Negli anni Settanta in Italia si registrò una impressionante diffusione della violenza politica. Forte di elaborazioni teoriche atte a giustificarne legittimità e necessità, essa iniziò ad entrare nel repertorio delle forme d'azione di sempre più numerosi attori collettivi. Il fenomeno raggiunse poi le sue manifestazioni più esasperate nelle formazioni dedite alla lotta armata sovversiva [1]. Peculiare del contesto politico e sociale italiano fu inoltre il simultaneo passaggio alla lotta armata da parte di attori di orientamento tra loro diametralmente opposto, così da dare luogo ad un duplice fenomeno: un terrorismo stragista di orientamento prettamente reazionario da un canto e uno eminentemente antisistema e mosso da finalità antirivoluzionarie dall'altro. Proprio in virtù della spiccata connotazione anti-Stato del terrorismo di sinistra, nel presente contributo ci si concentrerà esclusivamente su quest'ultimo.
L'impianto analitico di questo articolo verte sul paradigma del “nemico di Stato” inteso come prospettiva privilegiata da cui affrontare questioni relative alla cultura politica italiana. L'intero saggio sarà sviluppato a partire dall'ipotesi che furono le stesse organizzazioni terroristiche – ed in particolare la principale di queste, le Brigate Rosse – a proporsi in prima persona, attraverso le loro dichiarazioni di guerra allo Stato e la volontà di colpirne “il cuore”, come nemico di Stato per eccellenza. Al centro della ricerca saranno pertanto poste sia le modalità di autorappresentazione delle Brigate Rosse sia la percezione che di queste ebbero i settori sociali più direttamente coinvolti nello scontro politico in corso – movimento operaio, popolazione studentesca e sinistra extraparlamentare in primo luogo. Specularmente a questa prospettiva analitica, ma nella opposta direzione di indagine, si presterà inoltre attenzione alle immagini che nell'ambito del pubblico dibattito sul terrorismo emersero anche rispetto alle rappresentazioni dello Stato italiano.
A partire dagli elementi più significativi incontrati nel corso della ricerca saranno sviluppate alcune riflessioni su un paio di questioni fondamentali per la storia dell'Italia repubblicana: in primo luogo il problema della legittimazione, o meglio della delegittimazione dello Stato italiano, che negli anni Settanta parve raggiungere un picco fino ad allora sconosciuto. Secondariamente sarà affrontata anche la questione della conflittualità sociale e della violenza all'interno delle culture politiche dominanti nel periodo storico trattato. Considerazioni conclusive tenteranno infine di proporre una sintesi complessiva delle problematiche affrontate e della lettura interpretativa proposta.
I. Nemico di Stato vs. Stato nemico
Al fine di ricostruire l'autorappresentazione della principale formazione terroristica italiana – le Brigate Rosse – è opportuno distinguere tra la fase della sua formazione (1970/73) e la fase del consolidamento strutturale e organizzativo oltre che della sua affermazione sulla scena sociale in quanto attore politico (dal 1973/74 fino al sequestro Moro). Nella prima fase l'autorappresentazione delle BR si sviluppò, ovviamente, parallelamente al processo di costituzione del gruppo e rifletteva di conseguenza e in maniera diretta il contesto politico e culturale in cui tale processo si compì. Un contesto che si collocava interamente all'interno dei duri conflitti che travagliavano il mondo del lavoro sin dalla fine degli anni Sessanta. Schematizzando in maniera necessariamente riduttiva, all'origine della svolta verso la lotta armata clandestina si poneva la ricerca di un'organizzazione e di una strategia di lotta “più incisive” con cui contrastare gli sforzi di componimento dei conflitti cui si stavano invece energicamente adoperando i sindacati a ridosso dell'autunno caldo [2]. Fu esattamente in tale contesto che alcune formazioni politiche, tra cui le Brigate Rosse, rafforzarono le proprie posizioni circa la necessità di passare ad una strategia d'azione incentrata sulla lotta armata. Lo spazio d'azione privilegiato fu, in questa prima fase, quasi esclusivamente la fabbrica, mentre il nemico fondamentale contro cui l'azione era diretta erano “il padrone” e “il capitale”. Si sostiene pertanto che già nella fase della loro formazione le BR si qualificassero per uno spiccato carattere antisistema poiché il loro attivismo era consapevolmente rivoluzionario e animato dall'idea di abbattere l'ordine sociale esistente. Tuttavia, lo Stato, sia nella sua accezione di figura giuridica che, più concretamente, di centro dell'esercizio del potere, era ancora lontano dagli orizzonti politici delle Brigate Rosse.
Una svolta importante nel percorso che porterà le BR a porre lo Stato al centro della propria azione rivoluzionaria si avrà invece in coincidenza con alcuni mutamenti all'interno del quadro politico nazionale, tra cui il più influente fu sicuramente la proposta di compromesso storico lanciata dal Pci nell'autunno 1973. Un ulteriore sviluppo si avrà inoltre anche sul piano delle elaborazioni teoriche e delle analisi politico-sociali compiute dalle stesse BR. A partire dal 1974 esse inizieranno infatti ad interpretare gli sviluppi politici in corso a partire dal concetto di “neogollismo”, una sorta di parola chiave con cui cercheranno di dotare di fondamenta teoriche la loro visione indistinta e “continuista” del potere. Ecco allora che, sulla base di una serie di passaggi logici compiuti nella “diagnosi del presente” delle Brigate Rosse, lo Stato (identificato tout court con il partito di governo, ossia la Dc) iniziò ad assumere contorni sempre più nitidi quale obiettivo finale contro cui rivolgere la propria azione. Si spiega così tra il 1973 e il 1974 il progressivo abbandono della “logica fabbrichista” a favore di un'offensiva centrata sulle figure istituzionali a più alta valenza simbolica del potere statuale.
Alla luce degli sviluppi appena accennati si sostiene pertanto che fu proprio in conseguenza di tale svolta – che si potrebbe sintetizzare in uno spostamento dell'orizzonte politico delle BR dal capitale allo Stato – che si compì un mutamento anche nell'autorappresentazione del gruppo. Se inizialmente era prevalsa la sua connotazione di classe, ora era il suo carattere anti-Stato ad assumere contorni sempre più marcati.
