Premessa
Negli anni Trenta del Novecento, di fronte all’avanzata del razzismo nazista, alcuni settori della chiesa cattolica cercarono, con grande fatica, di mutare posizione teologica rispetto agli insegnamenti antiebraici che, per secoli, la tradizione religiosa aveva ampiamente diffuso. Il contributo degli insegnamenti religiosi cristiani alla diffusione dell’antisemitismo moderno, tra cui quello nazista, è tema quanto mai controverso e dibattuto. La sensibilità nei confronti di questo rapporto, del nesso tra tradizione antiebraica e più moderne forme di antisemitismo politico, di cui quello razziale fu una variante, nonché la questione della ricaduta concreta degli insegnamenti cristiani nella diffusione dell’antisemitismo moderno maturò proprio in quegli anni quando la “cultura del disprezzo” nei confronti degli ebrei assunse toni sempre più preoccupanti ed aggressivi fino a divenire legislazione antisemita. All’interno della chiesa cattolica le prime riflessioni atte a prendere una posizione di distanza furono elaborate nel corso degli anni Trenta e mirarono in prima istanza ad arginare l’antisemitismo nazionalista e razziale così come si era venuto a sviluppare in Germania dopo l’avvento del nazismo. Quelle poche e rare prese di posizione segnalerebbero, secondo alcuni, un primo tentativo di revisione teologica finalizzato all’elaborazione di una immagine più positiva degli ebrei e dell’ebraismo, ossia una scelta di recuperare una lettura dell’ebraismo in chiave meno conflittuale e negativa rispetto al cattolicesimo e alle altre confessioni cristiane. Queste argomentazioni, ben analizzate dagli studiosi, e miranti a distinguere un ‘antisemitismo legittimo’ da uno ‘inaccettabile’ colpiscono, in primo luogo, soprattutto per la loro intrinseca debolezza argomentativa, sia di carattere teologico e culturale, che politico e sociale. D’altro canto, però, queste prese di posizione appaiono deboli proprio perché incapaci di incidere nettamente sul pensiero tradizionale e provocare una revisione teologica capace di attivare un mutamento antropologico radicale, ancor più difficile da attuare in regimi totalitari.
La consapevolezza che in una cultura religiosa fortemente ancorata alla tradizione teologica e ai suoi insegnamenti il cambiamento di prospettiva debba scaturire, oltre che dalle pressione dei condizionamenti esterni, anche e soprattutto, da una rilettura e reinterpretazione dei discorsi normativi che hanno contribuito alla formazione di quei discorsi antiebraici, dovrebbe spingere gli studiosi a prestare attenzione alla rilevanza, all’impatto e alle modalità con cui una tradizione religiosa accoglie o elabora il cambiamento. A fronte di una vasta mole di scritti e ricerche sull’antisemitismo che lievitano in numero esponenziale in relazione ad un antisemitismo sempre più proteiforme e informe, poca attenzione è stata rivolta – almeno nel contesto italiano – alla conformazione discorsiva antiebraica di matrice teologica e alle pratiche culturali e normative che essa produce. Eppure, per concludere questa breve premessa, tra i fedeli e tutti coloro che in qualche modo rimangono entro i confini della cultura religiosa, cattolica e/cristiana, il cambiamento di percezione e comportamento rispetto all’ebraismo e agli ebrei può avvenire solo e in conseguenza di una mutazione di carattere teologico, gestita dal centro e messa in pratica a livello locale dall’intensa attività del clero in rapporto alla comunità dei fedeli. I cambiamenti di percezione rispetto ad ebrei ed ebraismo – e i caratteri di quel mutamento, le forme di questa nuova sensibilità – costituiscono un oggetto di studio particolarmente interessante che richiederebbe il contributo della sociologia e della antropologia per dare risultati interpretativi di rilievo. Questo cambiamento di sensibilità nei confronti dell’ebraismo, ora percepibile rispetto al passato più recente, è il frutto di un complesso movimento di revisione, avvenuto sia all’interno della chiesa cattolica che nelle comunità cristiane di altra confessione. Un cambiamento lento ma non del tutto definitivo.
La mole degli studi sull’antisemitismo è in questi ultimi anni visibilmente aumentato anche in Italia, così come gli studi sull’antisemitismo cattolico. Per quanto concerne la ricerca sull’antisemitismo nel mondo cattolico la storiografia contemporanea si è soffermata sull’attenta e meticolosa ricostruzione del contesto storico, così come sui nessi tra antigiudaismo (di matrice religiosa) e antisemitismo moderno (di matrice politica e razziale), problemi in parte connessi anche alla dichiarazione vaticana del 1998 con la quale si ribadiva, attraverso la distinzione concettuale di antigiudaismo e antisemitismo, la marginale responsabilità degli insegnamenti della chiesa nella formazione e diffusione dell'antisemitismo moderno.
Detto questo, occorre sottolineare che il rapporto storico tra ebrei e cristiani è determinato dalla presenza di un antagonismo strutturale che prende forma fin dai primi secoli dell’era cristiana. La storia di questo rapporto è tanto affascinante, quanto complessa e ambivalente se si accettano le affermazioni di alcuni storici, secondo i quali il processo di parificazione giuridica che coinvolse anche le comunità ebraiche – raggiunta tra la fine del Settecento e nel corso dell’Ottocento – sia stato il prodotto di un cambiamento di sensibilità all’interno di alcuni gruppi cristiani. Non potendo affrontare questo delicatissimo tema, vorrei però sottolineare un aspetto importante: i cristianesimi, alcuni più di altri, non possono esistere senza “antigiudaismo” essendo questa una componente strutturale della loro identità culturale. Essendo il cristianesimo un sistema religioso complesso, anche l’antigiudaismo è un sistema complesso, che abbraccia più sfere dell’azione sociale e culturale. Laddove il cristianesimo si fa cultura, ossia esce dalle sfere strettamente ecclesiali e modella la vita associata del gruppo di fedeli, allora anche l’antigiudaismo diventa culturale espandendosi oltre la sfera circoscritta del teologico/religioso. Parallelamente, questo aspetto strutturale contempla anche un altro dato, ossia la necessità, che matura a partire dal Seicento, di trovare una soluzione, una collocazione sul ruolo degli ebrei e dell’ebraismo nella società cristiana. Questi elementi sono molto importanti per comprendere alcuni delle questioni che solo superficialmente verranno affrontati in questo breve intervento, dedicato ad alcuni aspetti dell’antisemitismo cattolico.
Nella sua variante cattolica, l’ostilità antiebraica riflette le tensioni e i rapporti istituzionali che caratterizzano l’organizzazione del cattolicesimo: nel ricostruire le forme di questa secolare ostilità occorre prestare attenzione alle istanze che provengono dal centro, con punto focale Roma e alle istituzioni che da essa dipendono – per poi analizzare i rapporti con le diverse costellazioni locali, le quali recepiscono i modelli culturali dall’alto e li rielaborano adattandoli ad esigenze specifiche. Le istanze locali (periferie urbane o interi contesti nazionali) sono a loro volta differenziate al loro interno in “culture cattoliche” che a partire dall’Ottocento si politicizzano in direzioni talvolta anche divergenti. Infine, occorre ricordare che la ricerca sulle forme di antisemitismo cattolico deve tenere presente due elementi che contraddistinguono la natura del cattolicesimo: la sua componente politica (che non cessa mai di agire e strutturarsi nella storia) e la sua componente spirituale. Vale a dire, la compresenza, nella chiesa, dell’agire intra-mondano e dell’agire ultra-mondano, elementi fortemente intrecciati tra di loro e che se ben valutati, illustrano megglio le dottrine antiebraiche, parte connaturata della tradizione dottrinale cristiana e cattolica, ed elemento centrale delle sue pratiche politiche.
Il tardo Ottocento: stampa cattolica e antisemitismo
L’Ottocento ha indubbiamente costituito un un periodo critico ma anche creativo per il mondo cattolico e per le chiese cristiane. Il compimento del processo di unificazione dell’Italia e la caduta del potere temporale dello stato della chiesa sembrano sancire definitivamente quel processo che, avviatosi con la rivoluzione francese, aveva contribuito a ridurre il potere e l’influenza della chiesa cattolica nella sfera pubblica. La condanna della “modernità”, espressa dalla pubblicazione del Sillabo, cristallizza quindi due movimenti solo in apparenza contraddittori: da un lato definisce una sorta di naturale presa di posizione critica nei confronti delle vicende correnti, tagliando fuori dal suo seno tutti quei cattolici che avevano abbracciato le novità politiche e culturali sette-ottocentesche; mentre dall’altro inaugura una politica di militanza che è finalizzata, in modi articolati e diversi tra loro, al recupero degli spazi perduti e alla riconquista della società [per bibliografia, Verucci 1999].
