Introduzione
Nell’immediato dopoguerra il nostro paese assisteva alla nascita di una fitta rete di piccoli gruppi, strutturati o meno, che erano pronti, una volta liberata l’Italia dal fascismo e dalla guerra civile, a reinterpretare un noto, e ancora incompiuto, motto risorgimentale: “ri-fatta” l’Italia, lacerata da anni di dittatura e da una feroce guerra civile, bisognava ora “fare gli italiani”, favorendo il sorgere di un nuovo concetto di cittadinanza, un nuovo – e nel nostro paese inedito - senso civico, una nuova attitudine verso il bene pubblico, la sua tutela ed il suo utilizzo [1]. La consapevolezza che cambiamenti radicali, nelle pratiche e nelle mentalità sia degli amministratori che dei cittadini, erano necessari per poter avviare una sostanziale democratizzazione dello Stato - nei suoi apparati amministrativi, nei suoi interventi assistenziali, nella sua gestione del territorio, nella sua opera di stimolo alla ripresa economica - accomunava questi gruppi.
La dimensione in cui questi gruppi decisero di agire era quella comunitaria, considerata come un distretto territoriale di ridotte dimensioni, o un quartiere urbano periferico, entro il quale operare con consapevolezza, cercando di capire quali fossero le esigenze avvertite come più urgenti dai suoi abitanti, cercando soluzioni condivise che facessero leva sulle inutilizzate risorse locali, sia umane che materiali, invece che attendere l’intervento pubblico che offriva prestazioni parziali, discriminanti e che, di solito, lasciava i problemi irrisolti, favorendone anzi la cronicità. La dimensione comunitaria permetteva infatti di conoscere a fondo la realtà nella quale si andava ad agire: questo favoriva una maggiore efficacia degli interventi che potevano meglio individuare i problemi e sperare così di coinvolgere la popolazione locale nella loro soluzione.
L’approccio comunitario era certo una novità rispetto alla tradizione amministrativa italiana, da sempre caratterizzata da un forte centralismo, incapace di leggere e capire le numerose e diverse realtà locali presenti nel paese. Questa caratteristica restò immutata anche dopo il passaggio dall’Italia fascista a quella repubblicana, e perfino gli interventi pubblici più lungimiranti di quel periodo, quelli che avrebbero posto le basi per l’improvvisa crescita economica degli anni del boom, erano caratterizzati da una spiccata impostazione “tecnocratica”.
Le realtà che promuovevano queste forme di sviluppo di comunità formavano un variegato arcipelago. Tra queste troviamo alcuni settori del nascente servizio sociale, che aveva come obbiettivo il superamento degli inefficaci interventi assistenziali pubblici, caratterizzati da un approccio caritatevole, burocratico e settoriale alle esigenze degli strati più poveri della popolazione. Si occuparono di interventi a livello comunitario il Centro Educazione Professionale per Assistenti Sociali (Cepas), fondato nel 1946 dai coniugi Calogero, attivo in numerosi progetti di sviluppo di comunità nelle aree più depresse del Mezzogiorno [2] e le scuole dell’Ente Nazionale Scuole Italiane di Servizio Sociale (Ensiss), fondato da atipiche personalità del mondo cattolico, tra le quali Odile Vallin [3] e Mons. De Menasce [4]. Ruolo fondamentale ebbe anche Adriano Olivetti che, vista sfumare nell’immediato dopoguerra la possibilità di una radicale riforma federalista dello Stato, promosse nel Canavese una vasta azione di sviluppo economico, ma anche sociale e politico tramite la capillare azione dei centri comunitari; questi ultimi, grazie alla spinta del Movimento di Comunità, sorsero in numerosi centri abitati. Troviamo poi Danilo Dolci che, scegliendo di trasferirsi a Partinico, in mezzo ai miseri contadini siciliani cercò insieme a loro le vie per uscire dallo stato di bisogno nel quale si trovavano, stimolando una crescita del senso civico tramite iniziative che vedevano i contadini stessi come protagonisti attivi. Iniziative analoghe sorsero a Roma dove nell’immediato dopoguerra venne fondato il Movimento di Collaborazione Civica che vedeva gruppi di volontari realizzare colonie estive e doposcuola nella aree più disastrate della città. Anche in Umbria i Centri di Orientamento Sociale (Cos) promossi da Aldo Capitini cercavano di favorire forme di partecipazione diretta dei cittadini alla vita politica ed amministrativa dei loro comuni di residenza. Ma anche alcuni enti sorti nell’immediato dopoguerra cercarono soluzioni simili: tra questi l’Unrra-Casas, che organizzò una fitta rete di centri sociali nelle zone dove attuava la sua opera di ricostruzione, e, come vedremo, l’Ina-Casa che realizzò una attività di servizio sociale di comunità nei nuovi complessi urbani che andava realizzando in tutta Italia, fino a dar vita ad un apposito ente: l’Ente Gestione Servizio Sociale (Egss).
Queste e tante altre “minoranze attive” svolsero la loro opera tra la fine della guerra (molte di esse nacquero ed iniziarono ad operare durante la Resistenza) e tutti gli anni cinquanta, nel periodo più acuto della guerra fredda, quando lo scontro tra il Pci da un lato e la Dc e la Chiesa dall’altro raggiungeva i punti culminanti. In questo contesto esse erano quindi destinate a scontare un forte isolamento e la loro speranza di incidere profondamente sul sistema politico e amministrativo partendo “dal basso”, dalla dimensione comunitaria, dovette scontrarsi con forti resistenze. Infatti la classe dirigente del paese non fece proprie le istanze basate sulla consapevolezza dei profondi squilibri che la crescita economica stava portando nel paese, portate avanti da queste “minoranze attive”. L’improvvisa crescita economica italiana avvenne infatti “in ordine sparso”, senza una guida né un indirizzo preciso, con conseguenze note: il processo di crescita industriale e l’arretratezza delle aree agricole spopolarono le montagne e le campagne, provocarono impetuose ondate migratorie, causarono la caotica crescita delle periferie urbane, aumentando notevolmente il divario tra l’Italia settentrionale e quella meridionale. Inoltre, come ci ricorda Paul Ginsborg, ad un miglioramento della condizione economica non corrispose una crescita dei valori civili:
il modello di sviluppo italiano […] era carente sul piano dei valori collettivi. Lo Stato aveva svolto un ruolo importante nello stimolare il rapido sviluppo economico, ma aveva poi fallito nel gestirne le conseguenze sociali. In assenza di pianificazione, di educazione al senso civico, di servizi pubblici essenziali, la singola famiglia cercò un’alternativa nella spesa e nei consumi privati […] Il «miracolo» si rivelò così un fenomeno squisitamente privato, riaffermando la tendenza storica di ogni famiglia italiana a contare quasi esclusivamente su se stessa per il miglioramento delle proprie condizioni di vita [5]
Le vicende dell’Egss, ente nato nell’ambito del piano Ina-Casa, rappresentano una significativa eccezione al quadro sopra delineato. Un piccolo gruppo, una “minoranza attiva”, di giovani appartenenti al mondo cattolico, si era formato intorno alla rivista «Terza Generazione», fondata nel 1953; scontenti dell’impostazione tecnocratica che stava caratterizzando le iniziative riformiste avviate nei primi anni cinquanta dalla Dc, diedero vita a piccoli progetti di sviluppo di comunità nell’Italia centro-meridionale. Il loro atteggiamento nuovo, “non genericamente illuminista o populista” [6], nei confronti delle masse povere, il loro tentativo di cercare nuove strade per permettere un reale sviluppo economico e sociale del paese venne fatto proprio dai dirigenti del piano Ina-Casa che, per rispondere a queste istanze, diedero vita ad un ente che svolgesse, tramite l’azione di assistenti sociali, un lavoro sociale a carattere comunitario nei nuovi quartieri periferici che l’Ina-Casa andava creando in tutta Italia.
«Terza Generazione» e le origini politico–ideologiche dell’Egss
La decisione di dar vita all’Egss partì dal Comitato d’Attuazione del Piano Ina-Casa, l’organo direttivo che faceva capo al Ministero dei Lavori, retto da Fanfani, e la cui direzione era affidata a Filiberto Guala che faceva parte del gruppo dossettiano fin da prima della guerra. Non a caso la direzione dell’ente venne affidata a Giuseppe Parenti. Anche Riccardo Catelani, che avrebbe ricoperto la carica di segretario generale dell’Egss fino al 1972, era vicino al gruppo dei “professorini”: era legato soprattutto a La Pira da “una stretta consuetudine di collaborazioni e di attività” [7]. Quindi il presidente dell’ente e il responsabile della segreteria, l’organo cui faceva capo tutta l’attività del servizio sociale, condividevano l’ideologia che ispirava il piano Ina-Casa, quel volontarismo di ispirazione keynesiana e cristiana che contraddistingueva le riflessioni di Fanfani e del resto del gruppo dossettiano negli anni del dopoguerra.
Lo stesso Parenti insieme a Boyer, vice-presidente del consiglio d’amministrazione dell’Egss, reperì tra i giovani del gruppo aggregatosi intorno alla rivista «Terza Generazione» coloro che avrebbero ricoperto ruoli chiave nell’ente: Renzo Caligara, responsabile dell’addestramento del personale, e Ubaldo Scassellati, responsabile per la ricerca sociale.
«Terza Generazione», rivista che visse soltanto dall’agosto del 1953 al settembre 1954, nacque per iniziativa di un gruppo di giovani cattolici capitanati da Felice Balbo, per dar voce ad una comune insoddisfazione rispetto alla politica del tempo e ad una comune esigenza di cercare nuove strade per favorire lo sviluppo economico, sociale e culturale del paese. Il numero di presentazione uscì nell’agosto del 1953, all’indomani delle elezioni politiche:
il 7 giugno nessuno ha vinto; la situazione è peggiorata per tutte le parti e di fronte agli occhi di molti è apparso il fantasma non della fine di questo o quel regime, ma della disgregazione dell’umanità civile del nostro paese, della scomposizione della nostra società nazionale [8].
Questa era la sensazione dei giovani cattolici che si sentivano parte della terza generazione, successiva, e diversa, rispetto a quella prefascista, che diede vita al partito popolare e che era rappresentata da Sturzo, e a quella antifascista, che fondò la Democrazia Cristiana e che era simboleggiata da De Gasperi. Così ricorda Scassellati, che della rivista fu uno dei fondatori:
nel 1953 avevamo creato una rivista che si chiamava «Terza Generazione», come reazione generazionale alla sensazione interna al mondo giovanile italiano che certi giochi erano ormai stati fatti e che quello che c’era da dividere era stato diviso. […] Si era diffuso un certo fastidio per una prima esasperazione della gestione politica legata alla guerra fredda. Ancora non era esplosa l’industrializzazione in senso proprio e, quindi, c’era una forte disoccupazione giovanile. In quel contesto, nel mondo giovanile democristiano, si era vissuta la delusione piuttosto importante del fatto che Dossetti si fosse ritirato, dicendo che secondo lui non c’era da aspettarsi molto dal futuro [9].
L’insufficienza avvertita nelle proposte politiche e ideologiche allora dominanti portava «Terza generazione» a presentarsi non come una tradizionale rivista politica o culturale, ma come “espressione di una «zona di umanità, ricca di desideri e di speranze, che non trova udienza nelle forme e negli istituti esistenti»: tale la carta di presentazione, che riconosce come nel paese si stia forse creando una «vera zona di movimento, estraneo alla staticità delle parti esistenti»” [10]. La messa in discussione dei modelli culturali e politici dominanti, emergeva anche dall’articolo di Scassellati: “il 7 giugno”, si legge nella efficace sintesi effettuata da Tassani,
ha ora scoperto per tutti i limiti illusori dell’esperienza entro le parti, indicando la necessità d’un superamento. Fuori dai partiti, come dal qualunquismo, può esser costruita la via di un’autonoma iniziativa giovanile […]. Capire le complessità e le contraddizioni di un passato, e di un tessuto nazionale, può aiutare i giovani a capire lo specifico nazionale, nel senso di vocazione e funzione storica del nostro paese. Non più quindi propaganda ideologica per le parti, né fondazione di un’ideologia nuova che non c’è, ma «l’organizzazione di un atteggiamento verso la realtà e i suoi problemi» [11].
