1. Pubblicato nella coda del biennio segnato dalla pandemia di Covid-19, il saggio di Mariano Croce e Andrea Salvatore effettua un intervento in presa diretta su una congiuntura in cui alcuni influenti intellettuali – Giorgio Agamben è stato forse il più enfatico in questo senso, ma non l’unico – hanno ritenuto che le autorità esistenti stessero usando strategicamente l’eccezione per trasformare “da cima a fondo i paradigmi del loro governo degli uomini e delle cose”, facendo leva sulla paura instillata nelle popolazioni (Agamben 2021). Dietro questa angosciosa denuncia si può cogliere l’eco di Carl Schmitt, il quale è rimasto, in modo solo in apparenza paradossale, un riferimento cruciale non solo per quanti di fronte alle crisi odierne hanno giustificato la necessità di implementare nuovi e sempre più pervasivi dispositivi di controllo, ma anche per chi ha criticato le politiche di stampo emergenziale come occasione per svuotare le libertà individuali e gli spazi di agibilità del dissenso. Per Croce e Salvatore la fallacia di queste posizioni può essere rilevata mettendo in luce le incongruenze dello Schmitt che negli anni Venti si era concentrato sulla diade di eccezione e decisione e giocando al tempo stesso contro queste categorie la prospettiva istituzionalista sviluppata dal giurista nelle fasi successive della sua riflessione. Che cos’è lo stato di eccezione? ha in questo senso un preciso intento polemico, essendo volto a mostrare che questo concetto è in realtà “troppo vischioso, subdolo, sommario, per rivelarsi di concreta utilità ai fini di un’analisi critica del presente” (Croce e Salvatore 2022a, 193); ma intende anche ribadire una proposta di lettura del pensiero schmittiano già delineata dai due autori in diverse pubblicazioni degli ultimi anni [1]. e – infine – avanzare una prospettiva di carattere filosofico-politico su come la gestione delle crisi possa essere regolata e vagliata in contesti costituzionali democratici, favorendo eventualmente un loro possibile rafforzamento.
Tenendo in parte sullo sfondo i problemi più strettamente legati all’esegesi di Schmitt, nelle pagine che seguono vorrei innanzitutto discutere le tesi fondamentali presentate in questo lavoro e la linea complessiva che esse mi sembrano delineare. Proverò in questo senso a mettere in risalto alcuni punti di forza – che intravedo soprattutto rispetto alla questione relativa all’utilità e ai danni del paradigma dell’eccezione per la comprensione delle crisi presenti – ma vorrei anche segnalare alcuni problemi che ritengo aperti, soprattutto in relazione al terzo dei versanti che ho indicato.
2. Non c’è dubbio che il XXI secolo si sia aperto nel segno di un brusco risveglio sull’imprevisto: amplificati dalla circolazione globale dell’informazione, gli attentati dell’11 settembre 2001 avevano scosso – come fu subito notato da Jacques Derrida – l’intero “apparato concettuale, semantico, ermeneutico” (Derrida 2003, 101) che in teoria avrebbe dovuto permettere di comprendere quell’evento e avevano aperto una fase segnata da minacce peggiori e indeterminate provenienti da “forze anonime, assolutamente imprevedibili e incalcolabili” (Derrida 2003, 106), che non avrebbero tardato a manifestarsi con i numerosi attacchi jihadisti sferrati in diverse parti del mondo negli anni successivi. Da questo trauma proiettato sull’avvenire e dai tentativi di adattare “alle rinnovate esigenze di una politica muscolare e guerresca” le Costituzioni liberaldemocratiche anche a costo di bypassarne principii, procedure e garanzie (Croce e Salvatore 2022a, 24) hanno preso le mosse i dibattiti che fanno da sfondo all’argomentazione proposta in questo volume.
