Queste pagine costituiscono una riflessione sul processo costituente francese del 1795 – corrispondente all’anno III del calendario repubblicano – e definito come moment américain de la Revolution français [1]. Questo segmento temporale – che portò alla nascita della Costituzione del 5 fruttidoro anno III – vede posizionati i suoi ideali punti di cesura sulle date del 9 termidoro anno II (27 luglio 1794) e del 18 fruttidoro anno V (4 settembre 1795). La prima giornata segnò la fine della dittatura del Terrore; nella seconda giornata si consumò il primo colpo di Stato del Direttorio ai danni dei Consigli e che – secondo una definizione di Furet – determinò la fine delle istituzioni dell’anno III [2]. Erano queste le istituzioni nate sotto l’impulso della reazione termidoriana, che provocò la caduta di Robespierre e della dittatura del Comitè de Salut publique.
In questo ‘autunno della Rivoluzione’ [3] chiamato Termidoro, è pertinente parlare di opzioni istituzionali che trovavano un’ispirazione nel modello costituzionale degli Stati Uniti?
Certamente se fu così, si trattò di una riproposizione: con la reazione termidoriana, infatti, si rimise in moto una discussione che – dopo il cortocircuito istituzionale della dittatura giacobina – riprese ad alimentarsi dell’esperienza americana e che ebbe i suoi prodromi nel processo costituente che culminò nella Costituzione monarchica del 3 settembre 1791.
È in questo frangente, infatti, che il ‘mito americano’ fu recepito in Francia soprattutto tra gli Anglomanes e gli Américanistes, che si cimentarono nel dibattitto che precedette la redazione della Carta costituzionale proponendo una serie di soluzioni politiche [4]. Una di esse riguardava la composizione del potere esecutivo e richiamava le prerogative del Presidente degli Stati Uniti quali possibili alternative a quelle del re di Francia.
In una disamina comparativa, si può dire che mentre negli Stati Uniti i padri fondatori avevano scritto una Costituzione che imbastiva un assetto istituzionale che ancora oggi – a distanza di più di duecento anni – si può dire stabile, in Francia il processo costituente ebbe le caratteristiche di una sequenza continuamente segnata da interruzioni.
Questa sequenza costituente fu segnata da quattro tempi nei quali andarono componendosi le costituenti rivoluzionarie, il primo e l’ultimo rappresentati da due Costituzioni vere e proprie: la Costituzione monarchica del 1791 e la Costituzione repubblicana dell’anno III; il secondo ed il terzo tempo rappresentati, rispettivamente, dal progetto costituzionale girondino e dall’inapplicata Costituzione dell’anno I.
In questo complesso processo costituente, articolato in quattro fasi, spicca una analogia con il processo rivoluzionario americano: la cancellazione dell’istituto monarchico. Tuttavia se nel caso degli Stati Uniti esso fu rimpiazzato da un presidente titolare di un forte potere esecutivo [5], nel caso della Francia, l’allocazione di questo potere rappresentò sempre un problema.
La questione dell’esecutivo
Tutti e quattro i tempi di questa sequenza costituente furono pervasi da una certa méfiance de l’executif. Qual era la scaturigine di questa paura di un potere esecutivo forte? Come si sostanziò nei quattro processi costituenti francesi? E, soprattutto, perché relativamente all’anno III è lecito tornare a parlare di moment américain?
Partendo dal primo tempo di questa sequenza costituito dalla nascita della Carta del 1791, uno dei temi di maggior rilevanaza, per quanto concerneva la composizione del potere esecutivo e che richiamava le prerogative del Presidente degli Stati Uniti, fu la questione del veto regio. Tale questione consisteva nella possibilità di dotare il Re dell’esercizio di un veto assoluto in grado di contrastare le decisioni del potere legislativo.
Questa proposta avanzata dagli Anglomanes fu subito stoppata da Sieyès : «La storia insegna», egli disse, «che occorre guardarsi dagli attentati del potere esecutivo contro i Corpi legislativi assai più che dagli attentati del legislativo contro i depositari dell’esecutivo»[6].
L’esito di questo scontro sortì comunque un compromesso: l’Assemblea votò a favore di un veto sospensivo per il tempo di due legislature e la ratifica dei decreti del 4 agosto, nei quali all’articolo 3 veniva sottratta al Re la sovranità secolare che veniva interamente trasferita alla nazione. Questa translatio della sovranità dal principe alla nazione rimarcava una forza solo apparente del sovrano di esercitare il potere esecutivo, perché, se nell’Art. 1/IV della Costituzione del 1791, si recita che il potere esecutivo supremo risiede esclusivamente nelle mani del re, già nell’Art. 4/III si formula che il potere esecutivo è semplicemente delegato al Re.
Ma a ben vedere la questione dell’esecutivo occupò una posizione marginale durante il primo dibattito costituzionale, lontana dall’epicentro rappresentato dal ruolo del potere legislativo. Un’atrofia, questa dell’esecutivo, dovuta alla pesante eredità lasciata dall’Ancien régime, cioè da quell’assolutismo monarchico che aveva generato tanta diffidenza nei confronti di un esecutivo forte.
La domanda, dunque, che si ripropone è: perché era così forte questo sentimento di méfiance per l’executif?
Per spiegare questa diffidenza è necessario individuare la natura e le applicazioni del potere esecutivo prima e dopo la cesura della Rivoluzione. Prima dell’‘89 si ravvisa una certa istanza regolatrice dell’esecutivo in concordia con il legislativo con il quale va a formare un unico soggetto istituzionale. Dopo lo scoppio della Rivoluzione accade, invece, che il vouloir del potere legislativo fagocita l’agir dell’esecutivo cumulando i due poteri in una stessa azione e accezione di gouvernement, ma con una predominanaza netta del potere legislativo.
E’ la questione del veto a segnare l’inizio del secondo tempo della sequenza costituente. A maggio del 1792 l’Assemblea emanò tre decreti: sui preti refrattari, sullo scioglimento della Guardia del Re e sulla costituzione di un campo di federati vicino a Parigi. L’11 giugno Luigi XVI oppose il veto al primo e al terzo di questi decreti scatenando la protesta dei sanculotti dei Faubourgs Saint Antoine e Saint Marceau, che invasero le Tuileries provocando la fuga del sovrano e della sua famiglia. L’Assemblea decretò la sospensione provvisoria del Re e proclamò la Repubblica.
Con la sospensione del Re venne così a frammentarsi tutta la struttura del potere esecutivo. L’Assemblea elesse, infatti, un Consiglio esecutivo composto da sei ministri, una chiara invenzione istituzionale necessaria a riempire il vuoto lasciato dal sovrano. In questo frangente il destino del potere esecutivo fu veramente singolare: tanto debole era stata la sua azione di governo sotto l’egida della Costituzione, quanto forte ora che agiva in nome dell’Assemblea, e in una fase decisamente transitoria della vita politica.
Fu questa transitorietà a provocare l’insediamento del Comité de Constitution con l’incarico di redigere una nuova costituzione. Due settimane dopo l’esecuzione di Luigi XVI fu, infatti, presentato dalla Gironda alla Convenzione – in omaggio agli Stati Uniti così era stata ribattezzata l’Assemblea – un progetto di Costituzione: il Progetto Condorcet.
