncia sull’abolizione dei confini pare riconducibile a questi contesti, e fare riferimento alla divisione degli incolti liminali tra choria vicini o, viceversa, ai limiti ideali della superficie di pascolo usata da ognuno, operazione richiesta per il calcolo dell’ennomion (Oikonomidès 1996, 72-76).
A ogni modo, con l’avvento della nuova amministrazione, questo diritto era stato sottratto alle comunità istriane dalle chiese immuni da un lato, e dal duca Giovanni dall’altro. Di fronte alle numerose recriminazioni contro il suo operato, la reazione di quest’ultimo appare conciliante, con un’unica eccezione, rappresentata appunto dal problema degli slavi e dai boschi e pascoli che occupavano. In questo passaggio emerge con evidenza il conflitto relativo al concetto di publicum e alla legittimità dei suoi usi, un conflitto che sembra riguardare in modo particolare la fruizione degli incolti. Ciò appare evidente dall’incipit della risposta del duca Giovanni: “Istas silvas et pascua, quae vos dicitis, ego credidi quod a parte domni imperatoris in publico esse deberent; nunc autem, si vos jurati hoc dicitis, ego vobis contradicam”. E infatti, il duca concedette di spostare gli slavi soltanto laddove avessero arrecato qualche danno ai locali e, eventualmente, di mandarli “in talia deserta loca” affinché “faciant utilitatem in publico”. Nella concezione del duca, quegli incolti di statuto incerto, su cui le comunità istriane esercitavano diritti di sfruttamento e prelievo e che erano considerati una loro proprietà de facto, avevano invece una connotazione ben precisa: appartenevano “a parte domni imperatoris” e dunque la loro gestione era riservata al re e ai suoi rappresentanti, non alle élite locali. In effetti, nelle società longobardo-franche, i boschi e i pascoli erano tradizionalmente considerati risorse aperte a una fruizione diffusa, sulle quali le comunità di villaggio vantavano diritti d’uso collettivo, con l’eccezione dei gai, le foreste regie il cui godimento avrebbe dovuto rimanere riservato, almeno in teoria e almeno nell’area settentrionale del regno longobardo [80]. A partire dalla metà dell’VIII secolo, però, i meccanismi tradizionali per la gestione del publicum furono modificati. Non solo si moltiplicarono le attestazioni di tributi e obblighi di lavoro richiesti dal re anche a persone non residenti sulle terre pubbliche, appunto per l’accesso alle risorse e alle infrastrutture che erano considerate tali; ma soprattutto, i sovrani cominciarono a devolvere quote di patrimonio dotato di statuto pubblico a una platea ristretta di fedeli, anzitutto i monasteri e poi le chiese, che ne divennero gli amministratori straordinari. Questa politica fiscale intrapresa dagli ultimi sovrani longobardi e poi dagli imperatori franchi ebbe ricadute significative sulle società locali: infatti, se i tributi dovuti al publico dovevano comportare un impegno economico tutto sommato leggero, le chiese e i monasteri cui quelle risorse erano state cedute ne vincolavano il godimento a pesanti censi e corvées [81].
Anche nei territori istriani di recente conquista, la distribuzione delle risorse di uso pubblico era stata rivista in forme verticistiche: una parte era stata affidata ai vescovi istriani e al patriarca di Grado; la restante parte era stata ‘confiscata’ da Giovanni, che non solo era il titolare del fisco pubblico locale, ma poteva amministrare le risorse quali boschi e pascoli in quanto agente del re, perché quelle risorse spettavano precisamente “a parte domni imperatoris in publico”. Come già detto sopra, il diritto di esigere erbatico e ghiandatico “inter vicora” che le chiese istriane avevano cominciato ad arrogarsi si può spiegare proprio in virtù di tale ‘meccanismo eccettuativo’, nello specifico dell’immunità ottenuta da Fortunato e/o di concessioni più esplicite di Carlo Magno a loro favore che sono andate perdute. D’altra parte, l’assenza di fonti altomedievali relative alle chiese istriane impedisce di dare per certa questa ipotesi e lascia spazio ad almeno un’altra interpretazione, e cioè che i vescovi imitassero i modi di gestione delle risorse pubbliche per beni a esse assimilabili. In altre parole, all’arrivo dei franchi, i patrimoni ecclesiastici comprendevano risorse acquatiche (ricordiamo l’interdizione al libero accesso al mare publico), pascoli e boschi, beni che, nel nuovo sistema, erano considerati pubblici: per l’accesso a questi beni l’imperatore carolingio, nella persona del duca Giovanni e dei suoi rappresentanti, richiedeva il pagamento di una serie di tributi di natura analoga alle tasse bizantine che le élite locali riscuotevano per l’uso degli incolti, cioè l’erbatico e il ghiandatico. I vescovi, di conseguenza, avevano cominciato ad amministrare gli incolti che ricadevano nei loro patrimoni alla stessa maniera, approfittando forse anche dell’immunità dai funzionari del fisco locale – un’immunità che, oltretutto, essi interpretavano in senso assoluto, rifiutandosi di assolvere i propri obblighi nei confronti dell’imperatore [82].
Inoltre, sembra che i vescovi e il duca Giovanni condividessero la medesima linea politica per la gestione di tali risorse: il duca trattava gli incolti come terre del fisco e vi aveva avviato un programma di razionalizzazione e bonifica che, a quanto sembra di capire da una delle accuse finali, coinvolgeva anche i patrimoni ecclesiastici, perché gli slavi risultano insediati “super ecclesiarum et populans terras nostras”. Ciò consentirebbe di contestualizzare meglio il passaggio sulla decima, che “da tre anni” gli istriani pagavano non più alle chiese ma, appunto, agli slavi. Infatti, secondo il Capitulare de villis, la decima prelevata dai territori fiscali poteva essere data solo alle chiese fiscali, fatto salvo il caso di chiese esterne ai domini del fisco ma che esercitavano un preesistente diritto in questo campo. Queste chiese, inoltre, potevano essere rette esclusivamente da uomini interni al ‘personale regio’ [83] che, in questo caso, sarebbe costituito dagli slavi assunti da Giovanni affinché contribuissero all’utilità pubblica [84].
Un confronto con due fonti di altezza cronologica e geografica non distante dal placito di Risano permette di inquadrare meglio il ruolo degli slavi nel sistema di governo franco in Istria. Fin dal VI secolo, gli slavi erano stabilmente insediati sulle frontiere orientali del regno longobardo e avevano dato vita a una sorta di entità parastatale chiamata Carantania e corrispondente alla Stiria meridionale e a buona parte dell’attuale Carinzia, fino all’alto bacino del fiume Sava in Slovenia (Štih 2010, 123-125). Nell’Historia Langobardorum, Paolo Diacono afferma che queste terre ebbero una forma di dipendenza dal ducato del Friuli dal VII secolo fino almeno al ducato di Ratchis: infatti i duchi ricevevano una pensio dagli slavi insediati nella regione di Zellia, sino alla località di Medaria (probabilmente la valle del Gail, nel Tirolo orientale, fino a Matrei), un tributo che, in passato, è stato interpretato come un riconoscimento di sottomissione politica da parte di un gruppo etnico estraneo a quello longobardo (Gasparri 2011, 83-84). Tuttavia, da un diploma di Ludovico il Pio per la chiesa di Aquileia, sappiamo non solo che i carolingi avevano nuovamente sottoposto l’area al controllo dei duchi della marca friulana, ma soprattutto che Zellia era una proprietà fiscale: con quest’atto, datato 824, l’imperatore concedeva al patriarca Massenzio i venti manentes di Zellia, che erano stati posseduti in beneficium dal conte Cadalo (lo stesso missus del re che presiedette il placito di Risano!) e poi dal conte Baldrico, appunto titolari della marca del Friuli che, fino all’828, dovette comprendere anche l’Istria [85]. I manentes sono una categoria sociale ancora poco studiata per l’alto medioevo, caratterizzata dal vincolo di residenza (di commanere, appunto) che legava questi uomini alla terra o, meglio, alla pars massaricia della curtis da loro coltivata. Come dimostrato da Paolo Tomei (2021), i manentes rappresentavano un aspetto distintivo dei bacini fondiari che si muovevano entro il circuito di redistribuzione gravitante attorno al potere regio, tant’è che il termine è attestato, nella grande maggioranza dei casi per il IX e X secolo, dalle fonti che da quel potere promanavano, direttamente o indirettamente – diplomi e polittici. I manentes altomedievali compaiono spesso fra i beni assegnati in beneficio, mentre non sono noti casi di contratti scritti conclusi da essi come soggetti attivi. Una parziale eccezione è costituita dai manentes libellarii che sono registrati fra i benefici in uno degli inventari di S. Colombano di Bobbio (Castagnetti et al. 121-190) e che “dovettero, tuttavia, essere una minoranza – di qui anche la necessità distintiva espressa nell’inventario con la specificazione” (Tomei 2021, 6).