Nel numero successivo Scassellati chiariva quali erano le caratteristiche delle “autonome iniziative giovanili” proposte dalla rivista e su quali basi si fondavano: “sappiamo che esistono gruppi di minoranza che su vari terreni si pongono oggi problemi analoghi ai nostri, che come noi da altri punti di vista maturano la coscienza degli stessi fatti, e cercano vie di inserimento e di attività” [12]. Tra questi gruppi di minoranza cui «Terza generazione» si rivolgeva e assieme ai quali voleva sperimentare nuove forme d’iniziativa, c’erano quegli studenti universitari in cui nasceva
l’esigenza di rapportare coscientemente il proprio lavoro presente e futuro ai problemi della nazione. Per molti questa esigenza già si traduce nella ricerca responsabile dei problemi più veri della vita nazionale, fuori dalle formule acquisite avvertendo che essi sono prima di tutto problemi umani. Guardando con attenzione si potrà qui scorgere l’affiorare inizialissimo di un modo proprio, non genericamente populista o illuminista, di contatto con le masse popolari [13].
Venivano indicati come interlocutori anche i giovani contadini e operai,
che in modi diversi cercano nuove forme di organizzazione del lavoro, fondate sullo spirito di solidarietà e d’iniziativa […] e testimoniano la capacità di rinuncia all’utile personale ogni qualvolta ciò […] sia la condizione iniziale per produrre ricchezza collettiva” [14].
Vi erano poi giovani intellettuali che si ponevano il problema, urtando contro le tradizioni accademiche,
di metodi di lavoro collettivo, coscienti del fatto che, senza un lavoro coordinato di diversi punti di vista, di diverse discipline, è oggi difficile realizzare passi avanti sostanziali nelle ricerche che davvero li appassionano [15].
Queste realtà del mondo giovanile rappresentavano un buon auspicio per le finalità di «Terza generazione»: si trattava di riuscire a proporre iniziative che ne accomunassero il prezioso lavoro e l’interessamento nuovo e costruttivo verso i problemi della società. L’obbiettivo era quello di valorizzare tutte le risorse umane, soprattutto quelle giovanili, latenti nella società e che, se giustamente utilizzate, avrebbero potuto contribuire significativamente alla crescita del paese. Questo potenziale inutilizzato offriva l’occasione per superare gli strumenti d’intervento tradizionali:
la nostra ipotesi è che, nella maggior parte dei casi, i problemi dello sviluppo della vita nei nostri paesi non si affrontino solutivamente né per via politica né per via economica. Ad esse si arriva, in certi luoghi prima, in altri dopo, ma non è da esse che si parte. Si parte rompendo le barriere che esistono fra i giovani, […] ricreando una circolazione di risorse intellettuali e spirituali, di fantasie e d’iniziative, di responsabilità e di entusiasmi [16].
Era inoltre necessario affrontare i problemi del paese partendo da una dimensione locale; solo studiando lo specifico di ogni situazione sarebbe stato possibile capire quali problemi ostacolavano lo sviluppo di un paese o di un’intera zona:
guardando la realtà col nostro atteggiamento infinite sono le possibilità che si aprono: in ogni paese c’è una situazione diversa che richiede un’inventiva speciale per la soluzione appropriata. […] Noi cerchiamo gente […] che si assuma questa impresa, si imponga all’individuazione di questo problema e alla scoperta della conseguente iniziativa, alla ricerca dei collaboratori [17].
Veniva quindi rilanciato lo sviluppo del mondo rurale partendo però dalle sue specificità, facendo leva sulle risorse presenti e utilizzabili in loco. Dalle pagine della rivista si invitavano i lettori che si riconoscevano nel malessere giovanile denunciato, e che ritenevano necessarie nuove forme d’intervento nelle zone in cui abitavano, a contattare gli autori della rivista per articolare insieme a loro un piano d’intervento. Così ricorda Scassellati:
noi rispondevamo a una chiamata periferica. Cioè c’era un gruppetto di uno, due, tre o quattro giovani che ci telefonavano o ci scrivevano dicendo: «Abbiamo letto la rivista, siamo interessati, venite a trovarci e vediamo cosa si può fare». Questo era il concetto. I nostri interlocutori erano loro [18].
Gli interventi non dovevano riguardare esclusivamente ambiti rurali: anche “nelle città stesse ci sono situazioni di quartiere e di borgata su cui intervenire con lo stesso spirito nuovo” [19].
Questi interventi davano una grande importanza al momento della ricerca: prima di prendere qualsiasi iniziativa era necessaria una precisa conoscenza del luogo, della sua storia, della sua economia, della popolazione che vi abitava e delle sue caratteristiche sociali. Chi dalle città sarebbe andato nei paesi di campagna lo avrebbe fatto
non più come “europei in cerca di buoni selvaggi”, o cacciatori di svaghi domenicali e di avventure, ma come uomini responsabili in aiuto ad altri uomini. E non per imporre o propagandare la “verità”, ma per approfondire lo studio dell’ambiente fino a comprenderlo nelle sue motivazioni profonde, fino ad assimilarsi ad esso così da poter inventare insieme ai giovani del luogo una iniziativa scatenante [20].
Lo studio d’ambiente doveva differenziarsi sia dalle inchieste di carattere prettamente statistico, che dagli studi di comunità basati essenzialmente sulla “generalizzazione di dati rilevati attraverso gli interrogatori e i questionari, secondo la tecnica sociologica e psicologica di origine anglo-sassone” [21]. Il limite rilevato in tali inchieste era la mancanza di approfondimento storico, quell’analisi della “genetica dei fatti rilevanti” che avrebbe permesso di “individuare in un dato ambiente sociale e umano il punto giusto su cui svolgere un intervento di qualsiasi tipo (economico, culturale, assistenziale, ecc.)” [22]. Questa combinazione tra dati sociali e analisi storica, ancora agli inizi e priva di una solida metodologia, avrebbe permesso di rilevare i “dati dei rapporti umani intercorrenti o non intercorrenti tra i membri della comunità, e ancora del patrimonio di idee della comunità, nella loro logica coerenza o incoerenza di visione del mondo (e ciò oltre la rilevazione psicologica o folkoristica)” [23]. La conoscenza dell’area d’intervento, ricavata dalle inchieste, da studi sulla storia locale e dalla conoscenza diretta dei luoghi e delle persone che vi abitavano, rappresentava la base da cui partire per elaborare un piano d’intervento specifico, che sfruttasse al massimo le risorse materiali e umane presenti nella zona.
L’esigenza di una conoscenza approfondita delle realtà locali, la scoperta delle loro specificità come base per un intervento efficace: qui sta sicuramente una delle principali novità d’approccio di Terza generazione. Le differenziazioni territoriali esistenti nella società italiana erano comunemente “considerate come una realtà di cui il paese non poteva gloriarsi: perciò di ess[e] non esisteva documentazione, di ess[e] non si faceva cultura, non esistevano libri che descrivessero le articolazioni diverse del paese” [24]. Alcune ricerche vennero condotte secondo queste impostazioni, ad esempio, nel senese, in Sardegna, in Abruzzo, nella provincia di Cosenza [25].
queste sono cose che non hanno fatto storia, ma che hanno portato a cercare di inserire la problematica dell’intervento delle politiche centrali all’interno della struttura territoriale locale, perché essa aveva un senso ed una dimensione reale in termini di relazioni economiche e sociali, nonché di storia e di cultura in senso più strettamente antropologico” [26].
La rivista cessò le sue pubblicazioni dopo un anno, nel settembre 1954, ma il gruppo che, sotto la guida di Felice Balbo, l’aveva animata continuò, prima di sciogliersi anch’esso nel 1955, a compiere ricerche cui fecero seguito iniziative economiche e sociali: nel 1955 interventi di questo genere si svolsero a Isera (Trento), a Coreno Ausonio (Frosinone) e a Labaro (nella periferia di Roma) [27]. Questo tipo d’iniziative, dopo lo scioglimento del gruppo, vennero poste all’attenzione del Segretariato nazionale della gioventù, una delle principali organizzazioni giovanili del mondo cattolico. Il Segretariato si interessò a queste nuove problematiche e promosse, insieme ad alcuni animatori di «Terza generazione», progetti di community development nella zona di Grassano – paese della Lucania immortalato da Carlo Levi in “Cristo si è fermato a Eboli”, nella zona di Isernia, in provincia di Campobasso e in quella di Sedilo, in provincia di Oristano.
La breve esperienza di «Terza generazione» rappresentò quindi una “reazione giovanile” sia “all’entropia «da mancato sviluppo» della società civile e dello Stato” sia “all’incombente, burocratico e altrettanto «spegnitorio» dominio degli apparati” [28]. Reazione giovanile che portò a cercare delle nuove vie d’intervento radicalmente diverse rispetto alle proposte allora dominanti: l’ambito locale, la “comunità”, veniva preso come punto di partenza per una reale conoscenza del paese, dei suoi problemi e, di conseguenza, delle possibili soluzioni.
L’ingresso di due collaboratori di «Terza generazione», Renzo Caligara e Ubaldo Scassellati (che ne era anche l’editore), nell’Egss con ruoli di primo piano ci rivela come i dirigenti appartenenti alla “seconda generazione”, soprattutto Parenti, guardassero con interesse a queste nuove riflessioni politico-culturali e alle conseguenti pratiche d’intervento, anche in vista della fisionomia dell’Egss.
Probabilmente gli organi dirigenti dell’Ina-Casa si resero conto delle insufficienze derivanti dall’impostazione “tecnocratica” del piano – caratteristica comune a quasi tutte le iniziative di riforma degli anni ’50 –: si manifestavano infatti tutta una serie di problemi impossibili da risolvere con interventi uguali su tutto il territorio nazionale. Questi erano derivanti, tra l’altro, dalle caratteristiche socio-economiche degli assegnatari, dalle loro precedenti condizioni di vita, dal loro rapporto con il resto della città: tutte condizioni profondamente diverse da un complesso all’altro. L’esigenza era quindi quella di operare a livello locale, periferico: un atteggiamento che stava alla base di «Terza generazione». Come vedremo molte caratteristiche dell’azione dell’Egss dovevano molto alle riflessioni e alle pratiche di questo gruppo di giovani.
Caratteristiche demografiche e sociali degli assegnatari Ina-Casa
Prima di esaminare l’azione degli assistenti sociali nei complessi Ina-Casa, pare opportuno comprendere meglio in quali realtà si sarebbero trovati ad operare. Sono disponibili i risultati di un’indagine svolta nel 1956, riportati in un opuscolo pubblicato dall’ente nel 1958 [29]. Le caratteristiche della popolazione erano ovviamente condizionate dai criteri di assegnazione, che privilegiavano le famiglie effettivamente bisognose di un alloggio.
La popolazione era quindi molto giovane: quasi assenti gli anziani e le famiglie erano molto numerose
TAB. I
Ripartizioni Geografiche |
Famiglie composte di membri (%) |
n. medio di membri per famiglie |
||
1-23-45-67-89 e più |
Totale |
Complessi Ina-Casa |
Popolaz. totale |
|
NORD CENTRO SUD ISOLE |
9,052,228,08,02,8 6,041,737,411,43,5 5,230,334,518,811,3 3,930,535,219,810,6 |
100 100 100 100 |
4,36 4,76 5,57 4,81 |
3,58 3,76 4,32 4,07 |
TOTALE |
6,842,132,812,65,7 |
100 |
4,83 |
3,87 |
Anche la percentuale dei bambini era considerevolmente più alta rispetto alla media delle città in cui i complessi erano costruiti:
TAB. II
Ripartizioni geografiche |
anni 3-5 |
anni 6 – 10 |
Ina-Casacittà |
Ina-Casacittà |
|
NORD CENTRO SUD |
6,13,6 5,83,9 12,36,3 |
10,95,1 10,25,6 19,27,8 |
Oltre che per la giovane età, i residenti erano caratterizzati da un basso livello economico di partenza: il 66% degli assegnatari erano manovali e operai, il 27% impiegati pubblici e privati. La popolazione attiva, la cui media nazionale era nel 1956 il 41% della popolazione totale, risultava il 45,7% nei complessi del nord, il 36,65% in quelli del centro, il 23,5% in quelli del sud e il 23,1% sulle isole. Altro indice del basso tenore di vita e dello stato di indigenza di larga parte degli assegnatari è testimoniato dal fatto che, nel periodo preso in esame, la percentuale di ex baraccati e provenienti dai campi di raccolta era particolarmente alta: una media, nei complessi esaminati, di 50,48%, la metà degli assegnatari. Anche l’immigrazione incise profondamente nella composizione della popolazione dei complessi: gli immigrati (sia regionali che extra regionali) rappresentavano il 54,8% della popolazione al nord, il 48,45% al centro, il 26,9% al sud e il 24,06% nelle isole. La maggioranza di questi erano, al nord, immigrati da altre regioni, tendenza che si invertiva spostandosi verso l’Italia meridionale, dove prevalevano gli emigranti provenienti dalla stessa regione.