All’indomani dell’attentato alle Twin Towers, della promulgazione del Patriot Act e dell’inizio della cosiddetta guerra al terrore, per mostrare i nessi che legherebbero il diritto all’anomia, alla violenza e alla cattura del vivente, Agamben aveva rintracciato l’archetipo dello stato di eccezione nello iustitium romano, in virtù del quale, di fronte a una situazione di tumultus, il funzionamento del diritto era sospeso al fine di consentire ai magistrati e al limite anche ai comuni cittadini di compiere ogni azione necessaria alla salvezza comune (Agamben 2003, 55 e ss.). In Che cos’è lo stato di eccezione? viene proposta una diversa ricognizione genealogica, incentrata sull’ambigua evoluzione della dittatura romana – in origine rigidamente disciplinata in quanto magistratura straordinaria ma funzionale alla salvaguardia della res publica, prima di essere utilizzata da Silla per realizzare nelle proprie mani una inedita concentrazione di potere – e sulla riflessione moderna su questo antico istituto, che Machiavelli e Montesquieu consideravano tutt’altro che dispotico e necessario a proteggere l’ordine della comunità politica in tempi di crisi, e che anche Rousseau vedeva come uno strumento di governo da integrare nella forma costituzionale dello Stato per ovviare quando necessario ai problemi derivanti dalla lentezza delle procedure legislative (Croce e Salvatore 2022a, 31 e ss.). Se nel caso di questi tre pensatori permaneva una distinzione netta fra tempi ordinari ed eccezionali, una prospettiva ancora diversa è rintracciabile nella “prerogativa regia” descritta da Locke, il quale attribuiva al sovrano – in quanto detentore del potere esecutivo – una capacità di azione discrezionale che tuttavia non era posta in discontinuità con il funzionamento normale dello Stato. Le potenziali frizioni tra la legislazione ordinaria e i provvedimenti particolari presi in virtù della prerogativa regia avrebbero infatti certamente reso necessario uno “scrutinio costante” e generato un “conflitto permanente e produttivo” interno al quadro liberale, senza tuttavia mai comportare una rottura drammatica della legalità (Croce e Salvatore 2022a, 41), per quanto ci si possa chiedere, leggendo il Secondo Trattato, se l’elemento dell’eccezionalità non rientri in gioco altrove, nel caso del diritto di resistenza e dell’appello al cielo che Croce e Salvatore qui non menzionano, così come curiosamente non viene citato il filone della ragion di Stato, che pure ha costituito un ambito decisamente fruttuoso per tracciare una genealogia delle contemporanee “democrazie dell’emergenza” (Arienzo e Borrelli 2011).
Questi riferimenti servono a mostrare che la teoria politica moderna è stata in grado di definire forme di azione emergenziale non coincidenti con il caso estremo dell’eccezione e che la risposta a sfide impreviste può essere effettuata in molti modi, potenzialmente controllabili e non per forza irrispettosi “delle forme e della sostanza della legge” (Croce e Salvatore 2022a, 42). Nel libro si riconosce tuttavia che lo scenario di inizio millennio sia potuto apparire assai meno tranquillizzante. Se infatti tra Otto e Novecento vi sono stati numerosi tentativi di includere anche le crisi più gravi – come le guerre o le sedizioni – tra le fattispecie previste dagli ordinamenti in modo da poterle circoscrivere e affrontare con strumenti comunque interni al quadro del diritto statale, gli ultimi due decenni hanno conosciuto “una sempre più intensa normalizzazione di misure eccezionali” (Croce e Salvatore 2022a, 46-47). Al di là dell’attenuazione delle garanzie nel campo della pubblica sicurezza e delle procedure penali prodotta nel contesto della lotta al terrorismo globale, la logica emergenziale è stata progressivamente estesa a eventi di natura molto varia, che vanno dalle crisi umanitarie a quelle economiche – l’esplosione delle bolle finanziarie e dei debiti sovrani nello scorso decennio ha rappresentato un vero e proprio laboratorio in questo senso –, dai conflitti militari ai disastri naturali e ambientali fino, appunto, al caso della pandemia. In tutti questi casi si è potuto assistere non solo a un accrescimento dell’azione discrezionale dei governi e all’implementazione di misure inedite, ma anche a una trasformazione più insidiosa: le opinioni pubbliche sono state abituate a vivere in tempi critici e spinte ad accettare decisioni che in altre circostanze avrebbero probabilmente incontrato maggiori resistenze proprio perché esse sono state di volta in volta presentate come necessarie a scongiurare pericoli straordinari. Ma nonostante tutto assimilare questi fenomeni a uno stato di eccezione continuo sarebbe per Croce e Salvatore un “paralogismo” fuorviante e pericoloso, dal momento che, oltre a precludere un’analisi più circostanziata ed effettiva delle dinamiche e dei rischi legati alla continuità tra una gestione emergenziale divenuta sempre più pervasiva e le forme ordinarie della politica, finirebbe anche per fare inconsapevolmente il gioco “di quei Governi autoritari che presentano le crisi come inevitabilmente bisognose di misure ‘eccezionali” (Croce e Salvatore 2022a, 43) e dunque di funzionare come una sorta di profezia che si auto-avvera.
