Storicamente. Laboratorio di storia

Dossier

La «doppia voce» di Brian Harley. Immagine e potere nella storia della cartografia

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M. Pelet se distingue heureusement de la plupart des cartographes, surtout de ceux qui s’occupent des régions coloniales : il traite avec le même souci […] les territoires dits «étrangers» et ceux qui les Français revendiquent en maîtres. Il a respect de la Terre sous quelque drapeau qu’elle soit ombragée.
É. Reclus, Atlas des Colonies Françaises, dressée par Paul Pelet, «La Revue», 47 (1903), 648.

Geografia e critica della ragione cartografica

Gli scritti di Brian Harley usciti nella raccolta postuma The New Nature of Maps[1] hanno acceso un ricco dibattito sulla storia e la funzione della carta geografica e dei suoi rapporti con la geografia in generale.
Una riflessione critica che era del resto già all’ordine del giorno nel lavoro dei geografi. Che hanno letto criticamente la carta ma ne hanno riconosciuto l’importanza di potente dispositivo epistemologico, alla base del pensiero occidentale e del suo modo non solo di conoscere il mondo, ma anche di dominarlo. Come ha scritto Franco Farinelli
Ogni carta è innanzitutto un progetto sul mondo, come l’ambivalenza del vocabolo anglosassone plan ancora certifica, e il progetto di ogni carta è quello di trasformare –giocando d’anticipo, cioè precedendo- la faccia della terra a propria immagine e somiglianza[2].

Rifacendosi del resto a quella riflessione partita nel XIX secolo, in particolare dalla lezione di Carl Ritter, che si riproponeva la fondazione disciplinare della geografia come la scienza che indaga la complessità del rapporto dialettico dell’uomo e della natura sulla superficie del globo. Interazione la cui natura dinamica e tridimensionale sfugge alla ragione cartografica, che è per sua natura bidimensionale ed immobile.

Les cartes, même les meilleures, sont à l’étude de la géographie générale comparée, ce que les préparations anatomiques sont à la physiologie (…) Si le géographe voulait se servir de son amas de cartes comme des sources premières pour démontrer sa science, et c’est ce qu’on a déjà fait dans tant des systèmes géographiques, il tomberait dans une aberration aussi grande que le physiologiste qui chercherait l’état vivant du cœur, l’essence et la cause de la vie, dans l’anatomie d’un cadavre, lorsqu’il n’a en son pouvoir que l’image rapetissée et défigurée d’un corps privé de vie[3].

La geografia di Ritter porterà dunque i suoi allievi a concepire opere di studio e interpretazione del globo basate su un metodo che supera i limiti del dettato cartografico. Fra gli altri Élisée Reclus, che sarà autore non solo della Nouvelle Géographie Universelle, ma di una serie di tentativi di superare la proiezione bidimensionale con la costruzione di globi e rilievi.
La critica della carta è poi tornata al centro del dibattito con la cosiddetta «geografia radicale» degli anni ’70 del ‘900, quando è stato rimesso in discussione tutto l’impianto epistemologico della disciplina. Fra l’altro si è denunciato l’utilizzo della geografia e delle carte da parte del potere politico, in particolare il monopolio della produzione cartografica da parte degli apparati militari.
In questo periodo alcune riviste americane ed europee hanno fatto scuola, fra queste citiamo «Antipode», alla quale hanno fatto riferimento autorevoli esponenti della geografia degli ultimi decenni, da James Blaut a David Harvey.
Negli ultimi 15 anni altri geografi americani, il cui ambito è generalmente definito Critical GIS, hanno sviluppato un dibattito critico sull’utilizzo e sulla diffusione di questa tecnologia, i Sistemi Informativi Geografici. Tale dibattito ha recentemente rivoluzionato l’ambiente della cartografia tradizionale, anche perché questa tecnologia non è finalizzata alla semplice rappresentazione, ma consente operazioni complesse di gestione e manipolazione di dati spaziali di ogni genere.
Proprio negli USA, alcuni esponenti della geografia radicale, della geografia femminista e in generale tutti coloro che avevano faticosamente lottato contro il predominio della cosiddetta «geografia quantitativa», hanno accolto questa novità con una certa diffidenza, aprendo un dibattito che è tuttora in corso, anche se più nel senso di dare nuovi contenuti a questa tecnologia che di negarla tout court.
In un recente testo di Nadine Schuurman si analizzano le principali critiche rivolte dai geografi al GIS riguardo alla carenza di dibattito epistemologico nel suo ambiente, alla sua natura quantitativa poco adatta agli studi sociali ed umani, alla sua funzione di supporto della guerra e del controllo sociale. Dunque un altro strumento legato al potere. L’elenco che segue riassume gli argomenti dei loro articoli dal 1990 al 2001.

Pre 1993 papers (…) Based on data rather than information; subject to naive empiricism; a positivist technology that assumes the possibility of objectivity; complicity in warfare; based on a Cartesian framework incapable of describing human geography or natural phenomena.
1995 publications: Ground Truth (Pickles, ed.) Special issue of Cartography and GIS (Sheppard, ed.) A masculine technology; part of a cybernetic grid of control; a marketing tool; epistemological inertia; (…) limitations of visualization; need to make the technology accessible.
1995–1999 (…) Lack of attention to epistemologies and ontologies; failure to accommodate marginalized voices; a means of greater surveillance[4].