Anche il livello di scolarizzazione era piuttosto basso: “non si hanno dati precisi sul grado di istruzione, ma come massa esso non raggiunge la licenza elementare, mentre si manifestano casi di analfabetismo di ritorno presso gli adulti” [30].
Questi dati, per quanto scarni, rivelano una situazione potenzialmente critica da un punto di vista sociale. Osservandoli si comprende quanto fosse necessario un intervento, per evitare che i complessi Ina-Casa diventassero non un’occasione di miglioramento delle condizioni abitative, e quindi in generale del tenore di vita, ma dei “ghetti” ai margini delle città.
Gli esordi del servizio sociale nei complessi Ina-Casa
La situazione problematica in cui si venivano a trovare i complessi Ina-Casa una volta che gli assegnatari vi si trasferivano, convinse i membri del Comitato d’attuazione a cercare delle soluzioni efficaci. Così durante la sessione del Comitato di Attuazione dell’11 ottobre 1951 si manifestò l’esigenza di
interventi diversi da quelli amministrativi propri degli Organi del Piano. Si ritenne che si sarebbe potuto contribuire ad agevolare l’organizzazione e l’atmosfera dei nuovi quartieri residenziali con l’istituzione del Servizio Sociale e fu avviato il primo esperimento [31].
Furono così messe a disposizione 20 borse lavoro per assistenti sociali assegnati dalle scuole di servizio sociale, che curavano anche la direzione tecnica del servizio. Per orientare il lavoro di questi assistenti sociali venne approntato, il 31 maggio 1953, un “VADE-MECUM dell’assistente sociale Ina-Casa” [32].
Era quindi presente negli organi dirigenti del piano la consapevolezza che
mentre si sarebbe potuto pensare che con la semplice assegnazione di un nuovo alloggio ampio e decoroso si sarebbe dato un contributo definitivo al progresso ed al risollevamento di quelle famiglie, alla prova dei fatti appare necessaria un’ulteriore azione per evitare che nelle nuove agglomerazioni le unità meno progredite si sentano isolate e respinte ai margini della vita collettiva e le disarmonie sociali si accentuino anziché attenuarsi [33].
Diversi erano infatti i problemi che avrebbero potuto comportare disagi ed impedimenti allo “stabilirsi di una nuova, serena convivenza” [34]. Uno di questi era la diversità delle provenienze degli assegnatari, possibile fonte d’incomprensione reciproca e quindi di ‘asocialità’:
il meccanismo di assegnazione degli alloggi porta come conseguenza l’immissione nei complessi edilizi […] di famiglie estremamente eterogenee dal punto di vista del livello sociale, del grado di educazione civile e civica, del rione di provenienza etc. [35].
A questo si accompagnava lo sradicamento degli assegnatari dal proprio ambiente:
queste famiglie, e gli individui che le compongono, si trovano simultaneamente staccate dalle cerchie di convivenza, di abitudini, di conoscenze alle quali erano bene o male socialmente ancorate, ed inserite in un ambiente nuovo che per la recente formazione non costituisce ancora una comunità, e non ha pertanto alcuna forza di assimilazione, mentre dal punto di vista delle necessità concrete si trova spesso sprovvisto dei più essenziali servizi, da quelli relativi alle attività religiose, culturali e ricreative agli stessi servizi sociali, sanitari e di approvvigionamento, etc [36].
Spesso infatti, a causa dell’alto costo dei terreni, i complessi Ina-Casa venivano realizzati nelle estreme periferie o addirittura in prossimità di queste, ma in aperta campagna. Inoltre la popolazione appena trasferita spesso si trovava sprovvista dei servizi elementari, presenti anche nei più piccoli centri: negozi, una chiesa, un ambulatorio, attrezzature scolastiche, circoli ricreativi. Questi servizi dovevano infatti essere realizzati dalle amministrazioni comunali nell’ambito delle quali i complessi sorgevano; spesso però i ritardi nella loro costruzione erano tali da convincere l’Ina-Casa ad anticiparne la costruzione per poi chiedere il rimborso alle amministrazioni locali.
Inoltre, numerosi erano gli assegnatari che provenivano da sistemazioni abitative improprie, come profughi, sfollati o costretti alla coabitazione:
un’aliquota degli assegnatari è costituita da famiglie che risentono nel morale e nel fisico di un più o meno lungo periodo di degradazione sociale, dovuta ad una vita di miseria e di promiscuità in ambienti asociali, o alle quali comunque le vicissitudini belliche e postbelliche hanno fatto perdere ogni idea di casa [37].
Altri disagi per gli assegnatari potevano poi provenire dai rapporti con l’Ina-Casa: si rilevava infatti che spesso le famiglie non sapevano a chi rivolgersi per inoltrare rimostranze o segnalare eventuali malfunzionamenti degli alloggi; inoltre numerose persone, a causa delle precedenti condizioni abitative, non sapevano utilizzare in modo corretto i servizi di cui le nuove abitazioni erano forniti e non sapevano come curarne la manutenzione. A questa “impreparazione” a vivere in case moderne si aggiungeva la difficoltà che poteva essere rappresentata dalle particolari condizioni poste dal vivere in un condominio: l’“autogestione” cui era affidata l’amministrazione degli alloggi a riscatto prevedeva che fosse un rappresentante degli assegnatari a svolgere il ruolo di amministratore, nella speranza di favorire una responsabilizzazione dei nuovi inquilini circa le nuove condizioni abitative [38]. Ma i compiti che gli assegnatari avrebbero dovuto svolgere (convocazione delle assemblee, decisioni sulle spese di manutenzione, conseguente conoscenza delle norme e dei regolamenti da rispettare, e così via) potevano risultare troppo complicati. Le difficoltà nel rapporto tra l’Ina-Casa e gli assegnatari, e le difficoltà di questi nella gestione dei nuovi alloggi, potevano essere risolte solo attraverso
un’azione formativa esercitata sui nuclei familiari ed attraverso la predisposizione di un sistema di contatti diretti ed «umani» fra l’Ina-Casa e le famiglie beneficiarie dei suoi alloggi [39].
I compiti assegnati all’assistente sociale erano quindi elaborati pensando ai problemi cui gli assegnatari andavano incontro una volta trasferiti nei complessi Ina-Casa; si riteneva utile un tramite in loco tra gli assegnatari e l’Ina-Casa, per facilitarne i rapporti ed evitare l’incomunicabilità tra ente e utente che caratterizzava la quasi totalità degli enti assistenziali. Bisognava inoltre fare in modo, affinchè si realizzasse un reale miglioramento delle condizioni di vita degli assegnatari, che il ‘trauma’ dell’inurbamento fosse attutito e reso il meno problematico possibile, e per questo compito si ritenne utile la figura dell’assistente sociale. Per capire come si sia potuto svolgere questo delicato e complesso compito [40], attraverso quali strumenti, è utile osservare le indicazioni generali suggerite dal vade-mecum.
Circa le attività da svolgere nella prima fase, quando cioè l’assistente avrebbe preso i primi contatti con gli assegnatari, si consigliavano due tipi d’intervento: uno per conoscere la zona dove sorgeva il nuovo centro residenziale, capirne le caratteristiche e le risorse; un altro per prendere contatto con gli assegnatari e cercare di presentare loro la figura dell’assistente sociale e le sue funzioni. Per quanto riguarda il primo tipo d’intervento venivano segnalate una serie di iniziative che l’assistente sociale avrebbe dovuto prendere: fare un censimento degli enti assistenziali che operavano nella zona e conoscere
la posizione dei diversi servizi pubblici esistenti nel complesso o nella zona circostante (scuola elementare, asilo, ambulatorio, chiesa, ufficio postale, delegazione anagrafe, ecc.) e le distanze dei servizi stessi dalle abitazioni del complesso [41].
Durante questo studio l’assistente sociale avrebbe inoltre preso contatto con il personale degli enti, con le autorità religiose e civili e con tutte quelle persone che potessero conoscere bene la realtà locale, come il parroco o il medico. Questi primi contatti sarebbero stati utili sia per capire quali fossero le potenziali risorse, umane e materiali, già presenti sul territorio e come poter collaborare con esse, sia per presentare loro la figura dell’assistente sociale, allora pressochè sconosciuta, ed informarli di quali fossero i suoi compiti e di come intendeva svolgerli.
Il secondo ambito d’intervento dell’assistente sociale sarebbe stato quello in cui avrebbe preso i primi contatti con gli assegnatari: “l’assistente metterà una cura particolare nello stabilire opportunamente questo primo contatto con gli assegnatari, che è così importante per il successivo sviluppo del servizio” [42]. I primi contatti sarebbero avvenuti con i rappresentanti dei vari fabbricati, i “capi scala”, in un’assemblea di presentazione e d’informazione circa le attività che venivano da questi considerate più urgenti. La presentazione del servizio sociale a tutti gli assegnatari sarebbe avvenuta tramite una lettera, nella quale l’assistente avrebbe indicato, a titolo di esemplificazione, alcune delle attività che, sulla base delle indicazioni dei capi scala, voleva promuovere. Sarebbero poi iniziate le visite domiciliari e i colloqui in ufficio che avrebbero permesso una maggiore conoscenza reciproca tra l’assistente e la popolazione del complesso e che avrebbero consentito di mettere a punto un programma di attività più adeguate alle esigenze più urgenti.
Se l’avesse ritenuto opportuno, e solo se non fosse riuscito ad avere informazioni necessarie tramite i colloqui e le visite, l’assistente avrebbe potuto effettuare un’indagine statistica diretta per avere una conoscenza dettagliata della realtà dei complessi in cui si trovava ad operare.
Dopo questa iniziale fase ‘esplorativa’ e conoscitiva, sarebbero iniziate le attività promosse dall’assistente sociale.
Le prestazioni, cui veniva data grande importanza, dell’assistente sociale verso le famiglie – nel vade-mecum si utilizza il termine “servizio familiare” – dovevano permettere alle famiglie residenti nel complesso di poter usufruire di tutte le prestazioni di cui avevano diritto da parte degli enti assistenziali che operavano nella zona. Difficilmente le singole famiglie sarebbero venute a conoscenza di tali opportunità e, per buona parte, non sarebbero state in grado di espletare tutte le lunghe e farraginose pratiche necessarie. L’assistente, avendo ben chiaro il quadro delle risorse assistenziali della zona avrebbe potuto indirizzare gli assegnatari bisognosi nella giusta direzione (si tenga presente la giungla di enti ed istituzioni assistenziali allora esistenti) e aiutarli nello svolgimento delle relative pratiche. L’assistente non avrebbe comunque dovuto sostituirsi “agli Istituti di Patronato e di Assistenza Sociale, per l’espletamento dei compiti di loro esclusiva competenza” [43] svolgendo più un’opera di indirizzo che di azione diretta. Questo perché si voleva “porre un po’ per volta tutti gli assegnatari in grado di fare da sé, evitando che si ‘abituino’ ad essere aiutati” [44].
La dimensione collettiva, che vada oltre la cerchia familiare, è l’altro importante ambito in cui l’assistente sociale doveva muoversi:
dato che la famiglia non è un’entità a sè stante, ma vive inserita nella comunità con tutta la gamma di rapporti che essa comporta, ogni iniziativa diretta a favore delle famiglie […] dovrà comprendere ‘attività di gruppo’ capaci di rispondere ad esigenze comuni ai diversi membri della collettività e tali che contribuiscano ad elevare la partecipazione delle persone e delle famiglie alla vita sociale [45].
Queste attività dovevano aiutare un processo di coesione tra i nuovi assegnatari, stimolare il formarsi di un tessuto associativo che contribuisse a rendere meno ‘traumatico’ l’impatto con la vita delle periferie cittadine. Per tali attività erano certo necessari dei locali adatti; ancora non si parlava di centro sociale ma di Centro Ina-Casa, la cui realizzazione era a carico dell’Ina-Casa. Per la costruzione di tali centri era richiesta la partecipazione attiva dell’assistente: “ove tali locali non fossero ancora stati realizzati l’assistente dovrà anzitutto farsi parte dirigente per la loro realizzazione ” [46].