3. Nel saggio vengono messe a fuoco due caratteristiche spesso enfatizzate dalle prospettive critiche che hanno insistito sul tema dell’eccezione. In primo luogo, quest’ultima è più di una semplice azione su crisi e imprevisti – che costituirebbero semmai il suo punto di innesco più o meno pretestuoso – nella misura in cui essa apre un “ambito di sperimentazione sociale” nel quale l’intero apparato delle regole giuridiche e le stesse “pratiche più diffuse e consolidate lungo le quali si snoda l’esistenza quotidiana” sarebbero stravolte e riplasmate con una rapidità e un’efficacia altrimenti impensabile (Croce e Salvatore 2022a, 60-61). A questo si aggiunge, come secondo aspetto, il fatto che in circostanze eccezionali “il disordine scorre come pretesto per soluzioni presentate come transitorie ma destinate, invero, alla lunga durata”, laddove invece le misure propriamente emergenziali sarebbero in teoria destinate a risolvere specifici problemi o fasi critiche per poi ripristinare norme e pratiche ordinarie. In questo modo “l’eccezione e la sua connaturata plasticità si fanno strumento à la carte per aprire spazi di azione politica che sfuggono alle lungaggini della politica rappresentativa” (Croce e Salvatore 2022a, 63) e per l’introduzione di nuovi assetti istituzionali e tecniche di intervento. Se questo aspetto “normopoietico” e “ingegneristico” è apparso a molti intellettuali come un tratto distintivo che permetterebbe di rivelare le degenerazioni autoritarie delle politiche emergenziali contemporanee, Che cos’è lo stato di eccezione? avanza di contro una tesi scettica a questo riguardo: le crisi, anche più intense, avvenute nel recente passato non sono state di per sé foriere di stappi giuridico-istituzionali o di alterazioni radicali del tessuto della vita sociale, e questo non perché siano mancati abusi, opacità e rischi, ma perché in realtà “la legislazione emergenziale è tutt’altro che un efficace strumento di costruzione della normalità” (Croce e Salvatore 2022a, 64-65).
Come si è anticipato all’inizio, l’ampio confronto filologico e analitico con i testi di Schmitt portato avanti nei capitoli centrali del libro è funzionale a dimostrare questa tesi. Lo Schmitt di Teologia politica, costantemente invocato “per dare consistenza e spessore concettuale al quadro teorico in cui si tende a convertire ogni emergenza in eccezione” (Croce e Salvatore 2022a, 65), è un pensatore che “accenna, allude, ammonisce, biasima, condanna, depreca, ma spiega poco, molto poco” (Croce e Salvatore 2022a, 97). Partendo da un intenso confronto con Weber e in un contesto segnato dagli sconvolgimenti del primo dopoguerra, il giurista di Plettenberg ha inquadrato l’eccezione come elemento che “eccede le capacità della scienza di dare una spiegazione razionale di determinati fenomeni”, per mostrare che “la politica non è più interamente riversabile in categorie giuridiche”, per prendere atto “dell’impossibilità di ricondurre la vita politica alle rassicuranti categorie moderne della statualità” (Croce e Salvatore 2022a, 72-73) e del fatto che l’ordine – sempre parziale – è infondato e comprensibile soltanto a partire dal disordine, in quanto effetto di una “decisione sorgiva” e autogiustificata (Croce e Salvatore 2022a, 83). La proposta di Teologia politica è in questo senso caratterizzata da una assoluta radicalità: ciò di cui Schmitt parla è senz’altro qualcosa di molto diverso dalle “più modeste concezioni delle emergenze cui guardano i teorici contemporanei che intravedono derive schmittiane nelle risposte degli esecutivi alle numerose crisi occorse negli ultimi due decenni” (Croce e Salvatore 2022a, 82), perché l’eccezione implica l’instaurazione di un ordine alternativo a quello che lo aveva preceduto e il sovrano, cioè chiunque sia in grado di decidere su di essa, compie qualcosa di analogo a un miracolo divino che sospende e cambia il corso della natura.