Sulla base di questi dati, si può supporre che, nel ducato poi marca del Friuli, le comunità slave insediate ai margini del regno, dove il controllo longobardo-franco era più labile, fossero sfruttate per l’“utilitatem in publico”, come dice il duca Giovanni. In particolare, è possibile che fossero impiegate per la messa in valore e la riorganizzazione di risorse quali gli incolti, corrispondendo, in cambio, una pensio per il loro sfruttamento. A tale proposito, il confronto tra il passo di Paolo Diacono, il placito di Risano e il diploma dell’824 suggerisce di rivedere e ampliare la lettura tradizionale della prima fonte. Su queste terre fiscali occupate dagli slavi, la pensio sembra avere avuto un duplice ruolo: da un lato, di riconoscimento dell’autorità superiore dei sovrani longobardi e franchi e dei loro rappresentanti locali; dall’altro, di corresponsione per la concessione di terre fiscali – lettura, quest’ultima, in linea con l’uso lessicale più comune di pensio, che solitamente indica non un tributo, ma appunto un canone per l’uso di risorse naturali e infrastrutture. È addirittura possibile che questi slavi impiegati in Istria rientrassero nella categoria dei manentes, come gli slavi di Zellia. Ciò è suggerito dal passaggio dove Giovanni propone di spostare gli slavi sulle terre abbandonate, dove potessero “commanere” senza danno e rendersi utili “in publico”: di certo, è possibile che il verbo sia usato estensivamente e non in senso tecnico, e tuttavia la coincidenza, insieme con le altre, concorre a rafforzare il parallelismo. Si trattava forse di uomini legati a proprietà che avevano assunto un nuovo assetto curtense e che circolavano sottoforma di benefici e, nell’Istria del placito di Risano, magari anche all’interno di contratti di livello ed enfiteusi destinati alla nuova élite connessa con il potere franco.
Se dunque le accuse dei capitanei individuano un atteggiamento prevaricatore di Giovanni, esse discendono anche da differenti parametri di valutazione della realtà, proprio come abbiamo visto nelle altre due parti del placito. Uno scontro di mentalità sul concetto di publicum che riguardava innanzitutto le risorse aperte all’uso collettivo, gli incolti e il mare, beni il cui statuto era fluido anche nella società-longobardo franca, sebbene rientrasse sempre all’interno della sfera pubblica. L’elenco delle usurpazioni del duca Giovanni si organizza su uno schema retorico fondato sulla contrapposizione fra l’odierno regime di violenza e prevaricazione e un passato relativamente recente, il tempo dei Greci, in cui antiche consuetudini regolavano i modi di amministrare il publicum e garantivano alle élite istriane una vita prospera. Questa costruzione retorica trova riscontro in alcuni placiti del regno italico, contemporanei a Risano e relativi a problemi analoghi, in cui attori sociali diversi, ma soprattutto comunità rurali, si rivolgono al tribunale regio per rivendicare il godimento, sgravato da esazioni, delle risorse dell’incolto: molti di questi placiti sono giocati proprio sul contrasto tra tempi antichi, in cui la libera fruizione dei beni comuni era possibile, e un tempo presente, in cui il loro accesso risulta contingentato e la loro gestione demandata a nuovi e potenti soggetti – anzitutto, i monasteri [86]. Questi placiti mettono in scena l’ambiguità dello statuto dei beni aperti all’uso comune, che, in quanto beni pubblici, erano rivendicati sia da una pluralità di attori locali come cosa propria sia dai sovrani e dagli enti immuni come patrimonio del re [87]. Nel caso di Risano, il passato idealizzato è individuato nel governo bizantino e l’opposizione assume un carattere identitario-culturale, di opposizione al nuovo governo e ai suoi strumenti. Ciò emerge anche nel senso di vergogna dovuta al declino del proprio status, che si percepisce nelle denunce contro gli slavi e che le élite istriane dichiarano di provare nei confronti dei bizantini stessi e dei “parentes et convicini nostri Venetias et Dalmatias” [88].
3.3.2 Beni fiscali e guerra
La ristrutturazione della società istriana perseguita dal duca Giovanni era probabilmente volta a una riorganizzazione militare della regione legata alle guerre contro gli avari prima (Štih 2018, 58-60), e a quella contro Bisanzio poi. Abbiamo visto che il duca dell’Istria, forse proprio Giovanni, aveva partecipato alla prima campagna militare contro gli avari: la collocazione geografica dell’Istria, compresa nella marca del Friuli, la includeva nella fascia di territori che costituivano l’avamposto della difesa dell’impero e il trampolino di lancio per le missioni belliche nell’Adriatico e verso est (Gasparri 2020 e 2021; Štih 2018, 60). In effetti, la finalità bellica è evidente nei passaggi che fanno esplicito riferimento alla leva militare e anche alla sottrazione dei cavalli, soprattutto se si considera che la prima campagna contro gli avari era stata interrotta proprio a causa di una moria di equini dovuta a una pestilenza (Pohl 2018, 381). Possiamo ricondurre alla medesima logica militare il richiamo all’esazione generalizzata del fodro e di altre collectas e prestazioni di lavoro straordinarie, estese a gruppi della popolazione che fino ad allora erano stati esenti da tali obblighi; l’accusa di arruolare uomini senza rispetto per la loro posizione giuridica e sociale, il reclutamento degli iuvenes, e forse anche l’invio delle navi istriane a Ravenna, Venezia e in Dalmazia [89], visto che, fino alla pace di Aquisgrana nell’812 e alla sua effettiva attuazione nell’815, il territorio veneziano e quello dalmatino continuarono a essere oggetto di contesa tra Franchi e Bizantini. Infine, anche l’accusa di aver diviso il “populum inter filios et filias vel generum suum” pare riconducibile a un contesto militare: questa (“divisit populum civitatis”) è l’espressione impiegata dal Liber Pontificalis Ecclesiae Ravennatis per descrivere la ripartizione della popolazione ravennate in dodici unità, i cui nomi richiamano le antiche formazioni militari dei numeri [90].
Insomma, la ristrutturazione sociale e fiscale imposta da Giovanni sarebbe stata funzionale a centralizzare e rendere più efficace l’organizzazione militare della provincia. Questa lettura del placito non è in contraddizione con quella ‘in chiave fiscale’ esposta in alto, ma sembra rispondere al medesimo principio. Giovanni incise sulle modalità di raccolta e gestione delle risorse pubbliche secondo il funzionamento dell’impero carolingio, intervenendo anche sulla struttura sociale della provincia di nuova conquista e sui privilegi degli homines capitanei. In questo periodo, la posizione strategica dell’Istria rispetto agli obiettivi militari dei franchi, così come la perdurante instabilità del dominio franco sulla provincia, indussero il duca preposto al governo di quel territorio a convogliare una parte importante delle risorse per soddisfare le necessità generate dalle operazioni belliche. Il suo governo doveva essere ancora molto simile a una forma di occupazione; e tuttavia, questi interventi facevano parte di un programma più vasto, volto consolidare il dominio franco sulla penisola istriana e a incidere sui meccanismi operativi di quella società al fine di favorirne una rapida assimilazione nell’impero carolingio.