Un dibattito che deve qualcosa anche all’autore di cui ci occupiamo qui, visto che la più nota pubblicazione collettiva dei geografi che si riconoscono in questa discussione, Ground Truth del 1995, viene in qualche modo ispirata proprio da Brian Harley.

Ground Truth was conceived during a conversation with Brian Harley at the Annual Meeting of the Association of American Geographers in Miami in 1991. It had its roots in our respective earlier work on deconstructive and genealogical readings of what Brian saw has the hidden and embedded assumption of maps and  what I saw as the discursive and disciplinary dispositifs of GIS[5].

Brian Harley: il potere nella storia della cartografia

L’opera per la quale Brian Harley (1932-1991) è principalmente conosciuto, The History of Cartography, curata assieme a David Woodward, rappresenta un passaggio obbligato per chiunque si occupi della materia. Si tratta difatti di un lavoro fondante nell’ambito degli studi storico-cartografici per la rottura che esso propone rispetto agli schemi tradizionali. Come sostiene lo stesso Harley, negli anni Sessanta alcuni geografi ancora paragonavano la storia della cartografia alla filatelia, tanta era la sua tendenza all’enumerazione acritica di “pezzi” più o meno pregiati.
L’idea di Harley e Woodward di studiare un corpus di rappresentazioni a partire dalla preistoria e dalla protostoria, dunque precedenti la scrittura e comunque non codificabili secondo precisi concetti geometrici, aveva creato non poche polemiche, come anche l’idea di studiare le carte come un linguaggio. «Les mêmes critiques souhaitaient limiter le sens du mot -carte- aux représentations produites par un confection de cartes géographiques fondé sur la mesure. Brian Harley récusait totalement cette idée»[6]. Questa visione per Harley e Woodward non era altro che una sola, e  storicamente definita, idea della carta fra le altre: nello specifico quella della modernità, basata su misurazioni geometriche, sull’inquadramento in un reticolato geografico, una scala lineare ed una proiezione.
Un altro aspetto innovativo di quest’opera era il tentativo di considerare non solo la cartografia europea, ma anche le diverse rappresentazioni dello spazio prodotte da altre culture. Dunque c’è la rottura con il modello eurocentrico tradizionale, funzionale alle esigenze politiche degli Stati del Vecchio Continente. A ciò si aggiunge una idea molto ampia della definizione di “carta”.
Harley cita spesso come esempio quanto dichiarato da Mercatore nel testo del suo celebre atlante del 1595, dove si magnifica il progresso della «Madre Europa» contrapposto alla «barbarie» che invadeva il resto del pianeta.
Ma gli scritti dello studioso inglese che hanno acceso maggiormente il dibattito sono quelli usciti nel citato The New Nature of maps, comparso solo nel 2001, ad un decennio dalla prematura scomparsa dell’autore, che negli ultimi anni si era trasferito dall’Inghilterra agli Stati Uniti per ricoprire una cattedra all’Università del Wisconsin.
Secondo un’annotazione ironica di Bailly e Gould, nella sua critica della cartografia come strumento del potere e segnatamente come strumento militare ci sarebbe anche un innesto biografico: i due anni di servizio di leva che Harley aveva svolto fra 1950 e 1952, «contribuant probablement aussi à accélérer le déclin de l’Empire britannique»[7].
In generale, se la critica anche radicale della carta in geografia non è affatto una novità, il contributo di Harley è importante perché viene proprio da uno studioso della cartografia storica e si applica allo studio diretto dei documenti. Proponendosi anche come punto di riferimento metodologico per le ricerche successive in questo ambito.

Quale «obiettività»?

Dal punto di vista concettuale si parte dalla critica di una idea positivista alla storia della cartografia, che ne delineerebbe un percorso lineare col progredire della “perfezione tecnica”. Ma per Harley, e questo è forse il principale collegamento fra la sua storia della cartografia e The New Nature of maps, la carta non è “specchio” del mondo, ma prodotto della storia sociale, e in quanto tale necessita di essere studiata proprio in quel contesto.
Arrivando a porsi il problema del potere come spiegazione, come logica interna della carta, con una analisi basata sulle sue competenze di storico molto documentato, Harley cerca di riempire quel vuoto che c’è dietro le carte.
Maps cease to be understood primary as inert records of morphological landscapes or passive reflections of the word of objects, but are regarded as refracted images contributing to dialogue in a socially constructed world (…) Maps are never value-free images; except in the narrowest Euclidean sense they are not in themselves either true or false[8].