La capacità normopoietica e ingegneristica di riscrivere da zero i codici normativi vigenti in una comunità sembrerebbe qui davvero elevata alla massima potenza. Il problema è che l’analogia teologico-politica con Dio regge solo fino a un certo punto, dal momento che la politica è innanzitutto un campo di relazioni, di pratiche diffuse, di istituzioni sedimentate; in essa non è veramente pensabile qualcosa come una creazione dal nulla. Per poter avere successo, per poter dar vita a una nuova catena di comando e rideterminare ciò che fino a quel momento era stato invalso, l’azione eccezionale di un sovrano deve comunque essere in grado di radicarsi in un contesto, trovare riconoscimento e supporto da parte dei molteplici attori e apparati istituzionali e in ultima analisi della società nel suo insieme, ma in Teologia politica non viene mai chiarito come ciò possa avvenire e come l’evento immediato di una decisione possa esercitare di per sé “effetti tali da indurre intere popolazioni ad abbracciare una nuova forma di vita” (Croce e Salvatore 2022a, 100). Schmitt è assai efficace nel mostrare l’origine opaca, la contingenza e la potenziale fragilità che si cela dietro il volto ordinario e in apparenza pacificato del diritto e della politica, ma se è vero che “la coazione a realizzare un ordine formalmente analogo […] a quello pensato dai sistemi intellettuali tradizionali”, cioè strutturato “come unità attorno a un centro” (Galli 1996, 354), costituisce l’altro versante del suo pensiero, la prospettiva decisionista si rivela poco adatta a risolvere questo secondo problema, limitandosi a propugnare la necessità “di un esecutivo forte e svincolato dalle ridondanti zavorre del sistema partitico-rappresentativo” (Croce e Salvatore 2022a, 100).
Non è un caso che secondo Croce e Salvatore già negli scritti successivi del periodo weimariano, pur non potendo mai del tutto aggirare il problema dell’eccezione, Schmitt avrebbe cercato di relativizzarla, trattandola come “una fattispecie giuridica da circoscrivere, limitare e normare il più possibile”, proprio perché potenzialmente portatrice di destabilizzazione e disordine (Croce e Salvatore 2022a, 120). Il giurista si sarebbe infine congedato “da ogni velleità rabdomantica in merito a fantomatiche dimensioni aurorali e misteriosamente sorgive” (Croce e Salvatore 2022a, 141) legate a questo concetto, abbracciando l’istituzionalismo. Si tratta certo di una adesione sui generis, dal momento che “il diritto – in ottica istituzionalista – è essenzialmente auto-organizzazione dal basso” (Croce e Salvatore 2022a, 147), mentre per Schmitt l’organizzazione può essere anima del diritto solo “allorché accompagnata, sorretta, indirizzata”, altrimenti è “destinata a implodere per insopprimibili conflitti intestini” (Croce e Salvatore 2022a, 149) o a sfociare in un pluralismo sociale e politico ai suoi occhi inaccettabile. Egli non va mai insomma oltre la propria “concezione negativa dell’esserci politico, né oltre la coazione all’unità” (Galli 2022, 35) e dunque ci si può chiedere se davvero su questo aspetto vi sia una discontinuità così marcata nel suo percorso teorico. Come infatti viene ammesso anche in questo libro, quello che emerge in questa fase è comunque un “istituzionalismo decisionistico”, in base al quale la tenuta dell’ordine non può essere assicurata se non escludendo alcuni modelli di vita che emergono nella società per tutelarne e implementarne altri. Il punto è che a cambiare sarebbe lo sfondo della decisione: alla “dialettica di normalità ed eccezione” Schmitt sostituisce ora “un’alternativa tra normalità e anormalità” (Croce e Salvatore 2022a, 150), che garantirebbe meglio la possibilità di produrre una comunità coesa, “imperniata su una serie selezionatissima e trincerata di modelli di vita, capaci di opporre una reazione plastica (e quanto più mansueta) persino alle emergenze più severe” (Croce e Salvatore 2022a, 198).