Nel decennio cruciale, che vede eventi quali la breccia di Porta Pia e la crisi economica del 1873, prende forma, nel contesto europeo, una cultura politica e sociale fortemente influenzata dalla diffusione di nuove forme di ostilità antiebraiche, spesso rubricabili nel lemma di “antisemitismo politico”. Il neologismo con cui questa costellazione di tradizioni antiebraiche si presenta, ossia il termine antisemitismo (un termine che appare, secondo una tradizione consolidata, nel corso del 1879), sta ad indicare, da un punto di vista ideologico, la sintesi di varie correnti culturali che si erano sviluppate e cristallizzate nel corso dei decenni precedenti, ma anche una svolta di carattere politico, nel senso in cui, questo lemma indicherebbe altresì una tendenza dell’ostilità antiebraica a farsi “azione”, attraverso l’organizzazione di leghe, partiti, movimenti politici, o anche a caratterizzarsi per la sua ideologia non necessariamente religiosa o tradizionale. Dal punto di vista ideologico, l’antisemitismo moderno raccoglieva una molteplicità di discorsi, alcuni dei quali del tutto nuovi, altri invece antichi, ma secolarizzati, adattati alle esigenze della società moderna. Nuovo era il contesto politico e sociale che accoglieva questi discorsi, ossia il “regime di secolarizzazione”, gli stati nazionali e l’impero multinazionale asburgico. Contesti nei quali, con l’eccezione dell’impero zarista, le comunità ebraiche tradizionalmente residenti erano state giuridicamente parificate in un processo molto lungo e tortuoso che giunge a compimento, in Germania come in Italia, con il processo di unificazione politica.
È in questo contesto, ideologicamente agguerrito e politicamente modificato, che si colloca la nascita e l’organizzazione della stampa cattolica, e con essa l’articolazione di una sostenuta polemica antiebraica. La pubblicazione di riviste, periodici, bollettini e fogli cattolici di vario tipo aumentò sensibilmente a partire dagli anni Sessanta dell’Ottocento, per aumentare, talvolta in modo effimero, dopo gli anni Settanta. Questa febbrile attività giornalistica finalizzata a pubblicazioni di vario titolo è indubbio indice di una crescente attenzione della chiesa ai nuovi mezzi di diffusione della cultura e propaganda.
La presenza di nuovi quotidiani risponde, d’altro canto, all’urgenza di contrapporre una lettura cattolica alle vicende storiche correnti e all’attualità politiche. Le testate e le pubblicazioni cattoliche vanno ovviamente analizzate in base alle loro funzioni. Esse sono indirizzare a pubblici diversi: da un lato, riviste come «La civiltà cattolica» e «L’osservatore romano» sono indirizzate ad un pubblico più generale, quando non extra-nazionale, come nel caso della rivista dei gesuiti. I quotidiani e i bollettini di fattura locale costituiscono una fonte che guida le esigenze del clero e dei cattolici ad un livello molto più circoscritto. Gli studi dedicati alla stampa locale si sono rivelati illuminanti perché, se da un lato riflettono le direttive culturali che provengono dal centro, dall’altro esprimono anche interessi, tensioni e conflitti più particolari. Sono quindi di grande interesse quelle testate e quei periodici indirizzati sia al clero che al laicato cattolico che agiscono in città o villaggi dove esiste una comunità ebraica di un certo rilievo – come ad esempio, Firenze, Livorno, Pisa, Roma, Milano, Torino, Mantova, Venezia, Padova, solo per menzionare quelle più importanti (vedi il caso di Torino). I contributi più recenti sulla stampa periodica cattolica, finalizzati anche all’analisi del nesso tra “antigiudaismo” e “antisemitismo”, hanno portato alla luce un’ampia messe di discorsi antisemiti, registrando la presenza di temi ricorrenti che avevano un’ampia circolazione europea, combinando sia attacchi specifici indirizzati a personalità ebraiche che questioni di carattere più generale. I dati finora emersi permettono di distinguere quei discorsi di carattere tradizionale e astratto, spesso legati alla tradizione polemica di matrice religiosa, dai discorsi influenzati da una lettura polemica e tendenziosa di eventi storici concreti – attacchi a giornalisti ebrei, personalità politiche o imprenditori, o letture antiebraiche di eventi e processi storici. Non si tratta di un aspetto secondario, poiché gli insediamenti ebraici sono, in Italia, demograficamente contenuti a fronte di un antisemitismo molto diffuso, che si nutre spesso di immagini chimeriche e fantasmagoriche, le quali funzionano anche senza la presenza di ebrei reali.
Tra i temi più classici e contemporaneamente meno studiati della polemica antiebraica cattolica quello del “deicidio” svolge un ruolo preminente. In questo saggio cercherò di analizzarne alcuni aspetti, soffermandomi soprattutto sulla forma in cui venne nuovamente riattivato nel corso della seconda metà dell’Ottocento. Tre ordini di motivi suggeriscono di riaprire una indagine su questo tema. Da un lato, la sua insistente presenza nelle pubblicazioni periodiche, come in quella qui utilizzata come case study, vale a dire «La Palestra del Clero» di Roma, e la sua permanenza anche nei momenti più critici, come ad esempio nella polemica antisemita degli anni Trenta. Un secondo aspetto è determinato dalla centralità — simbolica, religiosa e culturale — che questo tema ha assunto nell’immaginario e nella teologia cattoliche, e dalle diverse funzioni che esso ha svolto nella cultura europea, tanto da assumere una rilevanza centrale nella percezione del mondo ebraico. Infine, ciò che mi suggerisce di rileggere questo tema con una diversa sensibilità, deriva dai recenti dibattiti che si sono consumati negli ultimi anni in ambienti accademici americani, soprattutto in reazione al controverso film di Mel Gibson. Il tema del deicidio, frequentemente marginalizzato nel dibattito scientifico nostrano, è stato fatto oggetto di crescente attenzione e occupa uno spazio privilegiato nel dialogo ebraico-cristiano, come sembrano indicare seminari di studio (come ad esempio quello recente organizzato presso il United States Holocaust Memorial Museum), o l’intensa attività di biblisti, esegeti e storici dell’ebraismo e del cristianesimo antichi.
Passione di Cristo e deicidio
Ma chi fosse quel tacito reo,Che davanti al suo seggio profano
Strascinava il protervo Giudeo,
Come vittima innanzi a l’altar,
Non lo seppe il superbo Romano;
Ma fe’ stima il deliro potente,
Che giovasse col sangue innocente
La sua vil sicurtade comprar.
Su nel cielo in sua doglia raccolto
Giunse il suono d’un prego esecrato:
I Celesti copersero il volto:
Disse Iddio: Qual chiedete sarà.
E quel Sangue dai padri imprecato
Sulla misera prole ancor cade,
Che, mutata d’etade in etade,
Scosso ancor dal suo capo non l’ha.
(Manzoni, Inni sacri. La Passione, 1812]
Non è casuale menzionare La passionedi Alessandro Manzoni, il quale si era cimentato, negli Inni sacri, con uno dei momenti più topici della fede cristiana, ossia la “Passione di Cristo”. Si tratta ovviamente di una concezione diversa di cristianesimo quella espressa da Manzoni, in cui timidamente sembra farsi avanti una denuncia dell’accusa di deicidio, anche se la potenza delle immagini cristallizzate nelle narrazioni evangeliche e nella tradizione successiva sono qui tutte presenti e simbolicamente potenti. Il brano che ho scelto per aprire la riflessione sulla forza culturale della “passione” è indice del fatto che nella tradizione antiebraica questo macro-argomento costituisce uno snodo centrale, che si compone di molti sotto-temi, di cui l’uccisione di Gesù costituisce il focus attorno al quale fu sviluppato ed elaborato il tema del deicidio.