II. La percezione sociale del terrorismo
Una volta precisate sia l'autorappresentazione delle BR che la portata antisistema della loro strategia politica, si desidera ora spostare il campo dell'osservazione su alcuni importanti settori sociali per verificare se e in quale misura il paradigma del nemico di Stato abbia avuto un ruolo nella percezione e spiegazione del terrorismo.
Movimento operaio e sindacale
All'interno del movimento operaio le reazioni nei confronti del terrorismo si contraddistinsero per una certa lentezza nelle reazioni oltre che per alcune ambiguità negli atteggiamenti. Nella prima metà degli anni Settanta tale lentezza di reazione derivava anche da difficoltà oggettive a distinguere l'azione di formazioni politiche impostate sulla lotta armata sovversiva dalle azioni violente che nei primi anni Settanta erano di fatto entrate a far parte dello “spirito dei tempi”. Più facile da riconoscere era inoltre il terrorismo stragista di matrice reazionaria, che per il carattere qualitativamente “innovativo” della strategia d'azione perseguita non presentava ambiguità nel presentarsi sulla scena sociale.
Una certa reticenza a prendere una netta posizione all'interno del movimento operaio si poteva tuttavia osservare anche negli anni successivi, quando ormai l'esistenza del terrorismo antisistema e del rispettivo disegno politico erano venuti alla luce in termini inequivocabili. Nelle grandi industrie del Nord si poteva addirittura riscontrare che la violenza come prassi d'azione politica fosse tendenzialmente vista come un dato di fatto acquisito che non suscitava particolari turbamenti [3]. Atteggiamenti di “non-ripulsa” se non addirittura di aperta condiscendenza verso certe “pratiche antipadronali” delle BR in fabbrica riguardarono tuttavia una parte minoritaria del movimento operaio, ossia la componente operaia più radicalizzata e spesso in aperto contrasto con le organizzazioni sindacali. Il mondo del lavoro che invece nei sindacati si riconosceva aderì sostanzialmente anche al giudizio di condanna incondizionata da questi espresso. L'argomento principale sostenuto dai sindacati verteva sulla fatale convergenza tra gli effetti indotti dal terrorismo e i disegni politici dei settori politici più reazionari operanti all'interno del paese. Significativo per il tipo di giudizio espresso dalle organizzazioni sindacali è tuttavia che esso non verteva tanto sul carattere antisistema del terrorismo né si ancorava al paradigma del “nemico di Stato”, poiché l'accento cadeva piuttosto sul concetto del nemico “di classe”.
Il Pci
Un discorso posto in termini analoghi era stato sviluppato e poi sostenuto con massimo rigore e coerenza dal Pci nella seconda metà degli anni Settanta, allorché all'interno del partito era andata affermandosi una linea volta ad una netta e rigorosa presa di distanza da tutte le forme di “estremismo” che si ponevano alla sinistra del partito [4]. Ciò indusse il partito a sviluppare un discorso ruotante anche e maniera sempre più esplicita attorno al paradigma del nemico di Stato. La lotta al terrorismo doveva in effetti compiersi attraverso l'isolamento sociale di tutte le forze in qualche modo favorevoli alla lotta armata o, ancor meglio, attraverso la loro integrazione all'interno di un discorso politico complessivo che tuttavia doveva necessariamente svilupparsi nel rispetto della legalità [5]. A questo proposito occorre tuttavia precisare che il teorema sviluppato dal Pci sul ruolo funzionale del terrorismo rispetto agli interessi più reazionari operanti all'interno del paese verteva in misura decisamente dominante sulla necessità di salvaguardare la democrazia fondante la vita della Repubblica italiana che non su una aprioristica e astratta presa di posizione in difesa dello Stato. Certo, il Pci mostrò sensibilità e consapevolezza rispetto al valore etico-morale oltre che giuridico-istituzionale dello Stato di diritto. Tuttavia, l'accento del discorso sostenuto dal partito cadeva inequivocabilmente sulla necessità di difendere a spada tratta la democrazia e la Repubblica – una Repubblica la cui legittimazione derivava in primo luogo dalle sue origini resistenziali.
Studenti e sinistra extraparlamentare
In ambito studentesco gli atteggiamenti nei confronti della violenza politica furono fortemente condizionati dal cosiddetto “movimento ‘77” [6]. Il grande “rifiuto intransigente” che emerse in occasione della rivolta studentesca nei mesi compresi tra il febbraio e il settembre del 1977 aveva contribuito ad ampliare significativamente la disponibilità alla violenza in vaste fasce giovanili [7]. Nonostante le scioccanti esaltazioni della P 38 che caratterizzavano le manifestazioni studentesche di quei mesi, la rivolta studentesca non si collocava tuttavia in alcun modo all'interno del disegno politico perseguito dal terrorismo. Malgrado un indubbio ampliamento della base di reclutamento del terrorismo (soprattutto di Prima Linea) il “movimento” portò piuttosto alla luce evidenti linee di rottura con il retaggio politico di cui erano invece espressione le formazioni dedite alla lotta armata [8].
Per quanto concerne il dibattito sul terrorismo all'interno della sinistra extraparlamentare va precisato che la discussione riguardò prevalentemente i mezzi dell'azione che non il disegno strategico perseguito dalle formazioni della lotta armata. Soprattutto nella seconda metà degli anni Settanta alcune componenti della sinistra extraparlamentare, tra cui in maniera forse più intensa e approfondita le forze residue della ormai dissoltasi Lotta Continua [9], aprirono un dibattito sulla violenza politica e sulla sua legittimità in quanto prassi d'azione [10]. E' tuttavia importante sottolineare che tale discussione fu stimolata in misura decisiva non dal terrorismo ma dal carattere ormai drammaticamente endemico che la pratica della violenza aveva nel frattempo assunto. Questo era l'aspetto che più interessava e preoccupava la sinistra extraparlamentare e non tanto dunque che gruppi di lotta armata sovversiva potessero mettere a repentaglio l'esistenza dello Stato. Rispetto al terrorismo, la posizione espressa dalla formula lanciata da Lotta Continua «né con le BR né con lo Stato» relativamente al soffocante clima politico dominante nelle settimane del sequestro Moro, era sintomatica di un diffuso sentimento di emarginazione e straniamento che in quegli anni si poteva riscontrare non più solo in ampi settori del mondo giovanile e studentesco, ma anche negli stessi ambienti politicamente impegnati della sinistra extraparlamentare.