Conclusioni
La mobilitazione delle comunità istriane fu, infine, efficace. Ricomposto il conflitto tra il duca Giovanni, che promise di rimediare ai suoi errori, e il popolus, che “concessit calumnias”, l’assemblea perfezionò l’attuazione dell’accordo tra tutte le parti in causa, accogliendo le istanze degli homines capitanei nella quasi totalità [91]. Rispetto a questo esito del conflitto, possono essere svolte alcune riflessioni conclusive. Anzitutto, la sentenza indica una volontà di mediazione da parte del potere centrale nei confronti delle rivendicazioni delle élite istriane, da poco entrate a far parte dell’impero di Carlo Magno: Aio e Cadalo, Fortunato e Giovanni provenivano, infatti, dal medesimo entourage di stretti collaboratori di Carlo Magno e avevano tutti una base d’appoggio nell’area nordorientale del regno – per Giovanni, nell’Istria stessa, per primi tre, nella marca del Friuli [92]. Verosimilmente, l’accordo con le élite istriane fu concertato tra giudici e imputati ed esprime anzitutto gli interessi del re e dei suoi rappresentanti locali, interessi che tenevano conto anche delle esigenze delle comunità locali e del loro ruolo politico. Gli homines capitanei rappresentavano, infatti, un sistema di comunità, unito dalla condivisione di un sistema di valori locali e da una solidarietà interna, e che fu capace di coordinarsi su una scala territoriale ampia, regionale, per difendere le proprie prerogative nell’ambito dell’inchiesta condotta dai missi del re [93]. D’altronde, abbiamo più volte ribadito che il contenuto e la decisione finale del placito devono essere interpretati alla luce del contesto politico generale, un contesto di cambiamento, di recupero di consuetudini antiche e di istituzione di nuove norme per il governo di una provincia che stava attraversando una transizione dalle tradizioni politiche bizantine all’impero carolingio. Un contesto, anche, di guerra, in cui era tanto più importante chiarire quali fossero i rapporti di potere e quale sarebbe stato, d’ora in avanti, il funzionamento delle istituzioni pubbliche.
Questa chiave di lettura consente di inquadrare meglio la conclusione del placito e la sua tradizione singolare, che lo ha conservato probabilmente tramite gli archivi di uno degli imputati ‘sconfitti’, il patriarca di Grado. Ma c’è di più. Il codice che ha conservato il placito, noto come Codice Trevisaneo [94], ha tramandato anche un diploma di Ludovico il Pio, monco della conclusione, indirizzato al patriarca Fortunato, e a tutti i vescovi, abati, tribuni e agli altri fedeli “nostris Istrie provinciae”. Il diploma, forse preceduto da un deperdito emesso dal medesimo imperatore, è considerato autentico [95] e costituirebbe la ratifica imperiale del placito di Risano, direttamente citato nel documento, con lo scopo di renderne inviolabili e perpetui i contenuti. Questa vicenda sorprendente, in apparenza una vittoria schiacciante degli istriani, non informa tanto, o comunque non soltanto, della capacità delle comunità istriane di contrattare con il potere imperiale franco un ritorno alla situazione precedente, magari per il tramite del patriarca Fortunato. Il placito di Risano e la sua ratifica da parte di Ludovico il Pio attuarono un recupero fittizio delle antiche consuetudini dell’Istria per conferire loro un nuovo significato giuridico, accettato da tutte le parti in causa. E infatti, l’esito del placito non sembra aver imposto alcuna pena personale verso i colpevoli, i vescovi, il patriarca e, soprattutto, il duca Giovanni, perché l’obiettivo dell’inquisitio non era quello di eliminare il potere delle chiese o del duca in Istria, ma, piuttosto, di condurlo o ricondurlo entro i canoni e i limiti disposti dai missi del sovrano carolingio all’assemblea di Risano. Insomma, i fatti narrati nel resoconto degli homines capitanei sono volti a individuare il compromesso per la ripartizione del potere tra nuovi attori politici e società locale, tant’è che, addirittura, l’intervento del patriarca di Grado potrebbe essere letto soprattutto in funzione dell’ufficializzazione delle sue aspirazioni di metropolita e rappresentante delle chiese dell’Istria. In tal modo, attraverso le denunce dei rappresentanti della società istriana, furono definiti i termini dell’ingresso della provincia nell’impero carolingio e una normativa di riferimento per il futuro, a partire dalle modalità di gestione delle risorse del pubblico.
Appendice. Il testo del placito
La tradizione
Sebbene la sua autenticità non sia in dubbio, il placito di Risano è giunto attraverso una tradizione unica e complessa, che è importante tenere presente nello studio del documento. Questo è stato tramandato all’interno del Codex Trevisaneus (ff. 21r.-23r.), un codice cartaceo datato alla fine del secolo XV o agli inizi del XVI, la cui denominazione è legata al suo primo proprietario noto, Bernardo Trevisan (1652-1720). Dopo la morte dell’erede e fratello Francesco, che fu vescovo di Ceneda e poi di Verona, la biblioteca di Trevisan fu acquisita dalla Cancelleria della Repubblica di Venezia: attualmente, il Codex si trova all’Archivio di Stato di Venezia, nel fondo Pacta e aggregati; da questo testimone dipendono due copie che sono conservate alla Biblioteca Marciana, nella stessa città [96]. Il Codex Trevisaneus fu completato in un’unica stesura e contiene 250 documenti di argomenti diversi, disposti in ordine non strettamente cronologico a coprire un arco temporale esteso tra il 628/630 e il 1394. L’ipotesi più diffusa, ma piuttosto controversa, sulla genesi del codice la collega a un antigrafo perduto, il cosiddetto Liber Egnatii, una raccolta di atti pergamenacei che sarebbe stata composta negli ambienti della cancelleria veneziana intorno al XIV-XV secolo [97]. Secondo Harald Krahwinkler, che sostiene questa interpretazione e che ha studiato in più occasioni il placito, la segnatura presente al f. 21r. del Codex Trevisaneus indica sia la sua provenienza dal Liber Egnatii sia un collegamento con il doge Andrea Dandolo [98]. La scelta di inserire il placito di Risano nel dossier del Codex Trevisaneus è riconducibile alla menzione di Venezia nel testo e, inoltre, alla linea di continuità che viene tracciata tra il patriarcato di Grado e quello di Venezia, poiché la raccolta avrebbe l’obiettivo di recuperare documenti ‘inediti’ relativi alle prime fasi della storia della città lagunare (Krahwinkler 2006, 259-260; Marano 2022, 91-92). Il testimone attuale del documento può essere fatto risalire, in ultima battuta, alla copia che fu redatta per il patriarca di Grado e che era conservata nei suoi archivi, prima del trasferimento definitivo a Venezia nel XII secolo [99]. Nell’escatocollo, infatti, si legge: “Fortunatus misericordia Dei patriarcha in hac repromissionis cartula a me facta manu mea subscripsi”, mentre la redazione materiale risulta affidata al notaio Pietro, diacono della chiesa metropolita di Aquileia, che dichiara di avere scritto e rogato l’atto ex iussione del patriarca Fortunato, del duca Giovanni, dei vescovi istriani e dei primates del popolo dell’Istria [100]. Nell’Archivio storico del Patriarcato di Venezia, si conserva una minima frazione degli archivi gradesi, relativa agli estremi cronologici 1419-1447 [101], mentre la quasi totalità dei rari esemplari documentari risalenti all’alto medioevo sono sopravvissuti fortuitamente, solo attraverso il Codex Trevisaneus: questo, o la sua presunta fonte, il Liber Egnatii, operò quindi una selezione tra alcuni documenti significativi dal punto di vista della Repubblica, che forse erano giunti a Venezia insieme con il patriarca e che non furono però conservati in altra sede.
L’unica notizia indiretta relativa all’esistenza di un testimone del placito precedente e forse indipendente dalla tradizione del Codex Trevisaneus/Liber Egnatii si estrae dal cosiddetto Privilegium Eufrasianum. Infatti, il placito di Risano fu una delle fonti impiegate per confezionare questo falso privilegio a favore della chiesa di Parenzo, datato 543 ma composto nel primo quarto del XIII secolo (Krahwinler 2006, 293). Ciò significa che la chiesa di Parenzo conservava un testimone del placito almeno fino all’inizio del XIII secolo che, tuttavia, oggi è perduto: dato che la città di Parenzo, e forse anche il suo vescovo, furono coinvolti nella controversia [102], non si può escludere che la presenza del documento nei circoli della chiesa parentina risalisse proprio al IX secolo.
Il documento
Si riporta la trascrizione semplice del testo, dall’edizione curata da A. Petranovic e A. Margetic, Il placito del Risano, Atti del Centro di Ricerche Storiche, Rovigno, 14 (1983/84), 55-69.