Che forma avrebbe assunto il potere esecutivo nella proposta di Condorcet e dei Girondini? E che tipo di riferimenti la Costituzione di Philadelphia e il modello politico americano avrebbero continuato a suggerire in questa nuova Francia repubblicana e senza una Costituzione?
La distanza tra l’esecutivo monocratico esercitato dal Presidente degli Stati Uniti e l’esecutivo proposto da Condorcet - un organo collegiale composto da sette ministri e un segretario -, la si deduce dall’Art. 4/I/V del progetto della Gironda: « Il Consiglio esecutivo è incaricato di eseguire tutte le leggi e i decreti emessi dal Corpo legislativo». Da questa formulazione ne deriva, perciò, che il potere esecutivo assumerebbe il ruolo di mero esecutore della volontà legislativa, e a rafforzare questa subordinazione dell’esecutivo al potere legislativo ci pensa l’Art. 6/I/V che recita: «E’ ad esso espressamente vietato di fare legge alcuna, anche provvisoria, o di modificare, estendere o interpretare le disposizioni di quelle che esistono, sotto qualsivoglia pretesto».
Il progetto Condorcet rimase tale, soffocato dalla guerra fra la Gironda e la Montagna. Una guerra che aveva come obiettivo l’organizzazione amministrativa della Francia e che ebbe nella Carta girondina il suo terreno di battaglia. I girondini furono accusati, in quello che Mona Ozouf definisce un «mostro polemico combinato dal giacobinismo» [7], di realismo e di federalismo. Nella realtà il federalismo della Gironda non aveva nessuna analogia con il federalismo americano, ma si trattava – secondo un’idea di Brissot – di creare un’alleanza di repubbliche federative oltre le frontiere naturali di una Francia, invece, unita. Era dunque una falsa accusa quella che voleva i girondini promotori di un progetto e una dottrina federalista. Piuttosto essi cercarono di contrastare la centralità di Parigi riducendone il potere e sostenendo, invece, la sovranità di tutto il popolo francese. Brissot fu pretestuosamente accusato di essere federalista per il semplice motivo che, al processo contro di lui, citò la Costituzione americana, peraltro definendola meno democratica di quella scritta da Condorcet che fu, così, demolita «dall’ampolloso e immaginifico vate del Terrore Antoine Saint-Just» [8].
È in questo frangente che si può idealmente fa cominciare il terzo momento del tracciato costituente, quando, il 24 giugno 1793, viene approvata la Costituzione della Montagnarda dell’anno I. Fu questa una Carta molto simile, in realtà, al rapporto Condorcet. Tuttavia per ciò che riguardava la struttura e l’organizzazione del potere esecutivo essa ne aumentava il numero dei componenti, disegnando un Conseil exécutif che passava dai sette della Costituzione girondina a ben ventiquattro, tutti nominati dal legislativo e con il compito di sorvegliare e dirigere l’amministrazione.
Un esecutivo dunque, che come una goccia di mercurio si espande esasperando la propria collegialità e distanziandosi, nella sua struttura, quanto più possibile dalla natura di un esecutivo monocratico secondo il modello americano. Tuttavia, nonostante nella Costituzione dell’anno II non figurasse neanche l’espressione di ‘potere esecutivo’, esso ebbe una valenza esecutiva devastante.
La Costituzione dell’anno I fu approvata dalla Convenzione, ma la guerra e il Terrore la lasciarono inapplicata, così che il governo provvisorio della Francia fu dichiarato, secondo un rapporto del Comité de Salut publique, rivoluzionario fino alla pace. Era questo il dérapage che la Rivoluzione aveva subito e che aveva fatto inceppare tutti gli ingranaggi del meccanismo istituzionale – cominciato ancor prima dell’Ottantanove – e che in una delle sue direttrici aveva trovato un’ispirazione nel modello costituzionale degli Stati Uniti.
Il rotismo che presiedeva al movimento di quel delicato e mutevole ingranaggio rappresentato dal potere esecutivo subiva, nell’anno I della Repubblica, un’ulteriore disarticolazione ed entrava in una vorticosa spirale, la cui forza centripeta tendeva ad unificare tutti i poteri verso il vertice rappresentato dalla Convenzione. Essa aveva già assorbito il Consiglio esecutivo, diretto da Danton, nato con la proclamazione della Repubblica, e adesso, attraverso l’onnipotente Comitè de Salut publique – dove “Ogni commissario è più di un re” [9] – si accingeva a fagocitare il Conseil exécutif progettato dalla Costituzione dell’anno I.
Il quarto tempo della sequenza costituente inizia con la caduta di Robespierre. lo slittamento verso la dittatura giacobina e nell’abisso del Terrore terminò con il 9 termidoro quando ebbe inizio una reazione di freno del processo rivoluzionario. Il Comitato di Salute pubblica – quell’organo provvisorio che fu più esecutivo di qualunque esecutivo – fu sciolto. Il 7 fruttidoro [10] fu emesso un decreto che limitava il suo potere e – per evitare la dittatura di un solo comitato – ad ognuno dei sedici comitati fu affidato il controllo delle dodici commissioni esecutive nelle quali si sparpagliò ancora di più l’azione di governo. Aveva così inizio un’altra discussione sull’organizzazione del potere esecutivo. Nuovamente si poneva la domanda di come avrebbe dovuto agire il governo rivoluzionario e quale dovesse essere l’asse attorno al quale ruotava la sua azione: la Convenzione o, piuttosto, i comitati e le commissioni esecutive?
Prevalse la seconda opzione, quella dello sparpagliamento dell’esecutivo. Si metteva, così, in evidenza il problema della provvisorietà del governo e della necessità di stabilizzare la Rivoluzione.
Per chiudere il processo rivoluzionario o, quanto meno, per metterlo in stato di quiete, avanzò la proposta di préparer les lois conservatrices de l’acte constitutionnel [11] per mettere in funzione e attivare la Costituzione della Montagna, evitando, così, di impantanarsi nelle diatribe sull’organizzazione del governo provvisorio. Tuttavia il problema della costruzione di un’azione di governo efficace e che non fosse semplicemente una modalità provvisoria o un espediente temporaneo, era un problema subordinato all’applicazione della Costituzione dell’anno I. Questa Carta, però, continuava a giacere in un’urna di cedro della Convenzione, senza che nessuno si assumesse la responsabilità di proporne l’applicazione o, viceversa, ne caldeggiasse lo stralcio definitivo. Vi era, infatti, il diffuso timore di un nuovo, pericolosissimo, dibattito costituzionale che avrebbe spaccato in due la Convenzione: da una parte i termidoriani e la paura che la Rivoluzione potesse subire un secondo dérapage, dall’altra la sinistra e la preoccupazione opposta che la Rivoluzione potesse, invece, frenare [12].
Il conflitto tra le due parti, che ruotò attorno a quanta forza dare al governo, sortì un tentativo di applicare la Costituzione, ma furono delle circostanze contingenti a determinarlo: il terribile inverno dell’anno III e la carestia. Provenne, infatti, dal Faubourg Saint Antoine la protesta contro la penuria di viveri e la richiesta, per porvi rimedio, dell’applicazione della Costituzione dell’anno I. La richiesta si tradusse, inizialmente, nell’emanazione di un decreto per la costituzione di una commissione incaricata di preparare le lois organique, necessarie a dare più forza all’azione di governo e in attesa della messa in esecuzione della Costituzione della Montagna.