Gli intellettuali
Anche tra gli intellettuali è alquanto improbabile riscontrare un giudizio sul terrorismo che potesse in qualche misura evocare un richiamo al paradigma del nemico di Stato. Un dibattito del tutto particolare su “intellettuali, terrorismo e Stato” si scatenò in Italia tra la primavera del 1977 e la primavera dell'anno successivo in occasione del sequestro Moro. Seppur nessun intellettuale espresse mai approvazione, comprensione o altri sentimenti di simpatia per il terrorismo, una parte cospicua del mondo intellettuale manifestò tuttavia grande contrarietà a schierarsi “con o contro lo Stato”, poiché avvertiva in ciò una forte volontà di strumentalizzazione del terrorismo da parte delle istituzioni finalizzata al perseguimento di una “indifferenziata stretta solidale e assolutoria attorno allo Stato”. La posizione, articolata in un lungo e controverso dibattito che a ritmo serrato si svolse sui maggiori organi di stampa[ [11]], apparentemente si avvicinava molto a quella espressa dalla sinistra extraparlamentare. Essa si caricava tuttavia di maggiore spessore critico poiché più ampi furono gli sforzi compiuti dagli intellettuali nel rendere conto anche delle ragioni storiche oltre che immediatamente politiche del proprio senso di “estraneità” se non di vero e proprio “risentimento” nei confronti dello Stato italiano. Sotto accusa non era infatti posto un astratto concetto di Stato e nelle argomentazioni sviluppate non traspariva alcuna condivisione del discorso antisistema che circolava invece all'interno della sinistra extraparlamentare o negli ambienti studenteschi. Sotto accusa venivano posti, in tutta la loro concretezza, lo Stato repubblicano italiano e il sistema di potere democristiano ad esso ancorato, così come, non da ultimo, anche la posizione assunta con determinazione crescente dal Pci, che da massimo partito dell'opposizione si era tramutato in strenuo sostenitore del rigore legalitario in difesa dell'ordine sociale e del sistema politico-istituzionale esistenti.
Dal sintetico quadro appena tratteggiato risulta alquanto difficile, se non impossibile, riscontrare una significativa rilevanza politica del paradigma del nemico di Stato nella comprensione e percezione sociale del terrorismo antisistema degli anni Settanta. Se un tentativo di proporsi in tal senso era stato compiuto da parte delle organizzazioni terroristiche – attraverso una dichiarazione di guerra allo Stato – esso non fu colto dalla società italiana, né in positivo, nel senso dell'avvio di una vera e propria situazione rivoluzionaria nonostante l'impressionante crescita delle formazioni terroriste sul finire del decennio, né in negativo, nel senso di una eventuale stigmatizzazione del terrorismo come nemico di Stato n. 1. Gli strenui sforzi del Pci e dei sindacati nel cercare di reagire alla sfida lanciata tentando di mobilitare istituzioni e società civile su un discorso ancorato anche al paradigma del nemico di Stato – o, più precisamente, nemico della democrazia o, al limite, dello Stato repubblicano – non riscontrarono il successo sperato neanche all'interno del movimento operaio. Queste considerazioni ci portano pertanto a sviluppare alcune riflessioni su una questione direttamente connessa con la debolezza del paradigma del nemico di Stato in Italia, ossia il problema della precaria base di legittimazione su cui lo Stato si reggeva.
III. Il problema della fragile legittimazione dello Stato
Sul problema storico della scarsa, debole ed instabile base di legittimazione dello Stato italiano nelle diverse fasi della sua storia esiste ormai una lunga tradizione di studi che ne ha evidenziato la natura estremamente complessa e sfaccettata. Come ha ben evidenziato Massimo L. Salvatori, una delle peculiarità della storia politica italiana sta nella incapacità di interazione delle diverse forze politiche all'interno di un unico e comune spazio di azione, così che in Italia la nascita di un regime o di un sistema politico è risultata sempre da un processo d'interazione tra «forze aventi concezioni dello Stato e dei rapporti sociali antitetiche» nel corso del quale ha finito necessariamente per affermarsi in maniera esclusiva una di queste forze a scapito delle altre. A partire da tali peculiarità è stata spiegata l'eccezionale diffusione che in Italia ha riscontrato il noto « atteggiamento di contestazione della legittimità» del potere e della classe dirigente italiana. A questo riguardo Luciano Cafagna ha utilmente rilevato come tale atteggiamento – da egli sintetizzato nel concetto di delegittimazione – presenti una duplice matrice di cui è importante tenere conto. Esiste in effetti una profonda differenza tra una delegittimazione che nasce dalla implicita conferma del riconoscimento dei principi legittimanti ma che si costituisce proprio a partire dalla denuncia dell'inosservanza di quei principi da parte di chi esercita il potere, e una delegittimazione «che parte (invece, nda ) da altri e diversi principi (...) e che quindi rifiuta la legittimazione pretesa nelle sue stesse basi » [12]. Si tratta di una differenza importante poiché essa ci consente di stabilire un discrimine qualitativo con cui distinguere analiticamente tra critica intra- e critica antisistema.