Gli interventi dedicati ad ebrei ed ebraismo presenti ne «La palestra del clero» sono in effetti suggeriti dalla organizzazione dell’anno liturgico cattolico. Nei dieci anni presi in considerazione, dal 1878 al 1888, apparvero circa una quarantina di articoli, molti dei quali strettamente connessi al momento della Pasqua e di Pentecoste. Si è scelto questo decennio perché proprio questo lasso di tempo coincide con il periodo in cui, secondo molti studiosi, l’antisemitismo moderno si configura come movimento politico, reagendo ad una serie di trasformazioni sociali e di crisi economiche che incisero indelebilmente sulle società del tempo. Nel caso italiano, il decennio è anche segnato dall’inizio del papato di Leone XIII, periodo in cui vengono a definirisi temi antiebraici che si erano presentati negli anni immediatamente successivi al compimento dell’unità d’Italia e alla caduta dello stato pontificio. In questo decennio i temi antiebraici prendono forma e si cristallizzano, sia nel mondo cattolico che in quello liberale, in consonanza alla organizzazione dei movimenti antisemiti che animano la politica europea degli anni Ottanta. Agli inizi degli anni settanta appaiono, nel campo liberale, i primi segni di insofferenza nei confronti degli ebrei che si manifestano dapprima con l’affare Pasqualigo, nel corso del 1873 e, successivamente, in alcuni interventi di eminenti figure dell’elité liberale e durante l’Affaire Dreyfus [Canepa 1975; Toscano 2003a, 2003b, 2008; Di Fant 2002; Nani 2006; Pavan 2009].
Accanto a queste tendenze, il mondo cattolico italiano sembra privilegiare, nella sua polemica antiebraica, una serie di temi specifici, alcuni dei quali ancorati alla tradizione religiosa. Per quanto concerne il nucleo tematico che dipende dalle narrazioni relative alla Passione di Cristo, occorre ricordare che gli argomenti costruiti sul canovaccio della lettura e del commento di alcuni brani degli scritti neotestamentari portano in scena, nei momenti liturgici densi di significati religiosi e culturali, le figure centrali del dramma della Passione di Gesù, in cui gli “ebrei” giocano un ruolo fondamentale.[1] Tra i personaggi che prendono parte a questa vicenda, appaiono Giuda, i farisei, il sinedrio, “i giudei” come popolo, i Romani, Ponzio Pilato, le donne. I temi ricorrenti, almeno nei testi analizzati, fanno riferimento esplicito alla sofferenza di Cristo, alla caduta di Gerusalemme, alla punizione di Dio, al rifiuto del messia da parte del popolo ebraico e alle conseguenze politiche di un atto così immensamente scandaloso. Ma nel complesso, attorno alle scene della Passione, prendono forma tutta una serie di altri temi, che si prestano alla polemica antisemita del tempo, come si può immaginare ad esempio pensando al ruolo ricoperto da Giuda o alla associazione tra ebrei e massoneria. Si tratta di motivi e temi che, se possono apparire scontati, sono ripetuti periodicamente nelle chiese e diffusi da nuovi mezzi di comunicazione, quali la stampa; subiscono, in taluni casi, anche un processo di ri-semantizzazione, ossia assumono valenze diverse nel nuovo contesto storico, adattandosi alle esigenze della società e del gruppo, fino a trasformarsi radicalmente.
La forza di queste immagini è determinata dallo stretto rapporto che si innesca tra testo sacro (la Bibbia) e rito: il tema della “passione” non è solamente uno dei tanti argomenti che appaiono nella polemica antiebraica, ma è contemporaneamente protetto e rafforzato dalla struttura del rito, sia nella espressione orale della predicazione che nel suo re-enactment, di cui l’esempio più significativo è costituito dalle sacre rappresentazioni. Insomma, si può dire, per semplificare, che il tema del “deicidio” è veicolato non solo non solo dal suo carattere testuale, ma anche dalla sua dimensione rituale, sia nella forma del rito orale che in quella del rito mimetico.
Queste immagini e questi discorsi svolgono una funzione simbolica molto importante nella diffusione e permanenza delle culture antiebraiche. Ma soprattutto trasmettono una forma di ostilità antiebraica che non presuppone l’esistenza concreta degli ebrei e dell’ebraismo. Inoltre è plausibile ipotizzare – in mancanza di riscontri precisi – che le forme di diffusione della mentalità antiebraica usufruissero in modo efficace di questi canali, rito, predicazione e liturgia. Nella diffusione dell’antisemitismo a livello popolare dobbiamo quindi valutare meglio l’impatto della performance rituale e dei messaggi che essa riesce a veicolare.
In questa sede mi interessa porre l’accento non tanto sulla circolazione di questi temi che, al di là dei dati concreti che si possono rinvenire, appaiono frequentemente nelle fonti a stampa cattoliche come è evidente dagli articoli di questo dossier che dagli studi più recenti. Mi interessa evidenziare gli aspetti strutturali di questo discorso religioso, i suoi molteplici significati e la sua straordinaria capacità di incidere sull’antisemitismo moderno.
Qualche nota a margine del tema del “deicidio”
L’immagine e il mito degli ebrei come «uccisori di Cristo», per usare una bella formula di Jeremy Cohen, hanno una storia complessa e molto articolata, costituendo momenti topici della fede cristiana. La plasticità delle narrazioni sulla Passione costituisce uno snodo centrale, perché potenzialmente capace di rispondere a svariati bisogni antropologici, psicologici e sociali fondamentali. La genesi del tema del “deicidio” è stato individuato in alcuni scritti dei padri della chiesa (in parte supportati dalle narrazioni presenti nei vangeli canonici) e in particolare in Melitone (forse di Sardi) che per primo, alla fine del II secolo dell’era volgare, unisce, in un binomio destinato ad avere grande successo, l'immagine di “Israele”, in quanto popolo biblico e storico, con quella degli ebrei, presenti nei brani evangelici, come «uccisori di Cristo». “Israele” (biblico) diviene così, in una immagine efficace, il popolo che ha «ucciso Dio» (nella forma di Gesù) [Cohen 2007, cap. 3]. Da un punto di vista della storia delle religioni, questo tema si compone dell’argomento della “morte di Dio” interpretato però come atto criminoso compiuto da un gruppo umano specifico – gli ebrei, quelli immaginari e quelli reali. Propongo, come ipotesi da esplorare, di analizzare in profondità l’idea del “Dio morente”, così presente nelle culture politeiste – e in particolare nel ricco pantheon classico – e quella della “morte di Gesù” in relazione a idee e credenze di matrice biblica – la punizione, la perdita della terra per volontà divina laddove il patto con Dio non venga rispettato, appartenente alle concezioni deuteronomiste. Accanto a queste immagini si sovrappone e si incardina l’interpretazione sacrificale della morte di Gesù, il quale salva i fedeli condannando però gli ebrei. Centrale allo sviluppo del meccanismo e al successo dell’accusa del deicidio concorre anche la elaborazione del tema del “popolo criminale”, di più difficile rinvenimento almeno nelle fonti più antiche, ma ben sviluppato in età medievale anche attraverso la diffusione dell’accusa di omicidio rituale.
È interessante notare come la definizione di “deicidio” appaia ancora, dopo la seconda guerra mondiale, nel Dizionario Ecclesiastico pubblicato da Utet. In una voce molto breve e chiara si presenta una etimologia del termine (da deus = dio e caedo= uccido), sottolineando che il “deicidio” è un:
termine indicante l’uccisione di un dio; si usa esclusivamente per designare la morte di Gesù Cristo sentenziata da Pilato e dal Sinedrio ebraico. Propriamente Gesù non poté essere ucciso che come uomo, non già come Dio, ma – in virtù dell’Incarnazione e dell’Unità di persona in lui, Dio e Uomo – è legittimo adoperare il termine deicidio, allo stesso modo che si dice che Dio è nato, ha patito, è morto ed è resuscitato. [Dizionario ecclesiastico 1953, 827]
Pur non rinunciando a sottolineare questo ambiguo aspetto degli insegnamenti cattolici, la definizione è decisamente espunta di tutti gli altri elementi che si erano accumulati attorno a questo tema nel corso dell’ultimo secolo.
L’accusa di deicidio venne ha svolto un ruolo centrale nella polemica antiebraica perché si presta perfettamente a costituire l’archetipo dei crimini compiuti contro l’umanità (intesa nei suoi termini cristiani). Gli ebrei, che non si sono convertiti e non hanno riconosciuto la messianicità di Gesù, figurano quindi come popolo criminale, estensore del delitto per eccellenza, quello dell'assassinio di Dio. L’immagine degli ebrei “assassini” e deicidi si cristallizzò nell’immaginario cristiano occidentale attorno ad una serie di altri temi teologicamente più significativi, come la concezione del popolo testimone e la dottrina della sostituzione, diffondendosi tramite strumenti liturgici, libelli, immagini, arte sacra e liturgia, architetture e organizzazione dello spazio. Essa divenne, nel corso dell’Ottocento, un’immagine talmente potente da essere indistintamente utilizzata da cristiani e non cristiani.