Le attività di gruppo organizzate nel centro Ina-Casa dovevano essere organizzate solo dopo “un’accurata indagine sulle esigenze e sui desideri degli individui e delle varie categorie” [47], cercando quindi di rispondere il più possibile alle reali necessità della popolazione del complesso. Visto il generale basso livello di istruzione che mediamente contraddistingueva gli assegnatari, le prime iniziative di gruppo indicate dal vade-mecum sono quelle culturali: attuazione di “Corsi di scuola popolare” e di “Corsi di educazione popolare” per giovani e adulti, o di “corsi professionali”. Iniziative che potessero quindi facilitare l’impatto con la vita delle città e permettere una più rapida integrazione [48].
Altre attività indicate sono relative allo stimolo alla lettura, come l’apertura di una biblioteca o di un centro di lettura. La prima poteva essere istituita nei locali del centro e doveva essere organizzata dall’assistente sociale con l’aiuto degli assegnatari: i libri infatti non erano forniti dall’Ina-Casa, e dovevano essere o donati da alcune famiglie o comprati, tramite l’assistente sociale che godeva di agevolazioni sul prezzo. I centri di lettura invece sarebbero stati necessari solo “in alcuni complessi particolarmente rilevanti o isolati” [49] e l’assistente poteva avviarli facendone richiesta alle locali autorità scolastiche ed aiutandone poi lo svolgimento. I centri sarebbero stati gestiti da maestri o professori indicati dal Provveditorato, i quali ne avrebbero curato l’attività; e si sarebbero svolti nel centro Ina-Casa.
Per quanto riguarda le attività ricreative venivano fornite indicazioni generali, consigliando l’organizzazione di gite in zona o in altre città. Era anche consigliata la realizzazione di eventi sportivi perché potevano coinvolgere i ragazzi e dare vita a forme associative stabili.
I problemi scolastici erano particolarmente sentiti nei quartieri Ina-Casa, vista anche l’alta percentuale di bambini e ragazzi che vi abitavano. L’assistente sociale, appena preso contatto con il complesso,
si preoccuperà di conoscere l’entità della popolazione scolastica e i problemi che si presentano al riguardo. Se l’attrezzatura scolastica già esistente non fosse sufficiente, l’assistente sociale […] dovrà segnalare alle autorità competenti le esigenze del complesso Ina-Casa in modo che queste possano adottare opportuni provvedimenti di integrazione [50].
In quest’azione di sollecitazione l’assistente avrebbe potuto chiedere l’appoggio degli organi centrali dell’Ina-Casa. Inoltre si raccomandava di organizzare un dopo scuola presso i locali del centro Ina-Casa, gestito da personale docente, in accordo con il Provveditorato, oppure da laureati retribuiti dalle famiglie assegnatarie che godevano di questo servizio.
Un compito particolarmente urgente in questa fase iniziale dell’operato del servizio sociale, era l’apporto dato dagli assistenti sociali per il completamento dei servizi collettivi nei complessi Ina-Casa. Si è già detto dei ritardi che ne caratterizzavano l’attuazione da parte delle amministrazioni comunali. Questi ritardi contribuivano in modo determinante a creare disagio negli assegnatari che si trovavano a vivere in quartieri privi di scuole, negozi, una chiesa e tutti i servizi più elementari che probabilmente non mancavano nelle zone di provenienza: di conseguenza “L’Ina-Casa è stata portata ad estendere il raggio della sua programmazione […] anche sulla necessità per le famiglie di disporre in loco di tutte le varie attrezzature indispensabili” [51]. L’Ina-Casa si faceva infatti carico della costruzione dei negozi, che poi avrebbe venduto o ceduto in affitto, della sistemazione delle aree collettive e della realizzazione del Centro Ina-Casa, nel quale avrebbe avuto sede, se necessario, anche l’asilo e l’ambulatorio. Per quanto riguarda le opere di urbanizzazione (illuminazione delle strade, allacciamento alla rete idrica, a quella elettrica e al sistema fognario) l’Ina-Casa le avrebbe realizzate solo in caso di estrema urgenza, esigendo poi il rimborso delle spese dall’amministrazione comunale; mentre per le infrastrutture religiose, sportive, scolastiche, commerciali, amministrative ecc. avrebbe sollecitato gli enti competenti, agevolando la loro opera con la cessione di aree gratuite o a prezzi agevolati [52].
Il ruolo dell’assistente era determinato dalla sua presenza in loco, dalla sua conoscenza della popolazione dei complessi residenziali e delle necessità più urgenti. L’assistente aveva quindi un ruolo fondamentale perché i servizi realizzati nei complessi fossero il più aderente possibile ai desideri e alle necessità di chi vi abitava. Determinante sarebbe poi stato l’apporto dell’assistente nella realizzazione del centro Ina-Casa [53], in cui avrebbe dovuto aver sede il suo ufficio, una sala riunioni, ed un locale dove ospitare la biblioteca. Se l’assistente sociale avesse constatato che non si potesse fare altrimenti, avrebbero avuto sede presso il centro anche l’asilo e l’ambulatorio, i cui locali sarebbero stati realizzati dall’Ina-Casa e gestiti dagli enti competenti.
L’ultimo ambito d’intervento previsto per l’assistente sociale era quello più vicino alla sua figura professionale, cioè quello di far da tramite tra ente e utente:
due caratteristiche dell’assistente sociale, la sua continua presenza ‘in loco’ e la sua speciale conoscenza dei problemi e dei desideri degli assegnatari, fanno dell’assistente stesso un utile collaboratore per facilitare i contatti fra gli assegnatari e l’Ina-Casa [54].
Gli assegnatari potevano segnalare all’ente, grazie all’assistente sociale, inconvenienti tecnici riguardo le abitazioni o le aree comuni; mentre l’Ina-Casa poteva, tramite l’assistente sociale, svolgere un’opera di educazione ad una migliore conservazione degli alloggi e delle aree comuni.
In queste prime fasi d’intervento del servizio sociale nei complessi Ina-Casa l’attenzione era soprattutto rivolta alla urgente risoluzione delle numerose e pressanti necessità della popolazione appena trasferita: il completamento dei servizi, lo stabilirsi di collegamenti tra gli enti già operanti sul territorio e i nuovi abitanti, l’avvio ad un corretto utilizzo delle nuove abitazioni e l’abituarsi alle nuove condizioni abitative (il condominio), per molti ancora sconosciute. Ma erano già presenti, in nuce, quelle che, come vedremo, sarebbero state le finalità che avrebbero caratterizzato l’azione e le finalità dell’Egss.
La nascita dell’Ente Gestione Servizio Sociale – Case per Lavoratori
Questo periodo sperimentale di intervento del servizio sociale nei complessi Ina-Casa dovette dare risultati soddisfacenti tanto che, durante la sessione del Comitato d’Attuazione del 3 giugno 1954,
apparve inopportuno definire l’organizzazione del servizio – che era ormai da istituzionalizzare e regolare unitamente – nel quadro degli organi del Piano, di diverso carattere tecnico e amministrativo [55].
Si decise così di fondare l’Ente Gestione Servizio Sociale – Case per Lavoratori (Egss), costituito come associazione privata il 24 giugno 1954; lo scopo era quello di
promuovere e di sperimentare l’uso delle tecniche più appropriate per l’organizzazione e lo sviluppo di un servizio sociale in complessi edilizi o in quartieri residenziali (art.2), attraverso l’attività di assistenti sociali provvisti di diploma rilasciato da scuole da esso indicate (art.3) [56].
Tra i soci fondatori figuravano Giuseppe Parenti, già vice-presidente del Comitato d’Attuazione dell’Ina-Casa; Filiberto Guala, presidente del Comitato d’attuazione; Josette Cattaui De Menasce in Lupinacci, sorella di Monsignor De Menasce e segretaria generale dell’Ensiss. Gli enti associati erano invece la Gestione Ina-Casa, l’Inps, l’Inam, l’Inail, l’Unrra-Casas e l’Associazione fra gli Iacp. Presidente dell’ente era Giuseppe Parenti, Riccardo Catelani ne era il segretario generale.
La convenzione tra l’Egss e la Gestione Ina-Casa, posta in essere il 2 settembre 1954 [57], stabiliva che il servizio sociale, fino ad allora facente capo agli organi direttivi dell’Ina-Casa, divenisse, a partire dall’1 ottobre di quell’anno, esclusiva competenza dell’Egss. “La natura, le finalità e le modalità di espletamento del servizio richiesto sono definite da un regolamento” di cui elenchiamo i punti principali:
a) L’Ente si impegna di attuare […] un servizio sociale diretto alle persone, alle famiglie, ed alla collettività da esso formate, entrati a far parte dei complessi costruiti a cura della Gestione Ina-Casa
b) Il Servizio individua i problemi sociali del quartiere; tende a migliorare i rapporti di convivenza, le condizioni ambientali, il rispetto e la buona amministrazione dei beni comuni, viene incontro ai bisogni ed agli interessi delle unità sociali del complesso; facilita il rapporto fra la Gestione e gli assegnatari.
c) Il servizio sociale si attua mediante un’opera di chiarificazione, di stimolo, di sostegno, nei confronti degli assegnatari, nonché degli organismi, delle iniziative, e delle attività che possono interessare il servizio stesso.
d) Presiede a tale lavoro sociale, personale specializzato [gli assistenti sociali].
e) Il tipico strumento per questa azione comunitaria mediante un lavoro di gruppo, familiare ed individuale, è il Centro Sociale. Il Centro Sociale è la sede ordinaria per l’Assistente Sociale, che in rapporto con l’ente ne cura l’organizzazione e ne assicura la funzionalità nel complesso […]. Il Centro Sociale si sviluppa in funzione di bisogni degli assegnatari sotto l’aspetto individuale e collettivo, costituendo per essi il naturale terreno di incontro. E’ l’ambiente proprio per la realizzazione delle iniziative del quartiere dirette al bene comune […].
f) Sono comprese tra le prestazioni del servizio: le ricerche ambientali; il concorso al miglioramento dell’aspetto generale del quartiere o dei servizi collettivi; la collaborazione con gli Enti pubblici e privati per la realizzazione di iniziative e di opere sociali tendenti a risolvere i concreti bisogni espressi dalla collettività […]; l’affiancamento dei singoli assegnatari e nel loro aggrupparsi con metodi democratici, per facilitare il sorgere, il coordinarsi e lo svilupparsi di attività culturali, ricreative, sportive, solidaristiche e simili; […] la collaborazione con enti ed istituti di servizio sociale, igienico-sanitari, assistenziali, previdenziali, il Patronato ed i servizi pubblici, per facilitarne il conseguimento delle prestazioni da parte degli assegnatari [58].
Si ritrovano tutte le caratteristiche del servizio sociale individuate nel vade-mecum, ma con significativi spostamenti d’attenzione verso alcune di esse. Si poneva più attenzione, ad esempio, alla funzione del centro sociale, sede dell’assistente sociale e luogo che assicurava lo svolgimento delle attività programmate dall’assistente sociale insieme agli assegnatari. E proprio alle attività del centro sociale viene dedicato l’ultimo capitolo del “testo unico delle circolari”.
Grande importanza veniva attribuita alle iniziative di carattere culturale e formativo. Il centro sociale era infatti sede della biblioteca;
che, oltre a una funzione meramente informativa, ha e deve estendere la sua utilità nel migliorare l’organizzazione mentale del lettore e nell’agevolarne il sempre maggior inserimento nella società come elemento attivo. […] La maggiore funzionalità della biblioteca si ottiene solo se i volumi di cui è dotata […] seguono e sono aderenti alle effettive esigenze degli assegnatari [59].
Per aiutare la biblioteca a diventare un fattore di stimolo per la nascita di attività di gruppo, l’assistente doveva studiare, anche analizzando la frequenza dei prestiti, gli argomenti di maggior interesse per gli assegnatari e su questi basarsi per indicare alla segreteria centrale le richieste d’acquisto di nuovi volumi o riviste. Se avesse incontrato particolari interessi che accomunavano più persone avrebbe potuto cercare di dare vita ad una attività di gruppo.