Alla luce di tali considerazioni è necessario allora interrogarsi su come si manifestava il problema della legittimazione/delegittimazione o, per dirla in termini salvadoriani, del rapporto tra le «forze dello Stato» e «le forze dell'anti-Stato» nello specifico contesto storico dell'Italia degli anni Settanta. Per rispondere a questo quesito è opportuno partire dall'individuazione di quelle forze politiche e sociali che nel periodo storico considerato più si fecero interpreti di un atteggiamento di contestazione della legittimità. Sotto questo profilo l'elemento di maggiore novità, oltre che più gravido di conseguenze, va sicuramente colto nel nuovo corso politico-programmatico intrapreso dal Pci dal 1973. La svolta “eurocomunista” del Pci si faceva in effetti potenzialmente carico di un progetto di integrazione politica di quelle vaste ed articolate componenti sociali che nel partito si riconoscevano (almeno nel momento elettorale) e che erano pertanto invitate a condividerne l'orientamento programmatico. Il risultato di maggior rilievo si sarebbe potuto pertanto tradurre in un ridimensionamento di portata decisiva del discorso antisistema e anti-Stato all'interno del paese. Inoltre, se è vero che, come è stato osservato [13], entrambe le subculture dominanti nell'Italia repubblicana, il cosmopolitismo cattolico e l'internazionalismo comunista, si richiamavano a valori sovranazionali che non potevano giovare al rafforzamento dell'identità nazionale e tanto meno all'identificazione con le istituzioni costitutive dello Stato, a maggior ragione si può sostenere che la svolta in senso «patriottico istituzionale» [14] compiuta dal Pci negli anni Settanta si faceva portatrice di grandi speranze nel senso di una vera e propria svolta anche rispetto alla delicata questione dell'identità nazionale.
Il “nuovo corso” intrapreso dal Pci non poteva, d'altra parte, non suscitare reazioni critiche in quei settori della sinistra che si sentivano le principali vittime di tale progetto. All'interno delle neonate formazioni della sinistra extraparlamentare e di quelle componenti giovanili più politicamente impegnate, ma soprattutto tra le formazioni politiche che avevano comunque già optato per la strategia della lotta armata sovversiva, andò progressivamente rafforzandosi la convinzione che il sistema politico italiano fosse ermeticamente chiuso a qualsiasi istanza radicale di mutamento. Agli occhi di tali soggetti politici l'unica possibilità di intervenire sui rigidi rapporti di potere esistenti pareva dunque doversi necessariamente caricare di una valenza rivoluzionaria. A sostegno di tale pessimistica analisi politica furono interpretati anche i risultati delle elezioni politiche del giugno 1976, in cui il Pci registrò uno dei suoi maggiori successi, mentre la sinistra extraparlamentare doveva prendere atto di una palese sconfitta. Non fu dunque per casuale consequenzialità cronologica se proprio nella seconda metà degli anni Settanta si assistette ad una crescita di carattere esponenziale delle formazioni dedite alla lotta armata. Né casuale fu che in quello stesso periodo, ossia a pochi mesi dalle elezioni del 1976, si sviluppò quella dirompente rivolta giovanile-studentesca che rivolgeva i suoi sussulti di impotente rabbia proprio contro l'ordine sociale esistente e gli sviluppi politici in corso. Si sostiene pertanto che l'orientamento comprimissorio-integrazionista perseguito dal Pci ebbe tra gli altri anche l'effetto di rafforzare, nel senso di una loro ulteriore radicalizzazione sia le cosiddette forze dell'anti-Stato sia, parallelamente, i termini di un discorso di delegittimazione del sistema politico fondato sulla messa in discussione degli stessi principi costitutivi dello Stato.
Di altra natura furono invece le reazioni critiche manifestatesi all'interno del mondo intellettuale. Il “nuovo corso” e soprattutto la posizione assunta dal Pci rispetto al terrorismo sollecitarono in numerosi intellettuali una critica politica che in ultima analisi andava a confluire in un discorso di delegittimazione che contestava a tutte le forze politiche istituzionali la capacità di un esercizio del potere coerente coi principi democratico-costituzionali su cui si reggeva lo Stato.
Negli anni Settanta si crearono una situazione e un clima politico per certi versi paradossale: se da un lato il progetto politico del Pci mirava ad accomiatarsi da quei presupposti antisistema su cui il partito aveva costruito la propria identità politica oltre che la sua pluridecennale opposizione, dall'altro esso suscitò, seppur indirettamente, la radicalizzazione di quelle residue ma ancora molto vaste componenti sociali che continuavano invece a riconoscersi in un discorso di delegittimazione di tipo antisistema. Nella particolare costellazione politica di quel decennio accadde pertanto che tale discorso andò ad incontrarsi, convergendovi, pur senza mai fondervisi, con un altro discorso di delegittimazione: quello che seppur muoveva da presupposti di condivisione di base del sistema (dello Stato democratico repubblicano) contestava tuttavia le credenziali dei soggetti politici che avocavano a sé l'esercizio del potere. Riprendendo le già citate tipizzazioni proposte da Cafagna, si sostiene pertanto che negli anni Settanta entrambi i due tipi di delegittimazione si svilupparono e radicalizzarono, entrando in un rapporto dialogico che finiva per potenziarne reciprocamente la rispettiva portata. Ecco allora che l'intreccio tra questi due distinti discorsi contribuì, seppur, come ovvio, in concomitanza anche con altri fattori, al raggiungimento di un picco di delegittimazione, ossia di un livello estremo di messa in discussione dello Stato sia nei suoi valori fondativi che nella capacità di governare della sua classe dirigente (crisi della governabilità).