Il suggerimento che sembra provenire da questa lettura dei testi schmittiani è che il vero punto critico non andrebbe rintracciato in un fantomatico stato di eccezione trasformato in tecnica permanente di governo, ma nel modo in cui viene costruita la normalità e la normalizzazione della vita sociale. Più che le legislazioni emergenziali di per sé, per Croce e Salvatore a dover essere considerati con sospetto sono “gli interventi di politica amministrativa che fanno ricorso a specifiche, e tendenzialmente univoche, concezioni della vita, dei valori e dei beni fondamentali” (Croce e Salvatore 2022a, 165). Quanto più di fronte alle crisi viene proposto di stringere le comunità intorno a principi sostantivi e non passibili di critica – è il caso per i due autori delle proposte “neoschmittiane” del giurista americano Adrian Vermeule, secondo il quale le difficoltà di gestione della pandemia sarebbero dovute al prevalere di concezioni individualistiche e libertarie su un’idea complessiva di bene comune, che andrebbe invece tutelata costituzionalmente – oppure le misure intraprese finiscono per estendersi ad ambiti diversi rispetto a quelli interessati da una crisi, tanto più diviene alto il rischio di un “mutamento non reversibile” degli assetti ordinamentali e dei regimi sociali. È questa un’indicazione di metodo in larga parte condivisibile.
Va notato, a complemento di quanto detto in questo libro, che la retorica emergenziale è stata largamente usata – in rapporto a una varietà di casi che può andare dai movimenti migratori a questioni di crimine, sicurezza e decoro urbano, dall’esplosione dei debiti pubblici alle pratiche di lotta sociale, dai rave parties alla realizzazione di infrastrutture e grandi eventi, dalla pirateria informatica alla diffusione di fake news e discorsi ostili, solo per fare un elenco parziale – per imporre misure volte al disciplinamento e alla differenziazione di soggetti, comportamenti e spazi di vita, senza per forza utilizzare strumenti o procedure eccezionali ma anche senza far necessariamente riferimento a una morale comunitaria o a scelte univoche di valori. In molti casi la tendenza è stata quella di rispondere a percezioni di insicurezza presentate come diffuse, di attuare istanze indicate come tecniche e neutrali, di facilitare strategie neoliberali di ristrutturazione economica e sociale o reagire a contestazioni e problemi sempre più acuti di governabilità delle dinamiche sistemiche; mentre, all’opposto, anche per imporre dal basso determinati temi nel dibattito pubblico risulta oggi difficile sfuggire a un lessico emergenziale, e qui si potrebbero menzionare esempi come la violenza di genere, le morti sul lavoro o le conseguenze dei cambiamenti climatici – ma anche le misure di tutela della salute pubblica in fase pandemica nei paesi occidentali sono state largamente caldeggiate da lavoratori e lavoratrici, laddove associazioni imprenditoriali, governi e una parte cospicua delle forze politiche parlavano di libertà e di una normalità che non doveva fermarsi. Molto dipende ovviamente da come e da chi viene definita l’urgenza di un problema e da quali effetti di potere produce la sua soluzione.
4. Dal momento che il passaggio da una crisi all’eccezione non è inevitabile e non dipende da un singolo fattore, Croce e Salvatore ritengono che sia necessario un approccio contestuale più che un’interpretazione basata su criteri generali:
non si può asserire che un’emergenza stia tracimando in un’eccezione […] senza un’analisi dei poteri e delle tecniche con cui, in una specifica condizione geo-storica, un mutevole insieme di processi perimetra il contesto al fine di tradurre specifiche congiunture in nuovi assetti di vita sociale – pena sostenere che un certificato vaccinale sia la porta d’ingresso per una distopia collettiva (Croce e Salvatore 2022a, 167).