Altra attività da tenere nei centri sociali era quella dei corsi di educazione degli adulti, finanziati dal Comitato Centrale per l’Educazione Popolare del Ministero della pubblica istruzione. I criteri generali sull’organizzazione dei corsi indicavano che questi
non sono destinati al ‘popolo’ per ‘elevarlo’ alla cultura delle classi sociali più agiate. Essi si rivolgono ad adulti di tutti gli ambienti e ceti sociali e di varia preparazione, e mirano a valorizzare l’uomo non solo come strumento di compiti produttivi, ma come entità cosciente della propria personalità […]. Questi corsi peraltro non hanno fini didattici. In essi ogni persona deve trovare modo di utilizzare sempre meglio le risorse educative fornite ogni giorno dalla vita stessa [60].
Una tale attività presupponeva quindi la partecipazione attiva dei frequentanti, che dovevano intraprendere uno sforzo per il cambiamento delle loro condizioni di vita:
l’acquisto di nozioni nuove non rappresenta il fine del corso, ma lo strumento attraverso il quale gli interessati chiariscono i problemi che assieme hanno voluto affrontare e superare [61].
Una simile impostazione del corso richiedeva uno sforzo notevole dell’assistente sociale per assicurarsi che fossero presenti tutti i presupposti per un suo positivo svolgimento: “ripetiamo che se non è possibile rispettare integralmente lo spirito dei corsi è meglio non affrontare l’iniziativa.” [62]. Prima quindi di proporre un corso l’assistente doveva assicurarsi che esistessero dei gruppi con chiari interessi in comune, o con un comune problema da superare; a questi l’assistente avrebbe proposto il corso e se avesse riscontrato interesse per l’iniziativa, avrebbe studiato insieme a loro il programma. Doveva inoltre reperire, sempre concordando la scelta con il gruppo, un docente adatto al tipo d’iniziativa. L’avvio e lo svolgimento del corso dovevano essere seguiti dall’assistente sociale, nella speranza che il gruppo esprimesse persone in grado di condividerne la responsabilità della gestione: “la responsabilità dell’avvio del corso deve essere senz’altro assunta dall’assistente sociale, che dovrà in seguito, parteciparla ai leaders che il gruppo riuscisse a esprimere” [63]. Il corso avrebbe quindi dovuto favorire la partecipazione degli iscritti anche per quanto riguarda gli aspetti organizzativi: l’assistente sperava cioè di poter contare sulla risorsa del volontariato.
Potevano anche essere avviati corsi di scuola popolare per ottenere la licenza elementare inferiore, quella elementare superiore, oppure corsi di aggiornamento professionale. L’assistente si sarebbe accertato dell’esistenza o meno di iniziative analoghe nella zona, per sfruttare al meglio le realtà già esistenti, e avrebbe curato i rapporti con gli enti e le istituzioni la cui collaborazione era indispensabile per organizzare i corsi professionali. Visto il basso livello d’istruzione e l’alto tasso di disoccupazione e sotto occupazione diffusi tra la maggior parte degli assegnatari Ina-Casa, i corsi potevano rivelarsi un significativo contributo per un migliore inserimento nel tessuto sociale ed economico delle città. Tali corsi, se non esistevano nella zona dove sorgeva il complesso Ina-Casa, potevano essere ospitati, dietro richiesta dei residenti, nei locali del centro sociale. L’assistente avrebbe potuto approfittare di quest’occasione di aggregazione nei locali del centro sociale per cercare di stimolare, in collaborazione con gli insegnanti, quell’integrazione reciproca tra gli assegnatari che era una delle finalità dell’intervento dell’Egss.
Vista la giovane età media dei residenti nei complessi Ina-Casa e la consistente presenza di bambini e ragazzi (circa il doppio rispetto alla media cittadina), la necessità di attività parascolastiche e di assistenza all’infanzia era particolarmente diffusa, anche per i ritardi, più volte menzionati, nella realizzazione di tali servizi da parte da parte delle amministrazioni comunali. Per l’organizzazione di attività parascolastiche, come il doposcuola o scuole estive, l’assistente avrebbe dovuto prendere accordi con gli enti competenti, come il Provveditorato agli Studi o il Patronato scolastico, per l’invio di un insegnante che avrebbe svolto la sua attività nei locali del centro sociale. Se tale accordo non fosse stato possibile, allora l’assistente sociale avrebbe potuto rivolgersi ad enti privati o a persone disposte ad assumere, gratuitamente, la gestione delle iniziative. Ancora una volta, in mancanza dell’intervento pubblico si ricorreva, per colmare il vuoto, al volontariato. Si sperava che l’utilizzo dei volontari avrebbe anche responsabilizzato gli assegnatari verso i bisogni della comunità, favorendo un nuovo approccio ai beni e ai servizi pubblici.
Anche l’assistenza all’infanzia, cioè il servizio d’asilo o di custodia prescolastica, avrebbero potuto avere sede – nel caso non fosse possibile altrimenti – nel centro sociale. I servizi sarebbero però stati gestiti da “Enti specificatamente competenti, mediante convenzione. […] In ogni caso […] dovrà essere data la precedenza agli Enti pubblici a carattere nazionale o locale e devono essere esclusi Enti privati a carattere partitico o confessionale” [64]. L’assistente non doveva quindi svolgere compiti, come il maestro/la maestra d’asilo, che esulavano dalla sua competenza e preparazione, ma doveva affidare la gestione dei servizi ad istituzioni pubbliche specializzate; restavano comunque da reperire gli enti operanti nella zona disposti ad assumere la gestione dei servizi per l’infanzia, e da curare i rapporti tra questi e le famiglie.
Il centro sociale era la sede periferica dell’attività dell’Egss, il suo strumento d’intervento nelle singole e specifiche realtà. Ma, essendo l’Egss un ente nazionale era dotato di una struttura che andava via via definendosi, in base all’esperienza accumulata. L’organo centrale che, tra le altre funzioni, si occupava del corretto svolgimento del servizio sociale era la segreteria generale; questa infatti “- oltre alle normali funzioni di un organo del genere – deve assolvere al ruolo di propulsore e di consulente di un Ente di servizio sociale” [65]. Seguendo l’evolversi dell’organizzazione della segreteria è possibile capire come si cercò di conciliare la dimensione nazionale, organi centrali e direttivi dell’ente, e quella locale, il centro sociale diretto dall’assistente sociale. Nel gennaio 1956 la segreteria era composta da un ufficio tecnico di servizio sociale ed altri quattro uffici con compiti amministrativi e contabili [66]. C’era quindi un unico ufficio che doveva occuparsi di tutto quello che concerneva il servizio sociale, al cui interno si articolavano diverse competenze: consulenza, corsi di addestramento, ricerca e documentazione, studio dei programmi d’addestramento. Una prima articolazione, anche se non ancora definitiva, avvenne nel gennaio 1957, con la suddivisione della segreteria in sei uffici: servizio supervisione, servizio addestramento (sotto la responsabilità di Renzo Caligara), servizio studi e inchieste (la cui responsabilità competeva a Ubaldo Scassellati). Altri tre uffici erano addetti a funzioni amministrative e contabili.
L’impostazione data alla segreteria ci mostra come l’attività dei singoli centri sociali fosse rapportata con la struttura dell’ente. Gli assistenti sociali presenti sul territorio nazionale erano divisi, fin dalla nascita dell’ente, in 11 gruppi che si riunivano periodicamente con un membro della segreteria centrale:
tali riunioni offriranno la possibilità di un approfondito esame e di una più organica impostazione delle attività sociali in atto nella zona e potranno costituire un prezioso strumento di perfezionamento ed aggiornamento professionale per le Assistenti ed un’ottima fonte di nuove idee per l’Ente ai fini di una più adeguata e realistica programmazione delle attività future [67].
Dal servizio supervisione dipendevano i consulenti di questi gruppi, che avevano l’incarico di
aiutare gli assistenti sociali ad assimilare e ad approfondire gli scopi e le direttive generali dell’Ente, la dottrina e le tecniche del servizio sociale e gli atteggiamenti a ciò conformi nell’attuazione del loro lavoro professionale. La consulenza, così decentrata, tende a colmare una lacuna nei rapporti tra l’orientamento generale dell’Ente e il lavoro particolare di ciascun assistente sociale. E’ destinato a favorire un servizio più efficace ed adeguato alle esigenze dei clienti [68].
Dal servizio addestramento dipendeva la formazione dei nuovi assistenti sociali, per prepararli al particolare compito che li aspettava e per il quale certo non bastavano le nozioni apprese nelle scuole e l’aggiornamento del resto del personale.
Una struttura quindi che ricopriva l’intero territorio nazionale ma dove non prevalevano impostazioni centralistiche. Ricorda Ubaldo Scassellati:
il servizio era organizzato in modo tale che ogni tanti assistenti ci fosse un supervisore […], non era un’organizzazione verticale di tipo gerarchico tradizionale, ma un modello per far crescere e far collaborare gli assistenti sociali [69].
La conoscenza della realtà in cui operare è stata una metodologia che ha contraddistinto fin dall’inizio il lavoro delle assistenti sociali nei complessi Ina-Casa. Serviva, ad esempio, la conoscenza degli enti operanti nella zona, bisognava capire quali servizi mancassero, avere, insomma, conoscenza dei problemi degli assegnatari e dell’ambiente in cui vivevano. Verso la fine del primo settennio di attività dell’Ina-Casa (1949-1956) queste ricerche effettuate dagli assistenti sociali ed elaborate dall’ufficio ricerche rivelarono numerosi aspetti d’estremo interesse: nella progettazione dei nuovi complessi ci si basava anche sulle informazioni in esse contenute, per stabilire quali servizi fossero necessari, quale doveva essere la sua collocazione oppure con quali negozi dotare il complesso.
Queste informazioni non erano utili solo per la progettazione dei nuovi complessi, ma anche per meglio indirizzare l’azione del servizio sociale, che si andava così arricchendo di nozioni sociologiche e urbanistiche fondamentali per meglio comprendere il disagio delle periferie urbane ed effettuare efficaci interventi per aiutare a superarlo. Questo aspetto dell’azione dell’Egss assunse quindi una fisionomia propria con la nascita dell’ufficio studi e inchieste e avrebbe ricoperto negli anni a seguire un’importanza sempre maggiore. Ricorda infatti Scassellati – primo responsabile di quell’ufficio, il cui successore fu, a partire dal 1959, Carlo Trevisan (avvalendosi però della consulenza e l’appoggio di Scassellati) [70]– “queste sono state le prime vere indagini di sociologia urbana applicata condotte in Italia” [71].
Un esempio curioso ma significativo delle prime inchieste effettuate dell’Egss per conto dell’Ina-Casa ci viene da un opuscolo, pubblicato dall’ente nel 1956, nel quale vengono riportati i risultati di un’indagine condotta l’anno prima: “Sistemi di lavatura ed asciugatura dei panni nei quartieri Ina-Casa” [72]. Nelle avvertenze al lettore viene spiegato il perché di quella pubblicazione:
nel settembre 1955 L’Ente Gestione Servizio Sociale svolse un’indagine in alcuni complessi Ina-Casa allo scopo di studiare i sistemi attualmente seguiti dalle famiglie assegnatarie […] in materia di lavatura di panni. Ciò al fine di valutare la convenienza di installare un servizio di lavatura centralizzato nel Complesso o in alcune sue unità immobiliari. L’interesse dei risultati è sembrato andare al di là del fine immediato per il quale essa era stata condotta [73].
L’indagine riportava infatti, oltre a informazioni specifiche sui metodi utilizzati per fare il bucato, alcune statistiche di grande interesse sull’occupazione dei capifamiglia in relazione anche alla zona di residenza: ad esempio, la percentuale di operai era molto alta nei complessi del nord, mentre in quelli del sud era pressochè uguale alla percentuale degli impiegati. E’ probabile che queste informazioni siano state giudicate utili sia dall’Ina-Casa che dall’Egss, dal momento che nei mesi a cavallo tra il 1956 e il 1957 venne realizzata l’indagine sulla realtà demografica e sociale dei complessi Ina-Casa cui abbiamo fatto riferimento nelle pagine precedenti.