IV. La conflittualità sociale e la violenza nella cultura politica italiana
Un altro complesso di fattori utile a comprendere l'inefficacia del paradigma del nemico di Stato per lo studio della percezione sociale del terrorismo italiano negli anni Settanta va ricercato nelle modalità di gestione della conflittualità sociale e nel posto occupato dalla violenza nella cultura politica italiana. L'assenza o la scarsa efficacia di un sistema istituzionale della mediazione dei conflitti ha fatto sì che in Italia la conflittualità sociale si sia prevalentemente espletata su un modello di contrapposizione frontale contemplante anche, seppur non necessariamente, la violenza. Mentre un articolato sistema di mediazione, strutturato su più livelli e suddiviso in arene tra loro distinte favorirebbe, così come si era verificato nella Germania federale [15], la disaggregazione delle materie del conflitto nelle sue diverse dimensioni – economiche, sociali e politiche –, un sistema basato sul confronto diretto e frontale delle forze confliggenti stimolerebbe, per contro, la formazione di “accumuli di conflittualità”. In conseguenza di ciò tenderebbero a verificarsi con frequenza situazioni in cui i diversi fattori e le diverse dimensioni in gioco si trovano tra loro inestricabilmente aggregate o indistintamente fuse, così che un superamento della conflittualità o di particolari situazioni di conflitto non può che essere ritenuto possibile solo tramite un mutamento radicale o rivoluzionario dell'intero contesto entro cui tale conflittualità si manifesta. Questa è stata la tendenza dominante i rapporti sociali e la conflittualità in Italia [16]. Una tendenza che rispecchiava profondamente sul piano delle dinamiche sociali le condizioni poste dalla chiusura costitutiva del rigido sistema politico italiano, che non consentiva alternative se non attraverso l'affondamento del regime politico esistente e la formazione di uno nuovo [17]. Pertanto, se è forse azzardato avanzare l'ipotesi che la violenza rappresentasse un fattore consustanziale alla cosiddetta democrazia bloccata che ha caratterizzato la storia dell'Italia repubblicana, è plausibile tuttavia sostenere l'esistenza di uno stretto rapporto tra le continue manifestazioni di violenza politica che hanno segnato la storia italiana e le tendenze ad una gestione non mediata dei conflitti anche all'interno dell'ordine politico democratico-repubblicano.
Sulla non riuscita del “modello bundesrepublikano” in Italia si possono avanzare diverse illazioni. Una di queste deve necessariamente prendere in considerazione la questione della violenza all'interno delle principali subculture in cui la cultura politica italiana si è articolata. Uno sguardo particolare deve essere rivolto alla subcultura socialista-comunista, all'interno della quale, tenuto conto delle dovute distinzioni e sfumature, la violenza ha avuto un peso non secondario. A partire dalla teorizzazione della dittatura del proletariato passando attraverso le esperienze storiche del massimalismo e del sindacalismo rivoluzionario giungendo infine, nonostante significativi salti e discontinuità, alle parole d'ordine della sinistra extraparlamentare, del marxismo-leninismo e ancor più del terrorismo antisistema degli anni Settanta («questo Stato non si trasforma, si abbatte») è difficile non convenire sul peso esercitato dalla violenza nella cultura politica della sinistra o di buona parte di essa. Proprio su questo punto, e non a caso proprio negli anni Settanta si era aperta una significativa controversia all'interno del Pci, sollecitato, non da ultimo, da un intervento di Rossana Rossanda, che dalle pagine de «il Manifesto» (28 marzo 1978) sosteneva l'appartenenza culturale del terrorismo antisistema alla sinistra “storica”.
D'altro canto la violenza ha connotato anche, benché sicuramente non in maniera esclusiva e costante, la prassi d'azione della classe dirigente dello Stato italiano, dall'unità alla Repubblica, sia nella gestione ordinaria dell'ordine pubblico che nell'intervento straordinario in situazioni di particolare conflittualità (espressa da movimenti di protesta o manifestazioni di piazza). Non è in questa sede necessario tracciare le linee di continuità che vanno, grosso modo, dalla “crisi di fine secolo” al “biennio rosso” e che qualificano ampiamente l'intera esperienza fascista – dall'ascesa all'apoteosi fino al declino del regime. E' sufficiente concentrare l'attenzione sul periodo repubblicano per constatare con quale tenacia e con quale drammaticità la violenza abbia continuato per certi versi a far parte della cultura politica delle classi dirigenti, quasi si trattasse di un elemento, un fattore, o meglio, un “rimedio” imprescindibile nella gestione della conflittualità sociale e dei conflitti del lavoro in particolare. Rispetto a quest'ultimi, è noto che soprattutto gli anni Cinquanta sono stati segnati non solo da una imponente ondata di “repressione padronale” impostata più sulla discriminazione e la marginalizzazione che sul ricorso alla violenza manifesta, ma anche e in misura forse ancora più traumatizzante da violenti interventi repressivi dello Stato attraverso le sue istituzioni preposte al mantenimento dell'ordine pubblico [18]. A questo proposito si ritiene che gli eccidi di Modena nel gennaio 1950 o, ancora, per citare solo gli eventi più clamorosi, quelli di Reggio Emilia nel luglio 1960 abbiano avuto un impatto letteralmente traumatizzante per la cultura politica del paese, non solo per il fatto di sancire materialmente l'appartenenza della violenza alla prassi politica della classe dirigente, ma anche e soprattutto perché attraverso eventi di questo genere lo Stato italiano finiva per riproporsi ancora una volta nelle vesti di Stato autoritario e repressivo, avverso ai suoi stessi cittadini. In questo modo si finiva insomma per confermare e rafforzare quell'immagine di Stato nemico che, come si è accennato nel paragrafo precedente, continuava ad animare sentimenti e percezioni della realtà di non marginali componenti sociali ancora nell'Italia repubblicana degli anni Settanta.
Sul finire degli anni Sessanta e in misura maggiore nel decennio successivo tali sentimenti non potevano che essere del tutto improbabili se confrontati con il diffondersi della sensazione che fosse in atto un passaggio ad un uso più sottile e mascherato della repressione da parte della classe dirigente o di alcune sue componenti. La “strategia della tensione” e gli eventi inaugurati con “la strage di Stato” del dicembre 1969 furono infatti interpretati dalla sinistra e da grande parte dell'opinione pubblica come le manifestazioni concrete del ricorso a nuovi strumenti repressivi finalizzati a sostituire o per lo meno a dare man forte agli interventi diretti sulle piazze [19]. A questo proposito è sicuramente azzardato, oltre che storicamente inesatto, sostenere che Piazza Fontana si ponga all'origine – in quanto fattore causale ed esplicativo – della lotta armata sovversiva degli anni Settanta, ma è d'altro canto opportuno sottolineare la rilevanza della “strategia della tensione” nell'alimentare tutti quei discorsi che ponevano in discussione la legittimità dello Stato – di uno Stato che, è importante tenere sempre presente, era identificato in toto con il governo democristiano – e giungevano a metterne in discussione anche il diritto ad esercitare il monopolio della violenza. Da qui alla conclusione che se lo Stato impiegava sistematicamente la violenza, era con la violenza che bisognava combatterlo per smascherarne appieno la vera natura, negli anni Settanta il passo era estremamente breve. Fu infatti nel particolare contesto storico di cui si è trattato che si incrinarono definitivamente alcuni principi fondativi della vita sociale organizzata, nel senso che le forze che più radicalmente si erano sollevate contro lo Stato – il terrorismo – avocavano a sé anche il diritto a far ricorso all'uso della violenza. La sfida lanciata allo Stato si giocava insomma anche su questo piano.