I tre punti di partenza sono: la lettura della carta come un linguaggio che in quanto tale ha una propria costruzione di significato e di ruolo sociale; come una iconologia leggibile su più livelli di significazione secondo quanto dimostrato dall’insegnamento di Panofski[9]; come un prodotto anche interpretabile attraverso la sociologia del sapere di Foucault, dunque con un diretto collegamento fra potere e  conoscenza. «Whether a map is produced under the banner of cartographic science or whether it is an overt propaganda exercise, it cannot escape involvement in the processes by which power is deployed»[10].
A questo proposito Harley ritiene che la funzione delle carte ricada nella categoria foucaultiana degli atti di controllo, con riferimento in particolare alla guerra, alla sorveglianza delle frontiere ed al mantenimento dell’ordine pubblico. In questo senso le carte sono un’invenzione per il controllo dello spazio, sono uno strumento del potere dello Stato.
Data però la loro pretesa obiettività scientifica, le carte sono anche il sapere di un potere dissimulato, e mancano gli strumenti concettuali per decifrare questo aspetto, visto che l’analisi che se ne fa è di solito tecnica. Harley dunque deve costruirseli, e lo fa a considerando queste tre angolazioni.

The universality of political contexts in the history of mapping; the way in which the exercise of power structures the context of maps; and how cartographic communication at a symbolic level can reinforce that exercise through map knowledge[11].

Ciò accade fin dall’antichità, come emerge dagli studi sul Mediterraneo antico, l’Islam e la stessa Europa della prima modernità. Quella dell’espansione europea  e delle grandi scoperte geografiche, della quale però Harley sottolinea il risvolto della medaglia. Seguendo peraltro il filo di un percorso di ricerca e di interpretazione già consolidato.
Stiamo parlando della critica dell’imperialismo, che Harley in questo caso collega esplicitamente all’ambito scientifico della storia della cartografia. «As much as gun and warship, maps have been the weapons of imperialism»[12].
I cartografi marciavano al fianco degli eserciti conquistatori non solo per un motivo funzionale di delimitazione dei confini e successivo controllo del territorio, ma anche perché nell’immaginario collettivo, secondo Harley, la carta legittimava il potere e la grandezza dell’Impero esattamente come i trattati, i discorsi retorici e le canzoni patriottiche.
La strutturazione “euclidea” dello  spazio mondiale, finalizzata al suo dominio da parte degli europei, è stata favorita dalla stessa riscoperta della Geografia di Tolomeo, e della sua griglia di coordinate basate su meridiani e paralleli, nel XV secolo, quando l’Umanesimo ha permesso il recupero dei testi del geografo di Alessandria, considerato anche l’inventore dell’idea di “proiezione”, fondata sulla trasposizione nel piano del globo.
L’applicazione di questo modello alle politiche imperialistiche ha proseguito almeno fino al XIX secolo, con la spartizione geometrica dell’Africa fra le potenze coloniali, e in alcuni casi fino al XX: si cita l’esempio della divisione dell’India inglese nel 1947, quando abbiamo potuto constatare «how the stroke of a pen across a map could determine the lives and deaths of millions of people»[13].
È poi con lo Stato nazione che si arriva al rapporto più stretto fra potere statale e logica cartografica. Ciò avviene con l’imposizione del monopolio statale e militare sulla produzione di specifici modelli cartografici e di alcune tipologie di informazioni geografiche. Tuttora,  ad esempio, le foto aeree di zone militari non sono accessibili al pubblico e agli studiosi. Le carte militari, per Harley, non solo facilitano la conduzione della guerra, ma «also palliate the sense of guilt which arises from its conduct: the silent lines of the paper landscape foster the notion of socially empty space»[14].
Allo stesso modo, le carte catastali, a partire dagli agrimensores romani, sono servite alla difesa e alla definizione della proprietà privata, come in epoca moderna sono state veicolo e strumento della penetrazione del capitalismo nelle campagne. Bisogna poi sbarazzarsi, per Harley, dell’idea della carta come di un qualcosa di oggettivo, concezione ben radicata nella nostra “mitologia culturale”, per considerare che essa è sempre frutto di una finzione controllata, le cui finalità non sempre ci vengono rese esplicite. Le distorsioni deliberate fin dalle carte della prima modernità hanno per Harley una funzione propagandistica e prettamente geopolitica. Le carte di propaganda del regime nazista non ne sono che uno degli esempi più recenti.

By adapting individual projections, by manipulating scale, by over-enlarging or moving signs or typography, or by using emotive colours, makers of propaganda maps have generally been the advocates of a one-sided view of geographical relationship[15].

Un esempio ne sono le esagerate dimensioni che in certe proiezioni assumono i Paesi europei, o il loro posizionamento al “centro” del mondo.
Ma la carta svolge una funzione ideologica non solo in quello che dice: parlano anche le sue omissioni, come nel caso dei topografi inglesi che nelle carte della campagna irlandese del XVIII secolo escludevano le case di proprietà degli irlandesi medesimi. O di quelle carte urbane che segnavano solo le vie principali a scapito dei vicoli abitati dai poveri. Perché nelle carte esiste una gerarchia, ad esempio delle principali città e piazzaforti, che sono suscettibili di cambiare con il risultato o l’altro di una guerra. «But if map signs sometimes reacted to changing religious circumstances they also tended to favor the status quo, legitimizing the hierarchies established on earlier maps. They were a socially conservative vocabulary»[16].