Laddove le critiche di stampo eccezionalista à la Agamben sembrano presupporre ex ante l’esistenza di un progetto di ridefinizione dei canoni di governo delle vite e su questa base finiscono per vedere in ogni misura adottata per affrontare una crisi la conferma del loro assunto, secondo i due autori il giudizio sul presente andrebbe dunque definito ex post, guardando ai processi nella loro complessità, considerando empiricamente le forze in campo – e la loro effettiva intenzione o capacità di determinare un mutamento complessivo degli assetti sociali – e soprattutto la specificità delle emergenze, delle risposte che queste hanno incontrato e degli attori istituzionali e non che sono stati di volta in volta coinvolti. Nel penultimo capitolo di Che cos’è lo stato di eccezione viene in questo senso ampiamente valorizzata l’analisi di Tom Ginsburg e Mila Versteeg, che hanno invitato a valutare le crisi contemporanee in modo differenziato, dal momento che i modi di gestione e anche i rischi implicati sono stati diversi nel caso delle crisi di sicurezza nazionale e globale, delle crisi finanziarie o di quelle legate ai disastri naturali o alle pandemie. Se infatti nelle prime molto è stato determinato dalle autorità esecutive e la condivisione pubblica delle informazioni è stata per forza di cose scarsa, e nelle seconde la soluzione è stata di fatto appaltata a competenze di tipo tecnico, nel caso della pandemia in particolare vi sarebbe stata una diffusione delle informazioni molto più ampia, sarebbe stato coinvolto un numero molto largo di attori e il range delle risposte sarebbe stato molto più variegato nei diversi contesti e – in molti paesi – non privo di controlli da parte dell’opinione pubblica, dei Parlamenti e dei poteri giurisdizionali. La conclusione è, ancora una volta, che l’emergenza non è necessariamente “una sperimentazione sociale su larga scala, non è l’innesco di un apparato di cattura, non è il nodo scorsoio che tende la corda, diafana ma indistruttibile, di un assoggettamento comunitario” (Croce e Salvatore 2022a, 198), né il ricorso a misure emergenziali costituisce di per sé un “rito opaco che segna la degenerazione delle democrazie liberali in autoritarismi” (Croce e Salvatore 2022a, 179), anche se può presentare dei rischi in tal senso, proprio perché diversi sarebbero i modi di gestirla e diverse le forme di vigilanza che possono essere messe in campo. Occorre insomma “saper distinguere le circostanze in cui l’emergenza innesca processi di contestazione democratica, di vaglio giurisdizionale, di impegno delle associazioni della società civile, da quelle in cui si registra una degenerazione delle modalità di gestione democratiche” (Croce e Salvatore 2022a, 189), perché nel primo caso l’emergere di una crisi può anche fungere da stimolo per un dibattito volto a migliorare l’esistente attraverso
la revisione concertata dei vecchi istituti e l’introduzione ponderata di nuovi grazie allo sforzo collettivo di adattarsi con consapevolezza e misura alle trasformazioni di una realtà che sempre più di frequente riesce ad aggirare qualsiasi tentativo di previsione (Croce e Salvatore 2022a, 199).
Si può tuttavia affermare, una volta giunti al termine della lettura, che se gli argomenti di Croce e Salvatore sono sicuramente efficaci nel gettare dubbi sulle effettive capacità normopoietiche e ingegneristiche che molti attribuiscono a uno stato di eccezione reso paradigmatico, mentre quella che andrebbe esplorata nei suoi chiaroscuri e nelle sue molteplici e molto spesso imprevedibili contingenze è la normalità, la proposta avanzata in questo libro non sembra andare molto oltre questa cautela post-critica e l’auspicio che una più informata comprensione e una gestione più partecipata delle emergenze possa aiutare a esporre ed eventualmente risolvere le debolezze di un sistema. Andrebbe senza dubbio indagato più approfonditamente quanto, nel corso degli ultimi decenni, le diverse crisi che i due autori invitano a considerare nella loro specificità più che nelle loro relazioni, si siano intrecciate. È infatti arduo sfuggire all’impressione che allo stato attuale il governo delle società richieda continui interventi emergenziali anche se, diversamente dall’eccezione schmittiana, questi non sembrano capaci di produrre alcuna reale stabilizzazione. In questo contesto va detto che l’emergenza appare come “il modo di presentarsi dell’ordine neoliberista” e “la norma della sua interna mobilità” (Galli 2020, 54) e in questo senso tra le crisi internazionali dei primi anni 2000, il susseguirsi di shock finanziari e monetari, la gestione della pandemia – rispetto alla quale occorre guardare non soltanto alle misure più o meno securitarie prese dagli Stati, ma anche al modo in cui essa ha impattato sulle dinamiche globali di produzione del valore, al ruolo giocato dalle esigenze economiche, alle posizioni occupate dai diversi soggetti – e infine, più recentemente, la presenza costante della guerra e delle tensioni geopolitiche, di cui in questo libro non si poteva tenere ancora conto, sono certamente entrate in gioco dinamiche eterogenee, ma sono anche stati innescati poderosi processi materiali di ristrutturazione delle società e dei rapporti di potere. Vale allora la pena di chiedersi se sia davvero possibile rinunciare a una prospettiva globale che, seppur in modo realisticamente attento alla complessità, guardi al presente per portare alla luce contraddizioni, crepe e conflitti; e – pur volendo giustamente dismettere i timori circa un ipotetico progetto di “Grande trasformazione” dietro il quale si celerebbero i fantasmi dell’eccezione, della decisione e in ultima analisi di una opaca sovranità – è altresì necessario domandarsi se in questa caotica fase le coordinate del paradigma costituzionale e liberaldemocratico possano ancora essere semplicemente considerate come una norma, come sembrano assumere gli autori di questo libro, o se non siano state esse stesse profondamente investite da queste crisi.