Il 12 germinale la Convenzione fu invasa da una moltitudine, composta in maggioranza da donne, che chiedeva pane e l’applicazione della Costituzione dell’anno I.
Sebbene questa sommossa fu risolta senza traumi dal generale Pichegru, due giorni dopo furono nominati i membri della Commission des Sept con il compito di preparare quelle leggi necessarie perché la Costituzione giacobina potesse cominciare a muovere tutti i suoi ingranaggi. Quindici giorni dopo la sua nomina la Commission des Sept presentò un suo primo rapporto che non riusciva ad andare oltre la semplice configurazione degli assunti necessari a confezionare le lois organique. Questo dato rivelava l’incapacità da parte della Commissione di arrivare ad una qualunque decisione – atteggiamento che rifletteva una tendenza generale di tutta la Convenzione – ma portò alla richiesta di esautoramento dal proprio incarico da parte della Commissione stessa.
Si procedette ad un nuovo tentativo. Fu così nominata dalla Convenzione una nuova commissione, la Commission des Onze, sempre con l’incarico di preparare quelle leggi indispensabili ad applicare la Carta custodita nell’urna, ma stavolta, con il compito più ampio di stabilizzare tutto l’assetto istituzionale della Francia, e che, nella sostanza, significava una revisione, seppur parziale, dell’atto costituzionale del 1793 [13].
Non è dato sapere quanta indecisione vi fosse tra i componenti della Commission des Onze nel confrontarsi - in questo ennesimo tentativo - con la Carta del ’93, certamente l’insurrezione del Primo pratile agì da detonatore. Ancora una volta le polveri furono accese nei roventi Faubourgs Saint-Antoine e Saint Marceau. Ancora una volta, con il gelido inverno del 1794 alle spalle, si consumò uno scontro tra i termidoriani e la Montagna.
Alle prime ore del mattino un corteo armato si diresse dai sobborghi verso il centro di Parigi al solito grido di pane e costituzione. Le porte della Convenzione furono sfondate e la testa di un deputato di nome Feraud, fu infilzata su una picca e presentata innanzi al presidente Boissy d’Anglas. Tuttavia l’insurrezione ebbe il suo epilogo all’arrivo di due battaglioni della Guardia nazionale che segnarono la resa dei rivoltosi e la sconfitta dei montagnardi, che avevano prontamente cavalcato l’onda della protesta.
La Convenzione forte di questa vittoria abbandonò l’idea di applicare la Costituzione dell’anno I e decise di procedere all’elaborazione di un nuovo atto costituzionale.
Al momento dell’avvio dei lavori, all’interno della Commission des Onze, si crearono due partiti, uno monarchico e uno repubblicano. Tuttavia la maggior parte delle idee esaminate dalla Commissione si indirizzò lungo una strada mediana, lontana tanto dalla nostalgia monarchica, quanto da suggestioni egualitarie e demagogiche [14]. Fra le questioni che furono immediatamente affrontate, due si confrontarono in modo sensibile con il sistema politico americano ed entrambe avevano come oggetto il ruolo del potere esecutivo. La prima questione riguardava il bicameralismo, accettato all’unaminità e che trovava la sua ispirazione nel Senato degli Stati Uniti. La denominazione di Senat, però, evocava una natura troppo aristocratica e così la Convenzione scelse per la Camera alta il nome di Conseil des Anciens. Per la Camera bassa, invecè, si optò per la denominazione di Conseil des Cinq cent, dal numero dei suoi componenti.
La seconda questione affrontava il ruolo del potere esecutivo, non tanto nel suo rapporto e nel concorso con gli altri poteri, quanto per l’organizzazione della sua struttura intrinseca. Si discusse quindi se esso doveva avere una struttura monocratica o collegiale, e su queste due soluzioni si attestarono posizioni diverse. Per una via monocratica si espressero i componenti del partito monarchico o “americanizzante” [15] che proponeva un presidente annuale. Lanjuinais propose addirittura un presidente ricalcato sul modello americano e dotato del potere di veto nei confronti dei Consigli. L’idea fu, però, rigettata per il timore che un esecutivo siffatto potesse prendere una piega talmente monocratica da far resuscitare un’altra dittatura come quella di Robespierre. Vi era inoltre la paura che un esecutivo monocratico potesse ricordare troppo quello del Re e così, alla fine, prevalse la soluzione collegiale, la Commissione stabilì nel numero di cinque i componenti che avrebbero composto il consiglio esecutivo.
Bicameralismo e organizzazione dell’esecutivo erano i riferimenti al modello costituzionale americano e due dei princìpi – il terzo era la soppressione del sistema democratico e il ritorno al principio censitario - sui quali si fondava il progetto della Commission des Onze.
Esso fu presentato da Boissy d’Anglas alla Convenzione il 5 messidoro dell’anno III, dal rapporto si evidenziarono chiari riferimenti agli Stati Uniti con decisi richiami al sistema del bilanciamento dei poteri, alla loro divisione e al bicameralismo [16]. Infine si affermò il proposito di riabilitare e fortificare il potere esecutivo, garantendone l’indipendenza dal legislativo e respingendo quel sentimento di méfiance che lo aveva accompagnato fino a quel momento.
Il Jury Constitutionnaire
Nei cinquanta giorni del dibattito costituente si fece spesso riferimento al laboratorio politico americano. Il 2 termidoro Sieyès tenne un discorso alla Convenzione nel quale presentava la creazione di un organo di controllo, il Jury Constitutionnaire, con la funzione di decidere della costituzionalità delle leggi. Questo meccanismo di controllo si inscriveva nella meccanica del nuovo potere esecutivo e nei suoi addentellamenti con il potere legislativo. Esso presentava delle analogie con un organo convocato per la prima volta nel 1783 nello Stato della Pennsylvania, che aveva il compito di decidere e prevenire le violazioni e gli abusi del potere legislativo a danno del potere esecutivo [17].
Quest’organo, chiamato Consiglio dei Censori della Pennsylvania, era nominato tutti gli anni dal popolo ed aveva il compito di esaminare l’integrità della Costituzione, eliminando tutti quei princìpi che violavano la Carta. Dall’esame delle sessioni del Consiglio risultava, infatti, che la Costituzione era stata spesso violata dal potere legislativo a danno del potere esecutivo e viceversa.
L’idea di Sieyès consisteva dunque nella creazione di un tribunale supremo in grado di pronunciarsi sulle violazioni della Costituzione, similmente alla Corte Suprema, anch’essa incaricata del potere di interpretare e decidere la costituzionalità delle decisioni del Congresso. Tuttavia, alla strada dell’interpretazione giudiziaria, i padri fondatori della Costituzione di Philadelphia, aggiunsero la strada emendativa. Essi si resero conto, infatti, che la Carta doveva necessariamente adattarsi alle esigenze della Nazione e a questo scopo delinearono la procedura degli Emendamenti, un sistema che – secondo l’articolo V della Costituzione del 1787 – poteva tanto avanzare quanto ratificare le proposte di legge.