Il terrorismo pertanto turbò sicuramente e profondamente la società italiana senza tuttavia sconvolgerla nelle sue fondamenta, poiché questa era in un certo senso avvezza a forme estremamente dure e anche violente di conflittualità. A questo riguardo non si possono inoltre dimenticare anche gli effetti profondi indotti dalla oramai secolare presenza della criminalità organizzata soprattutto sul piano dei quadri mentali e culturali della popolazione italiana. E' significativo che solo nella seconda metà del decennio, quando cioè la violenza politica aveva raggiunto una dimensione che andava ben al di là della lotta armata organizzata per assurgere a strumento di uso quasi comune nella gestione della conflittualità sociale, iniziarono a registrarsi una presa di coscienza collettiva della novità e della gravità della situazione e, di conseguenza, anche forme di reazione più nette e determinate ad affrontare la situazione in vista di un suo superamento.
V. Conclusioni: i funerali
L'epilogo che pose termine alla drammatica vicenda di Aldo Moro stimola alcune riflessioni utili a concludere il tipo di analisi sviluppata in questo saggio. Come noto, il sequestro di Moro si concluse il 9 maggio 1978 con l'uccisione dell'ostaggio e il ritrovamento del suo cadavere in via Caetani a Roma, dopo 55 giorni in cui dietro la «splendida facciata della fermezza»[20] la gestione della crisi aveva rivelato molte delle debolezze e delle non sempre involontarie inefficienze degli organi dello Stato. Ciò che è interessante notare ai fini dell'analisi qui sviluppata riguarda gli sviluppi immediatamente successivi all'assassinio e al ritrovamento del cadavere, ossia il duplice funerale di Aldo Moro. Come espressamente richiesto dallo stesso Moro nella sua ultima lettera e con il consenso pieno della famiglia, i funerali furono celebrati in maniera esclusivamente privata. Da parte sua lo Stato non poteva però rinunciare a una forma anche anomala di celebrazioni, così che a un paio di giorni dal funerale privato la cerimonia ufficiale, quella che avrebbe dovuto e potuto essere un funerale di Stato, si svolse sì in presenza di «pressoché tutti i notabili della repubblica», ma in assenza del «corpo e della famiglia» di Moro. Quella che avrebbe dovuto insomma essere la massima celebrazione dello statista assassinato dai “nemici dello Stato” si risolse così in un «freddo cerimoniale» poiché il «paese in quell'immensa e nuda basilica, non c'era. Il popolo, con le sue passioni e la sua spontaneità, era assente, così come assenti erano la vedova e i figli dello scomparso. Protagonista di quella messa funebre era soltanto l'Istituzione»[21]. La funzione si tenne peraltro, come ha sottolineato Guido Crainz, «in zona extraterritoriale e vaticana» (nella Basilica di S. Giovanni in Laterano) quasi a sottolineare anche spazialmente il vuoto in cui lo Stato pareva in quei giorni trovarsi sospeso [22]. Alla luce di tali eventi si può allora concludere che il sacrificio della persona e della vita di Aldo Moro in nome della ragione di Stato, o meglio, della sua salvaguardia, della coesione e della “solidarietà” nazionale contro i nemici delle istituzioni avesse sortito i risultati sperati? E' sicuramente difficile rispondere affermativamente a questa (retorica) domanda. Se da un canto si deve riconoscere che lo Stato riuscì a non soccombere di fronte all'attacco sferrato dal terrorismo, dall'altro non si può tuttavia sostenere che esso ne uscì da vero vincitore. Questo perché neppure il sacrificio di Moro era riuscito a catalizzare attorno ad esso un incondizionato sentimento di solidarietà e consenso. La comprensibile reazione della stessa famiglia di Moro al momento dei funerali è emblematica di quell'incolmabile scollamento che continuava a travagliare i rapporti tra la società italiana e le sue istituzioni. Se solidarietà e consenso vi furono, come effettivamente vi furono, essi riguardavano piuttosto uno Stato concepito più in termini astratti o centralistico-burocratici che non come fulcro dell'organizzazione della vita collettiva e dunque referente positivo di senso di appartenenza e identificazione. Ciò che riuscì a prendere forma nelle settimane del sequestro Moro è stato definito dal sociologo Luciano Gallino una sorta di “consenso istituzionale”, ossia un consenso «specificamente diretto verso lo stato e le istituzioni del sistema politico e giuridico in cui esso si concreta» [23] che pertanto si differenzia e in parte contrappone ad un consenso di tipo attivo, implicante cioè anche una forma di identificazione.