Letture politiche del deicidio
La “passione di Cristo” si presta quindi a veicolare l’accusa di deicidio, anche se, da un punto di vista storico e filologico essa non è immediatamente contemplata nei brani che descrivono il processo, la condanna e la morte di Gesù. Tuttavia, al di là degli usi che i cristianesimi hanno fatto di questo tema/mito, è nel contesto cattolico del secondo Ottocento che “passione” e “deicidio” assurgono ad una rinnovata centralità nel dibattito politico e culturale.
Per quanto concerne il contesto italiano, la lettura politica della “passione di Cristo” e il tema del deicidio appaiono sulla scena pubblica, in modo politicamente e culturalmente pregnanti, nei primi anni settanta [Miccoli 1997, 1398-1407]. L’espulsione di Cristo dalla società contemporanea si rivelava strumentale per istituire un’associazione immediata tra i responsabili dell’antico e scandaloso rifiuto (quello ebraico) e gli eventi politici correnti – ossia la caduta dello stato pontificio. Questo nesso, che negli articoli della «Palestra del clero» viene riproposto nelle sue molteplici sfumature ma all’interno di un discorso indirizzato al clero e alle funzioni pastorali, è tematizzato in un articolo che «La civiltà cattolica» pubblica nel 1872, dal titolo emblematico Il Golgota e il Vaticano.[2] All’indomani della breccia di Porta Pia Pio IX insisteva, nei suoi discorsi pubblici pronunciati in momenti liturgici ben precisi, sul rapporto tra calvario, sofferenza di Cristo, persecuzione anti-cristiana delle origini e politiche anti-clericali degli stati moderni. In momenti culturalmente e religiosamente densi di significati – Natale, il periodo pasquale – appaiono espliciti riferimenti a quella che sembra essere una inedita, quanto tradizionale, associazione della morte di Cristo con la caduta del potere temporale della chiesa [Miccoli 1997, 1407; Di Fant 2007]. Nelle più recenti analisi condotte sugli articoli apparsi nella «Civiltà cattolica» dalla data della sua fondazione, 1850, fino alla fine degli anni Settanta, è emerso come questo nesso politico-religioso, che legge i temi della Passione alla luce degli eventi politici fosse già proposto nei decenni precedenti, soprattutto in relazione alle vicende legate al Risorgimento e all’Unità d’Italia [Lebovitch Dahl 2003].
Il successo di questo tema, che veicola l’idea di una attualizzazione della crocifissione di Cristo ad opera degli ebrei applicata di volta in volta a soggetti ritenuti affini – al Papa, alla nazione, alla società tradizionale e via di seguito – è riscontrabile nella sua capacità di farsi icona, e di diffondersi tramite vignette, immagini, dipinti.
L’accusa di deicidio, la quale si fonda su argomentazioni che sono contemporaneamente religiose e politiche, permette alla chiesa di interpretare tutte le forme di conflitto in cui essa si trova coinvolta entro uno schema chiaro, traducibile nei seguenti termini: l’immagine di Gesù crocifisso, che riaffiorerà nelle icone visive, rappresenta la crocifissione della chiesa. Il crimine perpetrato dai «Giudei» è ora compiuto da «anticlericali, massoni, ebrei moderni». La centralità assunta dal tema del deicidio implica quindi, in un contesto politico mutato, non solo la riproposizione di un discorso teologico tradizionale ma contribuisce a diffondere una serie di corollari, alcuni di carattere politico e altri di carattere culturale destinati ad un successo immenso. Ad un primo livello, attraverso la storia della “passione di Cristo”, si intende ricordare che il popolo ebraico è deicida e come tale non può essere liberato dalla sua necessaria schiavitù (quindi subordinazione) attraverso meccanismi moderni e concezioni nuove di parificazione giuridica. Ritornare su questi nessi significa opporre una filosofia della storia che si contrappone nettamente agli eventi politici che si sono succeduti nel corso degli ultimi decenni, segnati da concrete vicende di emancipazione politica e dalla fede di un progressivo avanzamento di quegli ideali. La parificazione giuridica, che non viene mai esplicitamente riconosciuta, sarà esplicitamente condannata nel corso degli anni novanta, in un contesto in cui l’antisemitismo europeo si manifesta con grande virulenza e con rinnovate armi.
Altro tema evocativo che deriva dai testi evangelici è quello relativo al processo contro Gesù, peraltro non secondario nell’elaborazione del tema del “popolo deicida”. In questo frangente, gli ebrei sono descritti tramite immagini negative, desiderosi di complottare contro Gesù, guidati dalla volontà di ucciderlo, coadiuvati da Pilato, debole e vile, incapace di opporsi. Ora – così scrivono gli autori cattolici, attualizzando l’immagine nel linguaggio della politica e della società contemporanee – nello stesso modo la «Massoneria, gli atei e gli Ebrei complottano contro la Chiesa»[3]. L’odio che, in questi testi, è rivolto ai farisei evangelici si ritraduce nel disprezzo verso i «farisei moderni»[4]. La «maligna ipocrisia di scribi e farisei» coincide con quella di ebrei, massoni e atei, veri e propri “farisei moderni” che lottano contro il papato. Il termine fariseo – che in quegli anni è ampiamente discusso nelle ricerche scientifiche sul cristianesimo delle origini – viene così ad assumere, nel linguaggio corrente, nuove connotazioni negative e significati inediti[5]. L'uso attualizzante di questi brani consolida e legittima anche uno dei grandi temi dell’antisemitismo ottocentesco e novecentesco, quello del “complotto ebraico”, divenuto modello di interpretazione della genesi della società moderna che si diffonde nella riflessione cattolica post-rivoluzionaria fino a condensarsi nei Protocolli degli Anziani Savi di Sion, il famoso falso che, pubblicato agli inizi del ventesimo secolo, sarà destinato a grande successo ed ampia diffusione.
Lo struttura del discorso è semplice poiché si fissa sull’immagine binaria e sulla dicotomia noi/loro, amico/nemico che permette l’assunzione di toni manichei, assoluti, dualistici (Chiesa/Sinagoga, Bene/Male, Dio/Satana). Il tema della colpa originaria e quello, strettamente connesso, della responsabilità collettiva del deicidio sono funzionali alla comprensione di fenomeni sociali associati alla modernità e permettono di assimilare i movimenti di critica e opposizione alla chiesa entro l’immagine del nemico teologico classico – gli ebrei – e al contempo ricordano che la chiesa, come in passato, «risorgerà vincitrice», «come Cristo il terzo giorno», annientando i suoi nemici. La lotta tra bene e male, tra Gesù e “giudei”, tra chiesa e civiltà moderna, rappresentata da ebrei e massoni, è costitutiva di questa elementare grammatica antiebraica e garantisce una spiegazione semplice degli eventi, passati e contemporanei, facilmente decodificabili dai fedeli più o meno alfabetizzati o acculturati attraverso le immagini note della passione e il mito del deicidio[6].
Gerusalemme punita
Accanto a questi aspetti, le indicazioni per la predicazione veicolano altri temi destinati a grande fortuna. Il ragionamento teologico sul deicidio presuppone una forma di punizione divina che si materializza in una condizione politica precisa, nella perdita eterna della terra, in altri termini della autonomia politica. Gerusalemme, città ingrata verso il Redentore, e i suoi abitanti, «ribelli e duri di cuore», sono descritti nei testi proposti per il periodo di Pentecoste. Vediamo il seguente brano, in cui Gerusalemme appare personificata, secondo un classico modello presente anche in molti brani tratti dai profeti biblici:
Ingannata! Lo vedrai un giorno se fosse stato meglio per te portare l’ingiusto giogo romano, o l’accogliere piuttosto con esultanza il tuo vero re, il discendente di Davide, l’erede dello scettro di Giuda. Ma già io veggo che Cristo in mezzo al suo trionfo versa amare lacrime sopra l’ingrata città, prevedendo il castigo che per la sua incredulità le pende sul capo: videns civitatem flevit super illam(Lc 19, 41). Ah! Gerusalemme, Gerusalemme, che uccidi i profeti e lapidi quei che per tua salute ti sono inviati, quante volte non ho io voluto radunare i tuoi figli, come una gallina raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e tu nol volesti! Ma verrà il tempo in cui i tuoi nemici ti circonderanno di trincee, e ti assedieranno, e uccideranno i figli tuoi, né lasceranno in te pietra sopra pietra, perché non hai voluto conoscere il tempo della visita che ti ha fatto il Signore (Lc 19, 44). Ah! Terribile perdizione, che fra pochi anni avrà il minacciato effetto, portando a Gerusalemme una desolazione, che secondo la Profezia di Daniele, durerà sino alla fine dei secoli” (Dn 9, 27)[7].