Nella proposta di Sieyès, sulle attribuzioni e l’organizzazione del Jury, vi erano perciò due punti significativi che trovavano un riferimento con la Costituzione degli Stati Uniti. È lo stesso Sieyès a metterli in evidenza in un suo intervento alla Convenzione il 18 termidoro dell’anno III: «In altre parole, considero il giurì costituzionale 1) come il tribunale di cassazione dell’ordinamento costituzionale. 2) come laboratorio di proposizione per gli emendamenti che il tempo potrebbe esigere per la Costituzione» [18]. A questo proposito, due dei diciassette articoli di cui si componeva il Jury, esponevano le questioni relative alla costituzionalità delle leggi e – secondo una definizione dello stesso Sieyès – al perfezionamento illimitato” della Costituzione. Relativamente alla funzione del Jury di controllore dell’ordine costituzionale e in merito alla sua funzione di bilanciamento degli abusi del potere legislativo ai danni del potere esecutivo, recita l’Art. 6/I:
«Il giurì costituzionale si pronuncerà sulle violazioni e gli attacchi portati alla Costituzione, che gli saranno denunziati contro gli atti,
del Consiglio degli Anziani,
del Consiglio dei Cinquecento,
delle Assemblee elettorali,
delle Assemblee primarie,
del Tribunale di Cassazione,
Allorchè tali denunzie, gli siano presentate,
dal Consiglio degli Anziani,
dal Consiglio dei Cinquecento,
dai cittadini a titolo individuale,
Esso si pronuncerà su analoga denunzia che gli sia presentata dalla minoranza dell’uno o dell’altro dei suddetti corpi costituiti [19]».
In merito alla seconda questione, relativa alla procedura degli emendamenti, è l’Art. 10/I a recitare nella sua prima parte:
«Il giurì costituzionale si occuperà, normalmente, delle proposte che gli parranno atte a perfezionare l’atto costituzionale…» [20].
Il progetto del Jury fu respinto dalla Convenzione, la sua bocciatura ebbe una chiosa da parte di Thibaudeau, che giudicò il progetto di Sieyès «une superfétation inutile e dangereuse»[21]. In particolare le sue critiche prendevano spunto proprio dal Consiglio dei Censori della Pennsylvania. Difatti, un Jury permanente, come previsto dalla Carta della Pennsylvania, era ritenuto molto poco efficce nel prevenire tutte le violazioni di un potere rispetto ad un altro. Il motivo di questa scarsa efficacia era che troppe erano le violazioni, talmente tante che sorgeva il legittimo dubbio che l’azione preventiva, cui sarebbe stato preposto il Jury, a nulla sarebbe servita.
Voler prevenire i conflitti, sosteneva Thibaudeau, tra potere legislativo e potere esecutivo – in modo particolare i soprusi del primo a danno del secondo – è un male insito nella Costituzione, di fronte al quale un organo come il Consiglio dei Censori o il Jury Constitutionnaire, si trova in uno stato di quasi assoluta impotenza, non presentando le necessarie garanzie interne.
Quali erano dunque, secondo Thibaudeau e la Commission des Onze i guardiani di cui la Costituzione necessitava?
La risposta implica una considerazione preliminare su decreto dei 2/3 [22]. Colombo rileva come questo sistema, architettato dai membri della Convenzione, di perpetuare le loro posizioni di potere, rappresentasse una negazione del principio della separazione dei poteri [23].
Si comprende così come il guardiano della Costituzione non rientrasse nella tipologia di un Jury Constitutionnaire, né di un Consiglio di Censori come quello della Pennsylvania, ma piuttosto fosse rappresentato dagli stessi autori della Carta costituzionale [24].
Superata questa breve premessa, risulta evidente come l’idea di una sentinella costituzionale non risiedesse né nel progetto di Sieyès, tantomeno in qualcosa che potesse ricordare il Consiglio dei Censori.
Per la Commission des Onze non erano dunque necessari dei guardiani per salvaguardare la Costituzione e per svolgere l’azione preventiva di usurpazione di un potere ai danni di un altro. Per evitare la confusione tra poteri e per tutelare l’esecutivo dai soprusi del legislativo era sufficiente dotare coloro che detenevano l’esercizio di questi poteri di garanzie in grado di resistere ad ogni tipo di attacco rivolto ai poteri stessi. In concreto significava che, nell’organizzazione del governo, ciascuna parte doveva muovere le proprie ruote su degli assi prestabiliti, senza così alterare il movimento degli altri ingranaggi.
Thibaudeau si servì di due termini per descrivere questo rotismo costituzionale: concours ed équilibre, marcando ancora di più la differenza con il sistema di concorso di poteri presentato da Sieyès nel suo Jury. Il concorso di poteri, inteso come tecnica di governo, è per Thibaudeau un’illusione, poiché non si tratta di una modalità predeterminata per governare con successo, bensì la conseguenza, il risultato, della semplice buona volontà di chi governa. Viceversa, se il concorso di poteri è il prodotto dell’organizzazione materiale del governo, vengono meno le accezioni di concours e di équilibre, visto che queste due prerogative sono insite nella struttura del governo stesso.
Il problema dunque che si pose in essere, all’interno della Commission des Onze, fu quello di regolare la condotta dei governanti senza la presenza di agenti esterni. Su questa traccia si inscriveva la bocciatura del Jury Constitutionnaire: un guardiano della Costituzione che altro non sarebbe stato, secondo Thibaudeau «qu’une preuve de l’impuissance des hommes pour atteindre à la perfection» [25].
Tuttavia la funzione di preservare la Costituzione doveva trovare una soluzione. La Commission des Onze pensò bene di attribuire al Consiglio degli Anziani il compito di difendere il potere esecutivo dagli abusi del legislativo, inoltre individuò diverse opzioni allo scopo di regolare la condotta dei governanti, dando nuovo vigore al moment américain della Rivoluzione.
Queste opzioni, infatti, che si agganciavano al modello istituzionale americano, erano già descritte nel rapporto del 5 messidoro, e si sostanziavano principalmente nella divisione del corpo legislativo in due unità: una forma di bicameralismo che ricordava quello americano.
Un secondo punto che trovava un riscontro con il sistema politico degli Stati Uniti era la stabilizzazione dei rapporti tra il potere legislativo e il potere esecutivo, con uno spostamento sull’asse di quest’ultimo, in modo da evitare una sua subordinazione al legislativo, rendendolo così più incisivo.
A questa azione di riequilibrio si collegava un terzo punto – che richiamava la facoltà del Presidente degli Stati Uniti di svolgere un’azione legislativa attraverso il diritto di veto – e attribuiva al potere esecutivo un’azione di partecipazione alla funzione normativa: all’esecutivo era cioè accordato il diritto di proporre alle Camere delle migliorie; le Camere venivano così invitate a prendere in considerazione l’oggetto della proposta che l’esecutivo gli rivolgeva.
Il veto all’americana
Nel dibattito costituente si ripresentava la questione del veto. In particolare si poneva ancora una volta il problema della subordinazione dell’esecutivo di fronte al legislativo.
Nell’analisi esposta nel De Gouvernement da Roederer, veniva svelata tutta la cautela che nel rapporto del 5 messidoro la Commission des Onze esprimeva nei confronti di un esecutivo troppo forte. Difatti, nonostante le intenzioni degli Onze di rafforzare il potere esecutivo, rendendolo più autorevole e dotandolo di maggior forza morale, sembrò che, anche in questo quarto tempo della sequenza costituente, un forte retropensiero di méfiance de l’exécutif si fosse impadronito della Commissione, quasi vi fosse il timore che potesse apparire all’improvviso un Giano bifronte a mostrare alternativamente il volto di Luigi XVI e di Robespierre, e con essi un esecutivo troppo forte e incontrollabile.