Con la creazione di un ufficio apposito per gli studi e le inchieste, l’attività di ricerca crebbe quantitativamente e qualitativamente: ad esempio l’Egss pubblicava già nel 1961 una ricerca che coordinava e elaborava i dati raccolti dagli assistenti sociali dei diversi centri sociali dell’ente presenti nella città di Bologna: “La città come quadro di riferimento per l’operatore sociale. Preliminari ad un’analisi socio-economica della città di Bologna” [74]. Studi come questo, oltre a fornire un prezioso contributo a tutti gli operatori sociali della città, miravano anche sollecitare
l’attuarsi o il diffondersi del lavoro in équipe tra operatori sociali, professionisti di scienze sociali in senso lato e pubblici amministratori, affinché da una migliore conoscenza delle realtà urbane scaturisca una conseguente e rispondente azione volta a soddisfarne le esigenze e a valorizzarne le risorse [75].
1960: sei anni di attività dell’Egss
Nel 1961 l’Egss pubblicò un volumetto di presentazione dell’ente, nel quale ricostruiva brevemente la sua storia e presentava un profilo delle attività svolte [76]. Nella premessa si legge che
l’industrializzazione, le migrazioni interne e l’urbanesimo, la questione meridionale […] costituiscono oggigiorno dei punti nevralgici per lo sviluppo più o meno rapido delle strutture e delle attività economiche del Paese. Però l’esperienza di questi anni […] ha reso evidente la necessità che lo sviluppo economico si accompagni ad una evoluzione socio-culturale, tale da garantire la stabilità delle conquiste tecniche, evitare degli choc negativi e delle fratture nelle comunità interessate ed anzi favorire la partecipazione dei cittadini al progresso comune [77].
L’azione dell’ente veniva quindi contestualizzata nel quadro dei profondi cambiamenti economici e sociali, legati allo scoppio del ‘boom economico’, che stavano interessando l’Italia:
avendo come punto di riferimento le persone, con le loro esperienze, le loro aspirazioni, le loro capacità, esso [il servizio sociale] si propone infatti di offrire un aiuto professionale per favorire […] lo sviluppo delle persone, dei gruppi, e attraverso essi lo sviluppo delle comunità in cui sono inseriti. […] Quel mezzo d’intervento del servizio sociale che è il Centro sociale risulta – in base alla verifica fattane in questi anni – particolarmente utile in ambienti in trasformazione o di nuova costituzione. Di fatto esso vuol essere luogo di incontro delle esperienze personali e collettive, delle comuni necessità da risolvere, dei desideri diffusi da soddisfare [78].
Il centro sociale era ormai diventato lo strumento principale nel lavoro di comunità svolto dall’Egss.
L’importanza del centro sociale era testimoniata anche da altre pubblicazioni dell’ente: una, “Il centro sociale nei complessi Ina-Casa”, del 1958, era un opuscolo [79] edito per dare indicazioni ai progettisti sulla costruzione dei centri sociali; queste indicazioni erano precedute dalla descrizione generale delle attività che si sarebbero dovute svolgere nel centro e della sua funzione rispetto al quartiere in cui operava. In un’altra pubblicazione dell’ente, un estratto di un articolo di Odile Vallin, dal titolo “Funzione educativa del centro sociale”, si affermava che lo
scopo del centro sociale in tali quartieri [quelli di edilizia popolare] è di aiutare gli abitanti del quartiere stesso ad affrontare i propri problemi con le loro forze; in modo particolare di aiutarli ad organizzare una convivenza piacevole o comunque sopportabile, creando nel quartiere rapporti sociali tali da favorire lo sviluppo delle persone in genere […] e di creare fra il quartiere e la città dei rapporti normali [80].
Queste riflessioni avvenivano anche sull’onda della forte espansione dell’attività dell’Egss: alla fine del 1960 erano 245 i complessi nei quali l’ente operava, con 287 assistenti sociali, avendo a disposizione 159 centri sociali con sedi definitive ed altri 86 in sedi provvisorie, in attesa della realizzazione del centro [81].
Le funzioni del centro sociale si concretizzavano in molteplici attività svolte dall’assistente sociale. Restavano importanti, per affrontare i problemi connessi all’insediamento, alcune iniziative già descritte: aiuto agli assegnatari nei rapporti con gli organi tecnici e amministrativi dell’Ina-Casa e con le istituzioni locali, nella gestione delle nuove abitazioni ecc. Queste attività erano però svolte dall’assistente sociale in colloqui individuali nel suo ufficio, durante visite domiciliari o con la partecipazione a assemblee di condominio; non richiedevano quindi l’utilizzo degli ambienti del Centro sociale.
Questo diventava invece indispensabile per organizzare le attività di gruppo e i servizi. Per renderlo il più funzionale possibile, l’edificio del centro sociale sarebbe stato progettato anche a partire dai servizi che avrebbe dovuto ospitare:
di volta in volta il competente Ufficio della Gestione fornirà a ciascun progettista dati precisi circa il «fabbisogno» dei locali per il Centro sociale da progettare. Tali dati, stabiliti su segnalazioni dirette dell’Ente Gestione Servizio Sociale, potranno variare […] in rapporto allo stato delle necessità sociali degli assegnatari, delle risorse della collettività cittadina a cui il quartiere si appoggia e della situazione della «zona urbanistica» che condurrà anche altri abitanti a usufruire o no del centro sociale [82].
Per quanto riguarda i servizi relativi all’istruzione o al recupero dei ritardi scolastici, come visto particolarmente urgenti, numerose furono le iniziative dei centri sociali.
Nel 1960, 86 erano i centri sociali nei quali funzionava un servizio di scuola materna (sarebbero stati 123 tre anni dopo [83]), frequentato da oltre 4000 bambini. L’iniziativa era anche occasione per stimolare la partecipazione dei residenti alla vita del quartiere, migliorando il rapporto scuola-famiglia:
risulta anche una viva partecipazione degli assegnatari e particolarmente delle madri, al migliore svolgimento dell’iniziativa. […] Gli insegnanti si servono degli Assistenti Sociali per conoscere l’ambiente e prendere contatto con le famiglie, mentre gli Assistenti Sociali […] riescono ad approfondire e integrare efficacemente i contatti con gli assegnatari [84].
Numerosi erano anche i doposcuola, attivi nel 1960 in 60 centri sociali, e i Cres (Centri Ricreativi Educativi Scolastici); questi servizi miravano alla soluzione di problemi presenti nella popolazione: favorivano infatti l’apprendimento scolastico e rappresentavano una risorsa preziosa per le numerose famiglie in cui entrambi i genitori fossero impegnati tutto il giorno in attività lavorative.
L’educazione degli adulti, metodo diffuso a livello internazionale dall’Unesco, e promosso dagli organi centrali presso i centri sociali, incontrava invece delle difficoltà di realizzazione: “purtroppo, non sempre si è saputo utilizzare convenientemente tale metodo […], con la conseguenza di ammantare con un nome nuovo i tradizionali metodi scolastici” [85].
La diffusione geografica dei corsi di educazione popolare, teso a recuperare il ritardo negli studi alle persone adulte, rispecchiava fedelmente l’arretratezza dell’istruzione in buona parte del Mezzogiorno: nel 1963 erano attivi 3 corsi nell’Italia settentrionale, 12 in quella centrale, 31 in quella meridionale e 23 in quella insulare” [86]. L’innalzamento del livello d’istruzione rappresentava anche un mezzo per potersi meglio qualificare nel mondo del lavoro:
il problema del lavoro appare in genere molto sentito nelle zone dove operano i centri sociali dell’Ente, e ciò è ovvio data la presenza, tra l’altro, di molti immigrati […]. Ma il desiderio di una qualificazione nel proprio lavoro la sentono soprattutto i giovani, i quali spesso non hanno neppure un titolo di studio che permetta loro di accedere a corsi di qualificazione e di specializzazione [87].
Per soddisfare questa esigenza l’assistente sociale, che doveva essere aggiornato sulle opportunità presenti nella zona, indirizzava chi ne avesse bisogno verso corsi attivi nel circondario; ma in mancanza di questi, si doveva sopperire, avviando dei corsi nei centri sociali. Nel 1959 questi erano circa 70, grazie all’azione degli assistenti sociali che dovevano innanzitutto stabilire quali fossero i corsi più utili (ancora una volta lo strumento dell’indagine si rivelava prezioso), che reperivano gli insegnanti, curavano i rapporti con i giovani e integravano il corso con altre attività richieste dai giovani stessi.
I servizi scolastici, o più in generale legati all’istruzione, non erano gli unici cui il centro sociale, nel caso non fossero presenti nel complesso o nelle zone circostanti, doveva sopperire. Infatti “i centri sociali si sono attivamente interessati per portare i quartieri al minimo necessario di autosufficienza per i servizi essenziali” [88]. Si trattava, in genere, di ambulatori medici, che nel 1963 erano 47, consultori pediatrico-materni, 47 nello stesso anno, e asili nido, presenti in 9 centri nel 1963 [89]. Dove necessario l’assistente poteva mettere a disposizione i locali del centro sociale, o cercarne altri nel quartiere che fossero adatti, per il loro regolare svolgimento. Nel cercare di assicurare questi servizi ai residenti, l’assistente sociale doveva sempre curare le conseguenze che questi potevano avere nella collettività: i servizi infatti non erano solo
attività di supplenza, ma mezzo per favorire lo sviluppo della comunità dato che si richiede l’interessamento degli stessi assegnatari alla soluzione delle inevitabili difficoltà amministrative per ottenerli, le persone vengono messe in contatto tra loro con il conseguente superamento dell’isolamento familiare e di categoria, vengono offerte, per alcuni servizi, occasioni di prime attività in comune […] e si dà modo all’Assistente Sociale di aiutare l’emersione di risorse, la formulazione di richieste per altre iniziative che rientrino nel campo specifico della vita del Centro Sociale [90].
Tra le attività riguardanti l’ambito culturale, oltre ai corsi e ai doposcuola, vi erano anche le biblioteche e i centri di lettura. Mentre questi ultimi si rivelavano strumento di scarsa efficacia, le biblioteche con sede nel centro sociale e gestite da esso, godevano di ampia diffusione: erano infatti 161 nel 1959 (all’incirca una in ogni centro sociale con sede definitiva). Questo perché era un servizio carente nelle periferie in cui i complessi sorgevano e, inoltre, dava modo agli assegnatari di frequentare il centro sociale e prendere dimestichezza con esso e con l’assistente sociale e, viceversa, dava occasione all’assistente sociale di conoscere meglio gli assegnatari e i loro interessi. Questa interazione poteva rappresentare un terreno fertile per la nascita di iniziative di gruppo: “sono infatti in aumento le sale di lettura e di consultazione, mentre sempre più diffusa è l’utilizzazione dei libri per cicli culturali, per corsi di educazione degli adulti, per montaggi e discussioni sistematiche su argomenti emersi dal materiale bibliografico” [91].
L’aggregazione intorno al Centro Sociale era anche favorita dalle attività culturali-ricreative che in esso si svolgevano; le iniziative di maggior successo erano i gruppi di filodrammatica e quelli sportivi. Nel 1958 erano attive 23 filodrammatiche, con circa 500 partecipanti, e 72 circoli sportivi con oltre 1800 iscritti. Queste attività non riguardavano solo chi le svolgeva, ma creavano momenti di aggregazione per tutto il complesso: un evento sportivo o una rappresentazione teatrale fornivano “agli spettatori occasioni di incontro e di impiego del tempo libero nell’ambito del loro quartiere: si ven[ivano] così a costituire, via via, delle tradizioni comuni” [92]. Inoltre la gestione di simili attività poteva essere affidata a volontari poiché favoriva l’emergere dei “leaders locali”; potevano quindi essere ‘autogestite’ dalla popolazione, favorendone così una maggiore coesione. Un problema era però rappresentato dall’insufficienza di strutture, che rendeva in molti casi impossibile la nascita di associazioni sportive. Questo limite era avvertito come particolarmente grave perché
i giovani non trovano modo di soddisfare i loro bisogni nel quartiere in cui vivono e ben difficilmente si inseriscono nella vita del Centro Sociale, mentre – attraverso il richiamo costituito dallo sport – potrebbero essere aiutati anche per altre loro esigenze, culturali e professionali”, ma anche perché “delle buone attrezzature sportive […] localizzate nei quartieri di periferia, servono a valorizzare queste zone [93].