Nella lunga citazione riportata gli argomenti di carattere teologico relativi alla punizione di Gerusalemme, causata dai suoi peccati, sono in parte fondati sull’interpretazione cattolica del libro di Daniele. La punizione di Gerusalemme è un tema ricorrente nella Bibbia ebraica, soprattutto in alcuni testi dei profeti, e si ritrova anche nelle pagine di Flavio Giuseppe (La guerra giudaica). Questa lettura, in una fase successiva, assumerà connotati diversi nell’uso teologico-politico che ne fecero i padri della chiesa.
Di tono simile, con sfumature più politiche e più attualizzanti, riscontrabili anche in altre pubblicazioni periodiche [Di Fant 2007], appare un altro brano, in cui alle immagini di Gerusalemme ingrata e derelitta si aggiungono commenti relativi alla condizione politica del popolo ebraico (antico):
1. Fa orrore il leggere le orrende tragedie avvenute nel terribile assedio di Gerusalemme, e i mali che vi aggiunsero gli ostinati!
2. Ma questi, di Gesù Cristo, non saranno che il principio dei dolori!
3. La rovina della città sussiste da diciotto secoli, né la poterono ristaurare né meno i giganteschi sforzi dell’apostata Giuliano;
4. e la dispersione dell’ebreo popolo, senza sacerdoti, senza sacrifizii, senza tempio e re, la vediamo coi proprii occhi […].
5. Alla distruzione di Gerusalemme fa seguito la dispersione dell’ebreo popolo per tutto il mondo: Daniele lo aveva già predetto: che l’Ebrea nazione non sarebbe più il suo popolo: ma perché?
6. Perché lo avrebbe rifiutato, rinnegato […]. Può darsi più chiara e più precisa descrizione dei futuri avvenimenti? Iddio ha abbreviato il tempo sopra la città santa per dare fine al peccato e alla prevaricazione. Passeranno settanta settimane di anni, e verrà il Santo dei Santi, ma dopo settantadue settimane sarà ucciso il Cristo, e l’ebrea nazione non sarà più il suo popolo perché lo rinnegherà.
7. […] Così Daniele e così fu.
8. Ecco il popolo ebreo senza re, senza regno, senza tempio, disperso pel mondo, portando in fronte il marchio del deicidio[8].
Le immagini di Gerusalemme, poetiche ed evocative, rafforzano l’idea della punizione politico religiosa della città santa. Fallimentari, infine, sono i tentativi di risollevarla per mano di coloro che sono “infedeli”, come nel caso storico dell’imperatore Giuliano (detto l’apostata) che cercò di restaurare il tempio di Gerusalemme. L’immagine che si trae dalla lettura di questi testi si fonda sulla concezione della terra punitae su Gerusalemme distrutta, per colpa del «rifiuto del Messia» e del «marchio del deicidio» (8).
Questi brani sono di grande interesse perché utili per ricostruire l’immaginazione culturale relativa alla “Terra Santa”, concepita contemporaneamente come luogo religioso e politico della riflessione cattolica. Gerusalemme è splendore e grandezza quando rivendicata come cristiana, ma perdizione e distruzione se associata agli ebrei. La memoria religiosa di Gerusalemme, trasmessa dalla immaginazione culturale cattolica è un tema di grande interesse, perché nel corso dell’Ottocento essa è diffusa anche tramite altri canali, che vanno dal consolidamnto dell’archeologia biblica ai resoconti di viaggiatori e studiosi. Questi pochi esempi indicano un antagonismo con le coeve concezioni protestanti in cui il rapporto degli ebrei con la “Terra Santa” è concepito in modo più positivo e con le successive rivendicazioni ebraiche espresse dal movimento sionista [cfr, in questo Dossier l'articolo di Tullia Catalan].
Infine, se si commentano anche tutti i termini che qui appaiono per definire gli ebrei, si osserva come essi siano sempre concepiti collettivamente, come il popolo biblico e post-biblico condannato alla dispersione (al vagare, e quindi alla condizione di “straniero”); un popolo anomalo, privo di quelle caratteristiche storiche che hanno caratterizzato la storia delle nazioni antiche (re, regni, istituzioni religiose e politiche). Sono temi che fanno ampio utilizzo della tradizione antiebraica classica, in cui la fissione tra colpa del deicidio e punizione politica, visibile nella dispersione e nella anomalia dell’esistenza di un popolo diasporico, senza istituzioni politiche e re, sembra riflettere una ideologia teologico-politica alimentata dell’idea che gli ebrei non hanno più accesso alla loro elezione, ossia al patto fondativo contenuto nella Bibbia. La teologia della sostituzione, elaborata nel corso dei primi secoli dell’era cristiana, e la cancellazione voluta da Dio dell’antico patto si esprimeva così non solo nella punizione politica dell’erranza e della dispersione [Pesce 1997; Stefani 2004], ma anche nella sterilità culturale dell’ebraismo post-biblico, che a più riprese si cristallizza nella lettura negativa dell’ebraismo rabbinico.
La ricchezza degli ebrei
Oltre ai messaggi meramente religioso-politici, appaiono anche riflessioni più esplicita sulla condizione ebraica moderna. Occorre scomporre il brano, già in parte analizzato, per evidenziare quelli che sono alcuni dei temi caratterizzanti dell’antisemitismo politico nella sua variante cattolica:
1. […] Che importa che al presente
2. abbondino [gli Ebrei] di ricchezze,
3. ascendano ai primi onori,
4. e si impongano tirannicamente ai seguaci del Nazzareno che troppo li tollerano?
5. La loro grandezza ha fatto loro perdere tutto quello che loro restava di religioso,
6. e l’avidità di arricchire a spese anche della giustizia e dell’equità
7. ha cagionato […] delle reazioni, che la loro esosa avidità e petulanza provocava.
8. Castigo però anche questo permesso da Dio per continuare a tenere la sua mano vendicatrice sulla riprovata nazione”[9].
Queste frasi condensano in poche righe alcuni sottotemi della polemica antisemita di quegli anni. Se seguiamo con attenzione i punti elencati si comprende come gli articolisti leggano gli eventi contemporanei in relazione al ruolo assunto dagli ebrei dopo la parificazione giuridica: nell’età contemporanea sono diventati ricchi (2), hanno acquisito status simbolico e sociale (3), imponendosi in modo anti-democratico ai cristiani che a loro volta li «tollerano». La libertà politica si è tradotta in ricchezza e tale situazione è tanto più esecrabile se letta alla luce della tradizionale denigrazione cattolica del denaro quando associata al mondo ebraico. La ricchezza degli ebrei è negativa non solo perché corrompe la civiltà cristiana ma anche perché si riflette in una propensione psicologica che, nell’ottica cattolica, si traduce nell’avidità di arricchire a spese della società cristiana che benevolmente accogli gli ebrei. Col denaro, la «superba Sinagoga» antica riuscì a cospirare contro Gesù così, nel presente, il popolo ebraico, col medesimo atteggiamento, utilizza il «denaro dell'usuraio» nella «lotta contro la chiesa».
Il tema del “denaro ebraico” è un leitmotiv della polemica antiebraica fin dai tempi più antichi: dai trenta denari di Giuda, ai mercanti nel tempio, dalle norme sull’usura alle violente polemiche degli ordini mendicanti, il conflitto tra ricchezza ebraica e ricchezza cristiana non da segni di tregua, sia nel corso della prima età moderna che in età contemporanea. Anzi, la diffusione del capitalismo industriale, a cui la chiesa opporrà, a parole, una critica severa e una visione di un perduto mondo idilliaco, gerarchico e “giusto”, non farà che rivitalizzare e acuire le immagini antiebraiche provenienti dal campo metaforico della ricchezza e dell’economia trascinando con sé anche le sue pratiche culturali – violenze, saccheggi, espropri. Tuttavia il contesto ottocentesco si differenzia notevolmente da quello del periodo di antico regime, perché attorno all’ossessione sulla ricchezza degli ebrei si concentrano una serie di problemi che sono collegati alla più generale condizione politica e sociale che coinvolge le comunità e i contesti ebraici europei, i quali si trovano a gestire complesse trasformazioni socio-economiche segnate dalla esplicita richiesta di trasformarsi in «cittadini utili» e da un generale impoverimento, soprattutto in Galizia e nella zona di residenza russa, determinato dai cambiamenti innescati dai processi di industrializzazione.