In nomine Patris et Filii et Spiritus Sancti. Amen. Cum per iussionem piissimi atque excellentissimi domini Caroli Magni imperatoris et Pipini regis filii eius in Istria nos servi eorum directi fuissemus, idest Izzo presbiter [103] atque Cadolao [104] et Aio comites [105] pro causis sanctarum Dei ecclesiarum dominorum nostrorum, seu et de violentia populi, pauperorum, orfanorum et viduarum, primis omnium venientibus nobis in territorio Caprense, loco qui dicitur Riziano, ibique adunatis venerabili viro Fortunato patriarcha atque Theodoro, Leone, Stauratio, Stefano, Laurentio episcopis et reliquis primatibus, vel populo provincȩ Istriensium, tunc elegimus de singulis civitatibus seu castellis homines capitaneos [106] numero centum septuaginta et duos, fecimus eos iurare ad sancta quattuor Dei evangelia et pignora sanctorum, ut omnia, quicquid scirent, de quo nos eos interrogaverimus, dicant veritatem, imprimis de rebus sanctarum Dei ecclesiarum, deinde de iustitia dominorum nostrorum, seu et de violentia vel consuetudine populi terrȩ istius, orfanorum et viduarum, quod absque ullius hominis timore nobis dicerent veritatem. Et ipsi detulerunt nobis breves per singulas civitates vel castella, quos tempore Constantini seu Basilii magistri militum fecerunt, continentes quod a parte ecclesiarum non haberent adiutorium nec suas consuetudines. Fortunatus patriarcha dedit responsum dicens: “Ego nescio, si super me aliquid dicere vultis. Verumtamen vos scitis omnes consuetudines, quas a vestris partibus sancta Ecclesia mea ab antiquo tempore usque nunc dedit. Vos michi eas perdonastis, propter quod ego, ubicumque potui, in vestro fui adiutorio, et nunc esse vollo, et vos scitis quod multas dationes vel missos in servitium domini imperatoris propter vos direxi. Nunc autem qualiter vobis placet, ita fiat”. Omnis populus unanimiter dixerunt quod: “Antea tunc et nunc et plura tempora pro nostro largido, ita sit, quia multa bona parte habuimus et habere credimus, excepto, quando missi dominorum nostrorum venerint, antiqua consuetudine vestra familia faciat”. Tunc Fortunatus patriarcha dixit: “Rogo vos, filii, nobis dicite veritatem, qualem consuetudinem sancta Ecclesia mea metropolitana in territorium Istriense inter vos habuit”. Primus omnium primas Pollensis dixit: “Quando patriarcha in nostram civitatem veniebat, et, si opportunun erat, propter missos dominorum nostrorum aut aliquo placito cum magistro militum Grȩcorum habere, exiebat episcopus civitatis nostrȩ cum sacerdotibus et clero vestiti planetas cum cruce, cereostados et incenso, psalendo, sicuti summo pontifici, et iudices una cum populo veniebant cum signis et cum magno eum recipiebant honore. Ingredientem autem ipsum pontificem in domum sanctȩ Ecclesiȩ nostrȩ accipiebant statim ipse episcopus claves de sua domo et ponebat eas ad pedes patriarchȩ. Ipse autem patriarcha dabat eas suo maiori et ipse iudicabat et disponebat usque in die tertia. Quarta autem die ambulabat in suum rectorio”. Deinde interrogavimus iudices de aliis civitates sive castella, si veritas fuisset ita. Omnes dixerunt: “Sic est veritas, et sic adimplere cupimus. Nos vere amplius super patriarcha dicere non possumus. Peculia autem vestra domnica, ubicumque nostra pabulant, ibique et vestra paschant absque omni datione. Volumus ut in antea ita permaneat. Nam vero super episcopos multa habemus quod dicere. I capitulo: Ad missos imperii sive in quacumque datione aut collecta medietatem dabat Ecclesia, et medietatem populus. II capitulo: Quando missi imperii veniebant, in episcopio habebant collocationem, et dum interim reverti deberent ad suam dominationem, ibique habebant mansionem. III capitulo: Quaecumque cartulae enphitheoseos, aut libellario iure, vel non dolosas commutationes numquam ab antiquum tempus corruptae fuerunt ita, ut nunc fìunt. IIII capitulo: De herbatico vel glandatico numquam aliquis vim tulit inter vicora, nisi secundum consuetudinem parentorum nostrorum, V capitulo: De vineas nunquam in tertio ordine tulerunt, sicut nunc faciunt, nisi tantum quarto. VI. capitulo: Familia Ecclesiȩ, nunquam scandala committere adversus liberum hominem, aut cedere cum fustibus, et iam nec sedere ante eos ausi fuerunt. Nunc autem cum fustibus nos cedunt, et cum gladiis sequuntur nos. Nos vero propter timorem domini nostri non sumus ausi resistere, ne peiora acrescat. VII. Quis terras Ecclesiȩ femorabat, usque ad tertiam reprehensionem nunquam eos foras eiiciebat. VIII. Mare uno publica, ubi omnis populus communiter piscabant, modo ausi non sumus piscare, quia cum fustibus nos cedunt et retia nostra concidunt. VIIII. capitulo: Unde nos interrogastis de iustitiis dominorum nostrorum, quas Greci ad suas tenuerunt manus usque ab illo die, quod ad manus dominorum nostrorum pervenimus, ut scimus, dicimus veritatem: De civitate Pollensi solidi mancosi sexaginta et sex; de Ruvingio solidi mancosi quadraginta; de Parentio mancosos sexaginta et sex; numerus Tergestinus mancosos sexaginta; de Albona mancosos triginta; de Pedena mancosos .XX.; de Montanna mancosos triginta; de Pinguento mancosos .XX; cancellarius Civitatis Novȩ mancosos .XII. Qui faciunt insimul mancosos .CCCXLIIII. Isti solidi tempore Grȩcorum in pallatio eos portabat. Postquam Ioannes devenit in ducatu [107], ad suum opus istos solidos habuit et non dixit quod iustitia pallatii fuisset. Item habet casale Orcionis cum olivetis multis. Item portionem de casale Petriolo, cum vineis, terris et olivetis. Item omnem portionem Ioanni Cancianico, cum terris, vineis, olivetis et casa cum torculis suis. Item possessionem magno de Arbe cum terris, vineis, olivetis et casa sua. Item possessionem Stephani magistri militum Item casam Zerontiacam cum omni possessione sua. Item possessionem Mauricii ypati seu Basilii magistri militum, instar et de Theodoro ypato. Item possessionem, quam tenet in Priatello, cum terris, vineis et olivetis et plura alia loca. In Nova Civitate habet fischo publico, ubi commanet intus et foras civitate, amplius quam duos centum colonos; per bonum tempus reddunt oleo amplius quam centum modia, vino magis quam amphoras duocentum, alnona seu castaneas suffìcienter. Piscationes vero habet, unde illi veniunt per annum amplius quam quinquaginta solidi mancosi absque sua mensa ad satietatem. Omnia ista dux ad suam tenet manum, exceptis illis .CCCXLIIII. solidos, sicut supra scriptum est, quod in pallatio debent ambulare. De forcia unde nos interrogastis, quas Ioannes dux nobis fecit, quod scimus, dicimus veritatem. I capitulo: Tulit nostras silvas, unde nostri parentes herbatico et glandatico tollebant. Item tulit nobis casale inferiore, unde parentes nostri, ut super diximus, similiter tollebant. Modo contradicit nobis Ioannes. Insuper sclavos super terras nostras posuit. Ipsi arant nostras terras et nostras runcoras, segant nostras pradas, pascunt nostra pascua, et de ipsas nostras terras reddunt pensionem Ioanni. Insuper non remanent nobis boves, neque caballi. Si aliquid dicimus, interimere nos dicunt. Abstulit nostros cofinos quos nostri parentes secundum antiquam consuetudinem ordinabant. II kapitulo: Ab antiquo tempore, dum fuimus sub potestate Grecorum Imperii, habuerunt parentes nostri consuetudinem habendi actus tribunati domesticos, seu vicarios, nec non locoservator, et per ipsas honores ambulabant ad communione et sedebant in consessu, unusquisque per suum honore. Et, qui volebant meliorem honorem habere, de tribuno ambulabat ad Imperium, qui ordinabat illum ypato. Tunc ille, qui imperialis erat hypatus, in omni loco secundum illum magistrum militum procedebant. Modo autem dux noster Ioannes constituit nobis centarchos; divisit populum inter filios et filias vel generum suum, et cum ipsos pauperes aedificant sibi pallatias. Tribunatus nobis abstulit, liberos homines non nos habere permittit, sed tantum cum nostros servos facit nos in hoste ambulare; libertos nostros abstulit, advenas homines ponimus in casas vel ortora nostra, nec