Queste paure portarono, perciò, ad escludere soluzioni monocratiche. Tuttavia le critiche di Roederer non si concentrarono esclusivamente sulla natura monocratica o collegiale dell’esecutivo. Egli, infatti, propendeva per un Consiglio composto da cinque membri e non pensava ad un suo rafforzamento riducendo il numero dei direttori. Piuttosto la debolezza che Roederer temeva per l’esecutivo – così come era stato progettato dalla Commissione – trascendeva il numero di chi doveva esercitare questo potere: fossero cinque, tre o uno solo. Era una debolezza che egli legava, più che altro, all’azione di governo che l’organo esecutivo doveva svolgere.
Ma cosa intendeva Roederer per azione di governo? «Le pouvoir exécutif», egli scriveva, «est essentiellement composé de deux parties; l’administration qui agit e opère, le gouvernement qui dirige, ordonne e surveille» [26]. Ed è proprio il Direttorio - cioè la parte relativa all’azione di governo in senso proprio, quella che dirige, ordina e sorveglia – a rappresentare, secondo Roederer il ventre molle nel progetto di organizzazione del potere esecutivo da parte della Commission des Onze.
Nell’azione del Direttorio sarebbero dunque affondati i colpi del corpo legislativo; a suo danno si sarebbero perpetrati gli abusi e le violazioni del Consiglio degli Anziani e del Consiglio dei Cinquecento.
Di fronte a questi attacchi il governo avrebbe potuto difendersi solo se garantito sotto l’aspetto giudiziario e sotto il profilo politico. E proprio relativamente a questo secondo punto, il diritto di veto avrebbe rappresentato per il Direttorio il sistema per togliersi dallo stato di subordinazione al legislativo.
Tuttavia Roederer indicava, nel processo di funzionamento del governo, un requisito che esulava dalla meccanica istituzionale e che aveva tutte le caratteristiche di una virtù: la rettitudine. Un governo che agiva secondo rectitude, era un governo che rendeva armonica la sua azione non solo attraverso la giustezza delle sue decisioni, l’efficacia della sua organizzazione e l’incisività dei suoi atti, ma anche secondo i princìpi che l’animavano.
Il tema della rettitudine e della moralità diventava per Roederer, un indicatore circa la composizione del potere esecutivo, cioè se esso dovesse essere collegiale o monocratico. Infatti, la rectitude, come ago della bilancia dell’opzione monocratica o collegiale, si sostanziava nel timore delle degenerazioni a cui poteva andare incontro un esecutivo organizzato secondo l’una o l’altra modalità.
Favorevole a che l’indicatore si posizionasse sull’opzione collegiale, Roederer mosse le sue critiche a quei componenti della Commission des Onze che proposero «Un president semblable à celui de la constitution americaine» [27]. Cioè a coloro che preferivano la tirannia di uno solo all’anarchia di tutti.
L’esempio delle prerogative del Presidente degli Stati Uniti servì, dunque, a Roederer a spiegare come l’equazione rectitude/chef unique non portasse affatto ad un risultato certo. Egli, infatti, dapprima enumerò i vantaggi di un presidente unico attraverso un virtuoso sistema di rapporti di causa effetto, il cui risultato era la rapidità d’azione dell’esecutivo [28]. Secondariamente si servì dell’esempio americano per sottolineare queste caratteristiche: «Tout le monde sait qu’en Amérique l’institution d’un président a réussi à donner aux États-Unis un gouvernement suffisamment énergique» [29]. Tuttavia, in un terzo e ultimo momento, al termine dell’elenco dei vantaggi attribuiti all’istituto della presidenza degli Stati Uniti, Roederer smonta definitivamente l’idea di un esecutivo monocratico.
La sua azione demolitrice si appuntava in una serie di dubbi che si espressero nell’elogio del sistema americano, ma che suggerivano che un esecutivo di queste fattezze non era concepibile per la Francia. Ancora una volta era la rectitude l’indicatore. Essa veniva infatti descritta come una virtù probable nelle persona di un chef unique. Certamente apparteneva, secondo il giudizio di Roederer, all’animo del primo Presidente della storia degli Stati Uniti: «L’exemple de Washington ne suffit pas pour nous rassurer contre les dangers qui naissent des penchans natureles de l’homme»[30]. Tuttavia se la virtù della rettitudine è solo una probabilità dell’animo umano, che può palesarsi o non palesarsi nelle azioni di un Presidente unico – pur in un contesto di bilanciamento di poteri, di pesi e contrappesi – la conclusione è, secondo Roederer, che un esecutivo di natura monocratica è estremamente pericoloso.
D’altra parte, l’esecutivo così come era stato progettato dalla Commission des Onze – nonostante essa avesse fatto proprio l’assunto imprescindibile della divisione dei poteri all’americana [31] – si prestava ad essere in balia delle decisioni del legislativo e decisamente subordinato ad esso.
Probabilmente la soluzione per trovare un equilibrio tra queste due opzioni era dotare il Direttorio di un sistema di partecipazione alla formazione alla legge e, al contempo, della possibilità di difendersi dagli abusi dell’esecutivo. Questo sistema si traduceva nell’esercizio del diritto di veto.
I due conduttori rappresentati dall’organizzazione del potere esecutivo e dall’influenza del modello costituzionale americano nel processo costituente francese vanno, dunque, intrecciandosi nel questione del veto. E si intrecciano ancora più strettamente rispetto a quando il problema del veto ebbe modo di confrontarsi con le prerogative del Re: se il veto doveva essere assoluto o sospensivo. Un faccenda, questa, strettamente connessa all’istituto monarchico, ma che, nell’anno III, poneva il problema del veto relativamente ad un esecutivo repubblicano come il Direttorio.
La questione se il veto dovesse essere sospensivo o assoluto non si poneva più. Madame de Staël – ora convertitasi all’opzione repubblicana – e grande sostenitrice della campagna del veto réviseur o veto all’americana, era consapevole che il veto assoluto fosse un orpello della corona piuttosto che un effettivo diritto, ma affermava con decisione il diritto, da parte dell’esecutivo, di partecipare alla confezione della legge e quindi di ottenere le revisione dei decreti che riteneva pericolosi.
Nelle osservazioni di Madame de Staël – «S’il n’a pas ce droit dont le président est revêtu en Amérique, les lois seraient inexécutables»[32] – si vanno intersecando le due direttrici costituite dal ruolo dell’esecutivo e dal modello politico americano e che, nel dibattito costituente dell’anno III, si riproponevano secondo prospettive e soluzioni diverse.
In particolare la soluzione proposta da Madame de Staël partiva da un’idea di suo padre, Jacques Necker di: «Promouvoir une République ayant tout de la monarchie constitutionnelle sauf le roi, et donc assise sur la tripartition: en d’autre termes, elle prônait le modèle américain»[33].