La stigmatizzazione della ricchezza e del successo ebraici sono temi che assumono una rilevanza centrale e ossessiva nel contesto della polemica antisemita: da Adolf Stoecker a Karl Lueger fino a Edouard Drumont, questi temi si trasformano in slogan di grande successo che sono il frutto di una sapiente selezione di alcuni dati di realtà – il miglioramento economico e sociale di alcune fasce della società ebraica. È interessante osservare che, nel corso degli anni Ottanta del XIX secolo, appaiono anche nelle polemiche antiebraiche italiane di matrice liberale [Pavan 2009, 50], e si può ipotizzare, sulla base dei dati finora disponibili, che in questo contesto, il tema della “ricchezza ebraica” costituisca uno dei luoghi di incontro tra le diverse anime dell’antisemitismo politico ottocentesco. Peraltro, il tema “dell’oro ebraico” corruttore della società cristiana avrà grande successo anche nei decenni successivi cristallizzandosi nei romanzi middle-brow del periodo fascista, di cui il best-seller Oro, di Ugo Wast costituisce un esempio illuminante [Bonavita 2009; Germinario 2010].
La netta condanna dell’integrazione sociale ed economica nella società “ospitante” (sempre cristiana) serve anche per elaborare un altro tema caro alla polemica antisemita destinata a duraturo successo. L’idea chiave che guida questi commenti si fonda sulla convinzione che l’esercizio della libertà politica produce un atteggiamento ebraico intollerabile, ossia la capacità di integrazione degli ebrei. Invece di valutare positivamente un percorso di inserimento nella società, peraltro incentivato e predisposto dalle stesse politiche modernizzatrici di governi cattolici (come nel caso dei domini asburgici), per molti polemisti cattolici il successo degli ebrei nella società cristiana si traduce in un comportamento tirannico che usurpa il ‘naturale’ ruolo di preminenza dei cristiani nella società. Così – seguendo l’argomentazione cattolica – l’ossessione della ricerca di ricchezza da parte ebraica provoca delle “reazioni” contro gli ebrei, che si manifestano nelle varie forme di ostilità antiebraica. Sono gli ebrei a suscitare, come scrive l’autore, «delle reazioni, che la loro esosa avidità e petulanza provocava. Castigo però anche questo permesso da Dio per continuare a tenere la sua mano vendicatrice sulla riprovata nazione». Le ostilità antiebraiche che in quegli anni prendono le forme di movimenti antisemiti organizzati sono da leggersi come un «castigo» provvidenziale, voluto da Dio il quale non smette mai di colpire la «riprovata nazione» (8).
Più concretamente, questi brani appaiono più chiari e pregnanti quando letti nello sfondo degli eventi politici di quegli anni: nel 1878 a Berlino è all’ordine del giorno la discussione della concessione dei diritti civili degli ebrei di rumeni, uno dei paesi più antisemiti d’Europa e da poco divenuto indipendente [Lebovitch Dahl 2010, 183]. Nello stesso anno Adolf Stoecker fonda il partito cristiano-sociale che si ispira apertamente all’antisemitismo politico [Ferrari Zumbini 2001]. Nel corso del 1881 sono i pogrom russi a suscitare le preoccupazioni del mondo liberale. Commenti sulla situazione relativa alle drammatiche e precarie condizioni degli ebrei russi appaiono in tutta la stampa europea, così come in quella italiana e non a caso sono ripresi da «Civiltà cattolica». Nel biennio 1881-1883 la «Civiltà cattolica» aveva lanciato una delle sue più aggressive campagne antisemite proprio sul tema dell’omicidio rituale. [Taradel, Raggi 2000; Crepaldi 2003] Nel 1883 sarà invece l’accusa di omicidio rituale nel villaggio ungherese di Tiszaeslàr a suscitare le preoccupazioni tra i liberali – tra cui anche la stampa ebraica [Catalan 2003; Wyrwa 2007] e l’interesse tra i cattolici di fede intransigente. Questi temi innestati nel discorso religioso vanno compresi alla luce di un contesto di grande conflittualità in cui l’emancipazione ebraica è lungi dall’essere un processo compiuto. In questo senso, affermare che sono gli ebrei stessi con le loro intrinseche caratteristiche a causare l’odio dei gentili e che meritano, quindi, di essere perseguitati e puniti significa adottare una visione di deresponsabilizzazione politica nei confronti di tutte le forme di antisemitismo [Miccoli 1997].
Infine, un altro aspetto merita attenzione critica. Il successo sociale degli ebrei è percepito come il risultato di un processo di secolarizzazione dell’ebraismo traducibile nell’equazione che connette integrazione sociale, modernità e allontanamento dalla religione (tema indicato al punto 5). Questo argomento, ancora confuso e ambivalente nella pubblicistica cattolica di questo periodo, coesiste in modo contraddittorio, con il tema ossessivo della onnipresenza dell’ebraismo tradizionale e rabbinico (ossia talmudico), denunciato spesso come criminale e intollerabile.
Gesù il Cristo e le passioni antiebraiche
Vorrei ora spostare l’analisi sugli effetti culturali di questa forma di antiebraismo, che non si riduce solamente alla sua variante politica, ma attiva, efficacemente, una manipolazione delle passioniche permette di comprendere il rapporto tra la diffusione dei corollari politici associati alla Passione e l’elemento emotivo e performativo dell’antisemitismo. Come si può notare dai brani menzionati, indirizzati alla predicazione, il tema della “passione di Cristo” ha una straordinaria capacità di suscitare e mobilitare, facendo forza sulla manipolazione delle emozioni e la teatralizzazione del racconto, sentimenti radicati nell’animo umano. Non è un caso che il linguaggio utilizzato nei testi qui presentati sia spesso violento, manicheo, assoluto, emotivo – in un certo senso passionale e coinvolgente. L’immagine ricorrente del Dio cristiano che emerge da questi brani è quella di un Dio vendicativo, che punisce contemporaneamente gli ebrei e i non credenti. Questo aspetto è tanto più interessante se si ricorda che spesso l’immagine del Dio vendicativo è stata attribuita all’Antico Testamento e agli ebrei, in opposizione all’immagine del Dio cristiano, elaborata negli scritti del Nuovo Testamento, ispirato e guidato dall'amore. Inoltre, preme sottolineare che una parte della dottrina della tolleranza religiosa, riscontrabile negli ambienti cristiani del Seicento e Settecento, fece perno appunto sulla concezione dell’amore di Dio per tutti i suoi figli (indistintamente dalla loro appartenenza religiosa). L’orizzonte culturale di questo cattolicesimo sembra non contemplare l’idea del Dio dell’amore, che scompare per lasciare spazio contemporaneamente al Cristo sofferente e al Dio (cristiano) vendicativo.
In questi testi è anche rinvenibile un linguaggio che slitta dalla sfera politica a quella emozionale indirizzando il sentimento religioso verso il disconoscimento dell’alterità ebraica. Oltre a trasmettere immagini e concezioni politiche ampiamente diffuse anche in altre pubblicazioni, questi testi invitano a mantenere distinti gli ambiti, a rinnovare i confini tra ebrei e cristiani. Nel commentare questi brani, che portano i fedeli a rivivere le vicende del Vangelo, si rafforza e consolida la costruzione di un’antropologia ebraica nettamente negativa. Nei testi analizzati gli ebrei sono descritti tramite lemmi di derivazione biblica: «... duri di cuore», «infedeli», «feroci», «ipocriti» e quindi «ribelli»; gli ebrei abitanti della Giudea e di Gerusalemme sono radicalmente diversi da Gesù e per questo motivo non riescono ad accogliere il suo messaggio. Gli ebrei sono crudeli, «carnefici» e «spietati crocifissori»[10]. Non solo sono ‘deicidi’, ma anche determinati ad infangare le gesta di Gesù, la memoria del suo operato, assimilandolo alla feccia della società ebraica antica. E ancora, sono «grossolani», incapaci di intendere perché «ciechi», allora, nel passato, come nel presente. Alla descrizione del contesto ebraico («giudei», «farisei», «scribi», «sinedrio»), dipinta con tonalità cupe e fosche secondo una estetica che riprende la mise en scène della sacra rappresentazione, si contrappone nettamente, sullo sfondo, la figura di Gesù, «il buon Pastore», che ha salvato l’umanità, morendo sulla croce. Gesù ha mostrato amore verso gli ingrati ebrei, ostinati e maligni, che meritano solo disprezzo. Gesù Cristo è il nuovo Adamo, che «i giudei orgogliosi ed ostinati non (lo) vogliono riconoscere»; con la risurrezione egli ha abolito la legge mosaica, ma anche il popolo ebraico, poiché ora il vero popolo dell’alleanza sono divenuti i cristiani[11]. L’immagine di Gesù sofferente e la sua agonia sulla croce sono contrapposte alla «perfidia» ebraica, alla insofferenza e alla violenza «giudaica». Da un lato si colloca tutto il dolore e la sofferenza redentiva (Gesù morente), dall’altro la brutalità e la violenza di coloro che perseverano nell’errore, il popolo ebraico e i suoi gruppi specifici.