ipsos potestatem habemus. Grecorum tempore omnis tribunus habebat scusatos quinque et amplius, et ipsos nobis abstulit. Fodere numquam dedimus; in curte numquam laboravimus; vineas numquam laboravimus, calcarias numquam fecimus; casas numquam aedificavimus, tegorias numquam fecimus, canes numquam pavimus, collectas numquam fecimus, sicut nunc facimus; pro unoquoque bove unum modium damus; collectas de ovibus numquam fecimus, quomodo nunc facimus; unoquoque anno damus peccora et agnos. Ambulamus navigio in Venetias, Ravennam, Dalmatiam, et per flumina, quod numquam fecimus. Non solum Ioanni hoc facimus, sed etiam ad filios et filias seu generum suum. Quando ille venerit in servitium domini imperatoris ambullare aut suos dirigere homines, tollet nostros caballos, et nostros filios cum forcia secum ducit et facit eos sibi trahere saumas, ire procul fere triginta et amplius milia, tollit omnia eis, quitquit habent, solum ipsa persona ad pede remeare facit in propria. Nostros autem caballos aut in Francia eos dimittit, aut per suos homines illos donat. Dicit in populo: «Colligamus exenia ad dominum imperatorem, sicut tempore Grecorum faciebamus, et veniat missus de populo una mecum, et offerat ipsos exenios ad dominum imperatorem». Nos vero cum magno gaudio collegimus. Quandoque venit ad ambulare, dicit: «Non vobis oportet venire. Ego ero pro vobis intercessor ad doininum imperatorem». Ille autem cum nostris donis vadit ad dominum imperatorem, placitat sibi vel filiis suis honorem et nos sumus in grandi oppressione et dolore. Tempore Grecorum colligebamus semel in anno, si necesse erat, propter missos imperiales: de centum capita ovium, qui habebat, unum; modo autem, qui ultimum tres habet, unum exinde tollit, et nescimus intueri, per annum; sui austores exinde prindunt. Ista omnia ad suum opus habet dux noster Ioannes, quod nunquam habuit magister militum Grȩcorum, sed semper ille tribunus dispensabat ad missos imperiales et ad lagaturios euntes et redeuntes. Et istas collectas facimus, et omni anno vollendo nollendo quotidie collectas facimus. Per tres vero annos illas decimas, quas ad sanctam Ecclesiam dare debuimus, ad paganos Scavos dedimus, quando eos super ecclesiarum et populans terras nostras misit in sua peccata et nostra perditione. Omnes istas angarias et superpostas, quae prȩdictȩ sunt, violenter facimus, quod parentes nostri numquam fecerunt. Unde omnes devenimus in paupertatem, et derident nostros parentes et convicini nostri Venetias et Dalmatias, etiam Greci, sub cuius antea fuimus potestate. Si nobis succurrit domnus Carolus imperator, possumus evadere, sin autem, melius est nobis mori, quam vivere”. Tunc Ioannes dux dixit: “Istas silvas et pascua, quae vos dicitis, ego credidi quod a parte domni imperatoris in publico esse deberent: nunc autem, si vos iurati hoc dicitis, ego vobis contradicam. De collectis ovium inantea non faciam, nisi ut antea vestra fuit consuetudo. Similiter et de exenio domni imperatoris. De opere vel navigatione seu pluribus angariis, si vobis durum videtur, non amplius fiat. Libertos vestros reddam vobis secundum legem parentorum vestrorum, liberos homines habere vos permittam, ut vestram habeant commendationem, sicut in omnem potestatem domini nostri faciunt. Advenus homines, qui in vestrum resedent, in vestra sint potestate. De sclavis autem, unde dicitis, accedamus super ipsas terras, ubi resedunt, et videamus, ubi sine vestra damnietate valeant residere, resideant; ubi vero vobis aliquam damnietatem faciunt sive de agris sive de silvis vel roncore aut ubicumque, nos eos eiciamus foras. Si vobis placet, ut eos mittamus in talia deserta loca, ubi sine vestro damno valeant commanere, faciant utilitatem in publico, sicut et cȩteros populos”. Tunc previdimus nos missi domni imperatoris, ut Ioannes dux dedisset vadia, ut omnia prelata superposta, glandatico, herbatico, operas et collectiones, de sclavis et de angarias, vel navigationes emendandum. Et ipsas vadias receperunt Damianus, Honoratus et Gregorius. Sed et ipse populus ipsas concessit calumnias in tali vero tenore, ut amplius talia non perpetrasset. Et si amplius istas oppressiones ille aut sui heredes vel austores fecerint, nostra statuta componant. De aliis vero causis stetit inter Fortunatum, venerabilem patriarcham, seu suprascriptos episcopos sive Ioannem ducem, vel reliquos primates et populum, ut, quicquid iurati recordarent et dicerent secundum suum sacramentum et ipsas breves, omnia adimplerent, et qui adimplere nolluerint de illorum parte componat coactus in sacro pallatio auro mancosos libras novem. Haec diiudicatus et convenientia facta est in presentia missi domini imperatoris Izone presbitero, Cadolao et Aioni, et propriis manibus subscripserunt in nostra presentia:
+ Fortunatus misericordia Dei patriarcha in hac repromissionis cartula a me facta manu mea subscripsi.
+ Ioannes dux in hac repromissionis cartula manu mea subscripsi.
+ Stauratius episcopus subscripsi.
+ Teodorus episcopus.
+ Stefanus episcopus.
+ Leo episcopus.
+ Laurentius episcopus.
(S) Petrus peccator, diaconus sanctȩ Aquileiensis metropolitanȩ Ecclesiȩ, hanc repromissionem ex iussione domini mei Fortunati sanctissimi patriarchȩ, seu Ioannis gloriosi ducis, vel suprascriptorum episcoporum et primatum populi Istriȩ provinciȩ scripsi et post roborationem testium cartulam roboravi.
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Note
1. L’occupazione carolingia dell’Istria nel 790 fu seguita da un conflitto armato con l’impero bizantino per il controllo dell’intero arco altoadriatico, che si concluse con la pace di Aquisgrana nell’812 (Azzara 1994, 121-135; Cosentino 2008, 26 e 245).
2. Le edizioni che userò sono la classica di Manaresi 1955: PRI, n. 17 (804), 48-56, e quella, più recente, di Petranović e Margetić 1983-1984. Altre edizioni di riferimento, talvolta corredate di traduzione, sono contenute in Kandler 1986, n. 54, 112-115; Esders 1999; Guillou 1969, n. 6, 294-307; Krahwinkler 2004, 67-81.
3. La bibliografia in materia è molto vasta. Oltre alle analisi puntuali citate alla nota precedente, per lo studio del placito nel contesto delle società dell’alto Adriatico e, soprattutto, in rapporto al caso di Venezia si rimanda a: Borri 2008; Gasparri 1992; Gasparri e Gelichi 2024, 68-74. Per un inquadramento dell’Istria come punto d’incontro tra Bisanzio e l’impero carolingio: Borri 2012; 2018; 2021; Štih 2018, ma il volume in cui è contenuto l’articolo commenta in diversi passaggi il documento. Il placito è analizzato nell’ambito di ricostruzioni storiche a carattere più generale in: Cammarosano 1998, 130-134; Krahwinlker 1992, 199-243.
4. Su questo, soprattutto Albertoni 2005 e Provero 2019.
5. Si vedano, a titolo esemplificativo, Brown 1984; Cosentino 2008; Prigent 2008.
6. Così anche in Bougard 2019, qui 95-96.
7. Si vedano soprattutto i paragrafi 5-6.
8. Per un approfondimento sulla dimensione performativa delle scritture nel medioevo, si rimanda a: McKitterick 1989; McKitterick 1990; Mostert 1999. Per inquadrare l’uso e le forme dei placiti, Bougard 1995; Davies e Fouracre 1986.
9. Per questi aspetti si rimanda ai contributi citati alla n. 4. e, più in generale, a Provero 2020.
10. Tra le ormai numerose pubblicazioni, citiamo come riferimenti fondamentali: Bianchi et al. 2018; Bougard e Loré 2019; Collavini e Tomei 2017; Dìaz e Martìn Viso 2011; Isabella e Mezzetti 2024; Lazzari 2012a; 2017; 2024a; Lazzari e Tabarrini 2023; Loré 2024; Vignodelli 2017. Altri risultati recenti di questa stagione di studi non hanno ancora ricevuto pubblicazione: Collavini et al., in corso di stampa; Manarini, in corso di stampa.
11. Non esamineremo qui la tradizione del testo né i profili biografici dei membri del collegio giudicante, informazioni già ampiamente note. Chi desiderasse approfondire questi temi può consultare l’appendice, che contiene la trascrizione del placito accompagnata da un’introduzione sulla sua tradizione e da brevi profili biografici.