Bibliografia
- Agamben, Giorgio. 2003. Stato di eccezione. Homo sacer II,1. Torino: Bollati Boringhieri.
- –, 2021. A che punto siamo? L’epidemia come politica. Nuova ed. accresciuta. Macerata: Quodlibet.
- Arienzo, Alessandro e Gianfranco Borrelli. 2011. Emergenze democratiche: ragion di Stato, governance, gouvernamentalité. Napoli: Giannini Editore.
- Croce, Mariano. 2017a. “Emergence vs. Emergency. Governing the Boundary between the Exceptional and the Normal.” Ragion pratica, Rivista semestrale 1: 95-116. https://doi.org/10.1415/86439.
- –, 2017b. “The Enemy as the Unthinkable: A Concretist Reading of Carl Schmitt’s Conception of the Political.” History of European Ideas 43 (8): 1016-1028. https://doi.org/10.1080/01916599.2017.1285099.
- –, 2017c. “What to Make of the Exception? A Three-Stage Route to Schmitt’s Institutionalism.” Diritto e questioni pubbliche 17 (2): 37-55.
- –, e Andrea Salvatore. 2013. The Legal Theory of Carl Schmitt. New York: Routledge.
- –, e Andrea Salvatore. 2016a. “After Exception: Carl Schmitt’s Legal Institutionalism and the Repudiation of Exceptionalism.” Ratio Juris 29: 410-426. https://doi.org/10.1111/raju.12119.
- –, e Andrea Salvatore. 2016b. “Why Does the Law Want Us to Be Normal? Schmitt’s Institutionalism and the Critique of the Liberal Legal Order.” Cultural Critique 93: 32-58. https://doi.org/10.5749/culturalcritique.93.2016.0032.
- –, e Andrea Salvatore. 2020. L’indecisionista. Carl Schmitt oltre l’eccezione. Macerata: Quodlibet.
- –, e Andrea Salvatore. 2021. “Little Room for Exceptions: On Misunderstanding Carl Schmitt.” History of European Ideas 47 (7): 1169-1183. https://doi.org/10.1080/01916599.2021.1894593.
- –, e Andrea Salvatore. 2022a. Che cos’è lo stato di eccezione. Roma: Nottetempo.
- –, e Andrea Salvatore. 2022b. Carl Schmitt’s Institutional Theory The Political Power of Normality. Cambridge: Cambridge University Press.
- Derrida, Jacques. 2003. “Auto-immunità, suicidi reali e simbolici. Un dialogo con Jacques Derrida.” In Giovanna Borradori, Filosofia del terrore. Dialoghi con J. Habermas e J. Derrida, 93-145. Roma-Bari: Laterza.
- Galli, Carlo. 1996. Genealogia della politica: Carl Schmitt e la crisi del pensiero politico moderno. Bologna: il Mulino.
- –, 2020. “Le forme della critica.” In Forme della critica: saggi di filosofia politica, 15-56. Bologna: il Mulino.
- –, 2022. “Teologia politica: estremismo e pensiero dell’origine.” In Teologia politica cent’anni dopo, a cura di Mariano Croce e Andrea Salvatore, 19-36. Macerata: Quodlibet.
- Salvatore, Andrea. 2018. “Normalità e prassi giudiziale. Per una rilettura delle opere giovanili di Carl Schmitt (1910-1914).” Politica & Società 7 (1): 131-152. https://doi.org/10.4476/89794.
- –, 2020. Carl Schmitt: eccezione, decisione, politico, ordine concreto, nomos. Roma: Derive Approdi.
Note
1. Tra questi si vedano Croce e Salvatore 2013; Croce e Salvatore 2016a; Croce e Salvatore 2016b; Croce 2017a; Croce 2017b; Croce 2017c; Salvatore 2018; Croce e Salvatore 2020; Salvatore 2020; Croce e Salvatore 2021; Croce e Salvatore 2022b.