In termini semiotici la struttura iconica di questa immagine è facilmente ricostruibile anche scorrendo la tradizione visuale europea, sia nelle sue manifestazioni alte che in quelle più popolari. Le immagini religiose sullo sfondo della passione sono anche segnate da una estetica di lunga durata, che visivamente segna una differenza fondamentale dei corpi. La descrizione della società ebraica riflette spesso quella della tradizione iconografica, che dipinge gli ebrei con tratti somatici segnati dalla bruttezza e dal grottesco. Gli ebrei insomma, a partire della tradizione patristica, sono parte del «basso» di bachtiniana memoria, del corpo e delle sue brutture, privati però della componente ironica. Come avevo avuto occasione di notare in un breve testo a commento del film di Mel Gibson (appunto sulla passione di Cristo) l'aspetto della manipolazione delle emozioni e l'uso della Passione di Cristo sono modi efficaci e attuali per veicolare non solo un forte messaggio cristiano ma anche immagini antisemite [Facchini 2004]. La manipolazione delle passioni, la capacità di fare sentire la sofferenza, è elemento centrale nella tradizione cattolica: il cattolicesimo – in diverse epoche – concentrò molte delle sue risorse nel diffondere una visione cristiana fondata sulla sofferenza e morte di Cristo, cercando con tutti gli strumenti possibili di rendere visibile e vissuta quella sofferenza, concentrandosi sull'uso del corpo di Gesù e sull'attualizzazione della violenza contestuale.
Infine un tema interessante che si può dedurre da questi brani è quello relativo ad una potenziale etnicizzazione del conflitto religioso ai tempi di Gesù. La descrizione della gratitudine «del lebbroso samaritano» opposta alla «ingratitudine dei nove lebbrosi giudei», la ricorrente presenza dei Samaritani, un gruppo ebraico che ha una sua precisa collocazione geografica, l’attribuire spesso a Gesù una provenienza diversa – la Galilea – rispetto al mondo della Giudea, permettono di elaborare una immaginazione culturale attenta a contrapporre i gruppi etnici all’interno del complesso mondo ebraico palestinese del I secolo[12]. Si tratta di un tema molto interessante che posso solo accennare ma non analizzare e che andrebbe comparato con i testi di critica biblica o di storia del cristianesimo antico del periodo. Infatti, è sufficiente per ora rilevare che proprio in quel periodo venne lentamente a delinearsi una costruzione etnico-razziale delle vicende gesuane che rifletteva la sensibilità diffusa del periodo, la quale tendeva ad interpretare i conflitti religiosi dell’antica Palestina alla luce dei conflitti etnici e razziali del mondo moderno.
A margine dei dati rinvenuti, mi pare possa essere interessante svolgere qualche riflessione sulla figura di Gesù/Cristo che emerge dai brani analizzati e metterla a confronto con il più generale contesto culturale europeo del tardo Ottocento: gli studi scientifici, le biografie romanzate, i pamphlet su Gesù. L’ebraicità di Gesù non è un tema del tutto irrilevante, sia all’interno della cultura colta che nelle polemiche antisemite della seconda metà dell’Ottocento, soprattutto laddove si sta definendo un antisemitismo «razziale» con tendenze anti-cristiane, dai tratti «marcioniti» [Miccoli 1997]. Per quanto l’Italia fosse isolata rispetto ad altri paesi nei quali prese forma il dibattito scientifico su Gesù e sul cristianesimo, questi temi circolavano ampiamente anche se recepiti in modi e forme adatte al contesto locale. Nei giornali, negli ambienti liberali ma anche in quelli del socialismo circolavano, se pure in forma volgarizzata, i risultati di più ampie e approfondite ricerche sul cristianesimo antico. Nelle pubblicazioni periodiche cattoliche, e nello specifico ne «La civiltà cattolica», questi studi sono spesso recensiti, anche se in genere con toni critici e negativi. Parimenti, la pubblicistica ebraica non manca di partecipare attivamente, con proprie letture a questi dibattiti.
Nonostante la consapevolezza sempre più radicata che Gesù fosse ebreo, molti studiosi di diversa confessione cercarono di ritrarlo in modo tale da opporlo radicalmente al contesto storico, religioso e culturale in cui era cresciuto. La difficoltà e il rifiuto di comprendere il nesso tra cristianesimo ed ebraismo come possibilità di difesa contro i discorsi antisemiti generatisi nel corso dei decenni successivi si manifesta anche nei temi delle pubblicazioni qui esposti. Quel nesso tra ebraismo e cristianesimo costituì sempre un irrisolvibile problema per molti cristiani e per le chiese istituzionali. Un nesso temuto, allontanato, disprezzato, negato. Fu quel disprezzo meno rilevante e significativo nella costruzione di una moderna cultura antisemita rispetto ai discorsi biologizzanti e razziali volti a distruggere quel nesso o a distruggere il cristianesimo incorporato in quel nesso?
Conclusioni
I più recenti contributi scientifici permettono di svolgere alcune riflessioni, di certo non conclusive, sui caratteri dell’antisemitismo ottocentesco italiano. I linguaggi delle ideologie antisemite permeano la cultura italiana, sia nella sua componente liberale che in quella cattolica (in senso esteso). L’ostilità antiebraica di matrice liberale – o per lo meno di alcune correnti di questa costellazione politica e culturale – sembra accogliere una serie di discorsi ampiamente diffusi in altri paesi, le cui radici culturali affondano almeno in tre tradizioni di pensiero: 1. la prima, ancora poco studiata, accoglie alcuni temi delle polemiche di matrice religiosa (ad esempio l’ostilità diffusa nei confronti di alcuni aspetti della ritualità ebraica come la circoncisione o la concezione negativa nei confronti del Talmud); 2. la seconda è connessa ad alcuni temi già presenti in nuce nelle discussioni tardo-settecentesche, nella tradizione francese e tedesca, come ad esempio la polemica sul matrimonio endogamico (che appare tra i punti delle richieste napoleoniche durante la convocazione del gran sinedrio), o la nozione di «stato nello stato», che rimandano alle discussioni relative alla natura corporativa dell’ebraismo; 3. una terza corrente, non ancora ben studiata, risente di tradizioni di pensiero più moderno (come le discipline etnologiche e antropologiche, o la linguistica europea). Queste forme di pensiero antisemita non rinunciano al principio giuridico della libertà religiosa e del riconoscimento dei culti diversi da quello cattolico, come è stato sottolineato da Toscano e ripetuto da Pavan. In questo caso, per semplificare un discorso molto complesso che va ricostruito con attenzione, si può parlare di una ostilità di carattere ideologico, talvolta molto radicale, nei confronti sia della religione ebraica tradizionale che degli ebrei in generale, al quale non propone però forme di de-emancipazione giuridica, ma forme di cancellazione della identità culturale [Levis Sullam 2008; Pavan 2009].
D’altro canto invece, quando si affrontano le conformazioni discorsive dell’ostilità antiebraica di matrice cattolica (e più estesamente di quella cristiana), le cose si complicano notevolmente per due ordini di motivi. Da un lato non si può prescindere, in questo caso, dalla rilevanza del lungo periodo, essendo la tradizione cristiana molto ricca di temi, immagini, discorsi antiebraici e costituendo, di per sé, una risorsa positiva da sfruttare nell’arena politica dell’antisemitismo moderno. In secondo luogo, accanto ad una ideologia pervasivamente antiebraica, costituita sia da tradizioni teologiche consolidate che dall’incorporamento di nuovi temi, ci troviamo di fronte ad un discorso del tutto diverso, in cui il dato principale è la messa in discussione della parificazione giuridica che si fonda sulla concezione cristiana dello stato, o perlomeno di una sua riproposizione.