12. Anonimo Salernitano 1839, c. 2, 271-272; Gundlach 1892, n. 19, 711-713.
13. Düemmler 1895., n. 20 (791), 528-529. Per il riferimento alle Formulae di St. Denis, Borri 2021, 235.
14. Infatti, l’Istria era stata una dei granai dell’impero romano. Nelle Variae di Cassiodoro, si dice che la capitale tardoantica Ravenna importava grano soprattutto dalla Liguria e dall’Istria, dalla quale, inoltre, proveniva anche il vino. Per l’Istria, Cassiodori Senatoris 1894, nn. 22-24, 378-379. Sull’approvvigionamento annonario di Ravenna, Cosentino 2005, 405-432.
15. Oltre al duca Giovanni del placito di Risano, per l’età carolingia sono attestati solo altri due duchi in Istria, entrambi di nome Unfrido, probabilmente padre e figlio, Hlawitschka 1960, 206-208.
16. V. infra e appendice.
17. I vescovi dell’Istria, cioè, avevano smesso di farsi consacrare dal patriarca di Grado, il titolare dell’arcidiocesi, e avevano iniziato a consacrarsi l’uno con l’altro. V. Gundlach 1892, n. 19 e n. 20, 711-714.
18. Gundlach 1892, n. 19, 711-713. Cfr. Gasparri 2011, 82, che tuttavia omette di collocare tali avvenimenti in Istria e parla delle “collectas langobardorum” come rapina istituzionalizzata, quando invece il termine sembra indicare una vera e propria forma di prelievo. Il confronto con il testo del placito di Risano, che fa riferimento alle esagerate collectae richieste dal duca, suggerisce la loro identificazione con una forma di tassazione straordinaria, v. infra.
19. Così definito in MGH, DD Karol., I, n. 112 (776), 158-159. Su Paolino di Aquileia, si veda Chiesa 2003; Stone 2023.
20. MGH, DD Karol., I, n. 174 (792), 233-234; l’altro diploma emesso a Francoforte, n. 175 (792), 234-235, è interpolato ma considerato attendibile nella concessione dell’immunità.
21. Sui possibili motivi che provocarono l’allontanamento tra Fortunato e gli imperatori franchi vi è proprio l’accordo raggiunto ad Aquisgrana nell’812, v. Štih 2018, soprattutto 65-68.
22. Su Fortunato, Krahwinkler 2005; Marano 2022; Rando 1997. Cfr. anche nota precedente.
23. MGH, DD Karol., I, n. 200 (803), 209.
24. Hampe 1899, n. 5, 94-95.
25. Per la rivendicazione dello statuto metropolitano della chiesa di Grado, Esders 1999, 68. Per l’intervento di Pietro diacono aquileiese, Krahwinkler 2006, 264, che però non inquadra la rivendicazione in questo contesto politico. L’espressione “sancte Aquileiensis metropolitane Ecclesie”, che ricorre due volte nel placito, è comunque un uso mai attestato nelle fonti coeve dell’area, per cui non escluderei del tutto l’ipotesi dell’interpolazione.
26. Leone III acconsentì al trasferimento, ma a condizione che l’imperatore si impegnasse a restituirlo alla sua sede e che Fortunato non depredasse l’episcopato polesano dei suoi possessi e diritti, Hampe 1899, n. 5, 94-95 e Rando 1997. Per la spedizione di Pipino, Azzara 1994, 121-136; Gasparri e Gelichi 2024, 74-79.
27. V. appendice.
28. La procedura dell’inquisitio fu uno dei punti cardine della riforma giudiziaria carolingia e conobbe il momento di massima diffusione tra gli anni Venti e gli anni Ottanta del IX secolo, Bougard 1995, 197.
29. E cioè: diritti del patriarca, conflitti con le chiese vescovili, diritti dell’imperatore e del duca, conflitti con il duca, Esders 1999, 95.
30. Il punto di vista è quello dei missi: “[…] tunc elegimus de singulis civitatibus seu castellis homines capitaneos numero centum septuaginta et duos […]”. Cfr. sul significato della scelta dell’inquisitio a Risano, anche Davies 2015, 274-277.
31. Nei fatti, l’inquisitio fu ben presto applicata ai beni degli enti ecclesiastici e religiosi e anche di privati, attraverso un’assimilazione di alcune cause straordinarie a quelle del re. Bougard 1995, 194-202.
32. Negli anni Novanta, è a partire da studi di tipo economico che si è sviluppata una prima riflessione sui modi di finanziamento delle istituzioni politiche: Bonney 1995; Haldon 1993; Wickham 1994; Ormrond et al. 1999. In seguito a queste ricerche, si è sviluppata una nuova riflessione sulla forma dello ‘Stato’: Airlie et al. 2006; Innes 2000; Pohl e Wieser 2009. Le ultime sintesi complessive in materia sono: Carocci e Collavini 2012; Haldon 2016; Wickham 2005.
33. V. nota precedente. Qui si segue, semplificando, Wickham 2005, 88-180.
34. V. nota 10.
35. Per un quadro generale, Brandes 2002 e Delmaire 1989. Cfr. Brubaker e Haldon 2011, 667-670; Cosentino 2008, 155-160; Cosentino 2010; Haldon 2016, 249-282.
36. Oikonomidès 1991, soprattutto per il rapporto tra rendita e imposta; inoltre, Oikonomidès 1996, 322-337.
37. Sostenitori della transizione all’imposta in natura sono soprattutto gli esponenti della ‘Birmingham School’. Si veda, a titolo esemplificativo, Brubaker e Haldon 2011, 464-474 e 701-705. Per una panoramica generale, ma su posizioni opposte, si rimanda a Prigent 2014a, 184-200; cfr. anche Cosentino 2010.
38. Oikonomidès 1996, 42-66; Prigent 2014a, 200-205. Per un quadro d’insieme sull’evoluzione del sistema di tassazione, cfr. anche Brubaker e Haldon 2011, 717-722.
39. Cosentino 2008, 195; Guillou 1974. Per l’evoluzione dal chorion alla grande proprietà fondiaria, Prigent 2014a, 205-209.
40. MGH, DD Karol., I, n. 200 (803), 209.
41. Per la citazione, Gasparri 2011, 72, ma in generale per i dati forniti da Paolo Diacono e dall’Editto di Rotari e per un quadro sul dibattito storiografico in materia. Cfr. Per la crisi e le evoluzioni del sistema amministrativo-fiscale dell’impero romano, Carocci e Collavini 2012; Wickham 2005, 45-83.
42. Storti 2015, 463.
43. Lazzari 2017, soprattutto 106.
44. Si veda, per un approfondimento: Gasparri 2004, 22-42; Lazzari 2017; Loré 2018 e 2019; Rao e Santos Salazar 2019; Storti 2015, 429-472.
45. V. nota 9.
46. V. infra.
47. V. supra. Il tema è ampiamente trattato da Esders 1999.
48. Per Guillou 1969, 295, n. 94, è il primo magistrato municipale.
49. V. supra.
50. Questi diplomi furono emessi nel contesto del sinodo di Ratisbona dove Paolino si era recato: MGH, DD Karol., I, n. 174 (792), 233-234; n. 175 (792), 234-235. Il diploma contenente l’immunità contiene un lungo passaggio interpolato.
51. V. supra. MGH, DD Karol., I, n. 200 (803), 209.
52. MGH, DD Karol. I, n. 201 (-), 210.
53. Weiland 1893, n. 23, 49-51.
54. Per la politica fiscale di Ottone III, si vedano Isabella 2024, soprattutto 289-291; Lazzari 2024b, 251-269.
55. Guillou 1969, 297, con relative note al testo, propone alcune identificazioni ma senza motivarle.
56. Il passaggio sulle rendite manca del soggetto che sembra poter essere ricostruito sulla base del contesto come sopra.
57. La proporzionalità era, in effetti, corretta dal principio della solidarietà fiscale. Su questo si veda Prigent 2014a, 200-205, che ridimensiona l’interpretazione di Oikonomidès 1996, secondo il quale l’imposta ad valorem sarebbe stata più giusta ed efficace del sistema distributivo.
58. Solo la terza parte si conclude con una promessa dettagliata del duca Giovanni, seguita dalla prima parte della sentenza degli inviati, che consentono di verificare il ritorno allo status quo precedente descritto dagli istriani rispetto ad alcune delle specifiche accuse contro Giovanni. Invece, prosegue la sentenza, “De aliis vero causis stetit inter Fortunatum, venerabilem patriarcham seu suprascriptos episcopos sive Ioannem ducem vel reliquos primates et populum, ut quicquid iurati recordarent et dicerent secundum suum sacramentum et ipsas breves, omnia adimplerent […]”.