Parte delle idee di Madame de Staël furono recepite dalla Commission des Onze. Tra i componenti favorevoli ad una campagna a favore del veto réviseur, vi furono La Révellière-Lepaux, che rivendicava per l’esecutivo il diritto di rifiutare una legge che riteneva pericolosa; Lanjuinais e Danou, che si dichiararono favorevoli alla mozione Ehrmann. Questa mozione proponeva per il Direttorio la possibilità di rinviare una legge – corredata di tutte le necessarie osservazioni – al Consiglio dei Cinquecento per poi essere approvata – a maggioranza di due terzi - dalle due Camere.
La proposta di Ehrmann suscitò una certa inquetudine in chi temeva l’attribuzione del potere di veto all’esecutivo. Alle resistenze di chi temeva un esecutivo che ricordasse quello del Re, si aggiungevano delle zone d’ombra nella costruzione e nella organizzazione del potere esecutivo che riflettevano il desiderio, da un lato, di dare alla Francia un esecutivo autorevole ed efficiente, dall’altro la paura di un suo pericoloso sconfinamento.
Ad allargare questa zona di ombra istituzionale fu peraltro la stessa Commission des Onze che, nel rapporto del 5 messidoro, fu piuttosto vaga su ciò che il Direttorio poteva effettivamente fare o non fare. Lo stesso Boissy d’Anglas, infatti, non fece cenno ad alcun tipo di riferimento circa il divieto da parte dell’esecutivo di sanzionare la legge. L’unico effettivo divieto che il Direttorio doveva osservare era quello di astenersi da ogni iniziativa legislativa.
La questione sulle attribuzioni del Direttorio, l’incertezza circa le sue possibilità di rendersi partecipe alla confezione della legge, richiamavano al problema più generico della divisione dei poteri. Anche su questa materia vi furono degli addentellamenti mal sincronizzati, che evidenziarono tutta la diffidenza che continuava a permanere nei confronti dell’esecutivo.
Questa paura si sostanziava proprio nella procedura di elezione dei cinque direttori, nominati – contravvenendo i princìpi della separazione dei poteri – proprio dai Consigli legislativi. La procedura prevedeva, infatti, che il Consiglio dei Cinquecento formasse a scrutinio segreto una lista dieci volte il numero dei direttori da nominare, sulla base di questa lista il Consiglio degli Anziani sceglieva gli eletti.
Il 30 termidoro dell’anno III, in questo contesto di incertezze, si chiuse il dibattito costituente. Esso rivelò certamente il desiderio di dare alla Francia un Direttorio autorevole, dotato sia della prerogativa antica dei tribuni della plebe di opporsi alle decisioni del Senato e dei Consoli, che della prerogativa attuale del Presidente degli Stati Uniti di opporsi alle decisioni del Congresso. Tuttavia nel corso del dibattito si palesò anche la paura che, dallo stesso detentore del potere esecutivo, potessero sprigionarsi le esalazioni recenti della dittatura giacobina o quelle più lontane dell’Ancien régime.
Separazione e isolamento dei poteri nella Costituzione dell’anno III
Per la prima volta con la Costituzione dell’anno III il potere esecutivo veniva associato ad un preciso organo istituzionale. Recita l’Art. 132/IV: «Il potere esecutivo è delegato a un Direttorio di cinque membri, nominato dal Corpo legislativo, che in questo caso esercita in nome nella nazione le funzioni di Assemblea elettorale».
Questo «strano regime passato alla storia con il nome di Direttorio»[34] era dunque quell’organo esecutivo che, se per taluni era rivestito della sufficiente autorevolezza e forza, per altri era invece un potere debole e ancora troppo subordinato. Tuttavia il risultato, nel suo complesso, della Costituzione dell’anno III fu di cercare di ripristinare il rotismo dell’ingranaggio costituzionale che era andato scomponendosi dopo la notte del 10 agosto 1792.
Saitta individua tre princìpi in base ai quali si disponevano gli articoli della nuova Carta: 1°) soppressione del sistema democratico stabilito dall’Assemblea legislativa il 10 agosto 1792 e ritorno al precedente principio censitario; 2°) sistema bicamerale; 3°) rafforzamento del potere esecutivo [35]. In ordine al primo punto – nella Dichiarazione dei diritti e dei doveri che precede la Costituzione – l’Art. 5 recita: «La proprietà è il diritto di godere e di disporre dei propri beni, delle proprie rendite, del frutto del proprio lavoro e della propria attività».
Sismondi nella sua analisi della Costituzione dell’anno III chiarisce come il diritto di proprietà debba essere un diritto riconosciuto come fondamentale tra i diritti dell’uomo a garanzia della libertà civile. Egli ritiene, infatti, indispensabile che la Costituzione garantisca l’inviolabilità di questi diritti. A supporto di questa tesi Sismondi porta come esempio le Costituzioni degli Stati dell’Unione. In particolare cita una serie di articoli contenuti nelle Declarations del Delaware, del Massachusetts, del Maryland, della Virginia e del North Carolina, nei quali il diritto di proprietà è fortemente garantito e tutelato [36].
Il secondo punto individuato da Saitta è quello che concerne il bicameralismo, ma che poco somigliava al bicameralismo americano [37], giacchè le due Assemblee confezionate dalla Commission des Onze, erano elette dal medesimo corpo legislativo, con le stesse regole e per l’identica durata di tempo. Inoltre, il modello bicamerale americano non poteva servire da esempio, fino in fondo, ai costituenti francesi, per il timore che un Consiglio degli Anziani – che rassomigliasse troppo al Senato americano – potesse suscitare paure di federalismo e disgregare l’unità della Francia.
Infine, relativamente al punto riguardante il rafforzamento dell’esecutivo, la scelta cadde su un organo collegiale, come il Direttorio, per la invincibile paura che un esecutivo monocratico potesse espandere troppo la propria forza e degenerare. Nell’intervento di La Révellière-Lépaux – membro della Commission des Onze ed eletto nel Direttorio il Primo novembre del 1795 – si disvelarono chiaramente le motivazioni di una scelta di questo tipo:
« …c’est que le Directoire executif proposé a tout l’esprit de faire ce que l’on pourrait exiger d’un gouvernement héreditaire, sans en avoir les inconveniens, puisqu’il est partiallement amovible, et sans avoir en même temps l’inconveniént del la royauté elctive, qui aurat dejà amené en Amérique la guerre civile, et al suite la royauté héreditaire, sans les causes que j’ai rapportées cidessus et sans la profonde moralité du générale Washington» [38].
Paura di un esecutivo forte e sua organizzazione, modello costituzionale americano come possibile riferimento: queste due direttrici trovano la loro ragion d’essere nel conduttore più ampio della separation des pouvoirs.
C’è tuttavia una domanda che si pone in essere nella comparazione tra ciò che la Costituzione americana aveva prodotto in tema di check and balance e quello che la Costituzione dell’anno III intendeva proporre segnatamente alla division des pouvoirs. A porre questa domanda è Sismondi, che si chiede se i francesi si sarebbero avvantaggiati, alla stessa maniera degli americani, di questa divisione .
Di quali vantaggi parla Sismondi – a proposito di ciò che il modello costituzionale degli Stati Uniti aveva suggerito in materia di divisione dei poteri ai costituenti dell’anno III – lo si evince dall’analisi che egli fa della Costituzione del 5 fruttidoro anno III:
«lles Américains se vantent d’avoir trouvé une balance complète et constante, en divisant le pouvoir suprême, en trois parties indépendantes, assurés que toutes les fois que l’une de ces parties acquiéroit trop de puissance, les deux autres, en se réunissant, suffiroient pour la réduire»[40].