Considerazioni finali
Non è facile tentare un bilancio dell’attività dell’Egss, sia per la vastità della sua azione, sia per la sua durata ventennale [94]. Certamente l’obiettivo di una crescita del senso civico dei residenti si scontrò con forti resistenze delle famiglie alla partecipazione attiva e consapevole ad iniziative pubbliche:
le spinte all’asocialità […] sono evidenti, ed incidono profondamente – a lungo andare – specie sulle giovani generazioni. Infatti nei nuovi quartieri popolari o medio-popolari di edilizia pubblica, si presentano con particolare ampiezza situazioni di individualismo, di chiusura sociale dei nuclei familiari, di difficoltà di rapporti di vicinato [95].
Vi erano poi altre resistenze, legate alla condizione di provenienza degli assegnatari:
erano le condizioni dell’Italia povera: per lo più abituata […] a una grande penuria di tutto, ma soprattutto a un duro sfruttamento e a una perenne insicurezza; era una vita nella quale i potenti avevano dispensato sempre molta prepotenza e poca carità e le istituzioni, quando non lontane e inaccessibili, si erano sempre mostrate nemiche. Una vita regolata da un fortissimo controllo sociale, alla invadenza e pericolosità del quale si poteva opporre solo il silenzio e il rendersi meno visibili possibile. L’unico baluardo noto contro povertà, insicurezza e malevolenza altrui, era la casa familiare [96].
La volontà dei centri sociali di “dare concretezza e realtà alla vita democratica, creando forme di partecipazione del cittadino alla vita ed alla decisioni delle amministrazioni locali” [97] dovette quindi scontrarsi con forti resistenze connaturate alla società italiana del tempo, caratterizzata da una povertà diffusa e profondamente divisa dalla contrapposizione tra il mondo cattolico e quello comunista. Inoltre, notava Achille Ardigò,
la partecipazione popolare non conflittuale alle decisioni pubbliche di interesse riesce quando c’è un leader di tipo carismatico, oppure quando c’è una organizzazione sociale che non crea troppe distanze, troppe sperequazioni e troppe subordinazioni tra il centro di decisione e la popolazione [98].
Raramente queste condizioni erano presenti nei complessi Ina-Casa.
E’ comunque importante sottolineare l’innovazione che contraddistinse l'azione dell’Egss, sia per la ricerca di soluzioni ai problemi delle periferie urbane, che all’inizio degli anni Cinquanta iniziavano a dare i primi segni della crescita impetuosa e caotica che avrebbe caratterizzato gli anni del miracolo economico; sia per la sua azione capillare e periferica, attenta alle specificità dei singoli quartieri ed alle sue potenziali risorse [99]. Se si pensa alla massiccia crescita delle periferie delle città italiane, ed alle insufficienti risorse (legislative, finanziarie, culturali…) delle amministrazioni comunali che avrebbero dovuto gestirle, colpisce un simile approccio. Per capire la distanza dell’amministrazione pubblica rispetto ai problemi legati alla crescita urbana basti pensare al classico esempio della mancata abrogazione delle leggi fasciste sull’urbanesimo che, rendendo impossibile il cambio di residenza, lasciavano in una situazione di illegalità gli emigranti nelle città. La politica dell’Egss nacque quindi con una fisionomia che, pur con alcune debolezze, rivelava un’attenzione inedita ai problemi sociali dell’urbanizzazione e delle nuove periferie urbane. Significativa, per capire il contributo dei centri sociali alla vite delle periferie, pare la testimonianza di una residente del quartiere Ina-Casa di Borgo Panigale a Bologna: il centro sociale
era l’unica struttura di sostegno esistente per le centinaia di ragazzi del Villaggio Ina-Casa, in particolare per le ragazze, dato che i ragazzi trovavano un punto di riferimento nelle squadre di calcio organizzate […] da don Guerrino. Non so da chi fosse gestito, so solo che fu in quel luogo che ‘divorai’ tutti i libri classici per ragazzi che la biblioteca del Centro aveva: si potevano prendere in prestito o andare a leggere direttamente là. Io vi passai molti pomeriggi a leggere; ci si poteva anche andare a fare i compiti e c’erano signorine (assistenti sociali, credo) sempre molto disponibili e ben preparate. Al Centro sociale ho fatto (nel 1957?) il mio primo corso di taglio e cucito, assieme ad alcune ragazze un po’ più grandi di me e per le quali era stato organizzato. Sempre in quegli anni partecipai con il Centro ad una gita a Venezia. Erano tante le attività del Centro, finalizzate credo a togliere i ragazzi dalla strada, ma che in realtà davano molto di più: per me fu un ‘faro’ socio - culturale molto importante e credo che quando, quindici anni dopo, dovetti essere io l’animatrice di un centro sociale in Africa mi ispirai per tante cose al Centro Sociale della mia infanzia [100].
[1] Tali impegnativi obbiettivi sembravano allora, nel clima di ottimismo e di costruttivo entusiasmo del dopoguerra più a portata di mano, meno “utopici” di quanto sarebbero apparsi agli osservatori successivi.
[2] Cfr. A. Zucconi, Cinquant’anni nell’utopia, il resto nell’aldilà, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2000 e M. Talamona, Dieci anni di politica dell’Unrra Casas: dalle case ai senzatetto ai borghi rurali nel mezzogiorno d’Italia (1945-1955). Il ruolo di Adriano Olivetti in C. Olmo (ed.), Costruire la città dell’uomo. Adriano Olivetti e l’urbanistica, Torino, Edizioni di Comunità, 2001.
[3] Cutini R., La nascita e lo sviluppo della scuola pratica di servizio sociale di Milano (1944-1950), in «La Rivista di Servizio Sociale», n.1, 2001.
[4] Busnelli Fiorentino E., Giovanni de Menasce : la nascita del servizio sociale in Italia, Roma, Studium, 2000.
[5] Ginsborg P., Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi. Società e politica (1943-1988), Torino, Einaudi, 1989, 326.
[6] U. Scassellati, Per un’autonoma iniziativa giovanile, in «Terza generazione», n. 1, ottobre 1953, 6
[7] Vedi la breve biografia di Riccardo Catelani in «La Rivista di Servizio Sociale», n.3, 2000, 90.
[8] B. Ciccardini, La politica era tutto, in «Terza generazione», numero di presentazione, 3
[9] A. Scassellati, Intervista a Ubaldo Scassellati, in De Rita G. e Bonomi A., Manifesto per lo sviluppo locale. Dall’azione di comunità ai Patti territoriali, Torino, Bollati Boringhieri, 1998, 177-178.
[10] G. Tassani, La terza generazione. Da Dossetti a De Gasperi, tra stato e rivoluzione, Roma, Edizioni Lavoro, 1988, 178. Tassani fa qui riferimento alla lettera aperta di Ciccardini apparsa nel numero di presentazione della rivista.
[11] G. Tassani, La terza generazione, cit., 179. L’articolo di Scassellati a cui si fa riferimento è Non possiamo rifiutare nulla della storia d’Italia, apparso sul numero di presentazione di «Terza Generazione», agosto 1953.
[12] U. Scassellati, Per un’autonoma iniziativa giovanile, in «Terza generazione», n. 1, ottobre 1953, 6. Nello stesso articolo Scassellati sottolineava l’esigenza di cercare vie diverse da quelle dell’asfittico scenario politico-economico italiano: “Quando una situazione – come è ormai quella italiana – appare strutturalmente bloccata sul piano dell’invenzione teorica e dell’innovazione economica, ed è cessata ogni possibilità reale di movimento espansivo sul piano della politica, allora bisogna porsi il problema di riscoprire i termini delle questioni, riscoprirli nel loro significato originario che è quello umano, e risollecitare in questi termini nuova coscienza, nuovo spirito, nuova disponibilità, nuove invenzioni, nuove iniziative”.
[13] Ivi, 7.
[14] Ibidem
[15] Ibidem
[16] Ibidem
[17] Ibidem
[18] A. Scassellati, Intervista a Ubaldo Scassellati, in G. De Rita, A. Bonomi, Manifesto per uno sviluppo locale, cit., 179.
[19] U. Scassellati, Per un’autonoma iniziativa giovanile, cit., 8.
[20] Ivi, 9. Nel numero successivo Renzo Caligara ribadisce l’importanza di un intervento che eviti ogni approccio ideologico: “noi ci poniamo di aiutare la nostra generazione a concepire degli ideali relativi a un compito storicamente e tecnicamente plausibile: a intraprendere delle iniziative pratiche secondo principi non astratti in una formula sacra, ma suscettibili di essere sviluppati in formule adeguate a impostare teoreticamente i problemi via via suscitati dalle nuove operazioni” (R. Caligara, Il prezzo dell’uscita dalle parti, in «Terza generazione», n. 3, dicembre 1953, 6).
[21] Id., Perché nuove inchieste. La realtà come documento di storia, in «Terza generazione», n. 4, gennaio 1954, 5.
[22] Ibidem
[23] Ibidem. L’inchiesta realizzata secondo queste direttive “ha il desiderio e la necessità di diventare un fatto di interesse culturale, uno strumento di sollecitazione al rinnovamento culturale nel campo non solo delle discipline applicate o della ricerca storica ma anche nel campo delle scienze sociali e umane” (Ibidem).
[24] A. Scassellati, Intervista a Ubaldo Scassellati, in G. De Rita, A. Bonomi, Manifesto per uno sviluppo locale, cit., 175.
[25] Ivi, 176.
[26] Ibidem
[27] E. Morin (ed.), Il progetto Molise, ciclostilato, 11. Questo testo fa parte degli studi compiuti da Emma Morin in preparazione al convegno “Attualità e inattualità dei progetti di sviluppo comunitario”, tenutosi a Sorrento il 16-17 marzo 1968. Il testo è stato consultato presso il fondo di Servizio Sociale della biblioteca dell’Istituto Luigi Sturzo.
[28] G. Tassani, La terza generazione, cit., 173.
[29] C. Trevisan (ed.), Il Centro sociale nel complesso Ina-Casa, Ente Gestione Servizio Sociale – Case per Lavoratori, Roma, 1958.
[30] Ivi, 14
[31] Egss, Testo unico delle circolari dal n.1 al n.91 (30/9/’54 – 1/5/’57), consultato presso il fondo archivistico SOSTOSS, in deposito all’Istituto Luigi Sturzo, Roma. In questo documento sono state riassunte le circolari emesse dall’ente nei suoi primi tre anni di attività, in modo tale da fornire una guida, pensata per le assistenti sociali neo assunte, sulla sua struttura, la sua politica, le sue finalità e la sua storia.
[32] VADE-MECUM dell’assistente sociale INA-CASA, 31 maggio 1953, consultato presso il fondo archivistico SOSTOSS, in deposito all’Istituto Luigi Sturzo, Roma.
[33] Ivi, 21.
[34] Ivi, 20.
[35] Ibidem
[36] Ibidem
[37] VADE-MECUM dell’assistente sociale INA-CASA, cit., 20.
[38] “Questo aspetto dell’autoamministrazione veniva considerato un punto rilevante e qualificante dell’intero progetto, perché metteva l’accento sul fatto che le persone imparassero a collaborare tra loro e a stabilire rapporti reciproci di fiducia”, in A. Scassellati, La cultura dello sviluppo sociale. Intervista a Ubaldo Scassellati, cit., 160.
[39]VADE-MECUM dell’assistente sociale INA-CASA, cit., 23.
[40] Bisogna infatti pensare che questi interventi erano “pionieristici” per gli assistenti sociali: allora le metodologie insegnate nelle scuole di servizio sociale riguardavano soprattutto il case-work, mentre il group-work era ancora poco conosciuto. Estraneo all’insegnamento di quasi tutte le scuole era invece l’intervento in ambito comunitario (il primo libro riguardante il community work venne tradotto in Italia solo nel 1963).
[41] VADE-MECUM dell’assistente sociale INA-CASA, cit., 30.
[42] Ivi, 34. Nel caso le famiglie non si fossero ancora trasferite nel complesso Ina-Casa, l’assistente avrebbe potuto contattarle nelle loro residenze “per farsi un’idea degli ambienti di provenienza delle famiglie stesse e delle loro necessità. Questi contatti […] possono riuscire utili al successivo sviluppo del servizio sociale, in quanto permettono all’assistente di apparire alla famiglia nello stesso momento in cui essa sta per usufruire del beneficio di una nuova abitazione, nel momento cioè in cui si realizza al massimo l’alta finalità sociale e l’efficacia della solidarietà del piano” (Ivi, 32).
[43] Ivi, 43.
[44] Ibidem
[45] Ivi, 44.
[46] Ivi, 47. Le sottolineature sono presenti nell’originale.