La dimensione collettiva che assume l’ebraismo nelle rappresentazioni polemiche cattoliche è altro tema abbastanza significativo, che in questi testi appare come prioritario considerata anche la natura del materiale su cui si fonda. Prevale cioè la concezione biblica e patristica del popolo ebraico nelle sue connotazione più negative, rafforzate, in altri interventi, dalla natura perversa dell’ebraismo rabbinico, che influisce – nella prospettiva cattolica – sull’antropologia individuale.
In questo generale contesto, che deve ancora essere studiato in profondità, l’adozione del tema della Passione e del deicidio nella polemica antiebraica cattolica può essere letto non esclusivamente come una “permanenza dell’antico”, ma piuttosto come un sapiente utilizzo politico e culturale dell’antico, non esclusivamente determinato dalla idealizzazione della cristianità medievale perseguita dalla chiesa cattolica, ma anche dalle straordinarie potenzialità del rito, della liturgia e dalla loro polifunzionalità capace di influire sulla mentalità collettiva. La scelta di utilizzare in direzione polemica e antisemita i temi costitutivi della Passione e del deicidio – temi e immagini che sono conosciuti e noti anche tra chi ha abbandonato il cristianesimo – indica una scelta precisa all’interno del mondo cattolico, e forse nello specifico quello italiano, che si propone di offrire – nel contesto della diffusione dell’antisemitismo europeo – una versione solida, radicata dentro alla tradizione, legittimata dalla logica stessa del testo sacro, più autorevole e meno aggressiva, ma non per questo meno incisiva.
Mosse aveva parlato, ormai decenni fa, di “cristianesimo infetto”. Uriel Tal ha insistito sulla rilevanza della tradizione cristiana nella formazione dell’antisemitismo moderno [Tal 1971; 2004]. Anche un tema così apparentemente recondito come quello del deicidio, e l’eclettico uso delle narrazioni relative alla Passione di Cristo possono svelare perduranti e radicate forme di disconoscimento del mondo ebraico (antico/moderno, collettivo/singolo) e mostrano, con chiarezza, come il cosiddetto ‘antigiudaismo religioso’ abbia attivamente contribuito alla diffusione dell’antisemitismo politico. In realtà, come si può osservare, l’antigiudaismo teologico, qui analizzato nella sua forma più costitutiva e fondamentale, mostra il volto della sua intrinseca (ma non necessaria) dottrina politica.
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Note
[1] Per una lettura critica dei brani sulla Passione sono utili i libri sul Gesù storico. Per alcuni riferimenti bibliografici: Cohen 2007 (cap. 1). Tra le analisi più autorevoli, ma di impostazione cattolica, si segnalano Brown 1994 e una visione critica in Crossan 1995. Si veda la recente ripubblicazione di un classico: Strauss 2009.
[2] F. Berardinelli, Il Golgota e il Vaticano, «La Civiltà cattolica», 23/I (1872), 641-666; diversi articoli su questo tema appaiono nel corso degli anni settanta in CC. Lo stesso argomento, con toni polemici inediti, si trova anche nei discorsi nei discorsi del papa [Miccoli 1997, 1407; Raggi-Taradel 2000; Di Fant, 2007].
[3] La connessione tra deicidio antico e cospirazione moderna anticlericale ricorre in molti articoli: V. Anivitti, Il Deicidio rinnovato nel secolo XIX, PCR II (1879), Vol. 3, 204-217; V. Anivitti, Pensieri pel sermone evangelico della domenica di Passione, PCR III (1880), Vol. 5, 142-145; V. Anivitti, I Patimenti di Cristo in Maria e nella Chiesa, PCR III (1880), Vol. 5, 168-172; C. Vegezzi, Le Glorie del Golgotha, PCR VIII (1885) Vol.16 40-50; B. Castaldi, Considerazioni sul vangelo della XXII domenica dopo Pentecoste, PCR IX (1886), Vol. 18, 251-253; Chierici A., Considerazioni sul vangelo della domenica XXII dopo Pentecoste, PCR X (1887), Vol. 20, 190-192; G. Anania, La Risurrezione di Gesù Cristo fondamento ed immagine della Risurrezione della Chiesa. Discorso tenuto in Roma nella Pontificia Accademia Tiberina la sera del 24 Aprile 1887, PCR XI (1888) Vol. 21, 225-231; C. Bartoli, Al Clero la guerra si accresce, PCR XI (1888), Vol. 21, 200-203.
[4] B. Castaldi, Studio Biblico: come e perché N.S.G.C. abbia sempre sdegnata, e rigettata la taccia di peccatore?, PCR III (1880); B. Castaldi, Pensieri pel sermone evangelico della domenica X dopo Pentecoste, in PCR III (1880), Vol. 6, 22-24; P. Rota, Considerazioni sul vangelo per la V domenica di Quaresima, in PCR VIII (1885), Vol. 15, 154-157; B. Castaldi, Della Divinità di Gesù Cristo, PCR IX (1886), Vol. 17, 225-232; A. Chierici, Considerazioni sul vangelo della domenica XVI dopo Pentecoste, PCR X (1887), Vol. 20, 124-126; A. Chierici, Considerazioni sul vangelo della domenica XXII dopo Pentecoste, PCR X (1887), Vol. 20, 190-192; C. Carosi, Considerazioni sul Vangelo della XXII domenica dopo Pentecoste, PCR XI (1888), Vol. 22, 214-216.
[5] B. Castaldi, Studio Biblico: come e perché N.S.G.C. abbia sempre sdegnata, e rigettata la taccia di peccatore? PCR III (1880); B. Castaldi, Pensieri pel sermone evangelico della domenica X dopo Pentecoste, in PCR III (1880), Vol. 6, 22-24; P. Rota, Considerazioni sul vangelo per la V domenica di Quaresima, in PCR VIII (1885), Vol. 15, 154-157; B. Castaldi, Della Divinità di Gesù Cristo, PCR IX (1886), Vol. 17, 225-232; A. Chierici A., Considerazioni sul vangelo della domenica XVI dopo Pentecoste, PCR X (1887), Vol. 20, 124-126; A. Chierici, Considerazioni sul vangelo della domenica XXII dopo Pentecoste, PCR X (1887), Vol. 20, 190-192; C. Carosi C., Considerazioni sul Vangelo della XXII domenica dopo Pentecoste, PCR XI (1888), Vol. 22, 214-216.
[6] G. Anania, La Risurrezione di Gesù Cristo fondamento ed immagine della Risurrezione della Chiesa. Discorso tenuto in Roma nella Pontificia Accademia Tiberina la sera del 24 Aprile 1887, PCR XI (1888), Vol. 21, 225-231.
[7] “Infedele”, V. Anivitti, Pensieri pel sermone evangelico della domenica delle Palme, PCR I (1878), Vol. 1, 145-151; “ingrata”, B. Castaldi, Considerazioni sul Vangelo della IX domenica dopo Pentecoste, PCR V (1882), Vol. 10, 51-53; P. Rota, Considerazioni sul Vangelo per la domenica delle Palme, PCR VI (1883), Vol. 11, 150-154.
[8] P. Rota, Considerazioni sul Vangelo della Dom. XXVIII dopo Pentecoste, PCR VI (1883), Vol. 12, 304-307.
[9] P. Rota, Considerazioni sul Vangelo della Dom. XXVIII dopo Pentecoste, PCR VI (1883), Vol. 12, 304-307.
[10] P. Rota, Considerazioni sul vangelo per la domenica delle Palme, PCR VI (1883), Vol. 11, 150-154. V. Anivitti, Pensieri pel sermone evangelico della domenica di Passione, PCR III (1880), Vol. 5, 142-145. P.V.D.A.C., Le tre ore d'agonia: sesta parola dell'agonia, settima ed ultima parola, PCR V (1882), Vol. 9, 22-25; 52-55; 79-81. B. Castaldi, Sulla Passione di Gesù Cristo: Discorso, PCR V (1882), Vol. 9, 102-108; 137-142; P. Rota, Considerazioni sul vangelo per la domenica di Passione, PCR IX (1886), Vol. 17, 150-153.
[11] C. Carosi, Considerazioni sul vangelo della III domenica dopo Pentecoste, PCR X (1887) Vol. 19, 314-317; P. Rota, Considerazioni sul vangelo per la II domenica dopo Pasqua, PCR IX (1886) Vol. 17, 216-219; C. Carosi, Le tre ore d'agonia di N.S.G.C., PCR X (1887) Vol.19, 170-200.
[12] B. Castaldi, Pensieri pel sermone evangelico della domenica XIII dopo la Pentecoste, PCR, VI (1882), vol. 10, 83-85.