Se, però, questo era il sistema di ingranaggi, che i padri fondatori della Costituzione federale del 1787 avevano costruito, e che poteva trovare un riscontro nelle istituzioni dell’anno III, esso non trovò una sua completa applicazione. La risposta, che ci fornisce Sismondi, del perché ciò non accadde continuava a risiedere nella ormai cronica debolezza del potere esecutivo e nella sua impossibilità di partecipare alla formazione della legge:
«Le pouvoir exécutif qui n’a point de voix dans la législation ne peut opposer aux entreprises formées contre lui, que la corruption ou la force, qui à la vérité ne lui manquent pas au besoin»[41].
Nonostante la constatazione che l’esecutivo dell’anno III possedesse una sua debolezza strutturale, ancora Sismondi manifesta tutti i suoi dubbi di fronte ad una soluzione monocratica dell’organizzazione del potere esecutivo. Egli ritiene, infatti, che la Francia è un paese troppo grande e troppo potente perché la direzione del potere esecutivo sia affidata ad un chef unique come, invece, avveniva negli Stati Uniti [42].
Della decisa opinione di rafforzare l’esecutivo era Madame de Staël, che voleva dotare il Direttorio di quel veto réviseur all’americana che ne avrebbe rafforzato l’azione di governo [43]. Della stessa idea, suo padre, Jacques Necker, che considerava determinante l’azione di governo, ossia quel movimento prodotto dall’organo esecutivo che doveva avere l’assoluta preminenza [44]. La condizione indispensabile che permetteva all’esecutivo di avere questa preminenza era, oltre al diritto di veto, la partecipazione alla confezione dell leggi. Tuttavia, un esecutivo così concepito, non era stato – secondo il barone di Coppet – posto nel modo giusto all’interno della organizzazione dei poteri predisposta dalla Commission des Onze.
Se, infatti, negli Stati Uniti, il Presidente dell’Unione è dotato di un diritto di veto – anche se non assoluto – la Costituzione dell’anno III prevede che il Direttorio possa solamente suggerire delle soluzioni legislative, ma non partecipare alla stesura di veri e propri progetti di legge. L’Art. 163/VI della Costituzione dell’anno III recita chiaramente: «Il Direttorio può, in ogni caso, invitare, per iscritto, il Consiglio dei Cinquecento a prendere un oggetto in considerazione; può proporgli delle misure, ma non dei progetti redatti in forma di legge».
La debolezza dell’esecutivo sottolineata da Necker era dunque la conseguenza di una cattiva separazione dei poteri che i costituenti dell’anno III avevano organizzato.
Non vi era, secondo Necker, una buona Costituzione senza che vi fosse una separazione dei poteri che organizzava le funzioni del potere esecutivo e del potere legislativo in quella che l’ex ministro delle finanze di Luigi XVI chiamava «l’entremêlement» delle funzioni [45].
Sembra così che l’organizzazione dei poteri dell’anno III non trovasse la sua giusta essenza.
Si trattava di vera separazione o i termini erano altri? Scrive Colombo: «Il termine ‘divisione’ sostituisce quasi sempre quello di ‘separazione’ che era stato il vessillo della Rivoluzione dell’Ottantanove» [46].
Il risultato di questa divisione fu, perciò, che i due Consigli da una parte, e il Direttorio dall’altra, operavano come due ingranaggi divisi – non separati – in due compartimenti diversi, senza che vi fosse alcun addentellamento e bilanciamento. Il Direttorio non aveva, infatti, nessun mezzo per intervenire sulle decisioni del potere legislativo, né sulla procedura legislativa, né sull’iniziativa di legge, né attraverso il diritto di veto.
Tuttavia, a fronte di questo stato di subordination persistante de l’executif – che si presentava anche sotto l’aspetto della responsabiltà penale – vi era che il Consiglio degli Anziani e il Consiglio dei Cinquecento – pur avendo il potere di nomina del Direttorio – non avevano nessun potere di convocazione dei suoi membri nell’eventualità di una loro responsabiltà politica.
La separazione dei poteri così organizzata portava dunque ad una degenerazione. Essa si sostanziava nella divisione dei poteri individuata da Colombo. Inoltre questa divisione conduceva ad una ulteriore involuzione: l’isolamento dei poteri.
Questa separazione assoluta dei poteri, questa loro divisione esasperata fino all’isolamento, portò le istituzioni dell’anno III a conseguenze paradossali. La situazione di isolamento nella quale agivano le Assemblee e il Direttorio condusse a dirimere i conflitti – che di volta in volta si presentavano – attraverso un sistema tanto brutale quanto efficace: il colpo di Stato. L’aspetto che rendeva bizzarro questo sistema di soluzione dei conflitti era la reciprocità: ad un colpo di Stato del Direttorio ai danni delle Assemblee seguiva un colpo di Stato di queste ultime ai danni del Direttorio.
Questo era dunque il risultato dell’organizzazione dei poteri della costituzione dell’anno III. Questa avrebbe dovuto essere la balances des pouvoirs di ispirazione liberale [47] – alla stregua della Costituzione federale del 1787 – che i costituenti di termidoro avevano messo in piedi.
Ma in realtà la Costituzione dell’anno III aveva creato una iperspecializzazione dei poteri secondo il modello di Costituzione democratica [48]– con una distonia rappresentata dal sistema bicamerale – e che andava somigliando più alla Costituzione della Pennsylvania e a quella dell’anno I, entrambe caratterizzate da un esecutivo subordinato e privato del diritto di veto.
Madame de Staël, in un afflato di disillusione, sotto il trauma del colpo di Stato del 18 fruttidoro – che introduceva il governo militare in Francia – ebbe a scrivere: «Si confonde continuamente la necessaria separazione delle funzioni con una divisione dei poteri che per forza di cose li rendono reciprocamente nemici»[44].
Il 18 fruttidoro e la fine delle istituzioni dell’anno III
Nella giornata del 18 fruttidoro anno V (4 settembre 1797) si consumò l’atto finale del primo colpo di Stato del Direttorio a danno dei Consigli e si rese manifesto quel malfunzionamento che non aveva saputo organizzare quell’armonica separazione dei poteri – che trovava un’ispirazione nel sistema di check and balance della costituzione degli Stati Uniti – ma, piuttosto, aveva condotto la Repubblica francese ad un regime di iperspecializzazione dei poteri che agivano in quasi totale isolamento l’uno rispetto all’altro.
Questa situazione portò, a due anni dalla sua elezione, il primo Direttorio a rendersi artefice della prima ‘infrazione costituzionale’ [51]. Il colpo di Stato del 18 fruttidoro determinò la fine delle istituzioni dell’anno III e l’inaugurarsi della pratica del colpo di Stato preventivo [51], che ebbe modo di ripetersi in altre due occasioni, il 22 floreale anno VI e il 30 pratile anno VII.