Le carte sono un simbolo del potere. Da sempre re e generali vengono raffigurati assieme ad una carta o a un globo, come a volte tuttora capi di stato contemporanei. Harley individua a questo proposito una ideologia anche nella decorazione che fino al XVIII secolo è stata sempre presente dentro o a margine dei prodotti cartografici.  Considerare tali decorazioni solo un abbellimento secondario, per Harley è improponibile: esse sono a tutti gli effetti elementi costitutivi del messaggio politico della carta. Emblemi reali, blasoni o archi di trionfo, simboli di proprietà, fino ad esplicite rappresentazioni della gerarchia terrestre come il fregio introduttivo del Theatrum Orbis Terrarum di Ortelius, dove l’Europa è seduta come una regina a dominare gli altri continenti.
Inutile poi sottolineare il significato politico, che per Harley prelude al colonialismo,  di tutte quelle carte dell’Africa ai cui margini sono ritratti i suoi abitanti secondo gli stereotipi della raffigurazione del “selvaggio” o del “barbaro”.
Ma anche senza simboli la carta in sé ha sempre un significato ideologico. Come la carta catastale riflette la proprietà fondiaria, quella politica esprime in sé il concetto dello Stato-nazione. Dunque una ideologia che deve essere di volta in volta letta, anche se dato che le carte vengono prodotte dagli Stati e da coloro che hanno sufficienti mezzi per editarle, di questa ideologia si può già indicare il segno generale. «The ideological arrows have tended to fly largely in one direction, from the powerful to the weaker in society»[17]. A differenza di altre forme espressive, la storia sociale delle carte raramente registra un loro utilizzo popolare o sovversivo: esse sono principalmente il linguaggio del potere.