[47] Ivi, 48.
[48] Purtroppo non è possibile approfondire l’impostazione di tali attività perché le appendici del vademecum che le illustrano più in dettaglio , mancano nella copia da me consultata.
[49] VADE-MECUM dell’assistente sociale INA-CASA, cit., appendice X, 136.
[50] Ivi, 51.
[51] Ivi, 53.
[52] Successivamente l’Ina-Casa avrebbe iniziato a costruire anche i servizi come le scuole, gli asili, la parrocchia, per i quali avrebbe ottenuto un rimborso dal Comune.
[53] La realizzazione dei Centri Ina-Casa era, a quella data (1953), “ancora in fase preliminare di impostazione” (VADE-MECUM dell’assistente sociale INA-CASA, cit., 58). Col passare del tempo, come vedremo, questo centro, nel frattempo ribattezzato Centro Sociale, sarà uno dei punti di forza del servizio sociale dell’Egss, che alla funzione di questo edificio dedicava grande attenzione.
[54] VADE-MECUM dell’assistente sociale INA-CASA, cit., 65.
[55] Egss, Testo unico delle circolari, cit., 2.
[56] Ibidem
[57]Egss, Testo unico delle circolari, cit., 27.
[58] Ivi, allegato N.1 alla convenzione tra la Gestione Ina-Casa e l’Ente gestione servizio sociale, I-III.
[59] Stralci della circolare n.16/989 del 26.4.’55. In Ivi, 103.
[60] Corpo dell’allegato B alla circolare n. 21/ 3305, in Ivi, 108.
[61] Ibidem
[62] Ivi, 110. Le sottolineature sono presenti nell’originale.
[63] Ivi, 112.
[64] Circolare n. 30/3732 del 21/9/’55, in Ivi, 122.
[65] C. Trevisan, Il servizio sociale nei quartieri di edilizia pubblica. Sei anni di attività dell’EGSS, Ente Gestione Servizio Sociale – Case per Lavoratori, Roma, 1961, 21-23.
[66] Ordine di Servizio N. 12, Roma, 18 gennaio 1956, fondo archivistico SOSTOSS.
[67] Circolare n.203 del 19/11/’55, in Testo unico delle circolari, cit., 35.
[68] Circolare n.56/1454 del 22/3/’56, in Ivi, 38-41.
[69] A. Scassellati, La cultura dello sviluppo locale. Intervista a Ubaldo Scassellati, cit., 160. Scassellati fa qui riferimento alla struttura che l’ente assunse dopo la creazione dei supervisori.
[70] Ordine di Servizio n. 36, 10 gennaio 1959. Fondo archivistico SOSTOSS.
[71] A. Scassellati, La cultura dello sviluppo locale. Intervista a Ubaldo Scassellati, cit., 162.
[72] Sistemi di lavatura ed asciugatura dei panni nei quartieri Ina-Casa, Egss, Roma, 1956.
[73] Ivi, premessa.
[74] L. Colavincenzo, La città come quadro di riferimento per l’operatore sociale. Preliminari ad un’analisi socio-economica della città di Bologna, Egss, 1961.
[75] Ivi, Presentazione.
[76] C. Trevisan (ed.), Il servizio sociale nei quartieri di edilizia pubblica. Sei anni di attività dell’Egss, cit.
[77] Ivi, 10.
[78] Ivi, 12.
[79] Si tratta del già citato volumetto curato da Carlo Trevisan, Il centro sociale nel complesso Ina-Casa, Roma, 1958. Sarebbe poi stato ripubblicato nel 1961 all’interno della collana “Città, periferie e Servizio Sociale”, pubblicata sempre dall’Egss.
[80] O. Vallin, Funzione educativa del centro sociale, Egss, Roma, 1960, 6.
[81] C. Trevisan, Il servizio sociale nei quartieri di edilizia pubblica, cit., 39.
[82] C. Trevisan, Il centro sociale nei complessi Ina-Casa, cit., 24.
[83] Relazione sull’attività dell’istituto nel 1963, Isscal, 1963, tav. 3. L’Egss diventò nel 1963, alla chiusura del secondo settennio di attività dell’Ina-Casa l’Istituto Servizio Sociale Case per Lavoratori (Isscal).
[84] C. Trevisan (ed.), Il Servizio Sociale nei quartieri di edilizia pubblica, cit., 45.
[85] Ivi , 46.
[86] Relazione sull’attività dell’istituto nel 1963, cit., tav. 3.
[87] C. Trevisan (ed.), Il Servizio Sociale nei quartieri di edilizia pubblica, cit., 47.
[88] Ivi, 50.
[89] Relazione sull’attività dell’istituto nel 1963, cit., tav.4.
[90] C. Trevisan (ed.), Il Servizio Sociale nei quartieri di edilizia pubblica, cit., 51.
[91] Ibidem
[92] Ivi, 49.
[93] Ibidem
[94] Nel 1963, con la cessazione del piano Ina-Casa, l’Egss divenne l’Istituto Servizio Sociale Case per Lavoratori (Isscal) e continuò la sua attività, espandendola anche a quartieri di edilizia pubblica che non fossero Ina-Casa, fino alla sua chiusura nel 1975.
[95] R. Catelani – C. Trevisan, Città in trasformazione e servizio sociale, Egss, Roma, 1961, 29.
[96] C. Caniglia, A. Signorelli, L’esperienza del piano Ina-Casa: tra antropologia e urbanistica, in P. Di Biagi (ed.), La grande ricostruzione Il piano Ina-Casa e l’Italia degli anni ’50, Roma, Donzelli, 2001, 201
[97] R. Catelani, Il lavoro di comunità e il metodo di servizio sociale di comunità nell’ambito dei processi di trasformazioni della vita urbana, in AA.VV., Servizio sociale di comunità, Roma, A.A.I., 1965.
[98] A. Ardigò, Incontro interdisciplinare per uno studio critico e documentativo della storia dell’Istituto Servizio Sociale Case per Lavoratori, Bologna, 1968, ciclostilato, consultato presso il fondo archivistico SOSTOSS in deposito presso l’archivio dell’Istituto L. Sturzo. Le sottolineature sono presenti nell’originale. Questa relazione di Ardigò era una prima consultazione per un più approfondito studio sulla storia dell’Isscal che però non fu mai realizzato.
[99] Anche nei processi di decentramento amministrativo di alcune città italiane l’esperienza dei centri sociali fu uno stimolo ed un esempio: “la proposta di riforma del decentramento per quartieri”, ricorda Achille Ardigò, “non nacque per un’invenzione astratta di un giovane sociologo qual ero, ma scaturì, oltre che da studi e letture, anche da tre esperienze significative di pratica sociale, nonché di pensiero, risalenti ai primissimi anni cinquanta”; tra queste, oltre alle attività dei giovani di Terza generazione nella zona di Grassano, una era “quella dei centri sociali attivati con la presenza durevole di assistenti sociali nei nuovi complessi di edilizia popolare «INA-Casa», per integrare con socialità comunitaria quartieri di nuovo insediamento urbano e con famiglie di provenienza diversa” (A. Ardigò, Giuseppe Dossetti e il Libro bianco su Bologna, Bologna, Edizioni Dehoniane, 2002, 137-138).
[100] Testimonianza raccolta in Il villaggio Ina-Casa di Borgo Panigale. Storia e ricordi, ciclostilato a cura della Parrocchia del Cuore Immacolato di Maria, Borgo Panigale, Bologna, 1992. I corsivi sono presenti nell’originale.
Indicazioni bibliografiche
Per approfondire l'azione di alcune delle “minoranze attive” impegnate nel lavoro di comunità nel secondo dopoguerra vi sono alcuni testi particolarmente significativi:
ï AA.VV., Servizio sociale di comunità , Roma, Edizioni Dehoniane, 1965
ï Giacchè P., Aldo Capitini. Opposizione e liberazione , Napoli, L'Ancora del Mediterraneo, 2004
ï Cutini R., Il servizio sociale italiano nel secondo dopoguerra: la nascita del Centro di Educazione per assistenti sociali , in «La Rivista di Servizio Sociale», n. 3, 2001
ï Cutini R., La nascita e lo sviluppo della scuola pratica di servizio sociale di Milano (1944-1950) , in «La Rivista di Servizio Sociale», n.1, 2001
ï De Rita G. e Bonomi A., Manifesto per lo sviluppo locale . Dall'azione di comunità ai Patti territoriali , Bollati Boringhieri, Torino, 1998
ï Fofi G., Strana gente. 1960: un diario tra Sud e Nord , Roma, Donzelli, 1993
ï Marcon G., Le utopie del ben fare. Percorsi della solidarietà: dal mutualismo al terzo settore, ai movimenti , Napoli, L'Ancora del Mediterraneo, 2004
ï Martinelli F., Gli assistenti sociali nella società italiana. Contributo ad una sociologia della professione , ISTISS - Istituto per gli studi di servizio sociale, Roma, 1965
ï Ochetto V., Adriano Olivetti , Milano, Mondadori, 1985
ï Olmo C. (a cura di), Costruire la città dell'uomo. Adriano Olivetti e l'urbanistica , Torino, Edizioni di Comunità, 2001
ï Trevisan C., La storia del «lavoro di territorio» in Italia , in «Autonomie locali e servizi sociali. Vademecum a schede», n. 1, 2000
ï Zucconi A., Cinquant'anni nell'utopia, il resto nell'aldilà , Napoli, L'Ancora del Mediterraneo 2000
ï Di particolare interesse sono anche i numeri della rivista « Centro Sociale » - pubblicata a partire dal 1954 - per quanto riguarda il periodo preso in esame .
Per quello che riguarda il gruppo di Terza Generazione, oltre ovviamente all'omonima rivista, si consiglia:
ï Ardigò A., Giuseppe Dossetti e il Libro bianco su Bologna , Bologna, Edizioni Dehoniane, 2002
ï Piva F., La gioventù cattolica in cammino... : memoria e storia del gruppo dirigente (1946-1954) , Milano, Franco Angeli, 2003
ï Scoppola P., La repubblica dei partiti. Evoluzione e crisi di un sistema politico (1945-1996) , Bologna, Il Mulino, 1991
ï Tassani G., La terza generazione. Da Dossetti a De Gasperi, tra stato e rivoluzione , Roma, Edizioni Lavoro, 1988
Per approfondire la conoscenza delle vicende del piano Ina-Casa particolarmente utili sono i testi:
ï AA.VV., Fanfani e la casa. Gli anni cinquanta e il modello italiano di welfare state : il Piano Ina-Casa , Catanzaro, Rubettino Editore, 2002
ï Berretta Anguissola L., I 14 anni del piano Ina-Casa , Roma, Staderini, 1963
ï Di Biagi P. (a cura di), La grande ricostruzione. Il piano Ina-Casa e l'Italia degli anni '50 , Roma, Donzelli, 2001
ï Parenti G. Una esperienza di programmazione settoriale nell'edilizia: l'Ina-Casa , Roma, Giuffré, 1967
La bibliografia relativa all'Ente Gestione Servizio Sociale – Case per Lavoratori è principalmente composta da pubblicazioni curate dall'ente nei suoi quattordici anni di vita:
ï Catelani R., Trevisan C., Città in trasformazione e servizio sociale , Egss, Roma, 1961
ï Trevisan C. (a cura di), Il Centro sociale nel complesso Ina-Casa , Ente Gestione Servizio Sociale – Case per Lavoratori, Roma, 1958
ï Trevisan C., Il servizio sociale nei quartieri di edilizia pubblica. Sei anni di attività dell'EGSS , Ente Gestione Servizio Sociale – Case per Lavoratori, Roma, 1961
ï Vallin O., Funzione educativa del centro sociale , Egss, Roma, 1960
Per la struttura e le caratteristiche del sistema assistenziale nel dopoguerra e nei decenni successivi:
ï CAMERA DEI DEPUTATI, Atti della commissione parlamentare di inchiesta sulla miseria e sui mezzi per combatterla , vol. I, Relazione generale, 1953, capp. V-VIII.
ï Colombo U., Principi e ordinamenti dell'assistenza sociale , Milano, Giuffré, 1954;
ï La Bella G., La situazione dell'assistenza in Italia nel dopoguerra. 1945-1950 , in «La Rivista di Servizio Sociale», n. 2, 2003;
ï Neve E., Il servizio sociale. Fondamenti e cultura di una professione , Roma, Carocci, 2000, cap. 3;