Nel maggio 1978 pareva insomma che lo Stato repubblicano stesse toccando il suo minimo storico in quanto a credibilità, rispettabilità e fiducia o, una parola sola, legittimazione. Di fronte allo sgomento, all'amarezza e al senso di sconfitta che il lungo braccio di ferro tra BR e Stato aveva finito per infondere nell'intero paese, si sarebbe fortemente tentati a concludere questo saggio abbandonandoci a malinconici o risentiti pensieri sul “paese mancato”. E le ragioni non mancherebbero certo! Non a caso i cahiers de doléances della storia unitaria italiana sono di gran lunga superiori per quantità a tutta la produzione “scientifica” o comunque interessata alla comprensione dei complessi problemi di cui il Bel Paese stenta tanto a liberarsi. Non è per mero spirito polemico nei confronti di chi preferisce insistere a coltivare con meticolosa passione quella che si può definire una vera e propria identità in negativo della collettività nazionale italiana se si preferisce invece concludere con un'osservazione atta a porre l'accento su aspetti tendenzialmente trascurati dalla storiografia italiana sugli anni Settanta. Ciò che si desidera evidenziare è che nonostante le profonde lacerazioni che in quel periodo attraversavano la società italiana, nonostante il nichilismo esistenziale profuso dagli agguerriti nemici dello Stato, nonostante le condizioni di “spappolamento” in cui lo Stato italiano pareva versare, tanto che sempre meno si contavano coloro che erano pronti a mobilitarsi in sua difesa... nonostante insomma la gravità dei problemi che turbavano la vita del paese in quegli anni, vi fu tuttavia una società civile che reagì e che in definitiva contribuì in maniera decisiva, col proprio “stoicismo” a reggere agli scossoni che fecero invece fortemente vacillare le istituzioni dello Stato. La società civile italiana mostrò, certo non compattamente ma comunque in alcuni suoi vasti e importanti settori, un tipo di reazione che si potrebbe sintetizzare in una forma di invulnerabilità e per certi versi anche di fiducia nelle capacità di tenuta se non delle istituzioni dello Stato almeno di sé , del proprio essere, delle proprie attività, dei propri interessi. Certo, i confini tra atteggiamenti di salda e consapevole invulnerabilità da un canto e di cinica indifferenza o qualunquismo dall'altro erano estremamente fluidi, di questo ci hanno avvertiti diversi osservatori del tempo [24]. Ciò non impedisce tuttavia di riscontrare anche un apprezzabile grado di maturazione politica in vasti settori della società italiana che, paradossalmente, proprio in virtù del basso grado di identificazione con lo Stato e le sue istituzioni non si sentì immediatamente minacciata nella propria esistenza. L'aspetto più interessante dello scenario che andò profilandosi in Italia nella seconda metà degli anni Settanta è che continuando “impassibilmente” a vivere, agire e operare senza entrare nella sindrome da stato di emergenza, non lasciandosi cioè paralizzare dallo scontro in atto, la società italiana riuscì a garantire a se stessa quel minimo di risorse necessarie per far sì che il paese non soccombesse definitivamente in una condizione di sfascio totale.
Con ciò non si intende negare né sminuire l'impegno e gli sforzi verso un'uscita dalla crisi che in misura e tempi diversi furono indubbiamente sostenuti anche da parte dei partiti e delle istituzioni. Sotto questo profilo un contributo di enorme importanza deve essere riconosciuto in primo luogo al Pci. Al di là di qualsiasi giudizio politico che se ne voglia dare (ciò che tuttavia non rientra minimamente negli interessi di questo saggio) deve essere riconosciuto che con la sua incondizionata presa di posizione a favore dello Stato repubblicano e delle sue istituzioni democratiche , il Pci riuscì a convogliare (si tengano presente i risultati delle elezioni politiche del 1976!) vasti settori di quelle che allora venivano chiamate le “masse lavoratrici” sui binari di un tipo di discorso che per antonomasia potremmo definire “pro-sistema”, un discorso cioè che in definitiva puntava all'ambizioso progetto di un allargamento della base del consenso (e dunque della legittimazione) per via se non di un'alternanza delle forze di governo per lo meno di un cambiamento delle sue forme e dei suoi principi ispiratori.
Come noto il progetto fallì e la svolta non vi fu. A sfavore del progetto politico del Pci agì probabilmente un errore di calcolo sui tempi, nel senso che la conversione pro-sistema del partito si compì troppo tardivamente, quando orami gli squilibri e i conflitti sociali avevano raggiunto un livello estremamente difficile da gestire se non all'interno di una solida coalizione di governo tra tutte le principali forze politiche, unite tanto negli obiettivi che nei mezzi cui ricorrere nel loro perseguimento. Ma uno sviluppo di questo genere nell'Italia di quegli anni non avrebbe potuto in alcun modo verificarsi, poiché completamente assenti erano le premesse ad esso necessarie (ossia una salda base di consenso rispetto all'ordine politico-istituzionale esistente!). Bisogna inoltre anche considerare che con la brutale eliminazione di Aldo Moro era venuta meno una controparte fondamentale per il progetto politico del Pci. In tal senso si può certamente concludere che nell'Italia degli anni Settanta il terrorismo antisistema sortì degli effetti sostanzialmente opposti agli obiettivi proclamati. La dichiarazione di guerra allo Stato e il conseguente clima di estrema instabilità politica e sociale che il terrorismo si impegnò ad infondere, contribuirono certamente ad alimentare l'immagine dello Stato nemico e una percezione della realtà come se il paese si trovasse alla vigilia di una rivoluzione o di una guerra civile. Ma le reazioni dello Stato e soprattutto della società che, come si è cercato di illustrare, non colse la sfida e non si lasciò paralizzare dall'aut aut “con o contro lo Stato”, riuscirono a neutralizzare il discorso portato avanti dal terrorismo attraverso il rafforzamento di quello che è stato definito il “consenso istituzionale” verso lo Stato. Non si può certo affermare che questo rappresentasse un risultato pienamente soddisfacente per la classe politica italiana, ma andava comunque considerato un passo importante nel lungo e difficile processo di ampliamento e consolidamento della base di legittimazione dello Stato all'interno della sempre più complessa società italiana.
Note
[1] M.Galleni (ed.), Rapporto sul terrorismo , Milano, Rizzoli, 1981; D. della Porta, M. Rossi (eds.), Cifre crudeli. Bilancio dei terrorismi in Italia , Bologna, Istituto di studi e ricerche C. Cattaneo, 1984; G. Galli, Piombo rosso. La storia completa della lotta armata in Italia dal 1970 a oggi , Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2004.
[2] A. Silj, «Mai più senza fucile!» All'origine dei NAP e delle BR , Firenze, Vallecchi, 1977, 85 s.