Decostruire la carta

Harley propone dunque come strumento di indagine la decostruzione della carta per demistificarla e rompere la pretesa di oggettività e atemporalità del prodotto cartografico. La decostruzione vuole superare la credenza di oggettività ed il vuoto concettuale ed epistemologico degli ambienti anche accademici della cartografia, che per Harley procedono ancora con abbondanti “paraocchi” rispetto alla realtà sociale.
Harley lo fa sulla scorta di Foucault nella definizione delle regole, e di Derrida nella dimensione retorica. Le regole sono storicamente e culturalmente definite: a partire dal XVII secolo hanno cominciato, segnatamente in Europa, a definirsi standard geometrici e «oggettivi», sui quali poi a partire dal XIX secolo hanno vigilato appositi organi istituzionali. Con anche precisi meccanismi di esclusione di tutto quello che non segue le stesse regole geometriche e dunque, “non è carta”, con una serie di valutazioni fatte dai cartografi mainstream, ancora negli anni ’80 del XX secolo, con l’utilizzo disinvolto di categorie come “vero” e “falso”, “oggettivo” e “soggettivo”.
«In Foucault’s sense the rules may enable us to define an episteme and to trace an archaeology of that knowledge through time»[18]. In altri termini, la cartografia si spiega  si risolve in primo luogo con le sue regole,  perché saranno esse a venire in ultima istanza rappresentate. Regole tecniche, che derivano da una struttura politica e dal relativo modo di pensare.
Poiché la decostruzione in sé non può darci tutti i contenuti di un documento allo studio, è ancora più importante che la carta venga letta come un testo il cui  linguaggio è da comprendere perché con esso si può anche e soprattutto mistificare: la funzione retorica, appunto.
Questo si può fare in un testo, sulla scorta di Derrida, cercandone le contraddizioni, osservandone i dettagli marginali, le note a piè di pagina le metafore occasionali, come Harley ha fatto con le «decorazioni», dandone una lettura metatestuale,  di testo nel testo. Lettura questa che come tutti i livelli testuali ha un valore metaforico: nel caso della cartografia topografica contemporanea contiene i propositi della filosofia utilitarista. Come i testi essa contribuisce ad influenzare la realtà sociale: la retorica può essere celata, ma esiste tanto nel ritratto del re su una carta del XVII secolo, quanto nelle tabelle di conversione delle coordinate di una carta topografica attuale.
Il potere della carta diventa quindi un concetto universale, come se si citasse un concetto tipo “il potere della parola”, proprio per la sua capacità di costruire un potere su qualcosa o qualcuno. «Maps are authoritarian images […] in either case the map is never neutral. Where it seems to be neutral is he sly –rhetoric of neutrality- that is trying to persuade us»[19].
Fra gli esempi, una parte consistente della critica harleiana si applica storicamente a quelle che sono state, , le immagini del Nuovo Mondo elaborate dagli Europei. A partire dall’inizio: dalle carte del periodo di Cristoforo Colombo, quando la carta anticipa la conquista, e permette di immaginarla secondo un dispositivo scientifico. Che è anche diplomatico: il trattato di Tordesillas siglato nel 1494 fra la Spagna e il Portogallo con l’avvallo pontificio, traccia una vera e propria linea geodetica, un meridiano, che divide integralmente il nuovo mondo fra i suoi nuovi padroni prima ancora che le sue terre vengano da questi esplorate ed occupate.
Un percorso anche favorito dagli scambi fra cultura europea e cultura indigena, nella quale erano già presenti, presso alcuni popoli dell’America centrale, elementi cartografici. Soprattutto nel livello cosmologico, caratterizzato da una autonoma elaborazione di concetti spaziali, che aiuta peraltro gli Europei nella ricerca delle vie di penetrazione. «Il devient alors clair qu’en 1492, la cartographie n’était nullement étrangère aux cultures de l’Amérique centrale ou de l’Amérique du Nord»[20].
Una sapere cartografico nascosto, molto poco documentato anche perchè i cartografi europei, secondo Harley, hanno utilizzato queste informazioni celandone le fonti. E senza queste notizie fare succedere al semplice disegno della linea di costa la ricostruzione degli spazi nell’entroterra sarebbe stato molto più lungo.
E a riprova della natura strategica della carta, si afferma che quando le popolazioni indigene che conducevano una resistenza più o meno aperta contro i conquistatori presero coscienza proprio di questo fatto, cominciarono ad essere molto più reticenti proprio nel fornire loro informazioni di carattere geografico.
Si ripropone qui anche il metodo harleiano applicato alla cartografia precolombiana, simile a quello con cui viene studiata la cartografia antica e pregeometrica nel Vecchio Mondo, mentre fino a quel momento solo la cartografia europea moderna era  stata considerata degna di uno studio dal punto di vista tecnico, quella indigena solo sotto l’aspetto etnografico ed antropologico.
Delle carte europee mai come fra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo è evidente la natura geopolitica. I territori appena scoperti sono disseminati di bandiere e blasoni dei re, per primi quelli spagnoli e portoghesi, interessati alla conquista. Come del resto dichiara esplicitamente Martin Waldseemüller nell’introduzione alla sua celebre carta del 1507. «Comme les fermiers marquent et séparent d’habitude leurs fermes par des signes de limites, nous avons entrepris de marquer les principaux pays du monde par les emblèmes de leurs gouvernants»[21].
Ulteriori esempi vengono forniti nel saggio sulle carte del XVII secolo del New England[22], su come queste siano state un veicolo di espropriazione delle terre indiane. Anche in questo caso si citano testimonianze dell’utilizzo, da parte dei cartografi europei, di fonti indigene, come disegni su materiali che andavano dalla corteccia al cuoio. Fonti in alcuni casi citate addirittura nei cartigli di alcune delle prime carte. Anche in queste culture della costa orientale del Nordamerica, del resto, non mancavano modelli cosmologici peculiari. È proprio a causa di questo tipo di cartografia, che per gli indiani era basata più su relazioni sociali e topologiche, che questi perdono la battaglia, proprio a partire dalla rappresentazione del loro territorio. Questa diviene in poco tempo monopolio degli Europei, dotati di strumenti di misurazione geometrica e di una organizzazione sociale che permetteva col tempo una sistematica copertura territoriale.
Un altro passaggio nel processo di appropriazione dello spazio – sostiene Harley – è quello del dare un nome ai luoghi. La nominazione è da sempre atto di creazione, di conferimento di identità e soprattutto di presa di possesso. Chi dà i nomi detiene il potere. Inutile sottolineare il ruolo centrale della cartografia nel predisporre un documento che rafforza questo processo, e soprattutto lo mette per iscritto in modo che passi alle generazioni successive.
La sostituzione dei toponimi indigeni con quelli inglesi, dunque, fu implacabile. Per continuare con una progressiva esagerazione dell’importanza degli insediamenti puritani e parallela marginalizzazione di quelli indigeni, che anticipa sulla carta quella che sarà poi la realtà della successiva appropriazione del territorio.
Allo stesso modo, i vasti territori vuoti accrescono la voglia di recarvisi per colonizzarli e conquistarli, avendo queste carte annullato l‘esistenza dei popoli che in realtà già li abitavano.
In generale, e arriviamo ad uno dei nodi centrali del discorso harleiano, bisogna tenere presente nell’approccio dello storico il contesto, in particolar modo quello sociale,  in cui nasce la carta, non come “sfondo”, ma come sistema determinante del suo significato e della sua fattura. Di cui come si diceva non sempre sono dichiarate origini e intenzioni, dunque il lavoro di ricerca e di decostruzione deve puntare a trovare questo «programma nascosto» della carta, facendo attenzione a quello che tace e non a quello che dice, a che minimizza e non a ciò che enfatizza. «Where the social rules of cartography are concealed from view, a hidden agenda has to be teased out from between the lines of the map. Such a map is duplicitous, and a different strategy is called for»[23].
In uno dei saggi della raccolta, Silences and Secrecy. The Hidden Agenda of Cartography in Early Modern Europe[24], Harley si ripropone dunque, tramite l’analisi del «programma nascosto», di costruire una vera e propria teoria del silenzio cartografico. Precisando che ancora una volta non si tratta di una critica tecnica, ma politica, nell’ambito di un progettato saggio sull’ideologia della carta che però l’autore non ha potuto portare a termine.
I silenzi da ignoranza non vengono presi in considerazione: interessano quelli epistemologici, insiti nella filosofia della carta e non necessariamente intenzionali, e quelli politici, legati alla dimensione del potere, e della sua implicazione reciproca con la conoscenza. Silenzi dunque intenzionali: abbiamo citato quelli riguardo ai segreti militari, si potrebbero aggiungere quelli riguardo alla riservatezza commerciale. Non va poi  sottovalutato il ruolo della censura vera e propria, che in tutta l’età moderna ha interessato in Europa quasi ogni testo, ed è tuttora presente nel mondo in diversi regimi.
Nella fattispecie, Harley si focalizza sulle interdizioni alla circolazione di carte che nel XVI secolo erano considerate strategiche dalle corone di Portogallo e Spagna, perché non giungessero nelle mani di nazioni rivali, in particolare olandesi e inglesi, molto interessate a questo tipo di informazioni.
I silenzi non-intenzionali, invece, sono quelli derivati dal sistema cartografico stesso. Nel lavoro di costruzione delle carte è necessario operare delle selezioni, il sistema di riferimento richiede di adottare per esse certi criteri standardizzati, che però non sono scollegati dal significato sociale della carta stessa. Scegliere che cosa in generale si include e che cosa no, se anche può sembrare una scelta tecnica, dà conto dell’epistemologia del discorso cartografico.