59. Si veda Cosentino 2008, 157, ma anche 2010, 24-26; Kaplan 1992, 136-137. Secondo Guillou 1969, 297, n. 112, il fiscum publicum di Cittanova sarebbe da interpretare come un riferimento ai beni particolari dell’imperatore, “par distinction avec le domesticum fiscum.”
60. Dal IX secolo, nel sistema fiscale bizantino sono attestati i registri catastali, contenenti i nomi dei contribuenti, delle relative proprietà terriere e delle imposte dovute, Oikonomidès 1996, 46-66. Questi registri sono generalmente chiamati κώδικες, mentre il termine breves sembra la trascrizione βρέβια, gli inventari di beni mobili e immobili dei patrimoni ecclesiastici che sono documentati nell’Italia meridionale bizantina, una copia dei quali doveva essere fornita agli archivi della chiesa vescovile relativa. Alcuni documenti provenienti dal thema di Calabria mostrano però che esisteva una corrispondenza tra i registri catastali in forma di codice relativi a un distretto fiscale elaborati dagli uffici finanziari dell’impero e gli inventari compilati a uso interno delle chiese e dei monasteri, anche se nelle controversie giudiziarie dell’Italia meridionale bizantina le sentenze paiono elaborate sulla base di atti pubblici o privati in possesso dei contendenti o delle testimonianze orali. Ciò probabilmente si deve ai ritmi di aggiornamento dei κώδικες, previsti ogni trent’anni, v. Guillou 1974; Falkenhausen 2012, 536-540.
61. Per Carlo Magno, la legge è contenuta nel Capitulare de villis, Boretius 1883, 88-89. Per Liutprando, l’esistenza di una simile disposizione è tramandata indirettamente nella Notitia de actoribus regis, v. supra e Lazzari 2017.
62. Oikonomidès 1996, 24-29 per i secoli VII-IX; 42-46 per i secoli IX-XI.
63. Sull’area fiscale di Sacco ho lavorato nella mia tesi di dottorato, dedicata al patrimonio fiscale nell’area nordorientale del regno italico. Per una panoramica generale, si rimanda a Castagnetti 1997.
64. MGH, DD. Karol., I, n. 134 (781), 184-185; DD Lu. II, n. 13 (853), 88-91.
65. Moltiplicando per 12 l’ammontare di 344 mancosi, si ottiene una stima del valore complessivo del patrimonio imperiale in Istria. Convertendo poi il valore del mancoso in solidi — assumendo una corrispondenza pari al 75% — il patrimonio risulterebbe equivalente a soli 3.096 solidi, cioè circa 43 libbre d’oro. Sul valore del mancoso nell’alto medioevo, Prigent 2014b.
66. V. infra.
67. Questa espressione che indicava l’antica sede di stazionamento di un bandon, l’unità di base dell’esercito bizantino tardoantico, che però, a quest’altezza cronologica, deve essere intesa come una realtà territoriale, Guillou 1969, 195; Krahwinkler 2004, 283-284.
68. Per le identificazioni si veda Krahwinkler 2006, 282-286, che però utilizza l’assioma vescovo=civitas che, come vedremo, non è accettabile.
69. Lazzari 2009, cit. a 631. Sul significato di pagus, l’autrice cita gli studi condotti da Luigi Capogrossi Colognesi sull’organizzazione del territorio in età romana, v. 642-643, con riferimenti in nota.
70. Lazzari 2009, 635-637; molto significativo anche il caso di Brento, 645-646.
71. Martìn e Noyé 1989, 564-565.
72. Sui “centarchi”, Krahwinkler 2006, 181-182.
73. Sull’uso dei titoli da parte dell’élite istriana, Prigent 2008, 405.
74. Per gli excusati, v. n. 78.
75. Falkenhausen 2012, 534-535.
76. Espressione di difficile traduzione, che potrebbe essere intesa come un riferimento a beni fondiari di qualità inferiore, forse a basso rendimento e, appunto, in parte incolto.
77. Sull’ennomion, Oikonomidés 1996, 72-76, che analizza però fonti di XI-XIII secolo.
78. Gli exkoussatoi erano soggetti esenti, nei confronti dei quali lo Stato rinunciava ad alcuni suoi diritti (da exkousseia, esenzione). Questi potevano essere di due tipi, in base all’origine del loro privilegio: coloro che ricevevano direttamente il privilegio di esenzione in cambio di un servizio allo Stato e i soggetti a una forma di dipendenza da un individuo, al quale corrispondevano servizi e denaro, sia pure in modalità privilegiate. In questo secondo caso, il proprietario era il vero beneficiario dell’esenzione, perché, per quelle persone, non era tenuto a versare tasse e/o servizi allo Stato. Sugli exkoussatoi del placito di Risano, che rientrano in questa seconda categoria, si rimanda a Oikonomidés 1996, 167, che giustamente smussa l’interpretazione di Leicht 1956. In generale, si rimanda a Oikonomidés per un quadro generale sull’istituto e le sue applicazioni.
79. Sulla Legge Agraria, si veda Laiou 2005, 39.
80. V. supra.
81. Su questo soprattutto, Lazzari 2017; Loré 2018, 74-76; 2019, soprattutto 66-70; e Rao-Santos Salazar 2019, 34.
82. V. supra, sul rifiuto di ospitare i missi regi.
83. Boretius 1883, 83. Soprattutto c. VI: “Volumus ut iudices nostri decimam ex omni conlaboratu pleniter donent ad ecclesias quae sunt in nostris fiscis, et ad alterius ecclesiam nostra decima datam non fiat, nisi ubi antiquitus institutum fuit. Et non alii clerici habeant ipsas ecclesias, nisi nostri aut de familia aut de cappella nostra”. Devroey 2021, 95 e n. 42.
84. Un’interpretazione alternativa consiste nel pensare che i lavoratori slavi avessero stipulato con le chiese quei livelli corrotti denunciati dagli istriani che, forse, avevano a oggetto la decima delle chiese plebane. In mancanza di fonti, però, questa seconda lettura rimane meno probabile, non solo perché il delitto è denunciato tra le accuse a Giovanni, ma anche perché gli slavi sembrano appartenere a una speciale fascia sociale di lavoratori della terra, inferiore a quella di una possibile clientela vescovile. Sul problema degli slavi nel placito di Risano, cfr. anche Antolini 2006, 30-32.
85. PD, HL, IV, 38; MGH, DD LdF., II/2, n. 233 (824), 580-581. Su questi due personaggi, Hlawitschka 1960, 146-148 e 163-165: si ricordi che il conte Cadalo fu uno dei missi inviati a Risano per l’inchiesta. L’identificazione di Zellia con la valle del Gail, condivisa da Gasparri, è controversa, perché il toponimo potrebbe indicare anche Celjie in Carniola. Cfr. Cammarosano 1988, 9-155, qui 63-64, n. 18.
86. I tempi antichi generalmente invocati sono quelli di re Liutprando, v. Lazzari 2017. Sul tema, in generale, Albertoni 2010; Lazzari 2017; Loré 2019, 62-65; Provero 2019; Wickham 1982.
87. Emblematico il primo placito della serie che oppose la comunità di Carapelle al monastero di S. Vincenzo al Volturno, per il quale si rimanda a PRI, n. 4 (779), 8-10. Cfr. soprattutto Wickham 1982, ma in generale i testi alla n. precedente.
88. Sul rapporto tra le città istriane e i parentes et convicini di Venezia e della Dalmazia, Borri 2008.
89. Su questa lettura, cfr. Esders 1999, 83-89, che traccia una linea di continuità con il passato romano; cfr. Štih 2018.
90. Si tratta di nuove manifestazioni di identità civica propria di contesti come quello istriano e ravennate, in cui si era prodotta un’identificazione della città con l’unità militare, attraverso l’associazione della sua élite con un corpo fittizio di ufficiali, Prigent 2008, 406 e n. 106 per un riferimento a un passaggio del placito di Risano che non abbiamo commentato.
91. Giovanni dichiara di riportare la situazione allo stato precedente, con una parziale eccezione rappresentata dal problema degli slavi, per il quale si rimanda al testo in alto. Quanto ai vescovi e a Fortunato, la sentenza dispone soltanto “ut quicquid iurati recordarent et dicerent secundum suum sacramentum et ipsas breues, omnia adimplerent.”