Ad innescare la sequenza che portò al 18 fruttidoro furono le elezioni del 15 germinale, per il rinnovo di un terzo dei deputati, che videro vincitrice la destra composta da moderati e realisti. Queste elezioni mutarono la composizione del Consiglio degli Anziani e dei Cinquecento con una riduzione del numero dei deputati della sinistra. La maggioranza che si era formata non doveva, però, assolutamente insediarsi, almeno secondo l’idea di tre direttori: Barras, La Réveillère-Lépaux e Rewbell, che cominciarono, così, a preparare il colpo di Stato a danno dei nuovi Consigli.
Alle tre del mattino del 18 fruttidoro un colpo di cannone annunciò l’entrata a Parigi dei granatieri del generale Augerau. L’indomani furono emanate una serie di leggi di salute pubblica che sgretolarono l’edificio costituzionale e le istituzioni dell’anno III: le elezioni furono cassate in 49 dipartimenti su 98 e furono pronunciate 65 condanne e 53 deportazioni nella Guyana.
La separazione dei poteri organizzata dalla Commission des Onze aveva disvelato per la prima volta tutta la sua debolezza. Essa si manifestava nella condizione di isolamento dei poteri in cui operavano i due Consigli – conseguenza anche del bicameralismo di ispirazione americana – e nel Direttorio, che qualcuno aveva voluto rendere simile all’istituto della Presidenza degli Stati Uniti e che nei piani e nei desideri di molti avrebbe dovuto svolgere un’azione di governo autorevole e non più subordinata al legislativo.
Questo desiderio fu esaudito con un’insubordinazione: il colpo di Stato del 18 fruttidoro.
Note
[1] M. Lahmer, La Constitution américain dans le débat français: 1795-1848, Paris, L’Harmattan, 2001.
[2] F. Furet, D. Richet, La Rivoluzione francese, Bari, Laterza, 1998, 441.
[3] S. Luzzatto, L’autunno della Rivoluzione. Lotta e cultura politica nella Francia di Termidoro, Torino, Einaudi, 1994.
[4] Uno studio fra i più recenti sui rapporti tra la Costituzione degli Stati Uniti e il processo costituente francese è di P. Mandillo, La costituzione degli Stati Uniti nella Francia rivoluzionaria. Il dibattito tra 1787 e 1792, in F. Gui (a cura di), Momenti di storia europea. Saggi e ricerche, Rubbettino editore, Soveria Mannelli, 2006.
[5] N. Matteucci, La Rivoluzione americana: una rivoluzione costituzionale, Bologna, Il Mulino, 1987, 331.
[6] J.E Sieyès, Opere e testimonianze politiche, (a cura di G. Troisi Spagnoli), Milano, Giuffré, 1993, 447.
[7] F. Furet, M. Ozouf, Dizionario storico della Rivoluzione francese, Milano, Bompiani, 1994, 45.
[8] R. Martucci, L’ossessione costituente: forma di governo e Costituzione nella Rivoluzione francese, 1789-1799, Bologna, Il Mulino, 2001, 252.
[9] V. Hugo, Novantatrè, Milano, Mondadori, 2000, 157.
[10]M. Morabito, Histoire constitutionnelle de la France (1789-1958), Paris, Montchrestien, 2004, 113.
[11] Moniteur, XXII 501, (26 brumaio anno III/16 novembre 1794; seduta 24 brumaio anno III)
[12] A.C. Thibaudeau, Mémoires sur la Covention et le Directoire, Paris 1824, 173. “Les thermidoriens disaient qu’on voulait rétablir la tyrannie; et la montaigne demandait qu’on mît en activité la constitution de ’93.”
[13] Martucci, L’ossessione costituente, cit., 276.
[14] Morabito, Histoire constitutionnelle de la France, cit., 114.
[15] A. Saitta, Le costituenti francesi del periodo rivoluzionario (1789-1795), Roma, Istituto Storico Italiano, 1989, 190.
[16] C. Courvoisier, Boissy d’Anglas, rapporteur du projet de Constitution de l’an III, in: G. Conac, J. P. Machelon, La Constitution de l’an III, Boissy d’Anglas et la naissance du Libéralisme constitutionel, Paris, Presses Universitaires de France, 1999, 104.
[17] Thibaudeau, Mémoires, cit., 381: “On trouve dans la constitution de Pensylvanie une institution qui a beaucoup de ressemblance avec le jury constitutionnaire qui vous est proposé”.
[18] Sieyès, Opere e testimonianze politiche, cit., 815.
[19] Ibidem, 833.
[20] Sieyès, Opere e testimonianze poltiche, cit., 833.
[21] Thibaudeau, Mémoires, cit., 387.
[22] Furet, Richet, La Rivoluzione francese, cit., 385.
[23] P. Colombo, Governo e Costituzione. La trasformazione del regime politico nelle teorie dell’età rivoluzionaria francese, Milano, Giuffrè, 1993, 521-522.
[24] Ibidem, 523.
[25] Thibaudeau, Mémoires, cit., 385.
[26] P. L. Roederer, Du Gouvernement, Paris, 1795, 2.
[27] Ibidem, 47.
[28] Ibidem, 50: “Nous avons assez dit qu’à l’unité phisique et individuelle est attachée l’unité de volonté, à l’unité de volonté, à la force de volonté, la force e la célérité d’action”.
[29] Ibidem.
[30] Ibidem.
[31] Morabito, Histoire constitutionnelle de la France, cit., 116.
[32] G. De Staël, Reflexion sur la paix e altri scritti, Milano, 1945, 79.
[33] Lahmer, La Constitution américain dans les débats français, cit., 170.
[34] M. Poniatowsky, Storia del Direttorio, Milano, Bompiani, 1984, 21.
[35] Saitta, Le Costituenti francesi, cit., 185.
[36] J. C. L. Sismondi, Essais sur les constitutions des peuples libres, (a cura di R.Reda), Roma, Jouvence, 1998, 640.
[37] Martucci, L’ossessione costituente, cit., 288.
[38] Moniteur, XXV 305 (5 termidoro anno III/23 luglio 1795; seduta 30 messidoro anno III)
[39] Sismondi, Essais sur les constitutions des peuples libres, cit., 595.
[40] Ibidem.
[41] Ibidem.
[42] Ibidem, 602.
[43] G. De Staël, Des circonstances actuelles qui peuvent terminer la révolution et des principes qui doivent fonder la république en France, Edition critique par L. Omacini, Paris-Genève, Droz, 1979, 190-191: “Il est encore une question importante, c’est l’initiative du Directoire. En lui donnant le veto sospensif sur le lois, cette initiative serait moins nécessaire; et il ya a sùrement des inconvénients à ne pouvoir délibérer, comme on l’a proposé en Suisse, sur les finances, la paix et la guerre que d’après l’initiative du Directoire.”
[44] L. Jaume, Necker: examen critique de la Constitution de l’an III, in: Conac, Machelon, La Constitution de l’an III, cit., 169.
[45] Ibidem, 168.
[46] Colombo, Governo e Costituzione, cit., 489.
[47] M. Troper, La séparation des pouvoirs dans la Constitution de l’an III, in: Conac, Machelon, La Constitution de l’an III, cit., 66.
[48] Ibidem.
[49] G. DE STAËL, C. A. (http://www.Stael.org)
[50] J. Godechot, La Rivoluzione francese. Cronologia commentata 1787-1799, Milano, Bompiani, 2001, 195.
[51] Morabito, Histoire constitutionnelle de la France, cit., 130.