[3] M. Cavallini, Il terrorismo in fabbrica, Interviste con gli operai della FIAT, Sit-Siemens, Magneti Marelli, Alfa Romeo , Roma, Editori Riuniti, 1978.
[4]E. Taviani, Pci, estremismo di sinistra e terrorismo , in Comitato nazionale Bilancio dell'esperienza repubblicana all'inizio del nuovo secolo (ed.), L'Italia repubblicana nella crisi degli anni Settanta , vol. IV, Sistema politico e istituzioni , a cura di G. De Rosa e G. Monina, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003, 235-275, in part. 257 s.
[5] Questa era stata ad esempio la posizione sostenuta dalla FLM a ridosso degli eventi del febbraio-marzo 1977. Cfr. C. Sabattini, Movimento operaio organizzato e studenti , «Inchiesta», maggio-giugno 1977, 15-17.
[6] L. Caminiti, S ettantasette. Introduzione alla prima edizione (primavera 1977) , in Id. e S. Bianchi, Settantasette , cit., 45-63, in Id. e S. Bianchi (eds.), Settantasette. La rivoluzione che viene , Roma, DeriveApprodi, 2004 2 , 22 s. Sul “movimento ‘77” cfr. anche «Ombre Rosse», 20 (1977), dal titolo Uno strano movimento di strani studenti , interamente dedicato agli eventi del marzo.
[7] Cfr. C. Donolo, I giovani e la crisi, identità e formazione , in «Ombre Rosse», 18-19 (gennaio1977), e il dibattito I non garantiti e la classe operaia in «Ombre Rosse», 21 (giugno 1977), 17-28.
[8] M. Grispigni, Il Settantasette , Milano, Il Saggiatore, 1997.
[9] Sull'epilogo dell'esperienza di Lotta Continua cfr. L. Bobbio, Storia di Lotta Continua, Milano, Feltrinelli, 1988.
[10]Sulla violenza. Politica e terrorismo. Un dibattito nella sinistra, Savelli, Roma, 1978.
[11] Cfr. G. Polloni e D. Romano (eds.), Le cicale e il caso Moro , Roma, Edizioni delle autonomie, 1978; G. Mughini, Gli intellettuali e il caso Moro, Milano, Feltrinelli, 1978.
[12] L. Cafagna, Legittimazione e delegittimazione nella storia politica italiana , in L. Di Nucci, E. Galli della Loggia (eds.), Due nazioni. Legittimazione e delegittimazione nella storia dell'Italia contemporanea, Bologna, Il Mulino, 2003, 17-40, qui 24.
[13] Mariuccia Salvati, Cittadini e governanti. La leadership nella storia dell'Italia contemporanea, Roma-Bari, Laterza, 1997, 117 s. Cfr. anche P. Pezzino, Identità deboli e partiti forti. Le radici storiche della crisi italiana, «Storica», 6 (1996), 55-95.
[14] “Patriottismo delle istituzioni” è stato definito quel particolare legame che tra il 1973 e il 1979 ha unito Dc e Pci nel tentativo di respingere l'assalto eversivo lanciato dal terrorismo. Cfr. M. Salvadori, Storia d'Italia e crisi di regime. Saggio sulla politica italiana 1861-2000 , Bologna, Il Mulino, 2001 3 ,103.
[15]R.M. Lepsius, Die Prägung der politischen Kultur der Bundesrepublik durch institutionelle Ordnungen , in Id., Interessen, Ideen, Institutionen , Westdeutscherverlag, Opladen 1990, 63-84.
[16] Relativamente all'ambito specifico ma oltremodo significativo delle relazioni industriali cfr. M. Magnani, Alla ricerca di regole nelle relazioni industriali: breve storia di due fallimenti in F. Barca (ed.), Storia del capitalismo italiano dal dopoguerra ad oggi , Roma, Donzelli, 1998, 501-544.
[17] Questo aspetto rappresenta secondo M. Salvadori uno degli elementi principali della cosiddetta anomalia italiana, ossia il fatto che nonostante il succedersi di «regimi pur tanto diversi e persino opposti fra loro quali il liberale, il fascista e il democratico repubblicano» invariato sarebbe rimasto «un rapporto tra il nucleo dei governi e il nucleo delle opposizioni tale da non portare mai il primo all'opposizione e il secondo al governo.» Salvadori, Storia d'Italia , cit., 30.
[18] G.C. Marino, Guerra fredda e conflitto sociale in Italia 1947-1953 , Caltanissetta-Roma, Sciascia 1991; Id., La Repubblica della forza. Mario Scelba e la passione del suo tempo , Milano, Angeli, 1995; L. Baldissara, Il conflitto sociale negli anni del "centrismo". Interpretazioni e problemi, in Id. et al. (eds.), Un territorio e la grande storia del '900. Il conflitto, il sindacato e Reggio Emilia, Roma, Ediesse, 2002, vol. 2, Dal secondo dopoguerra ai primi anni '70 , 25-35; D. della Porta, H. Reiter (eds.), Polizia e protesta. L'ordine pubblico dalla Liberazione ai “no global” , Bologna, Il Mulino, 2003.
[19] Sul successo della formula della “strategia della tensione” e le sue implicazioni politiche cfr. l'intervento di G. Sabbatucci, Il golpe in agguato e il doppio Stato, in G. Belardelli, L. Cafagna, E. Galli della Loggia, G. Sabbatucci, Miti e storia dell'Italia unita , Bologna, Il Mulino, 1999, 203-216.
[20] F. La Rocca, L'eredità perduta. Aldo Moro e la crisi italian, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, 152.
[21] Questo il commento a caldo di E. Scalfari, Lo sgomento dopo 30 anni di potere , «La Repubblica», 14-15 maggio 1978, 1 s.
[22] G. Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta, Roma, Donzelli, 2004, 580 s.
[23] L. Gallino, Immagini dello stato e ordine sociale, in Id., Della ingovernabilità, cit., 34-50, qui 35.
[24] Numerose osservazioni al riguardo si ritrovano nella stampa quotidiana nei giorni del sequestro Moro. Cfr. anche A. Arbasino, In questo Stato, Milano, Garzanti, 1978.