Le due voci

Arriviamo così alla questione della committenza. Harley la affronta a proposito di uno studio sulla funzione di legittimazione del potere negli atlanti inglesi XVIII secolo.
Qui lo studioso annovera fra le sue fonti concettuali un’altra importante scuola di pensiero, quella degli storici delle «Annales». Nella fattispecie il potere dello strumento cartografico viene paragonato a quello del libro, studiato proprio come oggetto ne L’apparition du livre di Febvre e Martin[25].
Allo stesso modo agisce l’oggetto cartografico, con l’esempio di tali atlanti inglesi, che in ambito inglese giocano un ruolo chiave nella costruzione della mentalité, altro riferimento esplicito agli storici annalistes.
Il discorso sui committenti nasce dalla constatazione che non vi è solo un potere della cartografia (interno), ma anche un potere sulla cartografia (esterno) di cui è interessante considerare le dinamiche e l’intrecciarsi. Si tratta di quella che in una delle più significative recensioni dell’opera harleiana, Denis Wood ha definito la confabulazione della voce esterna e della voce interna nel processo di produzione della carta. «It means, first of all, that the map maker is not autonomous, that the history of maps cannot be written as a hero saga from the mapmaker perspective»[26].
La voce interna del cartografo deve sempre fare spazio a quelle che sono le richieste di chi commissiona le mappe, che può essere lo Stato o la Chiesa, ma può anche essere un editore.
Ma non per questo bisogna sottovalutare il potere interno, che risiede in primo luogo nello stabilire la standardizzazione e le tipologie di linguaggio, e gli stessi metodi di lavoro nelle botteghe. E la distinzione fra i due, per Harley, non può essere sempre tracciata in maniera netta. La carta, di fatto, è il risultato dell’interazione di queste due istanze.
Nel caso degli atlanti inglesi del XVIII secolo, non c’è tanto un controllo diretto dello Stato sulla cartografia, che diventerà determinante solo a partire dalla costituzione dell’Ordnance Survey nel 1791, quanto del mercato e della committenza privata. Della quale emerge comunque una forte connotazione di classe sia dalla parte degli editori che dalle parte dei fruitori. Connotazione che fornisce anche un’occasione per considerare la composizione della società inglese dell’epoca. Gli atlanti interessavano soprattutto la nobiltà, la gentry, i mercanti, i funzionari, dunque corrispondevano anche ad un “interesse nazionale”. Di qui ad esempio lo spreco di blasoni nell’apparto decorativo. Di qui anche, nella raffigurazione della madrepatria, la scala di riferimento scelta, che era basata sulla contea, nella quale si dispiegavano appunto i simboli del potere nobiliare. Mentre negli atlanti mondiali si enfatizzava il ruolo dominante della Gran Bretagna rispetto alle altre nazioni. In particolare, prima della guerra d’indipendenza, il fiore all’occhiello della Corona sono le tredici colonie nordamericane, di cui abbiamo già visto il caso del New England. Qui il potere della cartografia si esplicherà non più a favore della nobiltà, ma delle nuove classi dominanti anglo-americane, a scapito degli indigeni. In sintesi, «maps worked principally through legitimation. By representing territorial power relations as a normal part of the world, they enabled the status quo to be more easily accepted»[27].
Gli autori degli atlanti, invece, si collocavano molto più in basso nella scala sociale, e dunque la loro dipendenza era in primo luogo economica. Senza entrare poi nel merito delle implicazioni della ripartizione del lavoro fra  disegnatori, incisori, stampatori ecc., consideriamo in sintesi che la questione della voce interna ci rimanda all’ultima delle questioni nodali: il senso di responsabilità del cartografo.
Infatti la domanda con cui si concludono entrambe le due raccolte citate degli scritti di Harley, e in qualche modo la sua produzione, con il saggio del 1991, Can there be a Cartographic Ethics?[28], è se possa appunto esistere un’etica cartografica. La questione parte dall’invio, nel gennaio di quell’anno, di 35 milioni di carte ai militari americani impegnati nella guerra del Golfo.
Il problema sollevato è che indipendentemente dalle opinioni che ognuno può avere riguardo alla guerra, la cartografia in quanto disciplina sembra dimostrare un’assoluta inconsapevolezza e ingenuità proprio a causa della totale assenza di dibattito in merito, nel non porsi alcuna domanda sul problema etico dell’utilizzo degli strumenti che essa produce. Le questioni “etiche” sollevate nelle riviste cartografiche, secondo Harley, si limitano a dinamiche interne, come il problema della “accuratezza” o il rispetto del copyright. Ossia, si limitano alla precisione del lavoro e al rispetto delle regole tecniche. Fino all’autoreferenzialità, come quando l’«American Congress on Surveying and Mapping Bulletin», richiese ad Harley un articolo sulla controversa proiezione di Peters, per poi rifiutarne la pubblicazione, perché contenente frasi in disaccordo con una dichiarazione ufficiale dell’associazione in questione[29]. Del resto, «if we are truly concerned with the social consequences of what happens when we make a map, then we might also decide that cartography is too important to be left entirely to cartographers»[30].
Per questo ci si deve interrogare sulle maniere di costruire anche per questa disciplina un’etica.
La prima che viene proposta è di carattere epistemologico: trovare la consapevolezza che la carta non è specchio ma  simulacro del mondo ed inserirla in questo contesto per studiarla come oggetto della conoscenza.
La seconda è una assunzione di responsabilità da parte dei cartografi riguardo ai contenuti delle proprie carte, che dovrebbe portare a porsi diverse questioni in più rispetto ad ora, quando invece c’è da parte dei cartografi stessi la tendenza a porsi come meri esecutori. Anche per questo essi arrivano spesso a trattare dati che hanno già subito filtraggi, se non vere e proprie censure preventive.
Partendo sempre dalla necessità di un dibattito autentico: si cita Denis Wood che esorta i soci di «Cartographica» a discutere, a costo di spaccarsi in «cartografi per la pace» e «cartografi per il rafforzamento della difesa». Dopo, almeno non ci sarà più la pretesa di non essere coinvolti[31].