92. Si rimanda all’appendice.
93. Su questi temi, si rimanda a Provero 2019.
94. Ibidem.
95. MGH, n. 82 (814-821), 200-202. Così, Borri 2012, 314; Esders 1999, 109-111; Krahwinkler, 2006, 286-287.
96. Venezia, Archivio di Stato, Raccolte e miscellanee, Pacta e Aggregati, Codex Trevisaneus; Venezia, Biblioteca Marciana, Cod. Lat. X, 181 (3179). La collocazione dei testimoni conservati nella Biblioteca Marciana è ricavata da Esders 1999, 51 e n. 6. Cfr. Krahwinkler 2006, 258.
97. Lo indicherebbero le note a margine dei documenti, Krahwinkler 2006, 258-259. Cfr. anche Pazienza 2018, 35. Non risulta convinto di ciò Marano 2022, 92, che ritiene il Codex Trevisaneus una scrittura originale, una compilazione messa a punto da un privato, forse vicino agli ambienti della Cancelleria.
98. A tale proposito, occorre ricordare che la Cronica di Andrea Dandolo, composta nel XIV secolo, mostra di conoscere il documento. Per l’intera ricostruzione, Krahwinkler 2006, 256-259. Secondo Pazienza 2018, anche Giovanni Diacono avrebbe consultato il documento per comporre l’Istoria Veneticorum. Sebbene sia possibile che una copia del placito fosse conservata negli archivi patriarcali e/o nel palazzo ducale a Venezia, l’argomento usato da Pazienza per provare la tesi sembra debole. In ogni modo, Giovanni Diacono aveva a sua disposizione altra documentazione relativa al patriarca Fortunato, tra cui senz’altro il cosiddetto testamento o memoratorium dell’825, v. Pazienza 2018, ibidem; Giovanni Diacono 1999, II, 28, n. 66; Cessi 1940, n. 45 (845), 75-78.
99. Nel XII secolo, durante il dogado di Enrico Dandolo, il patriarca di Grado trasferì la sua residenza privata a Venezia, città alla quale era da lungo tempo legato, sebbene questa fosse già una diocesi vescovile con sede a S. Pietro in Castello; nel 1451 il titolo gradese fu soppresso da papa Niccolò V che, al suo posto, istituì il patriarcato delle Venezie, dopo che nel 1420 la Repubblica aveva conquistato anche lo ‘Stato patriarcale’ di Aquileia e che, in un breve torno di tempo, il metropolita aquileiese fosse spogliato di gran parte dei suoi poteri temporali. Niero 1980.
100. Per l’intervento di uno scrivano aquileiese, v. supra.
101. Si rimanda alla pagina dell’archivio: SIUSA | Ecclesiae Venetae - Archivio storico del Patriarcato di Venezia (beniculturali.it).
102. Parenzo era, infatti, sede episcopale. Sfortunatamente le menzioni dei vescovi convocati al placito di Risano mancano del riferimento alla diocesi di appartenenza, per cui risulta impossibile determinare il rapporto tra città e vescovo, v. infra.
103. Il presbitero Izzo è l’unico degli inviati del re che rimane di difficile identificazione. L’unica ipotesi formulata lo collega al monastero di Farfa e a un omonimo missus regio, agente in un placito degli inizi del secolo IX (Krahwinkler 2006, 269-271).
104. Il conte Cadalo è un personaggio ben documentato. Sembra che il conte appartenesse a un gruppo parentale alamanno composto da cospicui possessori legati all’abbazia di San Gallo e residenti a nord del lago di Costanza. Nonostante il titolo di conte, verosimilmente Cadalo non ricoprì alcun incarico pubblico nella sua terra di provenienza, ma fu posto a capo della marca del Friuli, almeno a partire dall’817. Nel periodo in cui si tenne il placito di Risano, dove il conte Cadalo è missus del re, non è chiaro invece da chi fosse amministrata la marca, perché tra la morte del duca Eric nel 799 e la prima registrazione di Cadalo conte della marca friulana nell’817 non vi sono notizie in merito (Hlawitschka 1960, 163-165, anche per i documenti in cui sono menzionati i membri del gruppo).
105. Sono abbondanti le informazioni sul conte Aio, che era stato tra i longobardi ribelli a Carlo Magno e che, perdonato, riuscì a conquistare una posizione di fiducia presso il re. Questi non solo lo reintegrò nelle sue proprietà, ma gli attribuì due incarichi molto delicati dal punto di vista diplomatico: il primo consistette appunto nel ripristino dell’equilibrio in Istria; in seguito, nell’811, Aio de Foro Iulii fu parte della missione inviata a Costantinopoli per giungere a un accordo e porre fine al conflitto scoppiato con l’impero bizantino dopo l’incoronazione di Carlo a Roma nel giorno di Natale dell’800 (Pertz 1895, 133-134; Hlawitschka 1960, 113-114).
106. I 172 homines capitanei della provincia istriana sono i veri protagonisti dell’inchiesta. La peculiarità di questa espressione è già stata sottolineata più volte (a esempio, Borri 2012, 314 e Cammarosano 1998, 132) e può dipendere dall’intricata tradizione con cui il testo è giunto a noi. Tuttavia, a ben guardare, l’espressione potrebbe riflettere la difficoltà nella resa di un concetto inusuale per i redattori: come abbiamo visto, il testo del placito restituisce il punto di vista dei missi di Carlo Magno e Pipino, quindi di soggetti estranei al contesto locale. E infatti, nei documenti pubblici prodotti nel regno italico nel IX-X secolo, il concetto di comunità è espresso proprio con la parola homines, generalmente associata a un complemento di specificazione, di appartenenza o provenienza (Lazzari 2012b, 5-6). L’espressione homines capitanei può avere dunque un significato preciso, volto a valorizzare non le singole individualità, ma l’entità collettiva a cui fu delegato il compito di esporre in giudizio gli interessi delle élite che componevano il populus istriano. Il lemma populus ricorre più volte nel testo, ma non era affatto frequente nelle fonti contemporanee, tant’è che questo è l’unico placito del primo volume della raccolta di Manaresi in cui viene impiegato. Anche il vocabolario utilizzato dai capitanei sottolinea la dimensione comunitaria, p. es.: “omnis populus unanimiter”, “ubi omnis populus communiter piscabant”.
107. L’identità di Giovanni è stata spesso discussa dagli studiosi, senza che, per altro, si sia pervenuti a una proposta risolutiva in proposito. In effetti, i dati a disposizione sono davvero pochi e generici per offrire un’identificazione convincente: il nome Iohannes, insieme a Petrus, era l’antroponimo più diffuso nelle aree della penisola italica di tradizione bizantina (Cosentino 2000, s.v.; Cosentino 2012, 174) e questa circostanza, unita alla mancanza di fonti che caratterizza l’Istria carolingia, rende impossibile un’identificazione sicura. Il nome Iohannes era invece scarsamente impiegato nelle aree di tradizione franco-longobarda, dominate dall’onomastica germanica, e ciò rende problematica la proposta di Hlawitschka, che ne sostiene la provenienza franca (Hlawitschka 1960, 211-212). Al contrario, risulta più persuasiva l’ipotesi della provenienza venetica o esarcale del duca Giovanni. Anche in tal caso, però, appare forzata la recente proposta di Annamaria Pazienza, che lo identifica con il doge Giovanni Galbaio (797-805): la ricostruzione pare difficilmente compatibile sia con la cronologia degli eventi sia con la vicenda politica del doge, che contrastò l’azione di Fortunato e fece uccidere il suo predecessore, Giovanni, proprio per il loro avvicinamento ai franchi; a causa di queste tensioni, il doge si rifugiò o, più probabilmente, fu deportato in esilio nel regno, forse a Mantova, dove si trovava proprio al momento del placito di Risano (Pazienza 2024; cfr. Bedina 2001). Analogamente, appare poco convincente anche l’ipotesi che riconosce in Giovanni un autoctono (Borri 2021; Krahwinkler 1992, 211–215). In effetti, nei primi anni successivi alla conquista del regno longobardo, Carlo Magno preferì appoggiarsi sulle strutture di governo esistenti mantenendo in carica alcuni conti e duchi autoctoni e optando soltanto in seconda battuta per la promozione di elementi esterni (Gasparri 2012, 130-132, ripreso da Borri 2021, 237-238). Per i titolari della marca del Friuli, lo spartiacque fu segnato dalla rivolta del 776 condotta dal duca friulano Rotcauso, che fu supportata dalla potente aristocrazia nordorientale, l’area forse più militarizzata del regno. Se dunque Giovanni proveniva realmente dalla penisola istriana, doveva essere un convinto sostenitore di Carlo Magno, visto questo importante precedente e il delicato ruolo politico cui era assegnato.


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