Critiche a Harley e sviluppi del dibattito

Le prese di posizione di Harley, come già accennato, hanno suscitato non poche polemiche, soprattutto da parte di cartografi[32]. Ma non sono mancate critiche anche da parte di autori a lui vicini, come lo stesso Andrews, autore dell’introduzione a The New Nature of Maps[33].
Questi rimproverano ad Harley di non applicare nelle parti critiche lo stesso rigore metodologico delle parti più “storiche”, e di basarsi in generale su documentazioni non sempre inoppugnabili, imbastendo nei confronti di molte carte processi spesso “indiziari”.
In particolare Andrews avanza dei dubbi sul corretto utilizzo che Harley fa degli autori, in particolare critici e filosofi, dei quali utilizza ampiamente le categorie. Le sue interpretazioni di Foucault, Derrida, ma in questo caso soprattutto di Panofski, sono oggetto di disamina critica nello scritto citato.
Harley come dicevamo utilizza i tre livelli di studio dell’iconologia proposti dal celebre critico d’arte: il primo è il singolo motivo artistico, che corrisponde in cartografia al segno convenzionale. Il secondo è una rappresentazione convenzionale o allegorica di un fatto o evento, ad esempio nell’affresco dell’Ultima Cena, tradotto in cartografia con la rappresentazione di un luogo specifico. Il terzo «a symbolic layer of meaning that often has an ideological connotation»[34], che Harley fa corrispondere nelle sue analisi alle ideologie dello spazio veicolate dalle carte.
Andrews non ravvisa problemi sull’applicazione del  primo e del secondo, ma ne ha per quanto riguarda il terzo. In particolare ritiene che è qui che si introduce il problema della retorica, senza però un teoria che permetta di generalizzare il passaggio da un livello iconologico ad un livello testuale, come sembra voler fare Harley
On this interpretation, it is natural to begin by assuming that verbal and cartographic languages probably resemble each other in being rhetorical and non rhetorical to about the same extent. However, what Harley seems to be proposing is the much more dubious thesis that every map includes elements which, if translated into verbal form, would be recognized by anyone with common sense as rhetorical[35].

A questo problema si aggiunge il ruolo delle decorazioni, che se Harley come dicevamo toglie dai margini per collocarle al centro della rappresentazione, per Andrews non meritano sempre tale rilevanza, dal momento che spesso vengono inserite da un autore diverso da quello della carta. Sempre sul terzo livello, Andrews ritiene difficile attribuire come regola un significato ideologico agli spazi vuoti ed alle omissioni delle carte, perché bisogna vedere se una carta tace su un determinato aspetto per mancanza di informazioni e di spazio, o perché intende censurare quel pezzo di territorio, dal momento che i suoi abitanti sono poveri, o non-europei, ecc. «Harley naturally chooses the second interpretation, but he fails to say what makes it preferable to the first»[36].
In generale anche altri tornano sulla mancanza di un approfondimento che a partire dalle teorie citate, comprese quelle di Derrida e Foucault, porti ad una teoria più organica su come lavora il potere all’interno del discorso. È il caso di Matthew Edney che scrive nella sua monografia su Harley

Harley did not seek to develop further his ideas of maps as text and cartography as discourse; rather he focused on particular issues in the play of power relationships through maps, both old and modern[37].

Anche dal punto di vista dell’analisi tecnica, c’è chi ha fatto notare la sua formazione essenzialmente di storico, con il conseguente «lack of formal or professional training in mapmaking (unlike David Woodward who had studied under Arthur Robinson)»[38].
È però innegabile che questi scritti di Harley abbiano aperto la strada a tutta serie di ricerche immediatamente successive da parte di differenti autori.
Le sue teorie sono riprese in diversi saggi degli ultimi anni dai citati Wood, Pickles, Gould, Bailly, anche nell’intento di venire incontro alle richieste di sempre più lettori che vogliono potersi muovere criticamente attraverso la molteplicità dei documenti cartografici che tutti i giorni vengono proposti, anche dai media. E che spesso condividono l’idea che dietro la carta ci possa essere una hidden agenda. Che è quella del potere.

Note

[1] B. Harley, The New Nature of Maps, Baltimore and London, The Johns Hopkins University Press, 2001.

[2] F. Farinelli, I segni del mondo: immagine cartografica e discorso geografico in età moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1992, 77.

[3] C. Ritter, Géographie générale comparée, Bruxelles, Établissement Encyclographique, 1837, 19.

[4] N. Schuurman, Formalization Matters: Critical GIS and Ontology Research, «Annals of the Association of American Geographers», 96/4 (2006), 727.

[5] J. Pickles, Ground Truth 1995-2005, «Transactions in GIS», 10/5 (2006), 763.

[6] Gould P., Une prédisposition à la controverse, in B. Harley, Le pouvoir des cartes: Brian Harley et la cartographie. Textes édités par Peter Gould et Antoine Bailly, Paris, Economica, 1995, 57.

[7] Gould P., Bailly A., Brian Harley et l’élargissement de l’histoire de la cartographie, in B. Harley, Le pouvoir des cartes : Brian Harley et la cartographie. Textes édités par Peter Gould et Antoine Bailly , Paris, Economica, 1995, 3.

[8] B. Harley, The New Nature of Maps, cit, 53.

[9] Ivi, 8.

[10] Ivi, 54-55.

[11] Ivi, 55.

[12] Ivi, 57.

[13] Ivi, 59.

[14] Ivi, 60.

[15] Ivi, 63.

[16] Ivi, 71.

[17] Ivi, 79.

[18] Ivi, 156.

[19] Ivi, 168.

[20] B. Harley,  Le pouvoir des cartes : Brian Harley et la cartographie. Textes édités par Peter Gould et Antoine Bailly , Paris, Economica, 1995, 94.

[21] Ivi, 101.

[22] B. Harley, The New Nature of maps, cit., 169-198.

[23] Ivi, 45.

[24] Ivi, 83-108.

[25] L. Febvre, H.-J. Martin, L’apparition du livre, Paris, Edition Albin, 1958. I due storici francesi hanno rilevato come questo nuovo strumento di comunicazione, fra XV e XVI secolo, abbia svolto un suo ruolo  nell’influenzare la società. Un esempio su tutti: senza la possibilità di stampare e diffondere le Tesi di Lutero in un numero per l’epoca enorme di copie, comprese le traduzioni nelle lingue volgari, la Riforma protestante non sarebbe stata quel fenomeno politico e sociale così dirompente.

[26] D. Wood, The map as a kind of talk: Brian Harley and the confabulation of the inner and the outer voice, «Visual Communication», 1 (2002), 146.

[27] B. Harley, The New Nature of Maps, cit., 147.

[28] Ivi, 197-208.

[29] Ivi, 201.

[30] Ivi, 203.

[31] Ivi, 206.

[32] D. Wood, The map as a kind of talk: Brian Harley and the confabulation of the inner and the outer voice, cit, 152-156.

[33] J.H. Andrews, Meaning, Knowledge and Power in the Map Philosophy of J.B. Harley, cit, 1-32.

[34] B. Harley, The New Nature of Maps, cit., 47.

[35] Ivi, 10.

[36] Ivi, 17.

[37] M. Edney, The origins and development of J.B. Harley’s cartographic theories, «Cartographica», 40/1-2 (2005): Monograph 54, 107.

[38] D. Cosgrove, Epistemology, Geography,and Cartography: Matthew Edney on Brian Harley’s cartographic theories, «Annals of the Association of American Geographers», 97/1 (2007), 23.